Author: Massimiliano Rupalti

Il Picco dell’Uranio

Da “Extracted: How th Quest fot Mineral Wealth Is Plundering the Planet” 33° Rapporto al Club di Roma di Ugo Bardi. Modellizzazione di Michael Dittmar.  

Postato su energyskeptic. Traduzione di MR


Figura 1. Consumo cumulativo di uranio secondo il modello del IPCC 2015-2100 confrontato alle risorse misurate e e dedotte di uranio

[La Figura 1 mostra che il prossimo rapporto del IPCC conta parecchio sull’energia nucleare per mantenere il riscaldamento al di sotto dei 2,5°C. La linea nera rappresenta quanti milioni di tonnellate di risorse ragionevoli e dedotte sotto i 260 dollari al chilo rimangono (Libro rosso 2016 IAEA). Chiaramente, gran parte dei modelli del IPCC sono irrealistici. L’IPCC esagera anche fortemente la quantità di riserve di petrolio e carbone. Fonte: David Hughes (comunicazione privata)


Questo è un estratto da libro, da leggere, “Extracted” di Ugo Bardi sui limiti della produzione di uranio. Molti cittadini bene intenzionati sono a favore dell’energia nucleare perché non emette gas serra. Il problema è che il tallone di Achille della civiltà è la nostra dipendenza da camion di ogni tipo, che vanno a gasolio perché i motori diesel hanno trasformato la nostra civiltà con la loro capacità di fare lavori pesanti meglio di vapore, benzina o qualsiasi altro motore.

Ai camion è richiesto di mantenere le catene di fornitura in funzione di cui ogni persona ed azienda ha bisogno, dal cibo alle materie prime e alla costruzione delle strade su cui passano, così come l’estrazione mineraria, l’agricoltura, i camion per le costruzioni, legname, ecc.

Le centrali nucleari non sono una soluzione, visto che i camion non vanno a elettricità, quindi qualsiasi cosa generi elettricità non è una soluzione, né è probabile che la rete elettrica possa mai essere 100% rinnovabile (leggete “Quando i camion smettono di andare”, questa cosa non può essere spiegata così in breve). E di sicuro non saremo in grado di sostituire un miliardo di camion e macchinari con motori diesel per il momento in cui il crollo energetico si fa sentire, non c’è nient’altro.

Alice Friedemann www.energyskeptic.com autrice di “Quando i camion smettono di andare: energia e futuro dei trasporti”, 2015, Springer e di “Crunch! Chips e crackers di grano integrale”. Podcast: Practical Prepping, KunstlerCast 253, KunstlerCast278, Peak Prosperity , XX2 report]

Bardi, Ugo. 2014. Extracted: How the Quest for Mineral Wealth Is Plundering the Planet. Chelsea Green Publishing.

Anche se c’è una rinascita dell’interesse per l’energia nucleare, c’è tuttavia un problema di fondo: l’uranio è una risorsa minerale che esiste in quantità finite.

Già negli anni 50 era chiaro che le riserve conosciute di uranio non erano sufficienti ad alimentare “l’era atomica” per un periodo più lungo di qualche decennio.

Ciò ha fatto emergere l’idea del plutonio fissile combustibile “autofertilizzante” dal più abbondante isotopo dell’uranio 238 non fissile. Si trattava di un’idea molto ambiziosa: alimentare il sistema industriale con un elemento che non esiste in quantità misurabili sulla Terra ma sarebbe stato creato dagli esseri umani espressamente per i loro scopi.

Il concetto ha dato vita a sogni di una economia basata sul plutonio. Questo piano ambizioso non è mai stato messo realmente in pratica, però, perlomeno non nella forma immaginata negli anni 50 e 60. Sono stati fatti diversi tentativi di costruire reattori autofertilizzanti negli anni 70, ma la tecnologia si è rivelata troppo costosa, difficile da gestire e prona al fallimento. Inoltre, poneva problemi strategici irrisolvibili in termini di proliferazione di materiale fissile che poteva essere usato per costruire armi atomiche. L’idea è stata attentamente abbandonata negli anni 70, quando il Senato degli Stati Uniti ha promulgato una legge che proibiva il ritrattamento del combustibile nucleare esaurito.

Un’altra idea che coinvolgeva “l’autofertilizzazione” di un combustibile nucleare da un elemento esistente in natura – il torio – ha incontrato un destino simile. Il concetto comportava la trasformazione dell’isotopo 232 del torio in isotopo di uranio 233 fissile, che poi poteva essere usato come combustibile per un reattore nucleare (o per testate nucleari). L’idea è stata discussa a lungo durante i giorni dell’apogeo dell’industria nucleare e viene ancora discussa oggi; ma finora, non ne è uscito fuori niente e l’industria nucleare si basa ancora sull’uranio minerale come combustibile.

Oggi, la produzione di uranio dalle miniere è insufficiente ad alimentare i reattori nucleari esistenti. Il divario fra offerta e domanda di uranio minerale è stato quasi del 50% dal 1995 al 2005, anche se si è gradualmente ridotto negli ultimi anni.

Gli Stati Uniti hanno estratto 370.000 tonnellate negli ultimi 50 anni, raggiungendo il picco nel 1981 con 17.000 tonnellate/anno. L’Europa ha raggiunto il picco negli anni 90 dopo aver estratto 460.000 tonnellate. Oggi quasi tutte le 21.000 tonnellate/anno necessarie per mantenere in funzione le centrali nucleari europee è importato. 

Tavola 1. Il ciclo estrattivo europeo ci permette di determinare quanto delle riserve di uranio stimate originariamente possano essere estratte in confronto a ciò che è successo veramente prima che questo costi troppo per continuare. E’ notevole che in tutti i paesi in cui l’estrazione mineraria si è fermata lo ha fatto ben al di sotto delle stime iniziali (dal 50 al 70%). Pertanto è probabile che la produzione finale di Sud Africa e Stati Uniti possa essere a sua volta prevista.  

L’Unione Sovietica e il Canada hanno estratto 450.000 tonnellate ciascuna. Nel 2010, la produzione cumulativa era di 2,5 milioni di tonnellate. Di queste, 2 milioni di tonnellate sono state usate e il settore militare possedeva gran parte del rimanente mezzo milione di tonnellate. 

I dati più recenti disponibili mostrano che l’uranio minerale ora costituisce l’80% della domanda. Il divario viene compensato dall’uranio recuperato dalle scorte dell’industria militare e dallo smantellamento di testate nucleari.

Questa trasformazione di spade in aratri è sicuramente una buona idea, ma le vecchie armi nucleari e le scorte militari sono una risorsa finita e non può essere vista come una soluzione definitiva al problema dell’offerta insufficiente. Con la presente stasi della domanda di uranio, è possibile che il divario di produzione verrà colmato in un decennio, più o meno, dall’aumento della produzione del minerale.

Tuttavia, le prospettive sono incerte, come spiegato su “La fine dell’uranio a buon mercato”. In particolare, se l’energia nucleare dovesse vedere un’espansione a livello mondiale, è difficile vedere in che modo la produzione minerale possa soddisfare l’aumento di domanda di uranio, dati i giganteschi investimenti che sarebbero necessari, che è improbabile che siano possibili negli economicamente avversi tempi odierni.

Allo stesso tempo, è probabile che gli effetti dell’incidente del 2011 alla centrale nucleare di Fukushima condizionino negativamente le prospettive di crescita della produzione di energia nucleare e, con la concomitante domanda ridotta di uranio, i reattori che sopravvivono potrebbero avere combustibile sufficiente per rimanere in funzione per qualche decennio.

E’ vero che ci sono grandi quantità di uranio nella crosta terrestre, ma c’è un numero limitato di depositi che sono sufficientemente concentrati da essere estratti in modo redditizio. Se provassimo ad estrarre quei depositi meno concentrati, il processo di estrazione richiederebbe molta più energia di quella che l’uranio estratto potrebbe produrre [EROEI negativo].

Modellizzazione delle disponibilità future di uranio


Tavola 2. Offerta e domanda di uranio fino al 2030

Michael Dittmar ha usato i dati storici dei paesi e delle singole miniere per creare un modello che ha previsto quanto uranio verrà probabilmente estratto dalle riserve esistenti nei prossimi anni. Il modello è puramente empirico ed è basato sull’ipotesi che le società minerarie, quando pianificano il profilo di estrazione di un deposito, prevedono le loro operazioni per farle coincidere con il tempo di vita medio dei costosi macchinari e delle costose infrastrutture che servono per estrarre uranio – circa un decennio.

L’estrazione diventa gradualmente più costosa man mano che alcuni macchinari devono essere sostituiti  e le risorse meno costose sono già state estratte. Di conseguenza, estrazione e profitti declinano. Alla fine la società smette di sfruttare il deposito e la miniera chiude. Il modello dipende da limiti geologici ed economici, ma il fatto che questo ha manifestato la sua validità in tanti casi del passato mostra che si tratta di una buona approssimazione della realtà.
Detto questo, il modello ipotizza i punti seguenti:

  • Gli operatori della miniera pianificano di gestire la stessa ad un livello quasi costante di produzione sulla base di studi geologici dettagliati e di gestire l’estrazione di modo da sostenere il plateau per circa 10 anni.  
  • La quantità totale di uranio estraibile è circa il valore annuale raggiunto (o pianificato) moltiplicato per 10.  

Applicando questo modello a miniere ben documentate in Canada ed Australia, arriviamo a risultati sorprendentemente corretti. Per esempio, in un caso, il modello ha previsto una produzione totale di 319 ± 24 kilotoni, che era molto vicino ai 310 kilotoni realmente prodotti. Quindi possiamo essere ragionevolmente sicuri che possa essere applicato alle miniere di uranio attualmente operanti o pianificate di oggi. Considerando che il plateau di produzione raggiunto delle operazioni minerarie passate di solito era più piccolo di quello pianificato, questo modello probabilmente sovrastima la produzione futura.

La Tavola 2 riassume le previsioni del modello della produzione di uranio futura, confrontando quelle scoperte alle previsioni di altri gruppi e a due diversi scenari nucleari potenziali futuri.

Come potete vedere, le previsioni ottenute da questo modello indicano consistenti limiti dell’offerta nei prossimi decenni – un quadro considerevolmente diverso da quello presentato dagli altri modelli, che prevedono grandi disponibilità.

La previsione del 2009 della WNA (World Nuclear association) differisce dal nostro modello principalmente per l’ipotesi che le miniere esistenti e future avranno un tempo di vita di almeno 20 anni. Di conseguenza, la WNA prevede un picco di produzione di 85 kilotoni/anni intorno al 2025, circa 10 anni dopo che nel presente modello, seguito da un ripido declino a circa 70 kilotoni/anno nel 2030.

Nonostante sia leggermente ottimista, la previsione della WNA mostra che la produzione di uranio nel 2030 non sarebbe maggiore di quanto lo sia adesso
. In ogni caso, il lungo tempo di vita dei depositi nel modello della WNA è incoerente coi dati delle miniere di uranio del passato. La stima del 2006 della EWG (Environmental Working Group) è stata basata sui numeri delle RAR (reasonably assured resources – risorse ragionevolmente certe) e sulla IR (inferred resources – risorse dedotte) del Libro Rosso del 2005. L’EWG ha calcolato un limite massimo di produzione sulla bsae dell’ipotesi che l’estrazione può essere aumentata a seconda della domanda finché metà delle risorse RAR, o al massimo metà della somma delle risorse RAR e IR, non siano usate. Ciò ha portato il gruppo a stimare un picco di produzione intorno al 2025.

Ipotizzando che tutte le miniere di uranio pianificate vengano aperte, l’estrazione annuale aumenterà da 54.000 tonnellate/anno a un massimo di 58.000 (+ o – 4) tonnellate/anno nel 2015. [Bardi ha scritto questo prima che le cifre del 2013 e 2014 fossero conosciute. Il 2013 ha avuto una produzione di 59.673 tonnellate (il totale più alto) e il 2014 di 56.252 tonnellate].

Il declino della produzione di uranio renderà impossibile ottenere un aumento significativo di energia elettrica da centrali nucleari nei prossimi decenni.

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Aggiornamento sull’esaurimento dei minerali: abbiamo bisogno di quote di estrazione?

Da “Cassandra’s Legacy”. Traduzione di MR


Attualmente, il problema dell’esaurimento delle risorse manca completamente dal dibattito politico. Dev’esserci una qualche ragione per cui alcuni problemi tendono a scomparire dalla percezione dell’opinione pubblica man mano che peggiorano. Sfortunatamente, il problema dell’esaurimento non scompare solo perché l’opinione pubblica non se ne interessa. Ho parlato di esaurimento in profondità nel mio libro del 2014 “Extracted” ed ora Theo Henckens aggiorna la situazione con questo post basato sulla sua tesi di dottorato “Gestire la scarsità di materie prime, salvaguardare la disponibilità di risorse minerali geologicamente scarse per le future generazioni” (16 ottobre 2016, Università di Utrecht, Olanda). La tesi completa può essere scaricata tramite il link http://dspace.library.uu.nl/handle/1874/339827.  (UB)

I minerali stanno finendo: servono quote di estrazione

Di Theo Henckens

Per fare in modo che ci siano a disposizione zinco, molibdeno e antimonio a sufficienza per la generazione dei nostri pronipoti, abbiamo bisogno di una accordo internazionale sulle risorse minerali.


Il molibdeno è essenziale per la produzione di acciai inossidabili di alta qualità, ma al momento il molibdeno viene scarsamente riciclato. Eppure, a meno che il riciclo e il riuso del molibdeno non crescano drasticamente, le riserve estraibili dello stesso sulla Terra finiranno fra circa ottanta anni da adesso. Le riserve estraibili di antimonio, un minerale usato per rendere le plastiche più resistenti al calore, finiranno fra trent’anni.

In oltre un secolo l’uso delle risorse minerarie è aumentato in modo esponenziale con una media del 3-4% annuale. Quanto a lungo si può continuare, date le quantità limitate di risorse minerali nella crosta terrestre?

TENDENZE DELL’ESTRAZIONE ANNUALE DI SEI BENI

Quali materie prime o minerali sono scarsi?

Una scarsità di minerale è espressa come il numero di anni durante i quali la sua quantità estraibile dalla crosta terrestre è sufficiente a soddisfare la domanda prevista. Questo periodo di esaurimento viene stimato dall’uso annuale di tale minerale. Ho calcolato il rapporto fra quantità estraibile e consumo annuale di 65 risorse minerali. Il mio calcolo è basato su ciò che è considerato essere il massimo estraibile dalla crosta terrestre. Queste “Risorse globali estraibili” derivano da uno studio dell’International Resource Panel dell’UNEP (United Nations Environmental Program) del 2011. A proposito dell’uso annuale di risorse minerali ho supposto una crescita annuale del 3% fino al 2050, momento in cui ho supposto che che l’estrazione si stabilizzi. La tavola sotto mostra le prime dieci risorse minerali più scarse.

PRIME DIECI RISORSE MINERALI PIU’ SCARSE

Cos’è un tasso di estrazione sostenibile?

Nella mia tesi ho definito un tasso di estrazione sostenibile come segue: “L’estrazione di una risorsa minerale è sostenibile se una popolazione mondiale di nove miliardi di persone possono essere rifornite di una risorsa minerale in un periodo di mille anni, supponendo che l’uso medio per cittadino del mondo sia equamente suddiviso fra i paesi del mondo”. In realtà, il concetto di sostenibilità è applicabile solo ad una attività che può continuare per sempre. Questo naturalmente è arbitrario. Ma 100 anni è troppo poco. In quel caso accetteremmo che i nostri nipoti si dovrebbero confrontare con risorse minerali esaurite.

Una analisi di sensitività rivela che anche se ipotizziamo che le risorse estraibili nella crosta terrestre siano dieci volte più alte dell’ipotesi già ottimistica dell’International Resource Panel dell’UNEP, allora l’uso di antimonio, oro, zinco, molibdeno e renio nei paesi industrializzati dovrebbe comunque essere enormemente ridotto per preservare sufficientemente queste materie prime per le future generazioni. E’ così in particolare se vogliamo che queste risorse siano condivise in modo più equo fra i paesi e le persone di quanto non lo siano attualmente. Ci sono anche limiti ambientali ed energetici alla ricerca sempre più profonda e remota di concentrazioni sempre più basse di minerali. Se vogliamo spalmare tutti i periodi di esaurimento nella tavola a 1000 anni, allora si può calcolare che l’estrazione di antimonio dovrebbe essere ridotta del 96%, quella dello zinco del 82%, quella del molibdeno del 81%, quella del rame del 63%, quella del cromo del 57% e quella del boro del 44%. Questo in rapporto alle quantità estratte nel 2010. Queste percentuali di riduzione sono alte. La questione è se questo sia fattibile. Inoltre, se il meccanismo del prezzo non portasse ad una tempestiva e sufficiente riduzione dell’estrazione delle risorse minerali?

Il meccanismo del prezzo fallisce

Si potrebbe supporre che il meccanismo del prezzo generale funzioni: il prezzo di risorse minerali relativamente scarse aumenta più rapidamente del prezzo di risorse minerali relativamente abbondanti.

TENDENZE DEL PREZZO REALE DI MINERALI SCARSI E NON SCARSI NEGLI STATI UNITI 1900-2015*

I minerali sono stati classificati a seconda della loro scarsità. Le materie prime scarse nella figura sono antimonio, zinco, oro, molibdeno e renio. Le materie prime moderatamente scarse sono stagno, cromo, rame, piombo, boro, arsenico, ferro, nichel, argento, cadmio, tungsteno, e bismuto. I minerali grezzi non scarsi sono alluminio, magnesio, manganese, cobalto, bario, selenio, berillio, vanadio, stronzio, litio, gallio, germanio, niobio, metalli del gruppo del platino, tantalio e mercurio. 

La mia ricerca chiarisce che il prezzo delle risorse minerali scarse non è aumentato in modo significativamente più veloce di quello dei minerali abbondanti. Nella mia tesi dimostro che, finora, la scarsità geologica dei minerali non ha condizionato le loro tendenze di prezzo. La spiegazione potrebbe essere che il London Metal Exchange sembra programmare per un periodo massimo di soli dieci anni e che le società minerarie prevedono fino a trenta anni. Ma dobbiamo guardare molto più avanti se vogliamo preservare le risorse scarse per le future generazioni.

Alla fine, il prezzo dei minerali più scarsi aumenterà, ma probabilmente non finché le loro riserve non siano quasi esaurite e rimanga poco per le future generazioni.

Le opportunità tecnologiche non vengono sfruttate

Le conclusioni a cui arrivo sono troppo pessimistiche? Dopotutto, quando la situazione si fa disperata, possiamo aspettarci che il riciclo e l’efficienza dei materiali aumenti. Il riciclo di molibdeno può essere fortemente migliorato smantellando selettivamente elettrodomestici, migliorando la selezione di metallo di scarto e progettando prodotti dai quali il molibdeno possa essere facilmente riciclato. Possono essere sviluppati materiali alternativi con le stesse proprietà dei minerali scarsi. L’antimonio come ritardante di fiamma può essere sostituito piuttosto facilmente da altri ritardanti di fiamma. La scarsità alimenterà l’innovazione.

Dal trenta al cinquanta percento dello zinco vien già riciclato dai prodotti a fine vita, ma anche se è tecnologicamente possibile aumentare questa percentuale, questo non succede. Non viene riciclato quasi niente di molibdeno. Il riciclo non aumenta perché il meccanismo del prezzo non funziona per i minerali scarsi. In assenza di pressione di mercato sufficiente, come possono essere stimolate le soluzioni tecnologiche di riciclo e sostituzione?

Cosa dovrebbe succedere?

Io sostengo che ciò che serve è un accordo internazionale: limitando l’estrazione di minerali scarsi in modo graduale, la scarsità verrà aumentata artificialmente – di fatto simulando l’esaurimento e scatenando le forse di mercato. Ciò potrebbe essere fatto determinando una quota annuale di estrazione, a cominciare dai minerali più scarsi. Un tale accordo sulle risorse minerali dovrebbe assicurare l’estrazione sostenibile delle risorse scarse e il diritto legittimo delle future generazioni ad una parte onesta di queste materie prime. Questo significa che l’accordo dovrebbe essere raggiunto sulla riduzione dell’estrazione di risorse minerali scarse, dal 96% per l’antimonio al 82% per lo zinco e al 44% per il boro, in confronto all’uso di questi minerali nel 2010. Di fatto, un tale accordo comporterebbe la messa in pratica dei principi normativi che sono stati concordati molto tempo fa per l’uso sostenibile delle materie prime non rinnovabili come la Dichiarazione di Stoccolma (Nazioni Unite, 1972), la Carta Mondiale per la Natura (ONU, 1982) e la Carta della Terra (UNESCO, 2000). Questi principi di sostenibilità sono stati riconfermati di recente nell’implementazione del rapporto Agenda 21 per lo sviluppo Sostenibile (Nazioni Unite, 2016).

Compensazione finanziaria per i paesi con risorse minerali

I paesi che esportano minerali scarsi saranno riluttanti a ridurre volontariamente l’estrazione, perché perderebbero gli introiti. Dovrebbero pertanto ricevere una compensazione finanziaria. Lo schema di compensazione dovrebbe assicurare che il reddito dei paesi con le risorse non ne soffra. In cambio, i paesi utilizzatori diventeranno proprietari delle materie prime che non vengono estratte, ma rimangono nel sottosuolo. Dovrebbe essere istituito un corpo di supervisione internazionale per l’ispezione, il monitoraggio, la valutazione e la ricerca.

Non è un’idea utopica

Nella mia tesi ho sviluppato come rendere operativi i principi fondamentali per l’estrazione sostenibile delle materie prime, che devono essere concordati in diverse conferenze internazionali e confermati da conferenze successive delle nazioni unite. L’accordo sul clima, che all’inizio si pensava fosse un’idea utopica, è diventato realtà, quindi non c’è ragione per cui l’accordo sulle risorse minerali non dovrebbe seguirlo.

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Antimonio

Più del 50% dell’antimonio venduto annualmente viene usato per i ritardanti di fiamma, specialmente per le plastiche di materiali elettrici ed elettronici. Un terzo di questi materiali attualmente contiene antimonio. In aggiunta, più di un quarto dell’antimonio venduto annualmente viene usato nelle batterie al piombo. In linea di principio, l’antimonio nella sua applicazione come ritardante di fiamma più essere in gran parte rimpiazzato da altri tipi di ritardanti di fiamma e le batterie che contengono antimonio possono essere sostituite da batterie che non ne contengono.
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Oro

In aggiunta al suo uso in gioielleria e come titolo per per la cartamoneta, l’oro è particolarmente usato in interruttori di alta qualità, connettori e componenti elettronici.
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Zinco

La principale applicazione dello zinco è come rivestimento su altri metalli per proteggerli contro la corrosione. Altre applicazioni includono l’ottone, grondaie di zinco, pneumatici e come micronutriente nel mangime per suini.
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Molibdeno

Quasi l’80% del volume di molibdeno estratto ogni anno viene usato per produrre acciai inossidabili di alta qualità che vengono usati principalmente in costruzioni esposte a condizioni estreme come alte temperature, acqua salata e agenti chimici aggressivi. Ci sono pochissimi sostituti per le attuali applicazioni del molibdeno e il molibdeno è difficile, anche se non impossibile, da riciclare.
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Renio

Il renio viene usato principalmente in leghe di alta qualità, per permettere loro di sopportare temperature estreme. Viene anche usato nei catalizzatori, per dare alla benzina un numero maggiore di ottani.
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Metalli da terre rare

Le risorse minerali scarse non devono essere confuse con i metalli da terre rare che vengono estratte principalmente in Cina. I metalli da terre rare sono diciassette elementi chimici con nomi esotici, come praseodimio, disprosio e lantanio. Il nome “Terre rare” risale all’inizio del XIX secolo. Le terre rare sono geologicamente non scarse, perlomeno non se si confrontano le loro risorse globali estraibili colo loro attuale uso annuale. Ma naturalmente, questo potrebbe cambiare in futuro.
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La fallacia di Tiffany: la torta dei minerali si sta rimpicciolendo e gran parte di quello che ne rimane non ce lo possiamo permettere

Da “Cassandra’s Legacy”. Traduzione di MR

Audrey Hepburn nel film del 1961 “Colazione da Tiffany”. Dal titolo del film, prendo il concetto di “Fallacia di Tiffany”: non è sufficiente vedere i gioielli dall’altra parte della vetrina per averli. Devi pagarli. La stessa cosa vale per le risorse minerarie. Potrebbero esserci un sacco di di riserve petrolifere sulla carta, ma se le vuoi devi pagare per la loro estrazione. Quello che segue è un estratto leggermente modificato dal libro “L’effetto Seneca”.

Nei dibattiti che hanno a che fare con l’energia ed i combustibili fossili, è piuttosto comune leggere o sentire affermazioni come “il petrolio durerà 50 anni all’attuale tasso di produzione”. Si può sentire anche che “abbiamo ancora mille anni di carbone” (Donald Trump ha affermato esattamente questo durante la campagna presidenziale statunitense del 2016). Quando queste affermazioni vengono fatte ad una conferenza, a volte si può percepire il sospiro di sollievo del pubblico; più vengono pronunciate, più l’oratore sembra essere sicuro di sé. Questa reazione è comprensibile se la valutazione di una lunga durata dei combustibili fossili corrispondesse a quello che ci possiamo aspettare per il futuro. Ma possiamo davvero aspettarcelo?


L’essenza della propaganda, come è risaputo, non è tanto dire bugie, ma presentare un solo aspetto della verità. Questo vale anche per il dibattito sull’esaurimento. Dire che una certa risorsa durerà per decenni, secoli o di più non è una bugia, ma non è neanche la verità. Questi numeri sono basati su un solo aspetto del problema e su ipotesi fortemente semplificate. E’ il concetto di “rapporto riserve/produzione” (R/P), un numero che dà una durata in anni della risorsa, supponendo che la quantità di riserve sia conosciuta e che l’estrazione continuerà ai tassi attuali. Normalmente, i risultati di queste stime hanno un’area di comfort intorno. Secondo il rapporto BP del 2016, il rapporto globale R/P del petrolio greggio calcolato sulle “riserve provate” era intorno ai 50 anni, quello per il gas naturale circa lo stesso, mentre per il carbone si è trovato un rapporto R/P nell’ordine del migliaio di anni o forse di più.

La maggior parte delle persone da questi dati comprendono che non c’è niente di cui preoccuparsi per il petrolio per almeno 50 anni e, per quel momento, sarà il problema di qualcun altro. E, se abbiamo davvero 1000 anni di carbone, allora di cosa stiamo parlando? Aggiungete a ciò il fatto che il rapporto R/P è aumentato negli anni e capirete le ragioni per una affermazione famosa di Peter Odell, che ha detto nel 2001 che stiamo “nuotando nel petrolio” piuttosto che “finirlo”. In questa visione, estrarre una risorsa minerale è un po’ come mangiare una torta. Finché rimane un po’ di torta, non c’è niente di cui preoccuparsi. In realtà, il particolare tipo di torta rappresentata dal petrolio ha la caratteristica che diventa più grande man mano che la si mangia.

Se vi suona troppo bello, avete ragione. Questa visione ottimistica che vede le risorse minerali come una torta è anche la mette anche fermamente in una posizione irraggiungibile. Tanto per sollevare una domanda fastidiosa, lasciate che citi un rapporto apparso nel 2016 su Bloomberg (non proprio un covo di Cassandre), intitolato “Scoperte petrolifere al minimo in 70 anni”.

I dati mostrano che la quantità di petrolio scoperto durante gli ultimi decenni è ben al di sotto della quantità che è stata prodotta, una valutazione che non è stata cambiata da alcune scoperte recenti molto pubblicizzate ed eccessivamente enfatizzate. Lo stesso problema si sta manifestando per le risorse minerarie in generale. I rapporti R/P continuano a produrre dei valori rassicuranti: decenni di disponibilità, quantomeno. Ma il numero di scoperte continua a diminuire, ben al di sotto del tasso di sostituzione che sarebbe necessario per mantenere la produzione in corso. (Grafico sotto: cortesia di André Diederen).

Quindi, cosa sta succedendo alle risorse minerali? Come può essere che ci dovrebbero essere 50 anni di petrolio e non riusciamo a trovarlo? E’ un complotto delle società petrolifere per mantenere i prezzi del petrolio alti? Una bufala dei Verdi diffusa per far votare la gente per loro? Un tentativo di una cricca di scienziati malvagi che puntano ad ottenere fondi di ricerca per i loro studi sull’esaurimento? Se è vera una di queste ipotesi, la coalizione di questi grandi poteri sembra essere stata particolarmente inetta, perché negli ultimi anni abbiamo visto il collasso dei prezzi del petrolio. Ma il mondo del petrolio greggio è particolarmente adatto alle teorie del complotto, compresa quella che vede il petrolio come “abiotico” e che si forma in continuazione in quantità enormi nelle profondità della Terra – un “fatto” che tutti conoscerebbero se non fosse per il complotto delle società petrolifere, dei Verdi, degli scienziati, ecc. Si tratta solo di una delle tante leggende che infestano internet. L’ennesima espressione del nostro approccio teleologico ai problemi che consiste nel trovare agenti umani maligni per spiegarli.

Ma non c’è alcuna cricca, nessuna bufala, nessun complotto nelle stime di petrolio e di altre risorse minerali. Il problema è che usare i dati del rapporto R/P per valutare il futuro delle risorse minerali è fortemente fuorviante, a dir poco, e che potrebbe portare facilmente le persone a percezioni infondate di abbondanza. E’ una cosa che definisco “La fallacia di Tiffany”. Probabilmente ricordate il film del 1961 “Colazione da Tiffany”, col personaggio interpretato da Audrey Hepburn che fa colazione mentre guarda i gioielli in mostra nelle vetrine di Tiffany. Non c’è dubbio che ci sia tanto d’oro dall’altra parte del vetro, ma sarebbe un errore ipotizzare di essere ricchi solo per questo. Per ottenere quell’oro si deve pagare (o usare metodi pericolosi e rischiosi). E’ questo il problema delle stime delle “riserve” delle industrie. Queste riserve ci sono, probabilmente, ma ci vogliono soldi (e tanti) per trovarle, estrarle e lavorarle. E non è solo questione di soldi, ci vogliono risorse materiali per estrarre minerali: trivelle, camion, piattaforme e ogni sorta di equipaggiamento, compreso il trasporto e, naturalmente, persone in grado di usare tutto questo. Non si tratta di cose che possono essere semplicemente stampate o ottenute con trucchi magici finanziari come il “quantitative easing” (alleggerimento quantitativo).

Queste considerazioni sono valide per tutte le risorse minerali, non solo per il petrolio greggio. Non sono per niente come una torta, si può mangiare finché ce n’è un po’. Sono più simili ai gioielli di Tiffany che si possono ottenere se si hanno i soldi per pagarli. E il prezzo di ogni bene è direttamente collegato al suo costo. Servono soldi per produrre qualsiasi cosa e niente viene prodotto se questo non dà indietro un profitto quando viene venduto nel mercato. Potreste decidere che non vi servono i gioielli d’oro che vedete al di là del vetro della vetrina di Tiffany, quindi non li dovete comprare. Ma il sistema industriale mondiale non può sopravvivere senza l’afflusso costante di beni minerali che lo fanno funzionare. Deve pagare quei beni, ed è questo il problema.

I costi di estrazione continuano ad aumentare perché, naturalmente, estraiamo prima le risorse più economiche. Ad un certo punto, potremmo scoprire che non possiamo più permetterci di pagare quei costi. E quando una cosa costa più di quanto vi potete permettere, potreste tranquillamente dire che “è finita”, a prescindere da quello che leggete in termini di riserve che potrebbero esserci da qualche parte sottoterra. La torta dei minerali si sta rimpicciolendo e gran parte di quello che ne rimane non ce lo possiamo permettere.

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La fallacia di Tiffany: la torta dei minerali si sta rimpicciolendo e gran parte di quello che ne rimane non ce lo possiamo permettere

Da “Cassandra’s Legacy”. Traduzione di MR

Audrey Hepburn nel film del 1961 “Colazione da Tiffany”. Dal titolo del film, prendo il concetto di “Fallacia di Tiffany”: non è sufficiente vedere i gioielli dall’altra parte della vetrina per averli. Devi pagarli. La stessa cosa vale per le risorse minerarie. Potrebbero esserci un sacco di di riserve petrolifere sulla carta, ma se le vuoi devi pagare per la loro estrazione. Quello che segue è un estratto leggermente modificato dal libro “L’effetto Seneca”.

Nei dibattiti che hanno a che fare con l’energia ed i combustibili fossili, è piuttosto comune leggere o sentire affermazioni come “il petrolio durerà 50 anni all’attuale tasso di produzione”. Si può sentire anche che “abbiamo ancora mille anni di carbone” (Donald Trump ha affermato esattamente questo durante la campagna presidenziale statunitense del 2016). Quando queste affermazioni vengono fatte ad una conferenza, a volte si può percepire il sospiro di sollievo del pubblico; più vengono pronunciate, più l’oratore sembra essere sicuro di sé. Questa reazione è comprensibile se la valutazione di una lunga durata dei combustibili fossili corrispondesse a quello che ci possiamo aspettare per il futuro. Ma possiamo davvero aspettarcelo?


L’essenza della propaganda, come è risaputo, non è tanto dire bugie, ma presentare un solo aspetto della verità. Questo vale anche per il dibattito sull’esaurimento. Dire che una certa risorsa durerà per decenni, secoli o di più non è una bugia, ma non è neanche la verità. Questi numeri sono basati su un solo aspetto del problema e su ipotesi fortemente semplificate. E’ il concetto di “rapporto riserve/produzione” (R/P), un numero che dà una durata in anni della risorsa, supponendo che la quantità di riserve sia conosciuta e che l’estrazione continuerà ai tassi attuali. Normalmente, i risultati di queste stime hanno un’area di comfort intorno. Secondo il rapporto BP del 2016, il rapporto globale R/P del petrolio greggio calcolato sulle “riserve provate” era intorno ai 50 anni, quello per il gas naturale circa lo stesso, mentre per il carbone si è trovato un rapporto R/P nell’ordine del migliaio di anni o forse di più.

La maggior parte delle persone da questi dati comprendono che non c’è niente di cui preoccuparsi per il petrolio per almeno 50 anni e, per quel momento, sarà il problema di qualcun altro. E, se abbiamo davvero 1000 anni di carbone, allora di cosa stiamo parlando? Aggiungete a ciò il fatto che il rapporto R/P è aumentato negli anni e capirete le ragioni per una affermazione famosa di Peter Odell, che ha detto nel 2001 che stiamo “nuotando nel petrolio” piuttosto che “finirlo”. In questa visione, estrarre una risorsa minerale è un po’ come mangiare una torta. Finché rimane un po’ di torta, non c’è niente di cui preoccuparsi. In realtà, il particolare tipo di torta rappresentata dal petrolio ha la caratteristica che diventa più grande man mano che la si mangia.

Se vi suona troppo bello, avete ragione. Questa visione ottimistica che vede le risorse minerali come una torta è anche la mette anche fermamente in una posizione irraggiungibile. Tanto per sollevare una domanda fastidiosa, lasciate che citi un rapporto apparso nel 2016 su Bloomberg (non proprio un covo di Cassandre), intitolato “Scoperte petrolifere al minimo in 70 anni”.

I dati mostrano che la quantità di petrolio scoperto durante gli ultimi decenni è ben al di sotto della quantità che è stata prodotta, una valutazione che non è stata cambiata da alcune scoperte recenti molto pubblicizzate ed eccessivamente enfatizzate. Lo stesso problema si sta manifestando per le risorse minerarie in generale. I rapporti R/P continuano a produrre dei valori rassicuranti: decenni di disponibilità, quantomeno. Ma il numero di scoperte continua a diminuire, ben al di sotto del tasso di sostituzione che sarebbe necessario per mantenere la produzione in corso. (Grafico sotto: cortesia di André Diederen).

Quindi, cosa sta succedendo alle risorse minerali? Come può essere che ci dovrebbero essere 50 anni di petrolio e non riusciamo a trovarlo? E’ un complotto delle società petrolifere per mantenere i prezzi del petrolio alti? Una bufala dei Verdi diffusa per far votare la gente per loro? Un tentativo di una cricca di scienziati malvagi che puntano ad ottenere fondi di ricerca per i loro studi sull’esaurimento? Se è vera una di queste ipotesi, la coalizione di questi grandi poteri sembra essere stata particolarmente inetta, perché negli ultimi anni abbiamo visto il collasso dei prezzi del petrolio. Ma il mondo del petrolio greggio è particolarmente adatto alle teorie del complotto, compresa quella che vede il petrolio come “abiotico” e che si forma in continuazione in quantità enormi nelle profondità della Terra – un “fatto” che tutti conoscerebbero se non fosse per il complotto delle società petrolifere, dei Verdi, degli scienziati, ecc. Si tratta solo di una delle tante leggende che infestano internet. L’ennesima espressione del nostro approccio teleologico ai problemi che consiste nel trovare agenti umani maligni per spiegarli.

Ma non c’è alcuna cricca, nessuna bufala, nessun complotto nelle stime di petrolio e di altre risorse minerali. Il problema è che usare i dati del rapporto R/P per valutare il futuro delle risorse minerali è fortemente fuorviante, a dir poco, e che potrebbe portare facilmente le persone a percezioni infondate di abbondanza. E’ una cosa che definisco “La fallacia di Tiffany”. Probabilmente ricordate il film del 1961 “Colazione da Tiffany”, col personaggio interpretato da Audrey Hepburn che fa colazione mentre guarda i gioielli in mostra nelle vetrine di Tiffany. Non c’è dubbio che ci sia tanto d’oro dall’altra parte del vetro, ma sarebbe un errore ipotizzare di essere ricchi solo per questo. Per ottenere quell’oro si deve pagare (o usare metodi pericolosi e rischiosi). E’ questo il problema delle stime delle “riserve” delle industrie. Queste riserve ci sono, probabilmente, ma ci vogliono soldi (e tanti) per trovarle, estrarle e lavorarle. E non è solo questione di soldi, ci vogliono risorse materiali per estrarre minerali: trivelle, camion, piattaforme e ogni sorta di equipaggiamento, compreso il trasporto e, naturalmente, persone in grado di usare tutto questo. Non si tratta di cose che possono essere semplicemente stampate o ottenute con trucchi magici finanziari come il “quantitative easing” (alleggerimento quantitativo).

Queste considerazioni sono valide per tutte le risorse minerali, non solo per il petrolio greggio. Non sono per niente come una torta, si può mangiare finché ce n’è un po’. Sono più simili ai gioielli di Tiffany che si possono ottenere se si hanno i soldi per pagarli. E il prezzo di ogni bene è direttamente collegato al suo costo. Servono soldi per produrre qualsiasi cosa e niente viene prodotto se questo non dà indietro un profitto quando viene venduto nel mercato. Potreste decidere che non vi servono i gioielli d’oro che vedete al di là del vetro della vetrina di Tiffany, quindi non li dovete comprare. Ma il sistema industriale mondiale non può sopravvivere senza l’afflusso costante di beni minerali che lo fanno funzionare. Deve pagare quei beni, ed è questo il problema.

I costi di estrazione continuano ad aumentare perché, naturalmente, estraiamo prima le risorse più economiche. Ad un certo punto, potremmo scoprire che non possiamo più permetterci di pagare quei costi. E quando una cosa costa più di quanto vi potete permettere, potreste tranquillamente dire che “è finita”, a prescindere da quello che leggete in termini di riserve che potrebbero esserci da qualche parte sottoterra. La torta dei minerali si sta rimpicciolendo e gran parte di quello che ne rimane non ce lo possiamo permettere.

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Le elezioni Americane: il dibattito che non c’è stato

La situazione negli USA sta diventando molto confusa e non tutti sono sicuri che Trump diventerà presidente, considerando l’ondata di accuse che i servizi segreti del suo paese gli stanno sparando addosso. Aspettando gli eventi, vale la pena di rileggersi come siamo arrivati qui in un articolo apparso in Dicembre su “Cassandra’s Legacy”.  Qualsiasi cosa avvenga nelle prossime settimane, i veri problemi rimangono ignorati.
 

Da “Cassandra’s Legacy”. Traduzione di MR


Il picco della produzione del greggio convenzionale è arrivato fra il 2008 e il 2011. Sembra che abbiamo superato il picco di “tutti i liquidi” nel 2015, anche se ci vorrà ancora un po’ di tempo per essere sicuri che sia iniziata una tendenza al declino irreversibile. Naturalmente, il raggiungimento del picco ha generato un negazionismo veemente persino sul fatto che il picco esista. In questo articolo, Eugene Marner commenta sul come e quando le elezioni presidenziali abbiano completamente ignorato i duri fatti del declino della fornitura di energia netta da parte dei combustibili fossili. (immagine da “The Victory Report”)


Da The Daily Star, di Eugene Marner

Qui negli States, recentemente abbiamo tenuto delle elezioni che hanno lasciato molti sorpresi, molti sbigottiti e molti altri impazienti di spiegare cosa sia successo e cosa facciamo adesso. Un sacco di pensieri profondi e sospiri sono finiti in quelle analisi e non ho intenzione di competere qui con gli esperti di storia e di politica. Mi piacerebbe, tuttavia, offrire quello che penso possa essere una parte importante del contesto degli eventi recenti, un contesto che è definito ed imposto dalla geologia e dalla fisica. Suggerisco che le elezioni del 2016 possano essere definite le elezioni del picco del petrolio, anche se il problema non è certamente mai emerso pubblicamente.


Nel novembre del 2000, il The Daily Star ha pubblicato un mio commento esterno in cui ho scritto di picco del petrolio, il momento in cui la produzione globale di petrolio raggiunge il suo massimo e comincia il suo inevitabile declino. Avevo sperato di stimolare le persone a pensare alle gravi conseguenze che ne sarebbero seguite quando il petrolio, la risorsa chiave che alimenta e sostiene la nostra civiltà, non è più disponibile in modo ampio ed economico. Chiaramente non ha funzionato tanto bene, in quanto la maggior parte delle persone non ha ancora idea di cosa significhi il picco del petrolio, meno ancora che le sue conseguenze si stanno dispiegando proprio in questo momento intorno a noi. Non c’è dubbio che i nostri media, sempre complici dell’agenda corporativa (le società petrolifere sono dei grandi pubblicitari), non hanno fatto molto per informare l’opinione pubblica ma, più allarmante della allegra indifferenza della popolazione nel suo complesso è l’apparente e totale incompetenza di entrambi i grandi candidati presidenziali e della maggior parte dei loro consiglieri e dei loro entourage, così come del Congresso. Il Corpo degli Ingegneri dell’Esercito  ha pubblicato un rapporto già nel 2005 intitolato “Tendenze energetiche ed implicazioni per l’e installazioni dell’esercito degli Stati Uniti” che ha suonato l’allarme sul fatto che il picco del petrolio sarebbe arrivato presto, ma nemmeno questo ha ricevuto molta attenzione.

L’economia è riconosciuta largamente come il fattore cruciale in ogni elezione. Sia Donald Trump sia Hillary Clinton, come la maggior parte dei politici ovunque, hanno parlato e continuano a parlare di “crescita economica”. Gli elettori possono perdonare scandali, bigottismo, cattivo gusto, stupidità e praticamente quasi tutto ma, quando vedono i loro standard di vita diminuire, i loro posti di lavoro svanire, i loro figli senza futuro 8e a volte senza niente da mangiare), danno la colpa ai politici, giusto o sbagliato che sia. I politici di solito fingono di avere soluzioni che quasi sempre comportano un percorso o l’altro verso la “crescita”.

Anche se nessuno di noi che è vivo oggi può ricordare un tempo in cui la crescita economica non fosse parte delle nostre aspettative per il futuro, tale crescita è stata concepita soltanto negli ultimi 200 anni circa. Finché i combustibili fossili non sono diventati l’energia che ha alimentato la Rivoluzione Industriale, le economie crescevano facendo la guerra ai propri vicini e appropriandosi della loro ricchezza. La storia era fatta di questo: gli imperi sorgevano sul principio del conquistare un territorio, esigere da questo dei tributi e alla fine collassare sotto il peso dei costi militari e delle spese del trasporto di tutto il bottino a casa.

Gli europei avevano quasi esaurito le risorse del loro angolo di continente eurasiatico quando Colombo giunse in quello che veniva chiamato Nuovo Mondo. Naturalmente, era vecchio quanto qualsiasi altro posto e, al contrario della persistente mitologia, non era vuoto ma pieno zeppo di animali, piante e, sì, molti milioni di esseri umani che vivevano in culture complesse. Nei tre secoli successivi, prima gli spagnoli e i portoghesi e, subito dopo, olandesi francesi ed inglesi, hanno attraversato l’Atlantico per sottomettere, conquistare e sterminare gli abitanti per rubare, nel modo imperiale tradizionale, le loro cose. L’Europa è tornata ad essere ricca. Ecco come veniva fatta la crescita prima del 1800 circa e dell’inizio dell’era dei combustibili fossili.

Dall’inizio del XIX secolo, la Rivoluzione Industriale è stata alimentata dal carbone fossile, che era sporco, ma aveva un contenuto energetico molto più alto della legna e della carbonella, i principali combustibili che gli esseri umani avevano usato fino ad allora. Nel 1859, un imbroglione che si definiva “Colonnello” Edwin Drake ha trivellato il primo pozzo a Titusville, in Pennsylvania, così è iniziata l’era del petrolio. Il petrolio è un combustibile senza confronti: all’inizio veniva estratto facilmente, trasportato facilmente e, cosa migliore di tutte, un singolo gallone di petrolio contiene tanta energia quanta quella prodotta da un uomo sano che lavora duramente per tre mesi o circa 700 uomini che lavorano per un’ora. Un gallone. Quella enorme quantità di energia improvvisamente a disposizione è ciò che ha dato origine a quella che ora chiamiamo “crescita economica”. Più produzione e consumo richiedono più ingressi di energia e il petrolio lo ha reso possibile. Ma, su un pianeta finito, niente può andare avanti per sempre e, dagli anni 60, le società petrolifere trovano meno nuovo petrolio ogni anno di quello che bruciamo. Quindi, circa 40 anni dopo, ecco il picco del petrolio. Il carbone e il gas continueranno ad essere disponibili per un po’, ma entrambi cominceranno a declinare entro un decennio o due. Entrambi hanno già problemi finanziari seri e nessuno dei due può fare quello che fa il petrolio.

Lasciatemi ritornare al perché ho definito queste le elezioni del picco del petrolio. Nessuno dei candidati ne ha parlato. Forse non ne sono a conoscenza. O, se lo sono, non vogliono crederci. O forse nessun politico può venire eletto promettendo che l’economia continuerà a contrarsi e le disponibilità di energia saranno sempre più scarse. Sono state le elezioni del picco del petrolio perché il picco del petrolio ha sconfitto entrambi. Senza l’aumento del consumo di energia, non può esserci alcuna crescita economica e, senza aumento di forniture, non può esserci alcun aumento del consumo di energia. Le cosiddette rinnovabili dipendono disperatamente dai combustibili fossili per la produzione, installazione e manutenzione e sono molto meno concentrate dei combustibili fossili.

Il fatto è che siccome la produzione di petrolio non può essere aumentate, la crescita economica ora è finita. Le promesse di Donald Trump di riportare la produzione di carbone, aumentare l’estrazione di combustibili fossili e ricostruire il comparto manifatturiero semplicemente non si realizzeranno, non per colpa di Trump, ma perché la politica non comanda più. Da ora in avanti sono geologia e fisica che decidono. Il petrolio che rimane è troppo costoso da ottenere ed estrarre. Le società petrolifere non possono fare profitti ad un prezzo che i consumatori in un’economia in contrazione non possono permettersi di pagare. Il gioco della crescita è finito come presto lo saranno la moltitudine di frodi finanziarie che, a partire dal picco di produzione del petrolio degli Stati Uniti del 1970, sono arrivate a includere gran parte della nostra economia.

Ci serve un nuovo tipo di politica e di economia: locale, cooperativa, su base comunitaria, a basso tenore di energia, conservazionista, non inquinante, un’economia che supporti sostenibilmente i bisogni biologici e la salute, piuttosto che perseguire la ricchezza. Non penso che ci sia qualche politico che lo farà per noi, dobbiamo farlo da soli.

Nella Genesi 3:19, Dio informa Adamo che la sua punizione sarà “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane”. Apparentemente, agli esseri umani questo non è piaciuto molto, visto che tutta la storia rivela gli stessi a  cercare di aggirare quell’ordine con qualsiasi mezzo possibile: costringendo gli altri a fare il lavoro (schiavitù), diventando ricchi ad assumendo altri per fare il lavoro (schiavitù salariata) o bruciando petrolio. E’ di nuovo il tempo della cooperazione comunitaria, di soluzioni low-tech come la forza di buoi, cavalli e muli, per tecnologie semplici e relativamente non costose che possano essere costruite localmente, come zappe, falci e forconi e per il sudore sulle nostre facce. Non è questione di virtù ma di necessità; sta arrivando una vita più semplice, che noi scegliamo di abbracciarla o no.

Eugene Marner vive a Franklin, USA.

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Le elezioni Americane: il dibattito che non c’è stato

La situazione negli USA sta diventando molto confusa e non tutti sono sicuri che Trump diventerà presidente, considerando l’ondata di accuse che i servizi segreti del suo paese gli stanno sparando addosso. Aspettando gli eventi, vale la pena di rileggersi come siamo arrivati qui in un articolo apparso in Dicembre su “Cassandra’s Legacy”.  Qualsiasi cosa avvenga nelle prossime settimane, i veri problemi rimangono ignorati.
 

Da “Cassandra’s Legacy”. Traduzione di MR


Il picco della produzione del greggio convenzionale è arrivato fra il 2008 e il 2011. Sembra che abbiamo superato il picco di “tutti i liquidi” nel 2015, anche se ci vorrà ancora un po’ di tempo per essere sicuri che sia iniziata una tendenza al declino irreversibile. Naturalmente, il raggiungimento del picco ha generato un negazionismo veemente persino sul fatto che il picco esista. In questo articolo, Eugene Marner commenta sul come e quando le elezioni presidenziali abbiano completamente ignorato i duri fatti del declino della fornitura di energia netta da parte dei combustibili fossili. (immagine da “The Victory Report”)


Da The Daily Star, di Eugene Marner

Qui negli States, recentemente abbiamo tenuto delle elezioni che hanno lasciato molti sorpresi, molti sbigottiti e molti altri impazienti di spiegare cosa sia successo e cosa facciamo adesso. Un sacco di pensieri profondi e sospiri sono finiti in quelle analisi e non ho intenzione di competere qui con gli esperti di storia e di politica. Mi piacerebbe, tuttavia, offrire quello che penso possa essere una parte importante del contesto degli eventi recenti, un contesto che è definito ed imposto dalla geologia e dalla fisica. Suggerisco che le elezioni del 2016 possano essere definite le elezioni del picco del petrolio, anche se il problema non è certamente mai emerso pubblicamente.


Nel novembre del 2000, il The Daily Star ha pubblicato un mio commento esterno in cui ho scritto di picco del petrolio, il momento in cui la produzione globale di petrolio raggiunge il suo massimo e comincia il suo inevitabile declino. Avevo sperato di stimolare le persone a pensare alle gravi conseguenze che ne sarebbero seguite quando il petrolio, la risorsa chiave che alimenta e sostiene la nostra civiltà, non è più disponibile in modo ampio ed economico. Chiaramente non ha funzionato tanto bene, in quanto la maggior parte delle persone non ha ancora idea di cosa significhi il picco del petrolio, meno ancora che le sue conseguenze si stanno dispiegando proprio in questo momento intorno a noi. Non c’è dubbio che i nostri media, sempre complici dell’agenda corporativa (le società petrolifere sono dei grandi pubblicitari), non hanno fatto molto per informare l’opinione pubblica ma, più allarmante della allegra indifferenza della popolazione nel suo complesso è l’apparente e totale incompetenza di entrambi i grandi candidati presidenziali e della maggior parte dei loro consiglieri e dei loro entourage, così come del Congresso. Il Corpo degli Ingegneri dell’Esercito  ha pubblicato un rapporto già nel 2005 intitolato “Tendenze energetiche ed implicazioni per l’e installazioni dell’esercito degli Stati Uniti” che ha suonato l’allarme sul fatto che il picco del petrolio sarebbe arrivato presto, ma nemmeno questo ha ricevuto molta attenzione.

L’economia è riconosciuta largamente come il fattore cruciale in ogni elezione. Sia Donald Trump sia Hillary Clinton, come la maggior parte dei politici ovunque, hanno parlato e continuano a parlare di “crescita economica”. Gli elettori possono perdonare scandali, bigottismo, cattivo gusto, stupidità e praticamente quasi tutto ma, quando vedono i loro standard di vita diminuire, i loro posti di lavoro svanire, i loro figli senza futuro 8e a volte senza niente da mangiare), danno la colpa ai politici, giusto o sbagliato che sia. I politici di solito fingono di avere soluzioni che quasi sempre comportano un percorso o l’altro verso la “crescita”.

Anche se nessuno di noi che è vivo oggi può ricordare un tempo in cui la crescita economica non fosse parte delle nostre aspettative per il futuro, tale crescita è stata concepita soltanto negli ultimi 200 anni circa. Finché i combustibili fossili non sono diventati l’energia che ha alimentato la Rivoluzione Industriale, le economie crescevano facendo la guerra ai propri vicini e appropriandosi della loro ricchezza. La storia era fatta di questo: gli imperi sorgevano sul principio del conquistare un territorio, esigere da questo dei tributi e alla fine collassare sotto il peso dei costi militari e delle spese del trasporto di tutto il bottino a casa.

Gli europei avevano quasi esaurito le risorse del loro angolo di continente eurasiatico quando Colombo giunse in quello che veniva chiamato Nuovo Mondo. Naturalmente, era vecchio quanto qualsiasi altro posto e, al contrario della persistente mitologia, non era vuoto ma pieno zeppo di animali, piante e, sì, molti milioni di esseri umani che vivevano in culture complesse. Nei tre secoli successivi, prima gli spagnoli e i portoghesi e, subito dopo, olandesi francesi ed inglesi, hanno attraversato l’Atlantico per sottomettere, conquistare e sterminare gli abitanti per rubare, nel modo imperiale tradizionale, le loro cose. L’Europa è tornata ad essere ricca. Ecco come veniva fatta la crescita prima del 1800 circa e dell’inizio dell’era dei combustibili fossili.

Dall’inizio del XIX secolo, la Rivoluzione Industriale è stata alimentata dal carbone fossile, che era sporco, ma aveva un contenuto energetico molto più alto della legna e della carbonella, i principali combustibili che gli esseri umani avevano usato fino ad allora. Nel 1859, un imbroglione che si definiva “Colonnello” Edwin Drake ha trivellato il primo pozzo a Titusville, in Pennsylvania, così è iniziata l’era del petrolio. Il petrolio è un combustibile senza confronti: all’inizio veniva estratto facilmente, trasportato facilmente e, cosa migliore di tutte, un singolo gallone di petrolio contiene tanta energia quanta quella prodotta da un uomo sano che lavora duramente per tre mesi o circa 700 uomini che lavorano per un’ora. Un gallone. Quella enorme quantità di energia improvvisamente a disposizione è ciò che ha dato origine a quella che ora chiamiamo “crescita economica”. Più produzione e consumo richiedono più ingressi di energia e il petrolio lo ha reso possibile. Ma, su un pianeta finito, niente può andare avanti per sempre e, dagli anni 60, le società petrolifere trovano meno nuovo petrolio ogni anno di quello che bruciamo. Quindi, circa 40 anni dopo, ecco il picco del petrolio. Il carbone e il gas continueranno ad essere disponibili per un po’, ma entrambi cominceranno a declinare entro un decennio o due. Entrambi hanno già problemi finanziari seri e nessuno dei due può fare quello che fa il petrolio.

Lasciatemi ritornare al perché ho definito queste le elezioni del picco del petrolio. Nessuno dei candidati ne ha parlato. Forse non ne sono a conoscenza. O, se lo sono, non vogliono crederci. O forse nessun politico può venire eletto promettendo che l’economia continuerà a contrarsi e le disponibilità di energia saranno sempre più scarse. Sono state le elezioni del picco del petrolio perché il picco del petrolio ha sconfitto entrambi. Senza l’aumento del consumo di energia, non può esserci alcuna crescita economica e, senza aumento di forniture, non può esserci alcun aumento del consumo di energia. Le cosiddette rinnovabili dipendono disperatamente dai combustibili fossili per la produzione, installazione e manutenzione e sono molto meno concentrate dei combustibili fossili.

Il fatto è che siccome la produzione di petrolio non può essere aumentate, la crescita economica ora è finita. Le promesse di Donald Trump di riportare la produzione di carbone, aumentare l’estrazione di combustibili fossili e ricostruire il comparto manifatturiero semplicemente non si realizzeranno, non per colpa di Trump, ma perché la politica non comanda più. Da ora in avanti sono geologia e fisica che decidono. Il petrolio che rimane è troppo costoso da ottenere ed estrarre. Le società petrolifere non possono fare profitti ad un prezzo che i consumatori in un’economia in contrazione non possono permettersi di pagare. Il gioco della crescita è finito come presto lo saranno la moltitudine di frodi finanziarie che, a partire dal picco di produzione del petrolio degli Stati Uniti del 1970, sono arrivate a includere gran parte della nostra economia.

Ci serve un nuovo tipo di politica e di economia: locale, cooperativa, su base comunitaria, a basso tenore di energia, conservazionista, non inquinante, un’economia che supporti sostenibilmente i bisogni biologici e la salute, piuttosto che perseguire la ricchezza. Non penso che ci sia qualche politico che lo farà per noi, dobbiamo farlo da soli.

Nella Genesi 3:19, Dio informa Adamo che la sua punizione sarà “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane”. Apparentemente, agli esseri umani questo non è piaciuto molto, visto che tutta la storia rivela gli stessi a  cercare di aggirare quell’ordine con qualsiasi mezzo possibile: costringendo gli altri a fare il lavoro (schiavitù), diventando ricchi ad assumendo altri per fare il lavoro (schiavitù salariata) o bruciando petrolio. E’ di nuovo il tempo della cooperazione comunitaria, di soluzioni low-tech come la forza di buoi, cavalli e muli, per tecnologie semplici e relativamente non costose che possano essere costruite localmente, come zappe, falci e forconi e per il sudore sulle nostre facce. Non è questione di virtù ma di necessità; sta arrivando una vita più semplice, che noi scegliamo di abbracciarla o no.

Eugene Marner vive a Franklin, USA.

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Cosa ci possiamo aspettare dal 2017? La nuova politica energetica di Trump promette di essere un disastro per tutti

Da “Cassandra’s Legacy”. Traduzione di MR

Michael Klare ha pubblicato un lungo commento su “Tomgram” riguardo a quello che sembrano essere le attuali scelte politiche di Donald Trump sull’energia e correttamente osserva quanto siano contraddittorie. Fondamentalmente,

La spinta principale del suo approccio non poteva essere più chiara: abolire tutte le regole e le direttive presidenziali che si frappongono ad un’estrazione fossili senza limiti, compresi gli impegni presi dal presidente Obama nel dicembre 2015 sull’Accordo sul Clima di Parigi. 

In altre parole, Trump sembra essere bloccato in una visione di solo mercato del problema, pensando che le realtà fisiche non abbiano alcun ruolo nell’estrazione delle risorse fossili. In questo non è certo solo, ma il problema è che la deregolamentazione non è così importante quanto sembri pensare Trump. Non è stato perché il mercato aveva troppe regole che i prezzi del petrolio sono schizzati a 150 dollari al barile nel 2008 e si sono mantenuti intorno ai 100 dollari al barile dal 2011 alla fine del 2014. E non è stato perché la produzione di petrolio è stata improvvisamente deregolamentata che i prezzi sono collassati al di sotto dei 40 dollari al barile nel 2015. Il mercato petrolifero, come tutti i mercati, soffre le instabilità che, a volte, potrebbero essere curate dalle regole. Eliminare tutte le regole potrebbe invece causare ulteriori altalene dei prezzi ed oscillazioni forti, piuttosto che un aumento di produzione.

Se le società petrolifere sono nei guai, in questo momento, è perché i prezzi del petrolio sono troppo bassi, non perché l’estrazione del petrolio è troppo regolamentata e le politiche di Trump – se dovessero funzionare – potrebbero danneggiare l’industria dei combustibili fossili ancora di più. Questo, in sé stessa, non è una brutta cosa – specialmente in termini di effetti sul clima. Il problema è che le idee di Trump di rivitalizzare l’industria dei combustibili fossili potrebbe non essere limitata alla deregolamentazione, ma potrebbe comportare uno scoraggiamento attivo dell’energia rinnovabile, una politica che, per esempio, il governo italiano ha applicato con successo negli ultimi anni.

Quindi perché Trump vuol fare una cosa del genere? Possiamo solo immaginare cosa passi per la testa di un anziano ricco di 70 anni che non è famoso per essere particolarmente esperto in qualcosa. Klare ipotizza una possibile spiegazione in questi termini:

In un certo senso, non c’è dubbio, si tratta, perlomeno in parte, della nostalgia persistente del presidente eletto per l’America che cresceva in fretta (e in gran parte priva di regole) degli anni 50. Quando Trump stava crescendo, gli Stati Uniti erano un motore di espansione straordinario e la sua produzione di beni fondamentali, compresi petrolio, carbone e acciaio, si gonfiavano quotidianamente. Le più grandi industrie del paese sono state fortemente sindacalizzate; i sobborghi stavano esplodendo; gli edifici per appartamenti crescevano in tutto il quartire di Queens, a New York City, dove ha iniziato Trump; le auto uscivano dalle linee di montaggio in quello che era tutto fuorché la “Rust Belt” (la cintura degli stati industrializzati ora in declino, ndt) e le raffinerie e le centrali a carbone producevano l’enorme quantità di energia necessaria perché tutto questo accadesse.  

E non dimenticate un altro fattore: la vendicatività di Trump – in questo caso, non solo verso i suoi oppositori democratici nella recente campagna elettorale, ma verso coloro che hanno votato contro di lui. Il Donald è ben consapevole che la maggior parte degli americani che si preoccupano del cambiamento climatico e che sono a favore di una rapida trasformazione ad un’America ad energia verde non ha votato per lui.  

Data il suo noto debole di attaccare chiunque frustri le sue ambizioni o parli negativamente di lui e il suo impulso a punire i verdi tramite, fra le altre cose, la cancellazione di ogni misura adottata dal presidente Obama per accelerare l’utilizzo dell’energia rinnovabile, aspettatevi che faccia a pezzi l’EPA e che faccia del suo meglio per fare a brandelli ogni ostacolo allo sfruttamento dei combustibili fossili. Se questo significa precipitare l’incenerimento del pianeta, così sia. A Trump o non importa (visto che ha 70 anni e non vivrà per vederlo accadere), o non crede davvero nella scienza, o non pensa che questo porterà danno agli interessi degli affari della sua azienda nei prossimi decenni. 

Questa interpretazione di Michael Klare potrebbe essere corretta o non corretta, ma sottolinea un problema fondamentale: le elezioni danno il potere alle persone sulla base delle loro promesse, ma nessuno sa veramente come si comporteranno una volta che hanno il potere nelle loro mani. La storia del mondo è piena di capi che avevano problemi mentali di ogni genere o avevano anche solo una visione del mondo che era completamente al di fuori della realtà. Il risultato di solito sono stati disastri assoluti in quanto i capi, nella maggior parte dei casi, si rifiutano di apprendere dai loro errori. E non solo questo, essi tendono a raddoppiare, peggiorando le cose.

Riguardo a Donald Trump, come ho discusso in un post precedente, nessuno può sapere cosa succede nella sua testa. Tutto quello che posso dire è che l’America potrebbe avere un bisogno disperato della benedizione di Dio nel prossimo futuro.

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Cosa ci possiamo aspettare dal 2017? La nuova politica energetica di Trump promette di essere un disastro per tutti

Da “Cassandra’s Legacy”. Traduzione di MR

Michael Klare ha pubblicato un lungo commento su “Tomgram” riguardo a quello che sembrano essere le attuali scelte politiche di Donald Trump sull’energia e correttamente osserva quanto siano contraddittorie. Fondamentalmente,

La spinta principale del suo approccio non poteva essere più chiara: abolire tutte le regole e le direttive presidenziali che si frappongono ad un’estrazione fossili senza limiti, compresi gli impegni presi dal presidente Obama nel dicembre 2015 sull’Accordo sul Clima di Parigi. 

In altre parole, Trump sembra essere bloccato in una visione di solo mercato del problema, pensando che le realtà fisiche non abbiano alcun ruolo nell’estrazione delle risorse fossili. In questo non è certo solo, ma il problema è che la deregolamentazione non è così importante quanto sembri pensare Trump. Non è stato perché il mercato aveva troppe regole che i prezzi del petrolio sono schizzati a 150 dollari al barile nel 2008 e si sono mantenuti intorno ai 100 dollari al barile dal 2011 alla fine del 2014. E non è stato perché la produzione di petrolio è stata improvvisamente deregolamentata che i prezzi sono collassati al di sotto dei 40 dollari al barile nel 2015. Il mercato petrolifero, come tutti i mercati, soffre le instabilità che, a volte, potrebbero essere curate dalle regole. Eliminare tutte le regole potrebbe invece causare ulteriori altalene dei prezzi ed oscillazioni forti, piuttosto che un aumento di produzione.

Se le società petrolifere sono nei guai, in questo momento, è perché i prezzi del petrolio sono troppo bassi, non perché l’estrazione del petrolio è troppo regolamentata e le politiche di Trump – se dovessero funzionare – potrebbero danneggiare l’industria dei combustibili fossili ancora di più. Questo, in sé stessa, non è una brutta cosa – specialmente in termini di effetti sul clima. Il problema è che le idee di Trump di rivitalizzare l’industria dei combustibili fossili potrebbe non essere limitata alla deregolamentazione, ma potrebbe comportare uno scoraggiamento attivo dell’energia rinnovabile, una politica che, per esempio, il governo italiano ha applicato con successo negli ultimi anni.

Quindi perché Trump vuol fare una cosa del genere? Possiamo solo immaginare cosa passi per la testa di un anziano ricco di 70 anni che non è famoso per essere particolarmente esperto in qualcosa. Klare ipotizza una possibile spiegazione in questi termini:

In un certo senso, non c’è dubbio, si tratta, perlomeno in parte, della nostalgia persistente del presidente eletto per l’America che cresceva in fretta (e in gran parte priva di regole) degli anni 50. Quando Trump stava crescendo, gli Stati Uniti erano un motore di espansione straordinario e la sua produzione di beni fondamentali, compresi petrolio, carbone e acciaio, si gonfiavano quotidianamente. Le più grandi industrie del paese sono state fortemente sindacalizzate; i sobborghi stavano esplodendo; gli edifici per appartamenti crescevano in tutto il quartire di Queens, a New York City, dove ha iniziato Trump; le auto uscivano dalle linee di montaggio in quello che era tutto fuorché la “Rust Belt” (la cintura degli stati industrializzati ora in declino, ndt) e le raffinerie e le centrali a carbone producevano l’enorme quantità di energia necessaria perché tutto questo accadesse.  

E non dimenticate un altro fattore: la vendicatività di Trump – in questo caso, non solo verso i suoi oppositori democratici nella recente campagna elettorale, ma verso coloro che hanno votato contro di lui. Il Donald è ben consapevole che la maggior parte degli americani che si preoccupano del cambiamento climatico e che sono a favore di una rapida trasformazione ad un’America ad energia verde non ha votato per lui.  

Data il suo noto debole di attaccare chiunque frustri le sue ambizioni o parli negativamente di lui e il suo impulso a punire i verdi tramite, fra le altre cose, la cancellazione di ogni misura adottata dal presidente Obama per accelerare l’utilizzo dell’energia rinnovabile, aspettatevi che faccia a pezzi l’EPA e che faccia del suo meglio per fare a brandelli ogni ostacolo allo sfruttamento dei combustibili fossili. Se questo significa precipitare l’incenerimento del pianeta, così sia. A Trump o non importa (visto che ha 70 anni e non vivrà per vederlo accadere), o non crede davvero nella scienza, o non pensa che questo porterà danno agli interessi degli affari della sua azienda nei prossimi decenni. 

Questa interpretazione di Michael Klare potrebbe essere corretta o non corretta, ma sottolinea un problema fondamentale: le elezioni danno il potere alle persone sulla base delle loro promesse, ma nessuno sa veramente come si comporteranno una volta che hanno il potere nelle loro mani. La storia del mondo è piena di capi che avevano problemi mentali di ogni genere o avevano anche solo una visione del mondo che era completamente al di fuori della realtà. Il risultato di solito sono stati disastri assoluti in quanto i capi, nella maggior parte dei casi, si rifiutano di apprendere dai loro errori. E non solo questo, essi tendono a raddoppiare, peggiorando le cose.

Riguardo a Donald Trump, come ho discusso in un post precedente, nessuno può sapere cosa succede nella sua testa. Tutto quello che posso dire è che l’America potrebbe avere un bisogno disperato della benedizione di Dio nel prossimo futuro.

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Comunicazione nella scienza del clima: la fiducia genera fiducia

Da “Cassandra’s Legacy”. Traduzione di MR

Con più di 50.000 studenti, l’Università di Firenze è una gigantesca organizzazione con moltissimi problemi. Ma è anche un’università antica e prestigiosa che, a volte, riesce a fare qualcosa di giusto. Recentemente ha organizzato una giornata informativa sul cambiamento climatico per i suoi impiegati che ha avuto un notevole successo, dimostrando che la fiducia genera fiducia.  
Perché non riusciamo a comunicare il pericolo del cambiamento climatico? Forse le persone non hanno informazioni sufficienti? (Questo è il modello del “deficit di informazioni”). O forse hanno troppe informazioni? (Questo si chiama modello di “cognizione culturale”). O forse non hanno le giuste informazioni? O c’è qualcos’altro di sbagliato?
Senza entrare nei dettagli del dibattito, vi racconto di un avvenimento che mi ha aperto gli occhi. Mi ha fatto capire che c’è un problema di “deficit di informazioni”, ma anche che le cose non sono così semplici. Penso che più che un deficit di informazioni, c’è un “deficit di fiducia” che blocca la comunicazione. Non è sufficiente dire alle persone come stanno le cose: dobbiamo ingenerare fiducia. E la fiducia produce fiducia. Ma fatemi raccontare questa storia. 
Quest’anno, l’Università di Firenze ha deciso di offrire al suo personale – gli impiegati che lavorano in amministrazione o nei servizi – tre “giornate di informazione” su materie legate alla sostenibilità. Una di queste giornate di informazione è stata dedicata al cambiamento climatico e si è tenuta il 9 novembre del 2016. 
Il primo punto è che questa doveva essere una lezione, non un giorno di vacanza: ci sarebbero state diverse conferenze per un totale di circa otto ore che abbiamo pianificato come vere lezioni di livello universitario. C’era modellazione, paleoclimatologia, negoziati climatici, comunicazione, mitigazione, adattamento ed altro. Si trattava di comunicazione diretta a non scienziati, ma gli oratori erano tutti specialisti nei loro campi e non hanno tentato di addolcire la pillola o di banalizzare il tema. Insomma, era una cosa impegnativa.
Ad essere onesto, non ero sicuro che avrebbe funzionato. Temevo che le persone avrebbero preso l’iniziativa come una scusa per un giorno di vacanza; non si sarebbero presentati o si sarebbero presentati e sarebbero scomparsi subito dopo. Oppure, se fossero rimasti, sarebbero stati annoiati a morte e avrebbero dormito per tutto il giorno. Mi aspettavo persino che qualche idiota fra il pubblico si sarebbe alzato e avrebbe detto una cosa tipo “non vedete quanto fa freddo oggi? Il cambiamento climatico è una truffa!”
Ma non è successo niente di tutto questo. Con una certa sorpresa da parte mia, l’aula magna dell’Università di Firenze era gremita da circa duecento persone, principalmente impiegati dell’università, ma anche studenti e membri della facoltà. La maggior parte di loro sono rimasti coraggiosamente seduti per tutte le otto ore delle conferenze, un’impresa notevole (in alcuni momenti, alcuni sono dovuti restare in piedi perché non c’erano sedie sufficienti a disposizione). E non solo sedevano nella stanza, ascoltavano le conferenze. Dopo le molte esperienze con conferenze e lezioni pubbliche, sono in grado di percepire se il pubblico è attento o no e loro lo erano. Non dormivano. In realtà ho individuato alcuni occhi chiusi qua e là – è normale. Ma, nel complesso, direi che erano più attenti di molti dei miei studenti. 
Non abbiamo tentato di fare una valutazione formale dei risultati di questa iniziativa, ma penso di avere feedback informali sufficienti da potervi dire che il messaggio è passato. Molte persone non erano soltanto interessate, erano sorprese. Non avevano idea che la scienza del clima fosse un campo così profondo, ampio ed affascinante. Non si erano mai resi conto della portata della minaccia che abbiamo di fronte. 
Per me, come ho detto, è stata un’esperienza che mi ha aperto gli occhi e che mi ha fatto rivalutare tutto ciò che sapevo sulla comunicazione scientifica. Mi ha fatto capire quanto lontana sia la scienza del clima per persone che soffrono davvero di un problema di deficit di informazioni. La maggior parte di quelli che non sono scienziati prendono le informazioni dai media mainstream (MSM) e ci sono due problemi con questa cosa: uno è che ricevono solo frammenti e scorci, immersi nel rumore generale delle notizie. L’altro, forse più importante, è che giustamente non si fidano dei MSM. Eppure, dove altro possono prendere le informazioni? E’ davvero una combinazione mortale: cattiva informazione  da una fonte di cui si diffida, c’è da stupirsi che nessuno stia facendo niente per il cambiamento climatico? 
Ed ecco l’università, un’istituzione piena di problemi ma che si suppone che esista per creare scienza e cultura, non per fare soldi. A causa di questo, gode di un certo prestigio e, stavolta, lo ha usato per fare qualcosa di giusto. Ha detto ai suoi impiegati, “vi apprezziamo, quindi vi offriamo la nostra conoscenza sul cambiamento climatico gratuitamente. Abbiamo fiducia che lo apprezzerete”. E gli impiegati hanno risposto ricambiando la fiducia e apprezzando questo dono. La fiducia genera fiducia. 
Penso che questa esperienza abbia un valore generale. Concorda con un fatto descritto, per esempio, da Ara Norenzayan nel suo libro “Big Gods”. Detto in breve, le persone crederanno al messaggio se (e solo se) si fidano del messaggero. Quindi non stupisce che le persone non siano molto trasportate dai messaggi che ricevono da parte dei MSM – non solo ricevono un messaggio poco comprensibile, non si fidano del messaggero. Ma quando ricevono il messaggio da un’istituzione fidata e da persone che, chiaramente, fanno del loro meglio per informarli, allora capiscono. Non è una questione di volume o di addolcire la pillola, non una questione di strategie o di pubbliche relazioni. E’ una questione di fiducia. 
Ed è qui il problema: abbiamo sperperato così tanta della fiducia che l’opinione pubblica aveva nelle sue fonti di informazione che viviamo oggi nel pieno dell’ “Impero delle bugie”. Saremo mai in grado di ripristinare la fiducia? Forse non è impossibile, ma molto, molto difficile. Eppure, ciò che ha fatto l’Università di Firenze è stato un passo nella giusta direzione. Forse può essere replicato in seguito, chi lo sa? 
Vorrei ringraziare tutti coloro che hanno partecipato a questa giornata informativa come relatori o come organizzatori, in ordine alfabetico. 

Adele Bertini
Marco Bindi
Francesca Bigi 
Federico Brocchieri
Stefano Caserini
Gianfranco Cellai 
Sara Falsini
Alessandro Galli 
Giovanni Pratesi 
Luca Toschi 

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Comunicazione nella scienza del clima: la fiducia genera fiducia

Da “Cassandra’s Legacy”. Traduzione di MR

Con più di 50.000 studenti, l’Università di Firenze è una gigantesca organizzazione con moltissimi problemi. Ma è anche un’università antica e prestigiosa che, a volte, riesce a fare qualcosa di giusto. Recentemente ha organizzato una giornata informativa sul cambiamento climatico per i suoi impiegati che ha avuto un notevole successo, dimostrando che la fiducia genera fiducia.  
Perché non riusciamo a comunicare il pericolo del cambiamento climatico? Forse le persone non hanno informazioni sufficienti? (Questo è il modello del “deficit di informazioni”). O forse hanno troppe informazioni? (Questo si chiama modello di “cognizione culturale”). O forse non hanno le giuste informazioni? O c’è qualcos’altro di sbagliato?
Senza entrare nei dettagli del dibattito, vi racconto di un avvenimento che mi ha aperto gli occhi. Mi ha fatto capire che c’è un problema di “deficit di informazioni”, ma anche che le cose non sono così semplici. Penso che più che un deficit di informazioni, c’è un “deficit di fiducia” che blocca la comunicazione. Non è sufficiente dire alle persone come stanno le cose: dobbiamo ingenerare fiducia. E la fiducia produce fiducia. Ma fatemi raccontare questa storia. 
Quest’anno, l’Università di Firenze ha deciso di offrire al suo personale – gli impiegati che lavorano in amministrazione o nei servizi – tre “giornate di informazione” su materie legate alla sostenibilità. Una di queste giornate di informazione è stata dedicata al cambiamento climatico e si è tenuta il 9 novembre del 2016. 
Il primo punto è che questa doveva essere una lezione, non un giorno di vacanza: ci sarebbero state diverse conferenze per un totale di circa otto ore che abbiamo pianificato come vere lezioni di livello universitario. C’era modellazione, paleoclimatologia, negoziati climatici, comunicazione, mitigazione, adattamento ed altro. Si trattava di comunicazione diretta a non scienziati, ma gli oratori erano tutti specialisti nei loro campi e non hanno tentato di addolcire la pillola o di banalizzare il tema. Insomma, era una cosa impegnativa.
Ad essere onesto, non ero sicuro che avrebbe funzionato. Temevo che le persone avrebbero preso l’iniziativa come una scusa per un giorno di vacanza; non si sarebbero presentati o si sarebbero presentati e sarebbero scomparsi subito dopo. Oppure, se fossero rimasti, sarebbero stati annoiati a morte e avrebbero dormito per tutto il giorno. Mi aspettavo persino che qualche idiota fra il pubblico si sarebbe alzato e avrebbe detto una cosa tipo “non vedete quanto fa freddo oggi? Il cambiamento climatico è una truffa!”
Ma non è successo niente di tutto questo. Con una certa sorpresa da parte mia, l’aula magna dell’Università di Firenze era gremita da circa duecento persone, principalmente impiegati dell’università, ma anche studenti e membri della facoltà. La maggior parte di loro sono rimasti coraggiosamente seduti per tutte le otto ore delle conferenze, un’impresa notevole (in alcuni momenti, alcuni sono dovuti restare in piedi perché non c’erano sedie sufficienti a disposizione). E non solo sedevano nella stanza, ascoltavano le conferenze. Dopo le molte esperienze con conferenze e lezioni pubbliche, sono in grado di percepire se il pubblico è attento o no e loro lo erano. Non dormivano. In realtà ho individuato alcuni occhi chiusi qua e là – è normale. Ma, nel complesso, direi che erano più attenti di molti dei miei studenti. 
Non abbiamo tentato di fare una valutazione formale dei risultati di questa iniziativa, ma penso di avere feedback informali sufficienti da potervi dire che il messaggio è passato. Molte persone non erano soltanto interessate, erano sorprese. Non avevano idea che la scienza del clima fosse un campo così profondo, ampio ed affascinante. Non si erano mai resi conto della portata della minaccia che abbiamo di fronte. 
Per me, come ho detto, è stata un’esperienza che mi ha aperto gli occhi e che mi ha fatto rivalutare tutto ciò che sapevo sulla comunicazione scientifica. Mi ha fatto capire quanto lontana sia la scienza del clima per persone che soffrono davvero di un problema di deficit di informazioni. La maggior parte di quelli che non sono scienziati prendono le informazioni dai media mainstream (MSM) e ci sono due problemi con questa cosa: uno è che ricevono solo frammenti e scorci, immersi nel rumore generale delle notizie. L’altro, forse più importante, è che giustamente non si fidano dei MSM. Eppure, dove altro possono prendere le informazioni? E’ davvero una combinazione mortale: cattiva informazione  da una fonte di cui si diffida, c’è da stupirsi che nessuno stia facendo niente per il cambiamento climatico? 
Ed ecco l’università, un’istituzione piena di problemi ma che si suppone che esista per creare scienza e cultura, non per fare soldi. A causa di questo, gode di un certo prestigio e, stavolta, lo ha usato per fare qualcosa di giusto. Ha detto ai suoi impiegati, “vi apprezziamo, quindi vi offriamo la nostra conoscenza sul cambiamento climatico gratuitamente. Abbiamo fiducia che lo apprezzerete”. E gli impiegati hanno risposto ricambiando la fiducia e apprezzando questo dono. La fiducia genera fiducia. 
Penso che questa esperienza abbia un valore generale. Concorda con un fatto descritto, per esempio, da Ara Norenzayan nel suo libro “Big Gods”. Detto in breve, le persone crederanno al messaggio se (e solo se) si fidano del messaggero. Quindi non stupisce che le persone non siano molto trasportate dai messaggi che ricevono da parte dei MSM – non solo ricevono un messaggio poco comprensibile, non si fidano del messaggero. Ma quando ricevono il messaggio da un’istituzione fidata e da persone che, chiaramente, fanno del loro meglio per informarli, allora capiscono. Non è una questione di volume o di addolcire la pillola, non una questione di strategie o di pubbliche relazioni. E’ una questione di fiducia. 
Ed è qui il problema: abbiamo sperperato così tanta della fiducia che l’opinione pubblica aveva nelle sue fonti di informazione che viviamo oggi nel pieno dell’ “Impero delle bugie”. Saremo mai in grado di ripristinare la fiducia? Forse non è impossibile, ma molto, molto difficile. Eppure, ciò che ha fatto l’Università di Firenze è stato un passo nella giusta direzione. Forse può essere replicato in seguito, chi lo sa? 
Vorrei ringraziare tutti coloro che hanno partecipato a questa giornata informativa come relatori o come organizzatori, in ordine alfabetico. 

Adele Bertini
Marco Bindi
Francesca Bigi 
Federico Brocchieri
Stefano Caserini
Gianfranco Cellai 
Sara Falsini
Alessandro Galli 
Giovanni Pratesi 
Luca Toschi 

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