Author: Massimiliano Rupalti

L’ottimismo sul clima è stato un disastro. Ci serve un nuovo linguaggio – disperatamente

Da “The Guardian”. Traduzione di MR

Di Ellie Mae O’Hagan

Il meteo estremo degli ultimi mesi cambia le carte in tavola: di sicuro adesso il mondo è pronto per parlare di cambiamento climatico come una catastrofe da collasso della civiltà

 Una casa alluvionata a Houston. “Grandi aree delle superpotenze globali dominanti è stata decimata da due tempeste che fanno impallidire Katrina in meno di un mese”. Foto: David J Phillip/AP

Nel 1988, quando lo scienziato James Hansen ha detto ad un comitato del senato che era “tempo di smettere parlare a vanvera e dire che ci sono prove molto chiare del fatto che l’effetto serra è già qui”, coloro che lo hanno preso sul serio pensavano che se solo avessero insistito nell’enfatizzare che questo fatto terribile ci avrebbe alla fine distrutto, si sarebbe agito. Invece è avvenuto il contrario: di fronte alla terribile realtà del cambiamento climatico, la maggior parte della gente tendeva a rifugiarsi in una visione panglossiana del futuro, o semplicemente non voleva ascoltare.

E’ stato fatto molto lavoro da allora per capire perché il cambiamento climatico sia cosi unicamente paralizzante, principalmente da George Marshall, autore del libro “Non pensarci nemmeno”. Marshall descrive il cambiamento climatico come “il crimine perfetto e non rilevabile al quale tutti contribuiscono ma per il quale nessuno ha un movente”. Il cambiamento climatico è sia troppo vicino sia troppo lontano perché noi riusciamo ad interiorizzarlo: troppo vicino perché lo peggioriamo con le azioni di ogni minuto delle nostre vite quotidiane; troppo lontano perché fino ad ora è stata una cosa che colpisce stranieri in paesi stranieri, o versioni future di noi stessi che possiamo concepire solo in modo effimero.

E’ anche troppo enorme. La verità è che se non agiamo ora per il clima, le scarsità alimentari, le migrazioni di massa e l’instabilità politica che causerà potrebbero vedere il collasso della civiltà nell’arco delle nostre vite. Chi di noi può sostenere questa consapevolezza?

Non sorprende quindi che qualche anno fa gli attivisti del clima siano passati ad un messaggio di ottimismo. Hanno dato retta a studi che mostravano che l’ottimismo era più galvanizzante della disperazione ed hanno iniziato a parlare di storie di speranza, emancipazione e successo. Hanno aspettato che si verificasse qualche evento meteorologico estremo per far sì che gli ultimi pezzi del puzzle andassero al loro posto. Forse l’alluvione di New Orleans sarebbe stata sufficiente; forse alcune delle persone bianche e ricche che sono state strapazzate dall’uragano Sandy avrebbero usato il loro privilegio per richiedere azione. Forse Harvey o Irma – ed ora Maria – avrebbero provocato la fuga dal nostro stordimento. Non è accaduto.

Piuttosto, penso che quello che ha fatto un pensiero di ottimismo sia creare un enorme canyon fra la realtà del cambiamento climatico e la percezione che ne ha la maggior parte della gente. Un messaggio ottimista ha portato alla compiacenza – “la gente dice che è fattibile, quindi probabilmente andrà tutto bene” – e sostenere le storie di successo ha convinto le persone che l’azione patetica e logora intrapresa dai governi sia finora sufficiente. Ho perso il conto del numero enorme di persone consapevoli e politicamente impegnate che ho incontrato che non hanno idea di quanto ci sia in gioco.

Potrebbe essere che se il momento di un movimento di massa non è adesso, non ce ne sarà nessuno. Il fatto è che nessuno sa come risolvere l’enigma come persuadere l’opinione pubblica perché chieda azione per il clima. Io non ho di sicuro le risposte. Ma penso che dobbiamo contemplare l’idea che qualcosa stia andando disastrosamente male – che forse è tempo di tornare sui nostri passi e ripensare il modo in cui parliamo del cambiamento climatico.

Sono successe due cose significative da quella audizione del comitato del Senato del 1988: la prima è l’Accordo di Parigi del 2015 per cercare di limitare il riscaldamento ad 1,5°C – una ricerca uscita questa settimana mostra che questo è ancora possibile. La seconda è che grandi aree delle superpotenze globali dominanti è stata decimata da due tempeste che fanno impallidire Katrina in meno di un mese. Le circostanze sono cambiate negli ultimi 30 anni: il cambiamento climatico è un dato di fatto ora ed abbiamo un obbiettivo specifico da perseguire, per limitare il danno che causerà.

”Dobbiamo mettere in crisi il silenzio pervasivo sul cambiamento climatico” George Marshall, l’autore di “non pensarci nemmeno”, parla ad un evento organizzato da The Guardian. 

Una nuova campagna potrebbe concentrarsi sulla necessità che i governi raggiungano l’obbiettivo dei 1,5°C, enfatizzando quanto sarebbero terribili le conseguenze se non lo facciamo. La gente non ha più bisogno di immaginare come sia il cambiamento climatico: possono vederlo nell’acqua del mare che ha avvolto le isole dei Caraibi, nelle case sommerse di Houston, nei bollettini di coloro che non sono riusciti a fuggire e si sono preparati a perdere tutto. In Gran Bretagna abbiamo visto l’acqua dell’alluvione inondare interi paesi; un pub che è diventato una via di transito per un fiume gonfio. E’ così che si presenta una catastrofe alla porta di casa e forse è tempo che colleghiamo queste immagini al cambiamento climatico con tanto piglio quanto quello con cui l’industria dei fossili lo nega.

Potrebbe funzionare il linguaggio dell’emergenza? Non è mai stato provato con tutte le prove meteorologiche che abbiamo oggi e non abbiamo mai avuto un obbiettivo più chiaro ed unanime come quello concordato a Parigi. La sola cosa che so è che gli eventi degli ultimi mesi hanno cambiato i giochi e questo è il momento di cominciare a dibattere un modo nuovo di parlare del cambiamento climatico. Potrebbe essere che se non è questo il momento di un movimento di massa, non ce ne sarà mai uno.

• Ellie Mae O’Hagan è redattrice presso openDemocracy  ed è una giornalista freelance

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In che modo funziona la Natura: quanto è comune la curva di Seneca? Il discorso di Ugo Bardi alla Summer Academy del Club di Roma a Firenze

Da “Cassandra’s Legacy”. Traduzione di MR

Ugo Bardi alla Summer Academy del Club di Roma a Firenze, settembre 2017.

Il mio discorso alla Summer Academy del Club di Roma è stato più che altro una presentazione del mio ultimo libro “The Seneca Effect” (Springer 2017) . Di fatto, naturalmente, un libro contiene molte più cose di quante se ne possano dire in un discorso di 40 minuti. Quindi ho cercato di concentrarmi sull’idea che il comportamento che chiamo “curva di Seneca” sia molto comune, persino universale. Sotto potete vedere la curva di Seneca: le cose salgono lentamente ma collassano rapidamente, come ha detto per la prima volta il filosofo Romano Seneca duemila anni fa. Potete vedere la stessa curva anche nella maglietta che indossavo alla Academy.

Forse avete sentito il vecchio detto latino “Natura non facit saltus” (La natura non fa salti), che significa che le cose cambiano gradualmente, non all’improvviso. Potrebbe essere vero in molte circostanze ma, in pratica, ma è del tutto normale che la Natura accumuli potenziali energetici (come quando gonfiate un pallone) e poi li rilascia all’improvviso (come quando bucate un pallone). Questo è il tema della copertina della versione tedesca del mio libro.

Ci sono delle ragioni per le quali la Natura si comporta così, ma l’argomentazione che ho portato alla scuola non è stato tanto sul perché la curva sia così comune, ma sul fatto che gli esseri umani normalmente non ne sono consapevoli. Infatti, il nostro pensiero spesso determinato dall’idea che le cose continueranno ad evolvere nel modo in cui si sono evolute fino a quel punto. Pensate solo alla crescita economica e noterete in che modo gli economisti si aspettano che questa continui a crescere per sempre. Non c’è bisogno di dire che l’economia è uno di quei sistemi complessi che sono più vulnerabili al collasso di Seneca.

Ho quindi provato a sottolineare che la comprensione  che la Curva di Seneca esiste ed è comune è una scoperta recente. Anche se Seneca lo aveva capito per intuizione già 2000 anni fa, nella sua forma moderna ha meno di un secolo. E’ stata proposta per la prima volta da Jay Forrester negli anni 60 ed è stata consacrata nello studio “I limiti dello sviluppo” del 1972, anche se il termine “Effetto Seneca” non è stato usato.

Durante il mio discorso, ho mostrato questa immagine per evidenziare in che modo le nostre idee sul percorso dei sistemi complessi si sono evolute nel tempo.

Vedete qual è l’idea moderna di “overshoot” (e del collasso conseguente). Malthus non lo aveva capito. Nonostante venga spesso accusato di catastrofismo, non poteva prevedere il collasso sociale; gli mancavano gli strumenti intellettuali necessari. Era un ottimista! Oggi, c’è questo concetto. Sappiamo che i sistemi complessi tendono non solo a declinare, tendono a collassare. Ma questa percezione manca completamente dal dibattito pubblico.

Quando si fa menzione del collasso sociale, ci sono due reazioni possibili. La più comune è che una cosa del genere non succederà mai. Poi, se si riesce a convincere le persone che è possibile, questa fanno tutto quello che possono per mantenere in piedi il sistema, a prescindere da quello che ci vuole. Non si rendono conto che quando si supera la capacità di carico del sistema, bisogna tornare indietro, in un modo o nell’altro. E più si cerca di stare al di sopra del limite, più veloce e severo sarà il rientro. Quello che si deve fare è rendere più leggero il collasso, seguirlo, non cercare di fermarlo. Altrimenti sarà peggio.

Così, sembra che qui ci troviamo di fronte ad un blocco culturale. Forse non lo supereremo mai, o forse sì, chi lo sa? Nei tempi antichi, l’Imperatore Marco Aurelio, un filosofo stoico proprio come Seneca,  aveva ben chiaro questo concetto. Sapeva che tutto nel mondo è impermanente, compreso l’Impero Romano. Essendo un uomo virtuoso, ha fatto tutto ciò che era in suo potere per fare il suo dovere come Imperatore. Ma ha riconosciuto i suoi limiti, ed è questo che ha scritto nelle sue “Meditazioni”.

Dobbiamo anche riconoscere i nostri limiti. Seguire il cambiamento, non cercare di fermarlo. La Natura sta cambiando tutte le cose che vediamo e con la loro sostanza farà cose nuove per fare in modo che il mondo sia sempre nuovo. E’ così che funziona la Natura.

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La nostra sola speranza è un cambiamento sistemico guidato dal risveglio morale

Da “Ecowatch”. Traduzione di MR



Di Richard Heinberg

Il nostro problema ecologico centrale non è il cambiamento climatico. E’ l’overshoot (superamento), del quale il cambiamento climatico è un sintomo. L’overshoot è un problema sistemico. Nell’ultimo secolo e mezzo, quantità enormi di energia  a buon mercato proveniente dai combustibili fossili ha permesso una crescita rapida dell’estrazione di risorse, della produzione e del consumo; e queste a loro volta hanno portato alla crescita della popolazione, all’inquinamento ed alla perdita di habitat naturale e quindi di biodiversità.

Il sistema umano si è drasticamente espanso, superando la capacità di carico a lungo termine della Terra per gli esseri umani, sconvolgendo nel mentre i sistemi ecologici da cui dipendiamo per la sopravvivenza. Finché non comprendiamo ed affrontiamo questo squilibrio sistemico, il trattamento sintomatico (fare quello che possiamo per invertire problemi di inquinamento come il cambiamento climatico, cercare di salvare specie in estinzione e sperare di dar da mangiare ad una popolazione in crescita con colture geneticamente modificate) si rivelerà un ciclo infinitamente frustrante di misure  di ripiego che alla fine sono destinate al fallimento.

Il movimento ecologico degli anni 70 ha beneficiato di una forte infusione di pensiero sistemico, che era in voga al tempo (l’ecologia – lo studio delle relazioni fra gli organismi e i loro ambienti – è una disciplina intrinsecamente sistemica, contrariamente a studi come la chimica che si concentra sulla riduzione dei fenomeni complessi alle parti che li costituiscono). Di conseguenza, molti dei migliori scrittori ambientali di quel periodo inquadravano la moderna situazione umana difficile in termini che hanno rivelato i collegamenti profondi fra sintomi ambientali e il modo in cui opera la società. “I limiti dello sviluppo” (1972), il prodotto della ricerca sistemica di Jay Forrester, ha investigato le interazioni fra crescita della popolazione, produzione industriale, produzione di cibo, esaurimento delle risorse ed inquinamento. “Overshoot” (1982) di William Catton, ha dato il nome al nostro problema sistemico e descritto le sue origini e il suo sviluppo in uno stile apprezzabile da ogni persona colta. Potrebbero essere citati molti altri libri eccellenti di quel periodo.

Tuttavia, negli ultimi decenni, man mano che il cambiamento climatico è giunto a dominare le preoccupazioni ambientali, c’è stato un passaggio significativo nella discussione. Oggi, la maggioranza dei servizi sull’ambiente è concentrato come un laser sul cambiamento climatico e i collegamenti sistemici fra questo ed altri problemi ambientali in via di peggioramento (come sovrappopolazione, estinzione di specie, inquinamento di acqua ed aria e perdita di suolo ed acqua potabile) vengono raramente evidenziati. Non che il cambiamento climatico non sia un grosso problema. Come sintomo, è veramente unico. Non c’è mai stato niente del genere e gli scienziati del clima e i gruppi che sostengono una risposta al cambiamento climatico fanno bene a suonare l’allarme più forte possibile. Ma non capire il cambiamento climatico nel contesto potrebbe essere la nostra rovina.

Perché chi scrive di ambiente e le organizzazioni che lo sostengono hanno ceduto ad una visione col paraocchi? Forse è solo perché pensano che il pensiero sistemico sia al di là delle capacità dei politici. E’ vero: se gli scienziati del clima dovessero rivolgersi ai capi mondiali col messaggio, “dobbiamo cambiare tutto, compreso l’intero sistema economico – e velocemente”, potrebbero mostrar loro la porta in modo piuttosto rude. Un messaggio più accettabile è, “abbiamo identificato un grave problema di inquinamento, per cui ci sono soluzioni tecniche”. Forse molti degli scienziati che hanno riconosciuto la natura sistemica della nostra crisi ecologica hanno concluso che se possiamo affrontare con successo questa crisi ambientale da “o la va o la spacca”, saremo in grado di guadagnare tempo per affrontare le altre che aspettano dietro le quinte (sovrappopolazione, estinzione di specie, esaurimento delle risorse e così via).

Se il cambiamento climatico può essere inquadrato come problema isolato e per cui c’è una soluzione tecnologica, le menti degli economisti e dei politici possono continuare a pascolare in pascoli famigliari. La tecnologia – in questo caso i generatori elettrici, solare, eolico e nucleare, così come batterie, auto elettriche, pompe di calore e, se tutto il resto viene a mancare, gestione della radiazione solare tramite aerosol atmosferici – centra il nostro pensiero su temi come l’investimento finanziario e la produzione industriale. I partecipanti alla discussione non devono sviluppare la capacità di pensare in modo sistemico, né devono capire il sistema terrestre e come i sistemi umani vi si adattino. Tutto ciò di cui devono preoccuparsi è la prospettiva di spostare qualche investimento, stabilire compiti per gli ingegneri e gestire la relativa trasformazione industriale-economica in modo da assicurare che i nuovi posti di lavoro nelle industrie verdi compensino quelli persi nelle miniere di carbone.

La strategia di guadagnare tempo con le soluzioni tecnologiche presume che saremo in grado di istituire il cambiamento sistemico ad un certo punto del futuro non meglio identificato, anche se non possiamo farlo proprio subito (apparentemente un argomento debole) o che il cambiamento climatico e tutte le nostre altre crisi sintomatiche, saranno di fatto gestibili con soluzioni tecnologiche. La seconda linea di pensiero è, ancora una volta, confortevole per gestori e investitori. Dopotutto, tutti amano la tecnologia. Fa già quasi tutto per noi. Nell’ultimo secolo ha risolto un bel po’ di problemi: ha curato malattie, aumentato la produzione di cibo, velocizzato i trasporti e ci ha fornito informazione ed intrattenimento in quantità e varietà che nessuno aveva mai immaginato prima. Perché non dovrebbe essere capace di risolvere il cambiamento climatico e il resto dei nostri problemi?

Naturalmente, ignorare la natura sistemica del nostro dilemma significa soltanto che non appena riusciamo a confinare un sintomo, è probabile che se ne liberi un altro. Ma il punto cruciale è: il cambiamento climatico, preso come problema isolato, è del tutto trattabile con la tecnologia? Definitemi pure scettico. Dico questo dopo aver passato molti mesi a studiare attentamente i dati pertinenti con David Fridley del progetto di analisi energetica al Laboratorio Nazionale Lawrence di Berkeley. Il risultato, il nostro libro Il nostro futuro rinnovabile, concludeva che l’energia nucleare è troppo costosa e rischiosa; solare ed eolico soffrono entrambi di intermittenza, il che (una volta che queste fonti cominciano a fornire una grande percentuale dell’energia elettrica totale) richiederà una combinazione di tre strategie su vasta scala: immagazzinamento dell’energia, capacità produttiva ridondante e adattamento della domanda. Allo stesso tempo, noi nazioni industriali dovremo adattare gran parte del nostro attuale uso di energia (che avviene nei processi industriali, costruzioni, riscaldamento e trasporti) all’elettricità. Nel complesso, la transizione energetica promette di essere un’impresa enorme, senza precedenti nei suoi requisiti di investimento e sostituzione. Quando David e io abbiamo fatto un passo indietro per valutare l’enormità dell’impresa, non riuscivamo a vedere un modo di mantenere le attuali quantità di produzione globale di energia durante la transizione, tanto meno di aumentare le forniture energetiche di modo da alimentare la crescita economica in corso.  Il più grande ostacolo alla transizione è la scala: il mondo usa attualmente un’enorme quantità di energia, solo se quella quantità può essere ridotta in modo significativo, specialmente nelle nazioni industriali, potremmo immaginare un percorso credibile verso un futuro post carbonio.

Ridurre le forniture energetiche mondiali diminuirebbe, di fatto, anche i processi industriali di estrazione delle risorse, produzione, trasporto e gestione dei rifiuti. Si tratta di un intervento sistemico, esattamente del tipo invocato dagli ecologisti degli anni 70 che hanno coniato il mantra “Riduci, riusa, ricicla”. Va dritto al cuore del problema dell’overshoot – come la stabilizzazione e la riduzione della popolazione, un’altra strategia necessaria. Ma è anche un’idea alla quale i tecnocrati, gli industriali e gli investitori sono violentemente allergici.

La discussione ecologica è, in fondo, una discussione morale – come spiego più in dettaglio in un manifesto appena pubblicato pieno di inserti laterali e grafici. (“Non ci sono app per questo: tecnologia e moralità nell’era del cambiamento climatico, della sovrappopolazione e della perdita di biodiversità”). Tutti i pensatori sistemici che comprendono l’overshoot e prescrivono lo spegnimento come trattamento si stanno efficacemente impegnando in un intervento contro un comportamento di dipendenza. La società è drogata di crescita e questo sta avendo conseguenze terribili per il pianeta e, sempre di più, anche per noi. Dobbiamo cambiare il nostro comportamento collettivo ed individuale e mollare qualcosa da cui dipendiamo – il potere sul nostro ambiente. Dobbiamo darci una regolata, come un alcolizzato che si proibisce di bere. Questo richiede onestà e ricerca dell’anima.

Nei suoi primi anni, il movimento ambientalista poneva questa questione morale e fino ad un certo punto ha funzionato. La preoccupazione per la rapida crescita della popolazione ha portato a tentativi di pianificazione famigliare in tutto il mondo. La preoccupazione per il declino della biodiversità ha portato alla protezione degli habitat. La preoccupazione per l’inquinamento dell’aria e dell’acqua ha portato ad una sfilza di regole. Questi sforzi non sono stati sufficienti, ma hanno mostrato che inquadrare il nostro problema sistemico in termini morali riesce a dare perlomeno un po’ di spinta.
Perché il movimento ambientalista non ha avuto pieno successo? Alcuni teorici che ora si definiscono “verde chiaro” o “eco modernisti” hanno abbandonato la battaglia morale completamente. La loro giustificazione per averlo fatto è che le persone vogliono una visione del futuro che sia allegra e che non richieda sacrifici. Ora, dicono, solo una soluzione tecnologica offre tutte le speranze. Il punto essenziale di questo saggio (e del mio manifesto) è semplicemente che, anche se le questioni morali falliscono, una soluzione tecnica a sua volta non funzionerà. Un gigantesco investimento in tecnologia (che sia la prossima generazione di reattori nucleari o la geoingegneria delle radiazioni solari) viene annunciato come l’ultima speranza Ma in realtà non è affatto una speranza.

La ragione del fallimento ad oggi del movimento ambientalista non è stata l’aver fatto appello ai sentimenti morali dell’umanità – che di fatto è stata la più grande forza del movimento. Il tentativo è fallito perché non è stato capace di cambiare il principio organizzativo centrale della società industriale, che è anche il suo errore fatale: la sua ricerca accanita di crescita a tutti i costi. Ora ci troviamo al punto in cui dobbiamo finalmente o riuscire a superare il “crescismo” o affrontare il fallimento, non solo del movimento ambientalista, ma della stessa civiltà.

La buona notizia è che il cambiamento sistemico è frattale in natura: comporta, di fatto richiede, azione ad ogni livello della società. Possiamo cominciare dalle nostre scelte e comportamento individuali; possiamo lavorare all’interno delle nostre comunità. Non dobbiamo aspettare un cambiamento catartico globale o nazionale. Ed anche se in nostri sforzi non possono “salvare” la civiltà industriale consumista, possono ancora riuscire a piantare i semi di una cultura umana rigenerativa che vale la sopravvivenza.

C’è un’altra buona notizia: una volta che noi esseri umani scegliamo di ridurre il nostro numero e i nostri tassi di consumo, la tecnologia può assistere i nostri sforzi. Le macchine possono aiutarci a monitorare il nostro progresso e ci sono tecnologie relativamente semplici che possono aiutare a fornire i servizi necessari con minor uso di energia e minor danno ambientale. Alcuni modi di sviluppare la tecnologia potrebbero aiutarci a pulire l’atmosfera e ripristinare gli ecosistemi.

Ma le macchine non possono fare le scelte cruciali che ci porranno su un sentiero sostenibile. Il cambiamento sistemico guidato dal risveglio morale: non è solo l’ultima speranza, è la sola vera speranza che abbiamo mai avuto.

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Non si combatte il cambiamento climatico con la Pepsi Cola

Da “Cassandra’s Legacy”. Traduzione di MR


Da “powertechnology.com“, Un articolo di Julian Turner. Non è sbagliato, ma è possibile che non possiamo discutere più di niente senza trasformarlo in un “fatto rivoluzionario”, una “grande scoperta” e tutto il resto? Un po’ meno clamore in questi rapporti aiuterebbe molto. 

Di Ugo Bardi

Qualche tempo fa, mi sono ritrovato a spiegare ad un giornalista il perché mi oppongo all’estrazione di CO2 in Toscana. Ho detto una cosa tipo “non ha senso che la regione spenda soldi per ridurre le emissioni di CO2 e, allo stesso tempo, permetta a questa azienda di estrarre CO2 che, altrimenti, rimarrebbe sottoterra”. “Ma”, ha detto il giornalista, “ho intervistato quelli dell’azienda e dicono che il CO2 che estraggono non viene disperso in atmosfera – viene immagazzinato”. “E dove viene immagazzinato?” ho chiesto. “Lo vendono alle società che fanno bibite gasate”. Ho cercato di spiegargli che produrre Coca Cola o Pepsi non è il modo di combattere il cambiamento climatico, ma non credo che abbia capito.

Questo è un esempio tipico di quanto sia difficile fare passare alcuni messaggi nel dibattito pubblico. Fra i tanti modi possibili di mitigare il riscaldamento globale, il carbon capture and sequestration (Cattura e sequestro del carbonio), o stoccaggio – CCS – è il meno compreso, più complicato ed è quello che più probabilmente porterà a pseudo soluzioni. Non sorprende, visto che è una storia complessa che coinvolge chimica, geologia, ingegneria ed economia.

Circa un mese fa, è apparso un post di Julian Turner su “Power Technology” dal titolo piuttosto ambizioso di “Finalmente ottenuta la cattura del carbonio”. Il post è pieno di enfasi su una grande scoperta nel processo che purifica il CO2 in uscita da un impianto a carbone – un processo chiamato “lavaggio del CO2”. Il nuovo processo, viene detto, è migliore, meno costoso, più rapido, efficiente e “cambia le regole del gioco”. Sharma, amministratore delegato della società che ha sviluppato il processo, ha dichiarato:

“Il TACL sarà in grado di catturare il CO2 dalle emissioni delle loro caldaie e quindi riusarlo”, conferma Sharma. “per l’utente finale, l’elettricità prodotta catturando il biossido di carbonio sarà elettricità pulita a il vapore prodotto sarà energia pulita. Per questa ragione, possiamo dire che è ‘senza emissioni’”.

Non ho dubbi che ci sia qualcosa di buono nel nuovo processo. Pulire il CO2 usando solventi è una tecnologia nota e può certamente essere migliorata. La tecnologia è buona nel fare esattamente questo: migliorare processi noti. Il problema è un altro: si tratta davvero di un processo “senza emissioni”? E la risposta è, sfortunatamente, “niente affatto”, perlomeno nella forma in cui viene presentata l’idea. Il problema, qui, è che tutta l’enfasi è sulla cattura del carbonio, ma non c’è nulla in queste affermazioni sul sequestro del carbonio. Infatti l’articolo discute di “cattura ed utilizzo del carbonio” (CCU) e non di “cattura e sequestro del carbonio” (CCS). Ora, è la CCS che deve mitigare il riscaldamento globale, la CCU NON lo fa.

Torniamo ai concetti fondamentali: se si vuol capire cosa sia la CCS, un buon punto di partenza è il rapporto speciale del IPCC sulla materia (un documento massiccio di 443 pagine). Più di dieci anni dopo la sua pubblicazione, la situazione non è cambiata granché, come confermato da un rapporto più recente. L’idea di fondo rimane la stessa: trasformare il CO2 in qualcosa che sia stabile e non inquinante. E quando diciamo “stabile”, intendiamo qualcosa che rimanga stabile nell’ordine delle migliaia di anni, almeno. E’ questo che chiamiamo “sequestro” o “stoccaggio”.

Un compito difficile, se ce ne è mai stato uno, ma non impossibile e, come è spesso il caso, il problema non è la fattibilità, ma il costo. Il modo più sicuro di stoccare il CO2 per tempi molto lunghi è quello di imitare il processo naturale di “degradazione dei silicati” e trasformare il CO2 in carbonati stabili di calcio e magnesio, per esempio. E’ quello che fa un ecosistema per regolare la temperatura del pianeta. Ma il processo naturale è estremamente lento; parliamo di tempi nell’ordine delle centinaia di migliaia di anni, non proprio ciò di cui abbiamo bisogno ora. Possiamo, naturalmente, accelerare il processo di degradazione, ma ci vuole un sacco di energia, principalmente per schiacciare e polverizzare i silicati. Un metodo meno costoso è lo “stoccaggio geologico”, cioè pompare CO2 dentro un bacino sotterraneo. E sperare che se ne starà lì per decine di migliaia di anni. Ma è l’obbiettivo principale della CCS, oggigiorno.

Detto questo, il modo per valutare la fattibilità e l’opportunità dell’intero concetto di CCS è di esaminare il ciclo di vita di tutto il processo; vedere quanta energia richiede (il suo ritorno energetico sull’investimento, EROEI) e quindi confrontarlo coi dati di processi alternativi – per esempio investire le stesse risorse in energia rinnovabili piuttosto che in CCS (e l’energia rinnovabile potrebbe già essere meno costosa dell’elettricità prodotta col carbone). Ma sembra che questa analisi comparativa non sia stata fatta, finora, nonostante le diverse analisi dei costi delle CCS. Una cosa che possiamo desumere dal rapporto del 2005 (a pagina 338) è che, anche senza lavaggio, l’energia necessaria per l’intero processo potrebbe essere non lontana da valori che potrebbero renderlo un esercizio simile allo scavare buche per poi riempirle di nuovo, come pare abbia detto John Maynard Keynes. La situazione è migliore se consideriamo lo stoccaggio geologico, ma anche in questo caso il lavaggio è solo una frazione del costo totale.

A questo punto, potete capire cosa c’è di sbagliato nel definire il nuovo processo di lavaggio un “fatto rivoluzionario”. Non lo è. E’ un processo che migliora una delle fasi della catena che porta allo stoccaggio del carbonio, ma che potrebbe avere poco valore per la CCS, a meno che uesta non sia valutata all’interno dell’intero ciclo di vita del processo.

Poi, in tutto l’articolo di Turner non c’è menzione alla CCS/stoccaggio. Parlano soltanto di cattura ed utilizzo del carbonio (CCU) e dicono che il CO2 verrà venduto ad un’altra azienda che lo trasformerà in carbonato di sodio (Na2CO3). Questo composto potrebbe quindi venire usato per fare il vetro, l’urea e scopi simili. Ma quasi tutti questi processi alla fine dei conti riporteranno il CO2 catturato nell’atmosfera!. Nessuno stoccaggio, nessuna mitigazione del riscaldamento globale. Potrebbero altrettanto bene vendere il CO2 all’industria delle bevande gassate. Non è questa la grande scoperta di cui abbiamo bisogno.

Così, che senso ha fare tutto questo baccano su “energia pulita”, “elettricità pulita” ed energia “senza emissioni”, quando il nuovo processo non mira a niente di quel genere? Non sorprende, fa tutto parte del dibattito “privo di fatti” in corso.

Per concludere, lasciatemi osservare che questo nuovo processo di lavaggio potrebbe essere solo uno di quei modi di “tirare le leve dalla parte sbagliata”, secondo la definizione di Jay Forrester. Cioè, potrebbe essere controproduttivo per gli stessi scopi per i quali è stato sviluppato. Il problema è che il CO2 puro è un prodotto industriale che ha un certo valore di mercato, come sanno molto bene le persone che lo estraggono dal sottosuolo in Toscana. Finora, il costo del lavaggio ha impedito che lo scarto delle centrali alimentate a combustibili fossili avesse un valore di mercato, ma un nuovo processo efficiente potrebbe rendere fattibile la sua trasformazione in un prodotto vendibile. Ciò renderebbe gli le centrali a carbone più redditizie ed incoraggerebbe le persone ad investire nella costruzione di altre centrali e questo non genererebbe riduzioni di emissioni di CO2! Sarebbe anche peggio se l’industria del carbone dovesse vendere ai governi il loro processo di lavaggio per sfuggire alle tasse sul carbonio. Vedete? Ancora una volta, il ruolo delle conseguenze impreviste si manifesta.

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Perché l’energia nucleare non è un’alternativa ai combustibili fossili


Di Alice Friedmann



Da “Energy skeptic”. Traduzione di MR (via Maurizio Tron e Jacopo Simonetta)

[ Le ragioni economiche sono l’ostacolo maggiore ora per le nuove centrali nucleari, con costi di capitale così alti che è quasi impossibile ottenre prestiti, specialmente quando il gas naturale è così tanto più economico e meno rischioso. Ma ci sono anche altre ragioni per le quali l’energia nucleare è nei guai. Ci sono molte più centrali in pericolo di chiusura di quante ne vengano costruite (37 o più potrebbero chiudere)]. 

Questa è una crisi di combustibili liquidi da trasporto. Il tallone di Achille della civiltà è la nostra dipendenza da camion di ogni genere, che vanno a gasolio perché i motori diesel sono di gran lunga più potenti di vapore, benzina, elettricità o qualsiasi altro motore sulla Terra (Vaclav Smil. 2010. Principali motori della globalizzazione: la storia dell’impatto dei motori diesel e delle turbine a gas. MIT Press). A miliardi camion (e macchinari) è richiesto di mantenere in funzione le catene di fornitura dalle quali dipendono ogni persona ed ogni azienda, così come estrazione mineraria, agricoltura, strade/costruzioni, camion per il legname e così via. Visto che i camion non possono andare a corrente elettrica, qualsiasi cosa che generi corrente non è una soluzione, quindi qualsiasi cosa generi elettricità non è una soluzione, né è probabile che la rete elettrica possa mai essere 100% rinnovabile (leggete “Quando i camion smettono di andare”, questa cosa non può essere spiegata così in breve), o che potremmo sostituire miliardi di motori diesel nel tempo che ci rimane.

Alice Friedemann www.energyskeptic.com autrice di “Quando i camion smettono di andare: energia e futuro dei trasporti”, 2015, Springer e di “Crunch! Chips e crackers di grano integrale”. Podcast: Practical Prepping, KunstlerCast 253, KunstlerCast278, Peak Prosperity, XX2 report


L’energia nucleare costa troppo

Le centrali nucleari statunitensi sono vecchie e in declino. Per il 2030, la generazione di energia nucleare potrebbe essere fonte di solo il 10% dell’energia elettrica, metà della produzione attuale, perché 38 reattori che producono un terzo dell’energia nucleare hanno superato i 40 anni di vita ed altri 33 reattori che producono un altro terzo di energia nucleare hanno più di 30 anni. Anche se ad alcuni verranno rinnovati i permessi, 37 reattori che producono metà dell’energia nucleare sono a rischio di chiusura per cause economiche, guasti, inaffidabilità, lunghe interruzioni, sicurezza e costosi aggiornamenti post Fukushima (Cooper 2013. L’energia nucleare è troppo costosa, 37 costosi reattori sono previsti in chiusura e Un terzo dei reattori nucleari moriranno di vecchiaia nei prossimi 10-20 anni).


Non vengono costruiti nuovi reattori perché ci voglioni anni per ottenere i permessi e devono essere raccolti dagli 8,5 ai 20 miliardi di dollari di capitale per una nuova centrale nucleare da 3.400 MW (O’Grady, E. 2008. Il luminare cerca un nuovo reattore. Londra: Reuters.). Questo è praticamente impossibile visto che una più sicura centrale a gas da 3.400 MW può essere costruita con 2,5 miliardi di dollari in metà tempo. Quale società di servizi vuole spendere miliardi di dollari es aspettare un decennio prima di ottenere un centesimo di introito e che venga generato un watt di elettricità?
Negli Stati Uniti ci sono 104 centrali nucleari (in gran parte costruite negli anni 70 e 80) che contribuiscono al 19% della nostra elettricità. Anche se tutte le centrali over 40 ottenessero il rinnovo per operare per 60 anni, a partire dal 2020 è improbabile che possano ottenere il rinnovo per altri 20 anni, quindi per il 2050 quasi tutte le centrali nucleari saranno fuori mercato. Joe Romm in “Il nucleare del rischio: un anno dopo Fukushima, l’energia nucleare rimane troppo costosa per essere una grande soluzione climatica” spiega in dettaglio perché l’energia nucleare è troppo costosa, per esempio:

  • I nuovi reattori nucleari sono costosi. Le recenti stime dei costi per le nuove singole centrali hanno superato i 5 miliardi (per esempio, vedete Scroggs, 2008; Servizio investimenti di Moody’s, 2008)
  • I nuovi reattori sono intrinsecamente costosi perché devono essere in grado di sopportare praticamente ogni rischio che si possa immaginare, compreso l’errore umano e i grandi disastri
  • Sulla base di un rapporto fondamentale del 2007, dovremmo aggiungere una media di 17 centrali ogni anno, costruendo una media di 9 centrali all’anno per sostituire quelli che verranno messi in pensione, per un totale di una centrale nucleare ogni due settimane per quattro decenni – più 10 Yucca Mountain per stoccare le scorie
  • Prima del 2007, le stime del prezzo di 4.000 dollari/kw del nucleare statunitense erano comuni, ma dall’ottobre del 2007 il rapporto del Servizio agli Investitori di Moody’s, “La nuova generazione nucleare negli Stati Uniti”, ha concluso: “Moody’s crede che il costo tutto compreso di un impianto generatore nucleare potrebbe aggirarsi a circa 5.000-6.000 dollari/kw”. 
  • Lo stesso mese, la Florida Power and Light, “un leader nella generazione di energia nucleare”, ha presentato la sua stima dettagliata del costo di nuove centrali nucleari alla Commissione di Servizio Pubblico della Florida. La stima ha concluso che due unità per un totale di 2.200 megawatt costerebbero dai 5.500 agli 8.100 dollari per kilowatt – da 12 18 miliardi di dollari!
  • Nel 2008, Progress Energy ha informato i legislatori di stato che le due centrali gemelle da 1.100 megawatt che intendevano costruire in Florida sarebbero costate 14 miliardi di dollari, cosa che “triplica le stime fatte dalla società di servizi più di un anno fa”. Sarebbero più di 6.400 dollari a kilowatt. (E questo non tiene nemmeno conto della linea di trasmissione lunga 320 km da 3 miliardi di dollari di cui ha bisogno la società di servizi, che farebbe salire il prezzo alla cifra impressionante di 7.700 dollari a kilowatt). 

Estratto da L’energia nucleare è il nostro futuro energetico o una spirale di morte? 6 marzo 2016, di Dave Levitan, Ensia:

In generale, più si accumula energia con una data tecnologia, meno costa costruirla. Ciò è stato illustrato drammaticamente dal crollo dei costi di energia eolica e solare. Il nucleare, tuttavia, è andato in controtendenza, dimostrando invece una specie di “curva di apprendimento negativa” nel tempo. 

Secondo la Union of Concerned Scientists (UCS), il costo reale di 75 dei primi reattori nucleari costruiti negli Stati Uniti hanno superato le stime iniziali di più del 200%. Più di recente, i costi hanno continuato a gonfiarsi. Sempre secondo la UCS, il prezzo di una centrale nucleare è balzato dai circa 2-4 miliardi di dollari del 2002 ai 9 miliardi di dollari nel 2008. Detto in un altro modo, il prezzo è schizzato da meno di 2.000 dollari statunitensi per kilowatt all’inizio del 2000 agli 8.000 dollari statunitensi a kilowatt nel 2008.   

Steve Clemmer, direttore di ricerca ed analisi energetica presso la UCS, non vede un cambiamento di questa tendenza. “Non vedo prove del fatto che vedremo i tipi di riduzione dei costi di cui parlano i sostenitori. Non molto scettico a riguardo – bello se succede, ma non vedo come”, dice. 

Alcuni progetti negli Stati Uniti sembrano fronteggiare ritardi e sforamenti ad ogni piè sospinto. Nel settembre 2015, un tentativo della Carolina del Sud di costruire due nuovi reattori in una centrale già esistente è stato ritardato di tre anni. In Georgia, una ordinazione di una centrale del proprietario Southern Co. del gennaio 2015 diceva che i suoi due reattori aggiuntivi avrebbero fatto fare un salto di 700 milioni di dollari al costo e avrebbe richiesto 18 mesi in più per essere costruita. Questi problemi hanno diverse cause, dai ritardi nei permessi a semplici errori di costruzione e non è probabile che si trovino soluzioni facili al problema.  

In Europa la situazione è analoga, con un paio di esempi particolarmente clamorosi che gettano una cappa sull’industria. La costruzione di un nuovo reattore della centrale finlandese di Olkiluoto 3 è iniziata nel 2005, ma non finirà prima del 2018, nove anni in ritardo e più di 5 miliardi di dollari americani oltre il preventivo. Un reattore in Francia, dove il nucleare è la fonte principale di energia elettrica, è sei anni in ritardo rispetto al programma e più del doppio più costosa di quanto preventivato.  

“La storia di 60 anni o più di costruzione di reattori non offre prove che i costi scenderanno”, dice Ramana. “Man mano che la tecnologia nucleare è maturata, i costi sono aumentati e tutte le indicazioni attuali sono che questa tendenza continuerà”.
Le centrali nucleari richiedono sistemi di rete enormi, visto che sono lontane dai consumatori di energia. Il Financial Times stima che questo richiederebbe l’investimento diecimila miliardi di dollari in tutto il mondo in sistemi elettrici nei prossimi 30 anni. 

In sintesi, gli investitori non investiranno in nuovi reattori perché:

  • Ci sono miliardi in gioco in responsabilità in caso di fusione o incidente
  • potrebbe esserci uranio sufficiente soltanto per alimentari le centrali esistenti
  • il costo per centrale lega il capitale troppo a lungo (possono servire 10 miliardi di dollari in 10 anni per costruire una centrale nucleare)
  • i costi di smantellamento sono molto alti
  • trattare in modo appropriato le scorie è costoso
  • non c’è luogo in cui mettere le scorie – nel 2009 il Segretario all’Energia Chu ha chiuso Yucca Mountain e non c’è sostituto in vista. 

Né il governo statunitense pagherà per i reattori nucleari, dato che l’opinione pubblica è contraria – il 72% ha detto no (su E&E news), non erano favorevoli al fatto che il governo pagasse i reattori nucleari tramite garanzie per miliardi di dollari di nuovi prestiti federali per i nuovi reattori.
Cembalest, un analista di J.P. Morgan, ha scritto “In qualche modo, il pollo nucleare era cotto dal 1992, quando il costo della costruzione di una centrale da 1 GW è aumentato di un fattor 5 (in termini reali) rispetto al 1972” (Cembalest).

Picco dell’uranio

Gli esperti di energia avvertono che una carenza acuta di uranio sta per colpire l’industria dell’energia nucleare. Il dottor Yogi Goswami, co-direttore del Centro di Ricerca per l’Energia Pulita dell’Università della Florida avverte che le riserve provate di uranio dureranno meno di 30 anni. Nel 2050, tutte le riserve provate e quelle non scoperte di uranio saranno finite. Le attuali centrali nucleari consumano circa 67.000 tonnellate di uranio di alta qualità all’anno. Con le attuali riserve mondiali di uranio di 5,5 milioni di tonnellate, ne abbiamo abbastanza da durare 42 anni. Se vengono costruite altre centrali, allora ci rimangono meno di 30 anni (Coumans).

La produzione di uranio ha raggiunto il picco negli anni 80 ma le disponibilità hanno continuato a soddisfare la domanda grazie al fatto che le armi nucleari smantellate dopo la Guerra fredda sono state convertite in combustibile commerciale. Quelle fonti ora stanno finendo e un nuovo picco dovuto alla domanda potrebbe essere all’orizzonte.

Il solo modo in cui potremmo estendere le nostre disponibilità di uranio è costruire reattori autofertilizzanti. Ma non abbiamo idea di come farlo e ci stiamo provando dagli anni 50.
La Cina ha accesso il suo diciannovesimo reattore nucleare in quanto vuole accelerare la sua generazione nucleare. Il paese pensa di accendere 8.64 GW di capacità di generazione nucleare nel 2014 rispetto ai 3,24 GW di nuova capacità del 2013. la disponibilità di uranio per l’industria nucleare cinese sta diventando un problema. Pechino potrebbe dover importare circa l’80% del suo uranio per il 2020, rispetto all’attuale 60%. Potrebbe persino non esserci abbastanza uranio per alimentare le centrali esistenti.

Fonte: Colorado Geological survey

L’energia nucleare è troppo pericolosa

Nel 2016, la prestigiosa rivista Science, sulla base delle lezioni apprese dalla Accademia Nazionale delle Scienze a Fukushima, ha scritto che un incendio di combustibile nucleare esaurito a Peach Bottom, in Pennsylvania, potrebbe costringere all’evacuazione di 18 milioni di persone.  Questo perché non c’è ancora un luogo dove mettere le scorie nucleari, che quindi vengono stoccate in piscine di acqua in situ che non si trovano dentro cupole di contenimento, ma all’aria aperta e un obbiettivo primario per i terroristi in oltre 100 località. Se l’energia elettrica mancasse per più di 10 giorni a causa di un disastro naturale, all’impulso elettromagnetico di un’arma nucleare/flare solare o qualsiasi altra ragione, queste piscine nucleari potrebbero incendiarsi e sputare radiazioni per molti chilometri quadrati e costringere milioni di persone ad evacuare. Vedete anche: Lo stato schioccante dei siti nucleari più rischiosi del mondo.

I pericoli delle scorie nucleari sono la ragione principale per cui la California e molti altri stati non permetto l’apertura di nuove centrali. Per scoprire di più sui pericoli delle scorie nucleari e sul perché non abbiamo un luogo dove stoccarle, leggete la recensione del libro “Troppo caldo da toccare”.
Greenpeace ha una critica dell’energia nucleare intitolata Pericoli dei reattori nucleari (2005) che fa le seguenti considerazioni:

  1. Man mano che le centrali nucleari invecchiano, i loro componenti diventano fragili, corrodono ed erodono. Questo può succedere a un livello microscopico che è rilevabile quando scoppia una tubatura. Man mano che una centrale invecchia, le possibilità di incidenti gravi aumentano. Anche se alcuni componenti possono essere sostituiti, guasti nel contenitore a pressione del reattore porterebbero a un rilascio catastrofico di materiale radioattivo. Il rischio di incidente nucleare cresce significativamente ogni anno dopo 20 anni, L’età media delle centrali in tutto il mondo ora è di 21 anni.
  2. In un blackout, se i generatori di emergenza non si accendono, c’è il rischio di una fusione. Questo è accaduto di recente in Svezia alla centrale elettrica di Fosmark nel 2006. Un ex direttore ha detto: “E’ stata una pura fortuna che non ci sia stata una fusione. Visto che la fornitura elettrica dalla rete non ha funzionato come avrebbe dovuto, avrebbe potuto essere una catastrofe”. Ancora poche ore e si sarebbe potuta verificare una fusione. Non dovrebbe sorprendere nessuno che i blackout diventeranno sempre più comuni e più lunghi man mano che l’energia declina. 
  3. Le centrali nucleari di terza generazione sono maiali col rossetto – sono solo centrali di seconda generazione travestite – non sono più sicure delle centrali esistenti. 
  4. Molti guasti sono dovuti ad errore umano e questo sarà sempre così, a prescindere da quanto siano ben progettate le future centrali.
  5. Le centrali nucleari sono obbiettivi attraenti per i terroristi ora e nelle future guerre di risorse. Ci sono dozzine di modi per attaccare centrali nucleari e di ritrattamento. Sono obbiettivi non solo per l’enorme numero di morti che potrebbero causare, ma come fonte di plutonio per fare bombe nucleari. Ce ne vogliono solo pochi chili per fare un’arma e pochi microgrammi per causare il cancro. 

Se Greenpeace ha ragione sui rischi che aumentano dopo i 20 anni, allora è destinato ad esserci un incidente di fusione entro 10 anni, cosa che renderebbe quasi impossibile raccogliere il capitale. (E infatti c’è stato, Fukushima ha avuto una fusione nel 2011). E’ già difficile trovare il capitale, perché i proprietari vogliono essere completamente esenti dai costi di fusioni nucleari ed altri incidenti. Ecco perché non sono state costruite nuove centrali per decenni negli Stati Uniti.

Anche l’EROEI potrebbe essere troppo basso per gli investitori. Se considerate l’energia necessaria per costruire una centrale nucleare, che necessita di una quantità enorme di cemento, tubi d’acciaio ed altre infrastrutture, potrebbe servire un tempo lungo perché l’energia di ritorno paghi l’energia investita. La costruzione delle centrali nucleari statunitensi degli anni 70 richiedeva 40 tonnellate di acciaio e 190 metri cubi di cemento per megawatt medio di capacità di generazione di elettricità (Peterson 2003). La quantità di gas serra emessi durante la costruzione è un’altra ragione per cui molti ambientalisti si sono allontanati dall’energia nucleare. I costi del trattamento delle scorie nucleari sono andati alle stelle. Un impianto di trattamento immensamente costoso per la pulizia della centrale nucleare di Hanford è passata dal costo di 4,3 miliardi di dollari nel 2000 a 12,2 miliardi di dollari di oggi. Se l’impianto di trattamento finale verrà mai costruito, sarà alto 12 piani e lungo come 12 campi da football (Dininny 2006).

Ci vuole troppo tempo per costruire centrali nucleari

Ci vogliono spesso più di 10 anni per costruire una centrale nucleare perché ci vogliono anni per avere i permessi, fabbricare i componenti ed altri 4-7 anni per costruire materialmente. Questo è un tempo d’attesa troppo lungo per gli investitori, che vogliono dei ritorni molto più rapidi di questi. I tecno ottimisti possono obiettare che qualche tipo di reattore moderno potrebbe essere costruito più rapidamente. Ma l’opinione pubblica ha paura dei reattori (giustamente), quindi è destinato a procedere lentamente, in quanto le proteste delle persone chiederanno ispezioni più severe ad ogni passo del percorso. L’opinione pubblica è preoccupata anche dai problemi di stoccaggio a lungo termine delle scorie. Quindi anche un reattore piccolo e semplice avrebbe diversi ostacoli da superare.

I mercati finanziari sono cauti ad investire in nuove centrali nucleari finché non sarà dimostrato che possano essere costruite secondo i preventivi e nei tempi stabiliti. Non sono state costruite centrali nucleari per decenni negli Stati Uniti, ma ci sono ricordi spiacevoli, perché la costruzione di alcune delle attuali centrali in opera è stata associata al superamento dei costi e a ritardi consistenti. C’è anche un divario significativo fra quando inizia la costruzione e quando si realizzano ritorni sugli investimenti.

Una crisi irrigidirà l’opinione pubblica contro la costruzione di nuove centrali nucleari

Ho scritto questa sezione prima del disastro di Fukushima e ci saranno altri disastri man mano che le vecchie centrali nucleari, usate oltre il loro tempo di vita e spinte a produrre elettricità a pieno regime, cedono ai molti pericoli descritti in dettaglio dal rapporto di Greenpeace International “I pericoli dei reattori nucleari”. E’ solo una questione di tempo perché i nostri reattori fondano. Quando questo accade, l’opinione pubblica combatterà lo sviluppo di ulteriori centrali nucleari. Altri fattori oltre all’età che potrebbero causare un disastro sono i disastri naturali, i guasti della rete elettrica, l’aumento di alluvioni e siccità più gravi, le condizioni meteorologiche più instabili dovute al cambiamento climatico, la mancanza di personale man mano che i lavoratori anziani vanno in pensione con pochi ingegneri istruiti disponibili per sostituirli.

Persino Edward Teller, padre della bomba all’idrogeno, pensava che le centrali nucleari fossero pericolose e dovessero essere messe sottoterra per sicurezza in caso di guasto e per renderne più facile la sistemazione. Cinque dei sei reattori della centrale di Fukushima in Giappone erano reattori mark 1. Trentacinque anni fa, Dale G. Bridenbaugh e due dei suoi colleghi della General Electric si sono licenziati dopo che si è convinto che il progetto del reattore nucleare Mark 1 che stavano revisionando era così sbagliato che poteva portare a un incidente devastante (Mosk). Le centrali nucleari sono obbiettivi estremamente attraenti per i terroristi e in una guerra. L’uranio non è immagazzinato solo al centro, ma nell’area delle “scorie” vicino alla centrale, fornendo un sacco di materiale per bombe atomiche “sporche” o esplosive. Per i dettagli, leggete il documento originale o il mio riassunto del rapporto di Greenpeace.

EROEI e smantellamento

Vedete: Smantellare un reattore nucleare
L’energia per costruire, smantellare, trattare le scorie, ecc. potrebbe essere di più di quella che l’impianto genererà mai, un EROEI negativo. Una revisione di Charles hall et al. degli studi sull’energia netta dell’energia nucleare ha scoperto che i dati sono “idiosincratici, pregiudiziali e poco documentati” ed ha concluso che le informazioni più affidabili sull’EROEI erano troppo vecchie per essere utilizzabili (i risultati variavano da 5:1 a 8:1) I dati più nuovi erano ingiustificabilmente ottimistici (15:1 o più) o pessimistici (bassi, persino meno di 1:1). Una delle principali ragioni per cui l’EROEI è basso è a causa delle enormi quantità di energia usata per costruire le centrali nucleari, cosa che crea una grande quantità di emissioni di gas serra.

Scala

“Per produrre energia nucleare sufficiente ad uguagliare l’energia che otteniamo attualmente dai combustibili fossili, si dovrebbero costruire 10.000 delle più grandi centrali nucleari possibili. Si trata di un’iniziativi enorme e probabilmente non fattibile e a quel tasso di combustione le nostre riserve conosciute di uranio durerebbero soltanto 10 o venti anni”. (Goodstein). Ci sono abbastanza siti per 10.000 centrali vicino all’acqua per il raffreddamento ma non troppo in basso per evitare che l’aumento del livello dei mari le distrugga o che le siccità rimuovano le disponibilità di acqua per il raffreddamento?

Personale

L’energia nucleare è stata impopolare per molto tempo che non ci sono abbastanza ingegneri nucleari, operatori di centrale e progettisti, o aziande produttrici da portare rapidamente in scala (Torres 2006). Il numero di certificati della Società Americana di Ingegneria Meccanica (ASME) ottenuti in tutto il mondo è crollato da 600 nel 1980 a 200 nel 2007. C’è anche una insufficiente disponibilità di persone con la necessaria preparazione o formazione in un momento in cui venditori, contractor, architetti, ingegneri, operatori e legislatori staranno cercando di mettere insieme il loro personale. In aggiunta, il 35% del personale negli impianti nucleari statunitensi sono vicini alla pensione nei prossimi 5-10 anni.

Potrebbero esserci carenze di certi pzzi di ricambio e componenti (specialmente grandi pezzi forgiati), così come di mestieri qualificati e personale tecnico, se l’energia nucleare si espande significativamente in tutti il mondo. Ci sono meno fornitori di pezzi di ricambio e componenti nucleari ora che in passato.

Proliferazione nucleare e obbiettivi del terrorismo

Possiamo davvero impedire che dei dittatori folli usino plutonio ed altre scorie nucleari per fare la guerra per 30.000 anni? Anche se una bomba nucleare fosse oltre le capacità della società in futuro, le scorie potrebbero essere usate per fare bombe sporche. Nel frattempo, i reattori costituiscono dei buoni obbiettivi per i terroristi che hanno i soldi per assumere scienziati che li aiutino a fare una bomba nucleare dell’uranio rubato o dal plutonio.

Acqua

Le centrali nucleari devono essere costruite vicino all’acqua per il raffreddamento e ne usano una quantità enorme. Gli scienziati sono sicuri che il riscaldamento globale farà aumentare il livello del mare – circa la metà delle centrali nucleari esistenti verrebbe allagata. Il cambiamento climatico causerà siccità più lunghe e gravi, col potenziale di far restare le centrali senza acqua di raffreddamento sufficiente, e tempeste più gravi porteranno più uragani e tornado.

Sindrome NIMBY

Non sottovalutate mai la sindrome NIMBY, che sta già impedendo alle centrali nucleari di essere costruite. L’opposizione politica alla costruzione di migliaia di centrali nucleari sarà impossibile da superare.

Nessun buon modo di immagazzinare l’energia

Una delle necessità cruciali dell’energia elettrica è è un modo per immagazzinarla. Accumulatori su scala non sono stati inventati nonostante decenni di ricerca ed esistono solo poche materie prime sulla terra per costruire batterie NaS ad un costo di oltre 44 trilioni di dollari che occuperebbero 2448 kmq di territorio (Friedemann 2015). Una grande quantità di energia elettrica generata dovrebbe essere usata per sostituire i miliardi di macchine e veicoli con motore a combustione  piuttosto che fornire calore, raffrescamento, energia per cucinare e luce a case ed uffici. Ci vogliono decenni per passare da una fonte energetica ad un’altra. E’ difficile vedere come si possa ottenere questo senza grande disagio e caos sociale, cosa che rallenterebbe il processo di conversione. E’ probabile che la disperazione porti al furto di componenti importanti della nuova infrastruttura per vendere il metallo di scarto, come sta già succedendo a Baltimora dove vengono rubati lampioni di 9 metri vengono rubati (Gately 2005).

Reattori autofertilizzanti. Servirebbero 24.000 reattori autofertilizzanti, ognuno di essi una potenziale bomba nucleare (Mesarovic)

  • Sappiamo dal 1969 che avevamo bisogno di costruire reattori autofertilizzanti per allungare il tempo di vita del materiale radioattivo a decine di migliaia di anni e per ridurre le scorie radioattive generate, ma ancora non sappiamo come farlo. (NAS) 
  • Se ma dovessimo riuscirci, questi reattori sono molto più vicini ad essere bombe nucleari di quelli convenzionali – gli effetti di un incidente sarebbero catastrofici economicamente e per il numero di vite perse se succedesse vicino ad una città (Wolfson). 
  • Il prodotto di scarto di una reazione autofertilizzante è il plutonio. Il plutonio 239 ha un tempo di dimezzamento di 24.000 anni. Come possiamo garantire che nessun terrorista o dittatore userà mai questo materiale per costruire una bomba nucleare o una bomba sporca in questo periodo di tempo? 

Ipotizzate, come vogliono che facciamo i tecno ottimisti, che in 100 anni tutta l’enegia primaria sarà nucleare. Seguendo i modelli storici ed ipotizzando un quadruplicarsi della popolazione non improbabile, avremo bisogno, per soddisfare le richieste di energia del mondo, di 3.000 “parchi nucleari”, ognuno consistente, diciamo, di 8 reattori autofertilizzanti. Questi 8 reattori, lavorando al 40% di efficienza, produrranno collettivamente 40 milioni di kilowatt di elettricità. Pertanto, ognuno dei 3.000 parchi nucleari convertirà energia nucleare primaria equivalente a 100 milioni di kilowatt termici. I più grandi reattori nucleari attualmente in funzione convertono circa 1 milione di kilowatt (elettrici), ma noi daremo il beneficio del dubbio ed ipotizzeremo che i nostri 24.000 reattori mondiali siano in grado di convertire 5 milioni di kilowatt ciascuno. Per produrre l’energia mondiale fra 100 anni, quindi, dovremo costruire appena ogni anno da adesso ad allora, 4 reattori a settimana! A quella cifra non tiene conto del tempo di vita dei reattori nucleari. Se i nostri reattori nucleari futuri durano in media 30 anni, alla fine dovremo aver costruito 2 reattori al giorno per sostituire quelli esausti. Nel 2025, affidarsi al solo nucleare richiederebbe più di 50 grandi installazioni nucleari, in media, in ogni stato dell’unione.

Ai fini di questa discussione, non teniamo conto se questo tasso di costruzione sia tecnicamente ed organizzativamente fattibile in vista del fatto che, al momento, i tempi di consegna per la costruzione di centrali molto più piccole e più semplici è dai sette ai dieci anni. Non teniamo neanche conto del costo di circa 2.000 miliardi di dollari all’anno – o il 60% della produzione mondiale totale di 3.400 miliardi di dollari – solo per sostituire i reattori usurati e la disponibilità di capitale di investimento. Potremmo anche ipotizzare di poter trovare impianti di stoccaggio sicuri per i reattori dismessi e i loro macchinari accessori irradiati ed anche per le scorie nucleari. Ipotizziamo che la tecnologia si sia occupata di tutti questi grandi problemi, lasciandoci solo qualche bazzecola di cui occuparci.
Per far funzionare 24.000 reattori autofertilizzanti, avremmo bisogno di trattare e trasportare, ogni anno, 15 milioni di kg (16.500 tonnellate) di plutonio 239, il materiale chiave della bomba atomica di Hiroshima.

Servono solo 250 grammi di plutonio per costruire una bomba. Se inalati, slo dieci microgrammi di plutonio 239 è probabile che causino un cancro al polmone fatale. Una palla di plutonio della dimensione di un chicco d’uva contiene veleno sufficiente ad uccidere quasi tutte le persone in vita oggi. Inoltre, il plutonio 239 ha una vita radioattiva di più di 24.000 anni. Ovviamente con molto più plutonio in mano, ci saranno problemi tremendi nella salvaguardia dei pachi nucleari – non uno o due, ma 3.000. E che dire del loro posizionamento, della sovranità nazionale e della giurisdizione? Un paese può permettersi una protezione inadeguata in un paese vicino quando il più piccolo incidente potrebbe avvelenare le terre adiacenti e le popolazioni per migliaia e migliaia di anni? E chi deve decidere cosa costituisce una protezione adeguata, specialmente in caso di agitazione sociale, guerra civile, guerra fra nazioni o anche solo quando un leader nazionale cade per un caso di nevrosi? Le vite di milioni di persone potrebbero facilmente essere legate ad un singolo individuo audace e sconsiderato.

Riferimenti

Cembalest, M.21 Nov 2011. Occhio al mercato. La ricerca donchisciottesca di soluzioni energetiche.
J P Morgan Coumans, C.  4 Sep 2010. Riserve di uranio in essere per il 2050. Deccan Chronicle

Dininny, S. 7 Settembre 2006. Il costo del trattamento delle scorie della centrale di Hanford arrivano a 12,2 miliardi. The Olympian / Associated Press.
Friedemann, A. 2015. Quando i camion smettono di andare: energia e futuro dei trasporti. Springer.

Gately, G. 25 Nov 2005. Pali della luce scomparsi – si pensa vengano venduti come rottami da ladri. 130 impianti stradali sono stati abbattuti a Baltimora. New York Times.

Goodstein, D. April 29, 2005. Trascrizione della conferenza La fine dell’era del petrolio

(Greenpeace) H. Hirsch, et al. 2005. Pericoli dei reattori nucleari: pericoli attuali dell’utilizzo di tecnologia nucleare nel XXI secolo http://www.greenpeace.org/raw/content/international/press/reports/nuclearreactorhazards.pdf

Heinberg, Richard. Settembre 2009. Alla ricerca di un miracolo. “Energia netta, limiti e il destino della società industriale. Post Carbon Institute.
Hoyos, C. 19 OCT 2003 Il settore elettrico ‘ha bisogno di 1..000 miliardi di dollri nei prossimi 30 anni’. Financial Times.

Mesarovic, Mihajlo, et al. 1974. Specie umana al punto di svolta: Il secondo rapporto al Club di Roma.  E.P. Dutton, 1974 pp. 132-135

Mosk, M. 15 Mar 2011. Fukushima: il progetto del reattore nucleare Mark 1 ha causato le dimissioni per protesta dello scienziato della GE. ABC World News.
(NAS) “E’ chiaro, pertanto, che per la transizione ad un programma completo di reattori autofertilizzanti prima che la disponibilità iniziale di uranio 235 sia esaurita, possono essere rese disponibili forniture molto più ampie di quelle esistenti ora. Il fallimento nel fare questa transizione costituirebbe uno dei più grandi disastri della storia umana” Accademia Nazionale delle Scienze. 1969.

Risorse e uomo. W.H.Freeman, San Francisco. 259.

Peterson, P. 2003. Gli Stati Uniti avranno bisogno di un secondo deposito geologico? The Bridge 33 (3), 26-32.

Torres, M. “Esaurimento dell’uranio ed energia nucleare. Siamo al picco dell’uranio?” http://www.theoildrum.com/node/2379#more

Wolfson, R. 1993. Scelte nucleari: guida per il cittadino alla tecnologia nucleare. MIT Press

Per vedere quali centrali sono aperte, in chiusura o in costruzione (excel):

Appendice A: Reattori commerciali ad energia nucleare degli Stati Uniti – Reattori in funzione

Appendice C: Reattori commerciali ad energia nucleare degli Stati Uniti – Reattori ad energia nucleare autorizzati ad operare in precedenza

Appendice D: Reattori commerciali ad energia nucleare annullati
Commissione di regolamentazione nucleare degli Stati Uniti 2014-2015 Compendio informativo. Materiali nucleari, scorie tossiche, reattori nucleari, sicurezza nucleare.

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