Author: Massimiliano Rupalti (Rupo)

La sensitività della Terra al cambiamento climatico: il doppio delle stime precedenti

Da “The Geological Society”. Traduzione di MR

La sensitività del clima terrestre al CO2 potrebbe essere doppia di quanto precedentemente stimato, secondo una dichiarazione pubblicata dalla Società Geologica di Londra. In un allegato a “Cambiamento climatico: prove dalle registrazioni geologiche” del 2010, la dichiarazione nota che molti modelli climatici di solito guardano a breve termine, a fattori rapidi, mentre calcolano la sensitività climatica terrestre – definita come l’aumento della temperatura globale terrestre apportato da un raddoppio del CO2 atmosferico. E’ risaputo che un raddoppio dei livelli del CO2 atmosferico potrebbero sfociare in aumenti di temperatura fra 1,5 e 4,5°C, a causa dei rapidi cambiamenti come la fusione di neve e ghiaccio e il comportamento delle nuvole e del vapore acqueo. Le prove geologiche da studi del cambiamento climatico passato ora suggeriscono che se viene tenuto conto di fattori a lungo termine, come lo scioglimento delle grandi calotte polari e l’effetto del ciclo del carbonio, la sensitività della Terra ad un raddoppio di CO2 potrebbe essere doppio rispetto a quanto previsto da gran parte dei modelli climatici. Il dottor  Colin Summerhayes, che ha condotto il gruppo che ha fatto la bozza della dichiarazione, dice che “gli studi geologici del cambiamento climatico passato stanno gettando una luce nuova su come potrebbe rispondere la Terra alle emissioni di CO2 in aumento. La sensitività climatica suggerita dai moderni modelli climatici potrebbe essere buona per il breve termine, ma non comprende la gamma completa di cambiamento atteso sul lungo termine mentre il clima terrestre si sposta lentamente verso l’equilibrio”.

I livelli di carbonio atmosferici sono attualmente appena al di sotto delle 400 ppm – una cifra vista l’ultima volta durante il Pliocene, fra i 5,3 e i 2,6 milioni di anni fa. A quel tempo, le temperature globali erano di 2-3° superiori a quelle di oggi e i livelli del mare erano di diversi metri più alti, a causa della parziale fusione della calotta glaciale dell’Antartide. Se l’attuale tasso di aumento (2 ppm all’anno) continuasse, i livelli di CO2 potrebbero raggiungere le 600 ppm per la fine del secolo; livelli che, dice Summerhayes, “non si sono visti per 24 milioni di anni”. La dichiarazione sottolinea le prove secondo le quali un aumento relativamente modesto dei livelli atmosferici di CO2 e della temperatura risulterebbe in un aumento significativo del livello del mare, come nel Massimo Termico del Paleocene-Eocene (Paleocene-Eocene Thermal Maximum – PETM) di 55 milioni di anni fa che ha causato crisi marine ed estinzioni e con il sistema terrestre che ha impiegato circa 100.000 anni per recuperare. “Ora siamo ancora più sicuri dalle registrazioni geologiche” dice Summerhayes, “che la sola spiegazione plausibile per l’attuale riscaldamento è l’aumento esponenziale senza precedenti del CO2 e di altri gas serra. Le recenti raccolte di dati sul clima del passato, insieme ai calcoli astronomici, mostrano che i cambiamenti dell’orbita e dell’asse terrestri hanno raffreddato il mondo negli ultimi 10.000 anni. Normalmente ci si sarebbe aspettati che questo raffreddamento continuasse per almeno altri 1000 anni. “Tuttavia le registrazioni paleoclimatiche dell’Artico mostrano che il periodo 1950-200 è stato il più caldo intervallo di 50 anni in 2000 anni. Dovremmo raffreddarci ma non lo facciamo”.

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Nessun negazionista in trincea: l’industria delle assicurazioni affronta la realtà climatica.

Da “Climate crocks”. Traduzione di MR

Le linee verdi sono tempeste di vento ed eventi alluvionali. La linea rossa sono eventi geofisici.

I negazionisti climatici negano queste intrusioni fastidiose di realtà. Per i giganti assicurativi come Munich Re e i Llyods di Londra, il cambiamento climatico è una realtà che si manifesta dove fa più male, sui libri contabili. Il lungo estratto che segue è una ricerca piuttosto straordinaria per una pubblicazione mainstream e merita un’occhiata.

Globe e Mail:

In conseguenza alle alluvioni in Germania e Canada, le vittime, gli assicuratori, i media, i politici e gli scienziati ponevano tutti le stesse domande: cosa le ha causate? E’ stato l’inarrestabile accumulo di biossido di carbonio? Possono gli eventi atmosferici “estremi” diventare la nuova normalità o sono atti di Dio di una volta ogni millennio?

Negli uffici della Munich Re non c’era grande dibattito visto che gli assegni per i danni volavano via dalla porta: la maggior frequenza degli eventi atmosferici estremi è influenzata dal cambiamento climatico e il cambiamento climatico recente è in gran parte dovuto alla combustione di idrocarburi. “Sono piuttosto convinto che gran parte del cambiamento climatico sia causato dall’attività umana”, dice Peter Höppe, responsabile dei rischi geologici alla Munich Re.

La sua dichiarazione non è notevole, anche se i grandi assicuratori americani non amano mettere le parole “cambiamento climatico” e “antropogenico” nella stessa frase. Ciò che è notevole è che la Munich Re ha avvertito rispetto al riscaldamento globale già nel 1973, quando ha notato che i danni da alluvione stavano aumentando. E’ stata la prima grande compagnia a farlo – due decenni prima che il Summit per la Terra a Rio de Janeiro innescasse un attacco d’ansia planetario pubblicizzando i concetti di “riscaldamento globale” e “cambiamento climatico”. 


Da un powerpoint di Peter Hoeppe di Munich Re. La pubblicazione de Munich Re del 1973 che avvertiva degli impatti degli eventi estremi dovuti al cambiamento climatico. 

Munich Re, Swiss Re ed altri riassicuratori, insieme al mercato assicurativo dei Lloyd’s di Londra  (non collegato alla banca dallo stesso nome), emergono dal resto del mondo degli affari per il fatto di essere sulla stessa frequenza degli scienziati sul cambiamento climatico. Per di più, mentre gran parte del pianeta  tiene la testa nella sabbia rispetto alla realtà ed alle richieste del riscaldamento globale, l’industria delle riassicurazioni è già andata avanti nel padroneggiare la matematica di altre catastrofi. 

Höppe è compatto, intenso ed entusiasta. Un po’ sgualcito, come uno scienziato da Central Casting, ama sostenere le proprie dichiarazioni con fonti ufficiali, saltando in in continuazione, durante l’intervista, a recuperare documenti. Il documento del 1973 che stampa per me è una fonte di orgoglio all’interno della compagnia, che si autodefinisce “la prima a dare l’allarme sul riscaldamento globale”. L’avvertimento annota “l’aumento della temperatura dell’atmosfera terrestre [a causa del quale i ghiacciai e le calotte polari recedono, le superfici dei laghi sono ridotte e le temperature dell’oceano aumentano]”. Punta al “aumento del contenuto di CO2 nell’aria, che causa un cambiamento nell’assorbimento dell’energia solare”. 

L’avviso termina con un impegno: “Vogliamo ingrandire su questo complesso di problemi più in dettaglio, specialmente perché – per quanto ne sappiamo – il suo impatto sulle tendenze del rischio a lungo raggio al momento non sono state esaminate”. 

L’impegno è stato mantenuto. Munich Re ha esaminato il cambiamento climatico da allora, compilando il database più esteso del mondo sui disastri naturali, coprendo circa 33.000 eventi avvalendosi della ricerca del proprio staff e più di 200 altre fonti. “Non c’è stata nessuna industria o azienda che abbia affrontato il cambiamento climatico così presto”, dice.

Come mai Munich Re e gli altri riassicuratori lo hanno capito così presto? La risposta, in una parola, è paura – paura delle perdite che potrebbero distruggere i loro affari. Nessuna industria ha più incentivo a conoscere gli effetti del cambiamento climatico delle industrie di assicurazione e riassicurazione. 
LONDRA, 30 novembre – L’industria dell’assicurazione non ama il cambiamento climatico. Il riscaldamento globale sta introducendo un elemento completamente nuovo nella questione della quantificazione del rischio – la funzione fondamentale del mercato assicurativo. Una delle sfide principali che affrontano gli assicuratori è l’aumentata frequenza di alluvioni in molti paesi. 

Il Regno Unito è uno dei centri principali di assicurazione nel mondo: un recente seminario all’Università di Oxford ha esaminato i modelli delle alluvioni in Gran Bretagna duranti gli ultimi anni. 

Non solo l’incidenza delle alluvioni sta aumentando, sta anche diventando sempre più imprevedibile. “Nessuna azienda, in particolare l’industria dell’assicurazione, ama la volatilità”, dice Matt Cullen, un esperto in alluvioni presso l’Association of British Insurers (ABI). “Non c’è dubbio che c’è stata un’escalation di alluvioni nel Regno Unito dagli anni 90 e questo tende a spaventare gli assicuratori. E la situazione può solo peggiorare col cambiamento climatico”. 

Valutare quando e dove avvengono le alluvioni è un affare molto complicato, dice il Professor Edmund Penning-Rowsell, della Scuola di Geografia e Ambiente di Oxford. Le alluvioni sono episodiche e possono essere anche molto localizzate, dice: un’area particolare potrebbe essere alluvionata per due anni consecutivamente e poi essere secca per 10 anni – mentre un’altra, precedentemente secca, vede le acqua alzarsi e le case distrutte. 


La ABI dice che i costi collegati alle alluvioni nel Regno Unito sono aumentati drammaticamente: nel periodo dal 2000 al 2010, l’industria ha sborsato 4,5 miliardi di sterline (7,2 miliardi di dollari americani) a coloro le cui case o aziende sono state colpite da alluvioni – un aumento del 200% negli esborsi del decennio precedente. 

Nell’ambito di un accordo di lunga durata fra il Governo inglese e l’industria delle assicurazioni, gli assicuratori hanno garantito che la copertura sarebbe stata disponibile per i possessori di case – anche quelle giudicate essere in aree ad alto rischio di alluvione – nella misura in cui le autorità continuassero a spendere soldi nei lavori di prevenzione delle alluvioni. 

Quell’accordo è terminato a metà 2013: in una mossa attentamente osservata in altre parti del mondo, i gruppi di assicurazione britannici e il governo ora stanno cercando di trovare una formula che garantisca sia la copertura del rischio continuo di alluvione per i possessori di case in futuro sia l’assicurazione della fattibilità finanziaria continua dell’industria dell’assicurazione. 

Spesso, dicono gli analisti delle assicurazioni, sono i più poveri nella società che vivono nelle case più esposte al rischio alluvioni. Se ci fosse uno spostamento verso il ‘libero per tutti’ nel mercato assicurativo, quelle famiglie troverebbero comunque impossibile trovare assicurazione – o sarebbero costrette a pagare premi molto costosi a broker specialisti. 

La ABI sta proponendo di approntare un nuovo schema chiamato Flood Re, che fornirebbe assicurazione a quello che dice sarebbe un livello sostenibile per coloro che sono più a rischio alluvione. Flood Re gestirebbe un fondo multimilionario in sterline – finanziato da un prelievo generale su tutte la polizze assicurative delle famiglie – che coprirebbe i costi dei risarcimenti per le alluvioni. 

Il governo ha fatto un tentativo di approvazione all’idea. Tuttavia, lo schema dipende da continue spese governative nella costruzione di difese dalle alluvioni. 

Secondo le cifre del governo britannico, circa 5,2 milioni di proprietà nella sola Inghilterra – che significa una ogni 6 proprietà nel paese – sono a rischio alluvione, sia da parte di fiumi, sia da parte del mare, sia dalle acque alluvionali di superficie.  

Al momento il Regno Unito sta spendendo circa 600 milioni di sterline (960 milioni di dollari) all’anno fermare le alluvioni. Il governo ammette che, solo per mantenere gli attuali livelli di protezione dalle alluvioni, le spese dovranno aumentare di circa l’80% per il 2035. E questa stima, dicono i funzionari, non comprende i costi di gestione del rischio delle alluvioni da parte di acqua di falda o di superficie. – Climate News Network
Vale la pena di considerare in questa discussione:  Eli Lehrer, fondatore dell’Istituto R Street ed ex fondatore del negazionista Heartland Institute, ha rotto qualche anno fa coi suoi colleghi per, fra le altre ragioni, per i suoi dubbi riguardo la negazione della scienza nella destra coi suoi colleghi di “think” tank. La competenza specifica di Leher e sull’industria delle assicurazioni. Scrive Leher:
Da un lato, se si mette in dubbio l’opinione di una schiacciante maggioranza di scienziati, l’industria delle assicurazioni fornisce un altro grande fonte di dati. Dato che le previsioni del tempo accurate e obbiettive sono cruciali per la prosperità degli affari degli assicuratori, il fatto che l’industria accetti ampiamente che il cambiamento climatico sia reale e che è probabile che sia un problema dovrebbe essere preso seriamente da chiunque creda nel potere dei mercati di raccogliere informazioni. Se gli assicuratori non fossero preoccupati dal cambiamento climatico, questo sarebbe una prova forte che i politici, i media o gli scienziati hanno gonfiato il problema oltre quello che merita. 
Infatti, ogni grande assicuratore di proprietà include proiezioni legate al cambiamento climatico nei propri modelli. Ogni grande assicuratore di proprietà di cui io sappia, considera la probabilità che le catastrofi collegate al cambiamento climatico siano una minaccia operativa futura. Gli assicuratori di proprietà più piccoli fanno meno pianificazione a lungo termine ed è meno probabile che facciano uso di proiezioni sul cambiamento climatico, ma sentono comunque l’impatto di quelle proiezioni in termini di quanta riassicurazione possono pagarsi e a quale prezzo.
Infine, uno studio del NOAA, abbastanza appropriato, a firma di Adam Smith, nota:
Una tendenza in aumento nelle perdite annuali complessive è dimostrato essere principalmente attribuibile ad un aumento statisticamente significativo della tendenza di circa il 5% all’anno nella frequenza dei disastri da miliardi di dollari. Quindi emerge la questione di quanto tali stime della tendenza siano affette da incertezze o pregiudizi nei dati dei disastri da miliardi di dollari. L’effetto netto di tutti i pregiudizi sembra essere una sottostima della perdita media. In particolare, viene mostrato che l’approccio fattoriale può risultare in una considerevole sottostima della perdita media di circa il 10-15%. Siccome questo pregiudizio è sistematico, ogni tendenza nelle perdite da cicloni tropicali appare essere robusta alle variazioni nei tassi di partecipazione delle assicurazioni. Ogni attribuzione delle tendenze in aumento marcate delle perdite delle coltivazioni è complicata da una grande espansione del programma federala di sussidio alle coltivazioni, come conseguenza che comprende più terra marginale. Le raccomandazioni riguardo a come la metodologia corrente possa essere migliorata per aumentare la qualità dei dati sui disastri da miliardi di dollari comprendono l’affinamento dell’approccio fattoriale per prendere più realisticamente in considerazione le variazioni spaziali e temporali nei tassi di partecipazione alle assicurazioni. 


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Nessun negazionista in trincea: l’industria delle assicurazioni affronta la realtà climatica.

Da “Climate crocks”. Traduzione di MR

Le linee verdi sono tempeste di vento ed eventi alluvionali. La linea rossa sono eventi geofisici.

I negazionisti climatici negano queste intrusioni fastidiose di realtà. Per i giganti assicurativi come Munich Re e i Llyods di Londra, il cambiamento climatico è una realtà che si manifesta dove fa più male, sui libri contabili. Il lungo estratto che segue è una ricerca piuttosto straordinaria per una pubblicazione mainstream e merita un’occhiata.

Globe e Mail:

In conseguenza alle alluvioni in Germania e Canada, le vittime, gli assicuratori, i media, i politici e gli scienziati ponevano tutti le stesse domande: cosa le ha causate? E’ stato l’inarrestabile accumulo di biossido di carbonio? Possono gli eventi atmosferici “estremi” diventare la nuova normalità o sono atti di Dio di una volta ogni millennio?

Negli uffici della Munich Re non c’era grande dibattito visto che gli assegni per i danni volavano via dalla porta: la maggior frequenza degli eventi atmosferici estremi è influenzata dal cambiamento climatico e il cambiamento climatico recente è in gran parte dovuto alla combustione di idrocarburi. “Sono piuttosto convinto che gran parte del cambiamento climatico sia causato dall’attività umana”, dice Peter Höppe, responsabile dei rischi geologici alla Munich Re.

La sua dichiarazione non è notevole, anche se i grandi assicuratori americani non amano mettere le parole “cambiamento climatico” e “antropogenico” nella stessa frase. Ciò che è notevole è che la Munich Re ha avvertito rispetto al riscaldamento globale già nel 1973, quando ha notato che i danni da alluvione stavano aumentando. E’ stata la prima grande compagnia a farlo – due decenni prima che il Summit per la Terra a Rio de Janeiro innescasse un attacco d’ansia planetario pubblicizzando i concetti di “riscaldamento globale” e “cambiamento climatico”. 


Da un powerpoint di Peter Hoeppe di Munich Re. La pubblicazione de Munich Re del 1973 che avvertiva degli impatti degli eventi estremi dovuti al cambiamento climatico. 

Munich Re, Swiss Re ed altri riassicuratori, insieme al mercato assicurativo dei Lloyd’s di Londra  (non collegato alla banca dallo stesso nome), emergono dal resto del mondo degli affari per il fatto di essere sulla stessa frequenza degli scienziati sul cambiamento climatico. Per di più, mentre gran parte del pianeta  tiene la testa nella sabbia rispetto alla realtà ed alle richieste del riscaldamento globale, l’industria delle riassicurazioni è già andata avanti nel padroneggiare la matematica di altre catastrofi. 

Höppe è compatto, intenso ed entusiasta. Un po’ sgualcito, come uno scienziato da Central Casting, ama sostenere le proprie dichiarazioni con fonti ufficiali, saltando in in continuazione, durante l’intervista, a recuperare documenti. Il documento del 1973 che stampa per me è una fonte di orgoglio all’interno della compagnia, che si autodefinisce “la prima a dare l’allarme sul riscaldamento globale”. L’avvertimento annota “l’aumento della temperatura dell’atmosfera terrestre [a causa del quale i ghiacciai e le calotte polari recedono, le superfici dei laghi sono ridotte e le temperature dell’oceano aumentano]”. Punta al “aumento del contenuto di CO2 nell’aria, che causa un cambiamento nell’assorbimento dell’energia solare”. 

L’avviso termina con un impegno: “Vogliamo ingrandire su questo complesso di problemi più in dettaglio, specialmente perché – per quanto ne sappiamo – il suo impatto sulle tendenze del rischio a lungo raggio al momento non sono state esaminate”. 

L’impegno è stato mantenuto. Munich Re ha esaminato il cambiamento climatico da allora, compilando il database più esteso del mondo sui disastri naturali, coprendo circa 33.000 eventi avvalendosi della ricerca del proprio staff e più di 200 altre fonti. “Non c’è stata nessuna industria o azienda che abbia affrontato il cambiamento climatico così presto”, dice.

Come mai Munich Re e gli altri riassicuratori lo hanno capito così presto? La risposta, in una parola, è paura – paura delle perdite che potrebbero distruggere i loro affari. Nessuna industria ha più incentivo a conoscere gli effetti del cambiamento climatico delle industrie di assicurazione e riassicurazione. 
LONDRA, 30 novembre – L’industria dell’assicurazione non ama il cambiamento climatico. Il riscaldamento globale sta introducendo un elemento completamente nuovo nella questione della quantificazione del rischio – la funzione fondamentale del mercato assicurativo. Una delle sfide principali che affrontano gli assicuratori è l’aumentata frequenza di alluvioni in molti paesi. 

Il Regno Unito è uno dei centri principali di assicurazione nel mondo: un recente seminario all’Università di Oxford ha esaminato i modelli delle alluvioni in Gran Bretagna duranti gli ultimi anni. 

Non solo l’incidenza delle alluvioni sta aumentando, sta anche diventando sempre più imprevedibile. “Nessuna azienda, in particolare l’industria dell’assicurazione, ama la volatilità”, dice Matt Cullen, un esperto in alluvioni presso l’Association of British Insurers (ABI). “Non c’è dubbio che c’è stata un’escalation di alluvioni nel Regno Unito dagli anni 90 e questo tende a spaventare gli assicuratori. E la situazione può solo peggiorare col cambiamento climatico”. 

Valutare quando e dove avvengono le alluvioni è un affare molto complicato, dice il Professor Edmund Penning-Rowsell, della Scuola di Geografia e Ambiente di Oxford. Le alluvioni sono episodiche e possono essere anche molto localizzate, dice: un’area particolare potrebbe essere alluvionata per due anni consecutivamente e poi essere secca per 10 anni – mentre un’altra, precedentemente secca, vede le acqua alzarsi e le case distrutte. 


La ABI dice che i costi collegati alle alluvioni nel Regno Unito sono aumentati drammaticamente: nel periodo dal 2000 al 2010, l’industria ha sborsato 4,5 miliardi di sterline (7,2 miliardi di dollari americani) a coloro le cui case o aziende sono state colpite da alluvioni – un aumento del 200% negli esborsi del decennio precedente. 

Nell’ambito di un accordo di lunga durata fra il Governo inglese e l’industria delle assicurazioni, gli assicuratori hanno garantito che la copertura sarebbe stata disponibile per i possessori di case – anche quelle giudicate essere in aree ad alto rischio di alluvione – nella misura in cui le autorità continuassero a spendere soldi nei lavori di prevenzione delle alluvioni. 

Quell’accordo è terminato a metà 2013: in una mossa attentamente osservata in altre parti del mondo, i gruppi di assicurazione britannici e il governo ora stanno cercando di trovare una formula che garantisca sia la copertura del rischio continuo di alluvione per i possessori di case in futuro sia l’assicurazione della fattibilità finanziaria continua dell’industria dell’assicurazione. 

Spesso, dicono gli analisti delle assicurazioni, sono i più poveri nella società che vivono nelle case più esposte al rischio alluvioni. Se ci fosse uno spostamento verso il ‘libero per tutti’ nel mercato assicurativo, quelle famiglie troverebbero comunque impossibile trovare assicurazione – o sarebbero costrette a pagare premi molto costosi a broker specialisti. 

La ABI sta proponendo di approntare un nuovo schema chiamato Flood Re, che fornirebbe assicurazione a quello che dice sarebbe un livello sostenibile per coloro che sono più a rischio alluvione. Flood Re gestirebbe un fondo multimilionario in sterline – finanziato da un prelievo generale su tutte la polizze assicurative delle famiglie – che coprirebbe i costi dei risarcimenti per le alluvioni. 

Il governo ha fatto un tentativo di approvazione all’idea. Tuttavia, lo schema dipende da continue spese governative nella costruzione di difese dalle alluvioni. 

Secondo le cifre del governo britannico, circa 5,2 milioni di proprietà nella sola Inghilterra – che significa una ogni 6 proprietà nel paese – sono a rischio alluvione, sia da parte di fiumi, sia da parte del mare, sia dalle acque alluvionali di superficie.  

Al momento il Regno Unito sta spendendo circa 600 milioni di sterline (960 milioni di dollari) all’anno fermare le alluvioni. Il governo ammette che, solo per mantenere gli attuali livelli di protezione dalle alluvioni, le spese dovranno aumentare di circa l’80% per il 2035. E questa stima, dicono i funzionari, non comprende i costi di gestione del rischio delle alluvioni da parte di acqua di falda o di superficie. – Climate News Network
Vale la pena di considerare in questa discussione:  Eli Lehrer, fondatore dell’Istituto R Street ed ex fondatore del negazionista Heartland Institute, ha rotto qualche anno fa coi suoi colleghi per, fra le altre ragioni, per i suoi dubbi riguardo la negazione della scienza nella destra coi suoi colleghi di “think” tank. La competenza specifica di Leher e sull’industria delle assicurazioni. Scrive Leher:
Da un lato, se si mette in dubbio l’opinione di una schiacciante maggioranza di scienziati, l’industria delle assicurazioni fornisce un altro grande fonte di dati. Dato che le previsioni del tempo accurate e obbiettive sono cruciali per la prosperità degli affari degli assicuratori, il fatto che l’industria accetti ampiamente che il cambiamento climatico sia reale e che è probabile che sia un problema dovrebbe essere preso seriamente da chiunque creda nel potere dei mercati di raccogliere informazioni. Se gli assicuratori non fossero preoccupati dal cambiamento climatico, questo sarebbe una prova forte che i politici, i media o gli scienziati hanno gonfiato il problema oltre quello che merita. 
Infatti, ogni grande assicuratore di proprietà include proiezioni legate al cambiamento climatico nei propri modelli. Ogni grande assicuratore di proprietà di cui io sappia, considera la probabilità che le catastrofi collegate al cambiamento climatico siano una minaccia operativa futura. Gli assicuratori di proprietà più piccoli fanno meno pianificazione a lungo termine ed è meno probabile che facciano uso di proiezioni sul cambiamento climatico, ma sentono comunque l’impatto di quelle proiezioni in termini di quanta riassicurazione possono pagarsi e a quale prezzo.
Infine, uno studio del NOAA, abbastanza appropriato, a firma di Adam Smith, nota:
Una tendenza in aumento nelle perdite annuali complessive è dimostrato essere principalmente attribuibile ad un aumento statisticamente significativo della tendenza di circa il 5% all’anno nella frequenza dei disastri da miliardi di dollari. Quindi emerge la questione di quanto tali stime della tendenza siano affette da incertezze o pregiudizi nei dati dei disastri da miliardi di dollari. L’effetto netto di tutti i pregiudizi sembra essere una sottostima della perdita media. In particolare, viene mostrato che l’approccio fattoriale può risultare in una considerevole sottostima della perdita media di circa il 10-15%. Siccome questo pregiudizio è sistematico, ogni tendenza nelle perdite da cicloni tropicali appare essere robusta alle variazioni nei tassi di partecipazione delle assicurazioni. Ogni attribuzione delle tendenze in aumento marcate delle perdite delle coltivazioni è complicata da una grande espansione del programma federala di sussidio alle coltivazioni, come conseguenza che comprende più terra marginale. Le raccomandazioni riguardo a come la metodologia corrente possa essere migliorata per aumentare la qualità dei dati sui disastri da miliardi di dollari comprendono l’affinamento dell’approccio fattoriale per prendere più realisticamente in considerazione le variazioni spaziali e temporali nei tassi di partecipazione alle assicurazioni. 


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L’altro lato del picco: il collasso del consumo di petrolio e gas in Italia

Da “Cassandra’s Legacy”. Traduzione di MR

Il picco del consumo di petrolio in Italia: Siamo tornati al 1967.
Tutti i dati di questo post in questo post provengono dalla revisione statistica della BP  fino al 2012, aggiornata al 2013 da varie fonti.

A volte, il picco del petrolio sembra un gioco intellettuale che si continua a giocare discutendo se è già arrivato o no. Ma il punto con il petrolio non è quanto ne viene prodotto, da qualche parte, ma quanto ce ne possiamo permettere di usare. E, per quanto riguarda l’Italia, il picco del consumo è già arrivato, come potete vedere più sopra. E’ impressionante: il consumo è diminuito di più del 30% in meno di 10 anni. Oggi siamo tornati ai livelli del 1967. E, nel 1967, la popolazione era di circa 50 milioni di persone, circa 10 milioni in meno di oggi. Abbiamo realmente raggiunto l’altro lato del picco e non vediamo il fondo della discesa.

Perché? Semplice: la riduzione del consumo di petrolio è direttamente collegata ai prezzi, come potete vedere qui:

Potete anche fare un grafico con i prezzi in funzione della produzione, ecco i risultati:

In breve, l’economia italiana può permettersi di accrescere il proprio consumo di petrolio quando il petrolio costa meno di circa 20 dollari al barile (in dollari di oggi), rimane stabile finché il petrolio è a meno di 40 dollari al barile e collassa quando i prezzi del petrolio vanno oltre quel livello.

Sono sicuro che ora vi state chiedendo com’è la vita in Italia con un terzo del petrolio che se ne è andato. Vi aspettereste strade vuote, città deserte ed un’atmosfera generale da post olocausto. Be, no; non è così. Posso dirvi che è difficile vedere grandi cambiamenti nella vita di tutti i giorni in Italia. In particolare, nell’ora di punta in città, le strade sembrano intasate di macchine come sempre. Da quello che sento dire da amici e conoscenti, la situazione è la stessa per tutte le grandi città italiane.

Ma arrivare alla conclusione che in Italia non ci sono problemi significa fare lo stesso errore che il nostro ex Primo Ministro ha fatto qualche anno fa, quando ha detto che l’Italia non aveva problemi economici perché “i ristoranti sono pieni”. I ristoranti non sono l’economia e le strade cittadine all’ora di punta non sono il sistema di trasporto nazionale. E non c’è dubbio che i trasporti abbiano dei problemi se li misuriamo in termini di chilometri percorsi. Ecco i dati (per gentile concessione di  Massimo de Carlo di “Mondo Elettrico”). La curva blu rappresenta i veicoli leggeri, principalmente automobili, quella viola i camion e la rossa tutti i veicoli. Dati  AISCAT, aggiornati al 2012.

Vediamo che il sistema di trasporti è riuscito ad affrontare – più o meno – la ridotta fornitura di petrolio fino a circa il 2008-2010. Il picco in chilometri percorsi è arrivato dopo il picco del consumo di petrolio e il declino è stato meno pronunciato: meno del 10% per le automobili e circa il 15% per i camion. Quindi, c’è una ragione per la quale la diminuzione del traffico non è percepibile nelle città, specialmente durante le ore di punta. Le persone probabilmente hanno tagliato i viaggi non strettamente necessari e sembra che siano ancora in grado di usare le proprie automobili per il trasporto quotidiano. Hanno potuto farlo in gran parte trasformando l’alimentazione delle loro automobili a gas naturale e a GPL. In parte anche passando ad automobili più efficienti, anche se le piccole auto e le ibride sembrano ampiamente di meno dei SUV. 
Sembra quindi che il principale fattore che ha contrastato il declino del consumo di petrolio, fino a un certo punto, sia stato un aumento del consumo di gas naturale. Questa è stata una tendenza storica non solo in termini di combustibili per i veicoli, ma per una gran varietà di applicazioni. Potete vedere tutta la storia nella figura che segue: 
Intorno al 2006, il consumo di gas ha raggiunto un picco ed ha generato il “picco degli idrocarburi” in Italia. Dopodiché, il consumo è calato rapidamente, molto più rapidamente di quanto non fosse cresciuto. E’ un comportamento che ho definito il “collasso di Seneca”. L’Italia potrebbe avere il dubbio onore di essere la prima grande economia occidentale a vivere questo tipo di collasso in tempi moderni. 
Cosa succederà, ora, da questo lato del picco? Difficile a dirsi, ma se il collasso di Seneca continua, nei prossimi anni è improbabile che vedremo ancora ingorghi nell’ora di punta (e i ristoranti pieni).

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L’altro lato del picco: il collasso del consumo di petrolio e gas in Italia

Da “Cassandra’s Legacy”. Traduzione di MR

Il picco del consumo di petrolio in Italia: Siamo tornati al 1967.
Tutti i dati di questo post in questo post provengono dalla revisione statistica della BP  fino al 2012, aggiornata al 2013 da varie fonti.

A volte, il picco del petrolio sembra un gioco intellettuale che si continua a giocare discutendo se è già arrivato o no. Ma il punto con il petrolio non è quanto ne viene prodotto, da qualche parte, ma quanto ce ne possiamo permettere di usare. E, per quanto riguarda l’Italia, il picco del consumo è già arrivato, come potete vedere più sopra. E’ impressionante: il consumo è diminuito di più del 30% in meno di 10 anni. Oggi siamo tornati ai livelli del 1967. E, nel 1967, la popolazione era di circa 50 milioni di persone, circa 10 milioni in meno di oggi. Abbiamo realmente raggiunto l’altro lato del picco e non vediamo il fondo della discesa.

Perché? Semplice: la riduzione del consumo di petrolio è direttamente collegata ai prezzi, come potete vedere qui:

Potete anche fare un grafico con i prezzi in funzione della produzione, ecco i risultati:

In breve, l’economia italiana può permettersi di accrescere il proprio consumo di petrolio quando il petrolio costa meno di circa 20 dollari al barile (in dollari di oggi), rimane stabile finché il petrolio è a meno di 40 dollari al barile e collassa quando i prezzi del petrolio vanno oltre quel livello.

Sono sicuro che ora vi state chiedendo com’è la vita in Italia con un terzo del petrolio che se ne è andato. Vi aspettereste strade vuote, città deserte ed un’atmosfera generale da post olocausto. Be, no; non è così. Posso dirvi che è difficile vedere grandi cambiamenti nella vita di tutti i giorni in Italia. In particolare, nell’ora di punta in città, le strade sembrano intasate di macchine come sempre. Da quello che sento dire da amici e conoscenti, la situazione è la stessa per tutte le grandi città italiane.

Ma arrivare alla conclusione che in Italia non ci sono problemi significa fare lo stesso errore che il nostro ex Primo Ministro ha fatto qualche anno fa, quando ha detto che l’Italia non aveva problemi economici perché “i ristoranti sono pieni”. I ristoranti non sono l’economia e le strade cittadine all’ora di punta non sono il sistema di trasporto nazionale. E non c’è dubbio che i trasporti abbiano dei problemi se li misuriamo in termini di chilometri percorsi. Ecco i dati (per gentile concessione di  Massimo de Carlo di “Mondo Elettrico”). La curva blu rappresenta i veicoli leggeri, principalmente automobili, quella viola i camion e la rossa tutti i veicoli. Dati  AISCAT, aggiornati al 2012.

Vediamo che il sistema di trasporti è riuscito ad affrontare – più o meno – la ridotta fornitura di petrolio fino a circa il 2008-2010. Il picco in chilometri percorsi è arrivato dopo il picco del consumo di petrolio e il declino è stato meno pronunciato: meno del 10% per le automobili e circa il 15% per i camion. Quindi, c’è una ragione per la quale la diminuzione del traffico non è percepibile nelle città, specialmente durante le ore di punta. Le persone probabilmente hanno tagliato i viaggi non strettamente necessari e sembra che siano ancora in grado di usare le proprie automobili per il trasporto quotidiano. Hanno potuto farlo in gran parte trasformando l’alimentazione delle loro automobili a gas naturale e a GPL. In parte anche passando ad automobili più efficienti, anche se le piccole auto e le ibride sembrano ampiamente di meno dei SUV. 
Sembra quindi che il principale fattore che ha contrastato il declino del consumo di petrolio, fino a un certo punto, sia stato un aumento del consumo di gas naturale. Questa è stata una tendenza storica non solo in termini di combustibili per i veicoli, ma per una gran varietà di applicazioni. Potete vedere tutta la storia nella figura che segue: 
Intorno al 2006, il consumo di gas ha raggiunto un picco ed ha generato il “picco degli idrocarburi” in Italia. Dopodiché, il consumo è calato rapidamente, molto più rapidamente di quanto non fosse cresciuto. E’ un comportamento che ho definito il “collasso di Seneca”. L’Italia potrebbe avere il dubbio onore di essere la prima grande economia occidentale a vivere questo tipo di collasso in tempi moderni. 
Cosa succederà, ora, da questo lato del picco? Difficile a dirsi, ma se il collasso di Seneca continua, nei prossimi anni è improbabile che vedremo ancora ingorghi nell’ora di punta (e i ristoranti pieni).

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Il dibattito sul clima. Cosa abbiamo sbagliato e come possiamo fare meglio

Da “The frog that jumped out”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi

Il blog della rana che saltò via è apparso on line poco meno di un anno fa. Col nuovo anno, ho pensato che un mio piccolo sproloquio potesse starci. L’ho iniziato elencando tutto ciò che abbiamo fatto di sbagliato nella comunicazione del problema climatico ma, andando avanti, ho scoperto che c’erano anche altre cose positive che avrei potuto dire. Così, il risultato finale è qualcosa che cerca di suggerire una qualche strategia positiva per la comunicazione sulla base della teoria dei network e di qualche altra osservazione. Probabilmente, questo testo vuole dire troppe cose in troppo poco spazio ma, ora che l’ho scritto, forse troverete un momento per darci un’occhiata e dirmi che cosa ne pensate. 

Forse avete avuto anche voi uno di quegli incubi dove venite inseguiti da un mostro. Cercate disperatamente di scappare, ma scoprite che i vostri piedi sono incollati al terreno. Col cambiamento climatico avviene qualcosa di simile. Quasi sentite il respiro del mostro climatico sul collo, ma non vi potete muovere. Niente di muove. Qualsiasi cosa proviamo per convincere le persone del pericolo che ci aspetta non ha nessun effetto. Non attacca.

Ma perché ci troviamo in questa situazione? Dopo tutto abbiamo una tesi forte: abbiamo i dati, abbiamo i modelli, la comunità scientifica è compatta dietro all’idea del cambiamento climatico antropogenico e su cosa si deve fare per fermarlo. Così, abbiamo enunciato la nostra tesi, abbiamo cercato di fare del nostro meglio per spiegare come stanno le cose. Poi, ci aspettavamo che qualcuno facesse qualcosa. Ma no, non è successo niente, non succede niente.

Abbiamo raddoppiato i nostri sforzi. Abbiamo letto il libro “Non fare quello scienziato” (“Don’t be such a scientist”). Abbiamo aperto blog, abbiamo scritto su facebook e twitter, abbiamo rilasciato interviste. Abbiamo cercato di essere chiari, piacevoli, divertenti, abbiamo cercato di portare soluzioni, non problemi. Abbiamo cercato di seguire l’avvertimento che dice “più di tutto, non spaventare nessuno!” Ma non ha funzionato e ormai non funzionerà. Ci siamo ridotti ad aspettare il prossimo disastro ambientale perché finalmente la gente si svegli dal torpore. Ma abbiamo avuto già disastri ambientali a sufficienza e nessuno se ci fa caso. Quindi, siamo destinati a perdere questa battaglia? Di seguito alcuni miei pensieri su questo argomento.

1. Allora, cosa abbiamo sbagliato?

Vi abbiamo suonato il flauto e voi non avete ballato; abbiamo cantato un lamento e voi non avete pianto. Matteo 11:17

Questo blog, “La rana che saltò via”, mi è stato utile per focalizzarmi sul problema della comunicazione della scienza del clima. Credo quindi di avere una qualche idea su cosa esattamente abbiamo sbagliato e la risposta può essere probabilmente trovata in un misto di psicologia umana e nel campo scientifico chiamato “Teoria dei network”. Ha a che fare con la tendenza umana a formare tribù, strutture che nella teoria della rete vengono chiamate “piccoli mondi” (“small worlds”). Potete vedere la struttura di una rete di piccoli mondi nell’immagine – è strutturata come gruppi di nodi fortemente collegati fra loro all’interno del gruppo ma debolmente collegati con l’esterno (immagine da “researchtoaction”)

Che la rete sia strutturata in questo modo è una cosa provata. Che questa sia una proprietà non solo del Web è una cosa chiaramente visibile a tutti. Il mondo sociale intorno a noi è una rete di piccoli mondi – alcuni politici, alcuni religiosi, alcuni culturali, alcuni sportivi, alcuni formati semplicemente da amici e molti altri. Funziona in questo modo; dopotutto siamo una specie tribale: ognuno di noi è integrato in almeno un piccolo mondo. Si può appartenere anche a diversi piccoli mondi su piani” diversi della propria esistenza; diciamo, uno per la propria rete professionale, uno per la propria attività politica, uno per i propri hobby ed altro ancora. Quindi, se la società è costruita come una rete di piccoli mondi, significa che gran parte della comunicazione in atto avviene all’interno di piccoli mondi. Non che non ci siano contatti fra piccoli mondi, ma sono meno numerosi e più deboli.

Il punto è che l’unità di informazione delle informazioni e della loro diffusione in ambito sociale è la tribù, non l’individuo. Questi piccoli mondi/tribù sono tremendamente resilienti. Formalmente non sono esclusivi, non serve un distintivo o un ID per appartenere alla propria rete tribale. Ciononostante è chiaro se si appartiene o no ad essa. Se vi si appartiene, bisogna conoscere il retroterra, le idee formalmente ed informalmente accettate, bisogna conoscere il gergo ed usarlo in modo appropriato. Questo gruppo di idee comunemente accettate rende il gruppo resistente al cambiamento.

Questa forse è una semplificazione eccessiva, ma ho avuto modo di interagire con tribù particolarmente strane, come quella delle “scie chimiche”, cioè coloro che credono e sostengono che i governi del mondo stiano collaborando per avvelenarci diffondendo veleni nel cielo e facendolo sotto forma di scie bianche facilmente rilevabili (“scie chimiche”) lasciate da aerei. Ora, come è possibile che qualcuno creda per davvero in una cosa del genere? E tuttavia, l’identificazione tribale dei credenti è così forte che formano una comunità strettamente legata che reagisce aggressivamente ad ogni tentativo di far ragionare i suoi membri sull’assurdità delle loro convinzioni (non mi credete? Provate voi stessi e mi saprete dire).

Vedete quel meccanismo di identificazione in atto nei commenti dei blog che promuovono l’idea delle scie chimiche – è una specie di coro. Se si commenta senza suonare la canzone giusta si viene attaccati aggressivamente. Il tutto ha un sapore primordiale, qualcosa che ricorda il comportamento di creature che corrono in in branco e ululano alla luna piena.

L’esempio delle scie chimiche è estremo, ma illustra il meccanismo. Si può osservare lo stesso fenomeno, per esempio, nei commenti dei blog dell’anti-scienza come “Watts Up with That?” tenuto da Anthony Watts. Vedete  come i membri della tribù di Watts  rafforzano le rispettive convinzioni usando un linguaggio e temi simili. Per esserne membri bisogna ripetere i meme comunemente accettati (“non c’è stato riscaldamento durante gli ultimi 15 anni”) ed attaccare gli scienziati del clima (“Michael Mann è un nemico dell’umanità”). La resistenza delle tribù alle nuove informazioni è davvero sorprendente.

Il problema è che non c’è quasi modo di spezzare il sistema di credenze di una piccola tribù dall’esterno. Puntare agli individui non funziona: quella persona confronterà semplicemente le vostre dichiarazioni a quelle della propria tribù e concluderà che le vostre non hanno peso. Si potrebbe dire, “ma questo è ciò che dice la scienza” e la probabile risposta sarà “chi se ne frega?” Se si insiste, la reazione potrebbe essere aggressiva (“gli scienziati hanno tradito il pubblico per ottenere grassi contribuiti per la ricerca”). Nemmeno i più grandi disastri collegati al clima, da Katrina ad Haiyan, possono spostare la tribù dai propri amati sentimenti.

Naturalmente, la struttura del Web è sfumata e complessa e solo una minoranza di piccoli mondi sono ostili alla scienza. La maggior parte sono semplicemente indifferenti e non attueranno, di per sé, una forte contro reazione al meme del cambiamento climatico. Ripetere i concetti climatici in continuazione creerebbe probabilmente un punto d’appoggio in questi mondi neutri. Il problema è che il tentativo viene contrastato da una pari e opposta attività da parte dei piccoli mondi ostili. Questi sono stati efficaci nel posizionarsi come opinione legittima. Lo hanno ottenuto essendo molto attivi e visibili sul Web. Una delle loro armi è quella di ‘trollare’ con commenti aggressivi nei siti scientifici. Pochi troll anti-scienza possono dirottare completamente qualsiasi discussione scientifica e trasformarla in una rissa. Il problema è che è stato scoperto che l’opinione di persone inizialmente neutrali può essere fortemente influenzata da commenti anti-scientifici negativi.

E’ qui che abbiamo fatto il nostro errore cruciale come promotori dell’idea che dobbiamo fare qualcosa per fermare il cambiamento climatico. Tendiamo ad avere a che fare coi troll anti-scienza come se fossero persone che volessero onestamente saperne di scienza. Possono mascherarsi in quel modo, inizialmente, ma il loro scopo è diverso: vogliono dirottare il dibattito e trasformarlo in una rissa. Sanno bene che questa è una tattica molto efficace e che siamo caduti in trappola di continuo – cimentandoci in battaglie inutili che sono servite soltanto a dare visibilità a persone che non la meritavano. Il risultato finale è lo stallo che stiamo osservando ora. Non stiamo riuscendo ad avere un impatto sulla maggioranza delle persone e, di conseguenza, non viene fatto nulla per il cambiamento climatico. Vi abbiamo suonato il flauto e voi non avete ballato; abbiamo cantato un lamento e voi non avete pianto.

2. Il modo per fare meglio

Se conosci il nemico e conosci te stesso, non hai bisogno di temere il risultato di centinaia di battaglie. (Sun Tzu)

Se guardiamo ai dibattiti passati, vediamo che c’è una strategia vincente per la scienza. E’ quella di isolare le tribù anti-scienza e rendere chiaro che sono aree di minoranza le cui opinioni sono condivise da persone che non hanno nessuna credenziale scientifica. Pensate alla battaglia intorno agli effetti sulla salute del fumo, o a quella sulle cinture di sicurezza sulle automobili, o sulla guida in stato d’ebbrezza. Questi concetti avevano degli oppositori, ma le battaglie sono state vinte isolandoli e rendendo chiaro che le loro opinioni (per esempio che non c’è pericolo a guidare da ubriachi o senza cinture di sicurezza) sono opinioni marginali e pericolose che non hanno nessuna base scientifica e non dovrebbero avere lo stesso spazio nel dibattito sulla guida sicura. Solo in questo modo è stato possibile ottenere leggi efficaci sulle cinture di sicurezza e per fermare la guida in stato d’ebbrezza. Molte persone non sono state particolarmente felici di questo, ma hanno accettato l’opinione comune.

Così, il nostro obbiettivo nel dibattito climatico è chiaro: dobbiamo isolare le tribù anti-scienza e rendere chiaro che le loro posizioni sul clima, per esempio che non c’è pericolo da parte del riscaldamento globale, sono opinioni marginali senza alcuna base scientifica. Inoltre, queste opinioni sono pericolose e non dovrebbero avere “pari spazio” nel dibattito su come mantenere il clima terrestre sicuro per gli esseri umani. Se possiamo ottenere questo, allora possiamo gradualmente penetrare nei piccoli mondi neutrali e concludere qualcosa. E’ la strategia perché si faccia qualcosa.

Poi la strategia ha bisogno di tattiche per essere messa in pratica. E le tattiche fondamentali nella comunicazione sono sempre le stesse: conosci il tuo target. Bisogna capire con chi si sta parlando e costruire il messaggio su questo. Altrimenti è tempo perso – in realtà è anche peggio: si ottiene l’opposto di quello che si vuole. Così, dobbiamo considerare questo, nel vasto universo del Web parliamo a tre tipi di persone integrate nei loro piccoli mondi: 1) simpatizzanti, 2) neutrali, e 3)ostili. I modi di avere a che fare con loro sono diversi.

– Parlare con persone che sono già simpatizzanti della scienza non pone problemi. Parliamo lo stesso linguaggio – ci capiamo a vicenda. Siamo un piccolo mondo, dopo tutto, anche se siamo un piccolo mondo scientifico.

– Parlare con persone neutrali è dove si può usare il consiglio che si può leggere, per esempio, in libri come “Non essere quel tipo di scienziato”. Bisogna essere competenti, bisogna essere chiari bisogna essere onesti. Se si fa questo, non c’è bisogno di seguire regole particolari nel proprio lavoro di informare le persone. Per esempio, potreste aver sentito parlare del fatto che non bisogna spaventare le persone. E’ vero, ma questo non significa che si debba addolcire talmente tanto la pillola da trasformarsi in un Ronald McDonald del clima. Il modo migliore, credo, è quello di essere onesti su quello di cui si parla e, se si vedono pericoli seri di fronte, lo si dovrebbe dire. Gran parte delle persone la fuori sono persone decenti che sono in grado di apprezzare un discorso onesto. Ci vuole tempo, bisogna essere costanti, ma alla fine funziona.

– Parlare a persone che appartengono a tribù ostili, be’, è facile: non lo si deve fare. Il nostro obbiettivo è quello di isolarli, negando loro visibilità e stiamo imparando a farlo. Per esempio Gavin Schmidt – climatologo – ha di recente rifiutato di fare un dibattito televisivo con un avversario ostile dicendo “La televisione è performance artistica, non dibattito scientifico. Non dovremmo confondere le due cose”. Ben detto! Questo, naturalmente, ha generato accuse di “codardia” contro di lui. Sicuro, sicuro… possono ululare alla luna quanto vogliono. Ma Schmidt ha capito perfettamente che sarebbe stato un errore dare a questo avversario la possibilità di apparire come se si trovasse in una condizione scientifica paritaria. E, di recente, il forum Reddit’s science ha bannato i negazionisti climatici. Vedete? Stiamo imparando a conoscere il nostro nemico! E se conosciamo il nostro nemico (e noi stessi) possiamo vincere questa battaglia.

3. Conclusione

E se ho il dono della profezia e conosco tutti i misteri e tutta la conoscenza; e se ho tutta la fede, tanta da spostare le montagne, ma non ho l’amore, non sono nulla. Paolo, Lettera ai Corinzi 13:2

La battaglia il clima si sta rivelando come la battaglia decisiva dell’umanità – se la perdiamo, perdiamo tutto. Non c’è bisogno di essere scienziati per combatterla, ma se si ha lo stato d’animo giusto è un dovere combatterla. E’ una battaglia tremendamente difficile, non non invincibile. Però, non dimenticate anche un’altra cosa: la scienza non è tutto. La ragione per cui si combatte non è solo perché si sa di essere scientificamente nel giusto. Un medico è un buon medico non solo perché conosce la scienza medica, è un buon medico perché ha cura dei propri pazienti. La stessa cosa vale per voi. State combattendo la battaglia del clima non solo perché conoscete la scienza del clima. E’ perché vi importa della vita dei vostri amici, della vostra famiglia, dei vostri bambini, dell’umanità e di tutto ciò che è vivo su questo pianeta. Questo è il solo modo di vincere.

Detto questo, mi scuso per questo mio sproloquio piuttosto lungo. Ma, se siete arrivati sin qui, spero che ci abbiate trovato qualche suggerimento utile.

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Il dibattito sul clima. Cosa abbiamo sbagliato e come possiamo fare meglio

Da “The frog that jumped out”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi

Il blog della rana che saltò via è apparso on line poco meno di un anno fa. Col nuovo anno, ho pensato che un mio piccolo sproloquio potesse starci. L’ho iniziato elencando tutto ciò che abbiamo fatto di sbagliato nella comunicazione del problema climatico ma, andando avanti, ho scoperto che c’erano anche altre cose positive che avrei potuto dire. Così, il risultato finale è qualcosa che cerca di suggerire una qualche strategia positiva per la comunicazione sulla base della teoria dei network e di qualche altra osservazione. Probabilmente, questo testo vuole dire troppe cose in troppo poco spazio ma, ora che l’ho scritto, forse troverete un momento per darci un’occhiata e dirmi che cosa ne pensate. 

Forse avete avuto anche voi uno di quegli incubi dove venite inseguiti da un mostro. Cercate disperatamente di scappare, ma scoprite che i vostri piedi sono incollati al terreno. Col cambiamento climatico avviene qualcosa di simile. Quasi sentite il respiro del mostro climatico sul collo, ma non vi potete muovere. Niente di muove. Qualsiasi cosa proviamo per convincere le persone del pericolo che ci aspetta non ha nessun effetto. Non attacca.

Ma perché ci troviamo in questa situazione? Dopo tutto abbiamo una tesi forte: abbiamo i dati, abbiamo i modelli, la comunità scientifica è compatta dietro all’idea del cambiamento climatico antropogenico e su cosa si deve fare per fermarlo. Così, abbiamo enunciato la nostra tesi, abbiamo cercato di fare del nostro meglio per spiegare come stanno le cose. Poi, ci aspettavamo che qualcuno facesse qualcosa. Ma no, non è successo niente, non succede niente.

Abbiamo raddoppiato i nostri sforzi. Abbiamo letto il libro “Non fare quello scienziato” (“Don’t be such a scientist”). Abbiamo aperto blog, abbiamo scritto su facebook e twitter, abbiamo rilasciato interviste. Abbiamo cercato di essere chiari, piacevoli, divertenti, abbiamo cercato di portare soluzioni, non problemi. Abbiamo cercato di seguire l’avvertimento che dice “più di tutto, non spaventare nessuno!” Ma non ha funzionato e ormai non funzionerà. Ci siamo ridotti ad aspettare il prossimo disastro ambientale perché finalmente la gente si svegli dal torpore. Ma abbiamo avuto già disastri ambientali a sufficienza e nessuno se ci fa caso. Quindi, siamo destinati a perdere questa battaglia? Di seguito alcuni miei pensieri su questo argomento.

1. Allora, cosa abbiamo sbagliato?

Vi abbiamo suonato il flauto e voi non avete ballato; abbiamo cantato un lamento e voi non avete pianto. Matteo 11:17

Questo blog, “La rana che saltò via”, mi è stato utile per focalizzarmi sul problema della comunicazione della scienza del clima. Credo quindi di avere una qualche idea su cosa esattamente abbiamo sbagliato e la risposta può essere probabilmente trovata in un misto di psicologia umana e nel campo scientifico chiamato “Teoria dei network”. Ha a che fare con la tendenza umana a formare tribù, strutture che nella teoria della rete vengono chiamate “piccoli mondi” (“small worlds”). Potete vedere la struttura di una rete di piccoli mondi nell’immagine – è strutturata come gruppi di nodi fortemente collegati fra loro all’interno del gruppo ma debolmente collegati con l’esterno (immagine da “researchtoaction”)

Che la rete sia strutturata in questo modo è una cosa provata. Che questa sia una proprietà non solo del Web è una cosa chiaramente visibile a tutti. Il mondo sociale intorno a noi è una rete di piccoli mondi – alcuni politici, alcuni religiosi, alcuni culturali, alcuni sportivi, alcuni formati semplicemente da amici e molti altri. Funziona in questo modo; dopotutto siamo una specie tribale: ognuno di noi è integrato in almeno un piccolo mondo. Si può appartenere anche a diversi piccoli mondi su piani” diversi della propria esistenza; diciamo, uno per la propria rete professionale, uno per la propria attività politica, uno per i propri hobby ed altro ancora. Quindi, se la società è costruita come una rete di piccoli mondi, significa che gran parte della comunicazione in atto avviene all’interno di piccoli mondi. Non che non ci siano contatti fra piccoli mondi, ma sono meno numerosi e più deboli.

Il punto è che l’unità di informazione delle informazioni e della loro diffusione in ambito sociale è la tribù, non l’individuo. Questi piccoli mondi/tribù sono tremendamente resilienti. Formalmente non sono esclusivi, non serve un distintivo o un ID per appartenere alla propria rete tribale. Ciononostante è chiaro se si appartiene o no ad essa. Se vi si appartiene, bisogna conoscere il retroterra, le idee formalmente ed informalmente accettate, bisogna conoscere il gergo ed usarlo in modo appropriato. Questo gruppo di idee comunemente accettate rende il gruppo resistente al cambiamento.

Questa forse è una semplificazione eccessiva, ma ho avuto modo di interagire con tribù particolarmente strane, come quella delle “scie chimiche”, cioè coloro che credono e sostengono che i governi del mondo stiano collaborando per avvelenarci diffondendo veleni nel cielo e facendolo sotto forma di scie bianche facilmente rilevabili (“scie chimiche”) lasciate da aerei. Ora, come è possibile che qualcuno creda per davvero in una cosa del genere? E tuttavia, l’identificazione tribale dei credenti è così forte che formano una comunità strettamente legata che reagisce aggressivamente ad ogni tentativo di far ragionare i suoi membri sull’assurdità delle loro convinzioni (non mi credete? Provate voi stessi e mi saprete dire).

Vedete quel meccanismo di identificazione in atto nei commenti dei blog che promuovono l’idea delle scie chimiche – è una specie di coro. Se si commenta senza suonare la canzone giusta si viene attaccati aggressivamente. Il tutto ha un sapore primordiale, qualcosa che ricorda il comportamento di creature che corrono in in branco e ululano alla luna piena.

L’esempio delle scie chimiche è estremo, ma illustra il meccanismo. Si può osservare lo stesso fenomeno, per esempio, nei commenti dei blog dell’anti-scienza come “Watts Up with That?” tenuto da Anthony Watts. Vedete  come i membri della tribù di Watts  rafforzano le rispettive convinzioni usando un linguaggio e temi simili. Per esserne membri bisogna ripetere i meme comunemente accettati (“non c’è stato riscaldamento durante gli ultimi 15 anni”) ed attaccare gli scienziati del clima (“Michael Mann è un nemico dell’umanità”). La resistenza delle tribù alle nuove informazioni è davvero sorprendente.

Il problema è che non c’è quasi modo di spezzare il sistema di credenze di una piccola tribù dall’esterno. Puntare agli individui non funziona: quella persona confronterà semplicemente le vostre dichiarazioni a quelle della propria tribù e concluderà che le vostre non hanno peso. Si potrebbe dire, “ma questo è ciò che dice la scienza” e la probabile risposta sarà “chi se ne frega?” Se si insiste, la reazione potrebbe essere aggressiva (“gli scienziati hanno tradito il pubblico per ottenere grassi contribuiti per la ricerca”). Nemmeno i più grandi disastri collegati al clima, da Katrina ad Haiyan, possono spostare la tribù dai propri amati sentimenti.

Naturalmente, la struttura del Web è sfumata e complessa e solo una minoranza di piccoli mondi sono ostili alla scienza. La maggior parte sono semplicemente indifferenti e non attueranno, di per sé, una forte contro reazione al meme del cambiamento climatico. Ripetere i concetti climatici in continuazione creerebbe probabilmente un punto d’appoggio in questi mondi neutri. Il problema è che il tentativo viene contrastato da una pari e opposta attività da parte dei piccoli mondi ostili. Questi sono stati efficaci nel posizionarsi come opinione legittima. Lo hanno ottenuto essendo molto attivi e visibili sul Web. Una delle loro armi è quella di ‘trollare’ con commenti aggressivi nei siti scientifici. Pochi troll anti-scienza possono dirottare completamente qualsiasi discussione scientifica e trasformarla in una rissa. Il problema è che è stato scoperto che l’opinione di persone inizialmente neutrali può essere fortemente influenzata da commenti anti-scientifici negativi.

E’ qui che abbiamo fatto il nostro errore cruciale come promotori dell’idea che dobbiamo fare qualcosa per fermare il cambiamento climatico. Tendiamo ad avere a che fare coi troll anti-scienza come se fossero persone che volessero onestamente saperne di scienza. Possono mascherarsi in quel modo, inizialmente, ma il loro scopo è diverso: vogliono dirottare il dibattito e trasformarlo in una rissa. Sanno bene che questa è una tattica molto efficace e che siamo caduti in trappola di continuo – cimentandoci in battaglie inutili che sono servite soltanto a dare visibilità a persone che non la meritavano. Il risultato finale è lo stallo che stiamo osservando ora. Non stiamo riuscendo ad avere un impatto sulla maggioranza delle persone e, di conseguenza, non viene fatto nulla per il cambiamento climatico. Vi abbiamo suonato il flauto e voi non avete ballato; abbiamo cantato un lamento e voi non avete pianto.

2. Il modo per fare meglio

Se conosci il nemico e conosci te stesso, non hai bisogno di temere il risultato di centinaia di battaglie. (Sun Tzu)

Se guardiamo ai dibattiti passati, vediamo che c’è una strategia vincente per la scienza. E’ quella di isolare le tribù anti-scienza e rendere chiaro che sono aree di minoranza le cui opinioni sono condivise da persone che non hanno nessuna credenziale scientifica. Pensate alla battaglia intorno agli effetti sulla salute del fumo, o a quella sulle cinture di sicurezza sulle automobili, o sulla guida in stato d’ebbrezza. Questi concetti avevano degli oppositori, ma le battaglie sono state vinte isolandoli e rendendo chiaro che le loro opinioni (per esempio che non c’è pericolo a guidare da ubriachi o senza cinture di sicurezza) sono opinioni marginali e pericolose che non hanno nessuna base scientifica e non dovrebbero avere lo stesso spazio nel dibattito sulla guida sicura. Solo in questo modo è stato possibile ottenere leggi efficaci sulle cinture di sicurezza e per fermare la guida in stato d’ebbrezza. Molte persone non sono state particolarmente felici di questo, ma hanno accettato l’opinione comune.

Così, il nostro obbiettivo nel dibattito climatico è chiaro: dobbiamo isolare le tribù anti-scienza e rendere chiaro che le loro posizioni sul clima, per esempio che non c’è pericolo da parte del riscaldamento globale, sono opinioni marginali senza alcuna base scientifica. Inoltre, queste opinioni sono pericolose e non dovrebbero avere “pari spazio” nel dibattito su come mantenere il clima terrestre sicuro per gli esseri umani. Se possiamo ottenere questo, allora possiamo gradualmente penetrare nei piccoli mondi neutrali e concludere qualcosa. E’ la strategia perché si faccia qualcosa.

Poi la strategia ha bisogno di tattiche per essere messa in pratica. E le tattiche fondamentali nella comunicazione sono sempre le stesse: conosci il tuo target. Bisogna capire con chi si sta parlando e costruire il messaggio su questo. Altrimenti è tempo perso – in realtà è anche peggio: si ottiene l’opposto di quello che si vuole. Così, dobbiamo considerare questo, nel vasto universo del Web parliamo a tre tipi di persone integrate nei loro piccoli mondi: 1) simpatizzanti, 2) neutrali, e 3)ostili. I modi di avere a che fare con loro sono diversi.

– Parlare con persone che sono già simpatizzanti della scienza non pone problemi. Parliamo lo stesso linguaggio – ci capiamo a vicenda. Siamo un piccolo mondo, dopo tutto, anche se siamo un piccolo mondo scientifico.

– Parlare con persone neutrali è dove si può usare il consiglio che si può leggere, per esempio, in libri come “Non essere quel tipo di scienziato”. Bisogna essere competenti, bisogna essere chiari bisogna essere onesti. Se si fa questo, non c’è bisogno di seguire regole particolari nel proprio lavoro di informare le persone. Per esempio, potreste aver sentito parlare del fatto che non bisogna spaventare le persone. E’ vero, ma questo non significa che si debba addolcire talmente tanto la pillola da trasformarsi in un Ronald McDonald del clima. Il modo migliore, credo, è quello di essere onesti su quello di cui si parla e, se si vedono pericoli seri di fronte, lo si dovrebbe dire. Gran parte delle persone la fuori sono persone decenti che sono in grado di apprezzare un discorso onesto. Ci vuole tempo, bisogna essere costanti, ma alla fine funziona.

– Parlare a persone che appartengono a tribù ostili, be’, è facile: non lo si deve fare. Il nostro obbiettivo è quello di isolarli, negando loro visibilità e stiamo imparando a farlo. Per esempio Gavin Schmidt – climatologo – ha di recente rifiutato di fare un dibattito televisivo con un avversario ostile dicendo “La televisione è performance artistica, non dibattito scientifico. Non dovremmo confondere le due cose”. Ben detto! Questo, naturalmente, ha generato accuse di “codardia” contro di lui. Sicuro, sicuro… possono ululare alla luna quanto vogliono. Ma Schmidt ha capito perfettamente che sarebbe stato un errore dare a questo avversario la possibilità di apparire come se si trovasse in una condizione scientifica paritaria. E, di recente, il forum Reddit’s science ha bannato i negazionisti climatici. Vedete? Stiamo imparando a conoscere il nostro nemico! E se conosciamo il nostro nemico (e noi stessi) possiamo vincere questa battaglia.

3. Conclusione

E se ho il dono della profezia e conosco tutti i misteri e tutta la conoscenza; e se ho tutta la fede, tanta da spostare le montagne, ma non ho l’amore, non sono nulla. Paolo, Lettera ai Corinzi 13:2

La battaglia il clima si sta rivelando come la battaglia decisiva dell’umanità – se la perdiamo, perdiamo tutto. Non c’è bisogno di essere scienziati per combatterla, ma se si ha lo stato d’animo giusto è un dovere combatterla. E’ una battaglia tremendamente difficile, non non invincibile. Però, non dimenticate anche un’altra cosa: la scienza non è tutto. La ragione per cui si combatte non è solo perché si sa di essere scientificamente nel giusto. Un medico è un buon medico non solo perché conosce la scienza medica, è un buon medico perché ha cura dei propri pazienti. La stessa cosa vale per voi. State combattendo la battaglia del clima non solo perché conoscete la scienza del clima. E’ perché vi importa della vita dei vostri amici, della vostra famiglia, dei vostri bambini, dell’umanità e di tutto ciò che è vivo su questo pianeta. Questo è il solo modo di vincere.

Detto questo, mi scuso per questo mio sproloquio piuttosto lungo. Ma, se siete arrivati sin qui, spero che ci abbiate trovato qualche suggerimento utile.

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Picco della domanda: il suono di una mano sola

Da “Cassandra’s Legacy”. Traduzione di MR

Parlare di “picco della domanda” circa l’attuale stasi della produzione mondiale di petrolio è un po’ come il concetto del “suono di una mano sola” è un vecchio “koan” Zen. Questo enigma è stato risolto da Bart Simpson di recente. 

Il concetto di “picco della domanda” sta acquisendo popolarità nella discussione sul picco del petrolio. E’ un buon esempio di come una discussione si può smarrire in una terra di nessuno di idee e concetti senza fondamento quando questo “picco della domanda” viene visto come una smentita dell’idea che abbiamo dei limiti a quello che possiamo fare su questo pianeta. Così, l’implicazione è che la presente mancanza di crescita nella produzione mondiale di petrolio (che è un preludio al picco), come pure la riduzione del consumo nei paesi dell’OCSE, sono cose che non hanno a che vedere coi limiti fisici della produzione petrolifera. Al contrario, è una scelta che abbiamo fatto noi. Abbiamo deciso di consumare meno petrolio perché siamo abbastanza intelligenti da aver trovato dei modi per usarne di meno. Quindi vedete? Comandiamo ancora noi, siamo ancora i padroni del pianeta.

E’ un concetto che, sfortunatamente, non regge quando è messo di fronte a tutto quello che sta succedendo. Per esempio, forse abbiamo comprato auto più efficienti, ma è anche vero che in media percorriamo meno chilometri in un anno. Semplicemente non possiamo più permetterci di guidare come eravamo abituati a fare e questo è difficile vederlo come una scelta.

Ma, allora, cosa si intende esattamente per “picco della domanda”? Gli economisti parlano di domanda e offerta e quindi dichiarano che la domanda deve essere sempre uguale all’offerta. Il che va bene finché si vedono domanda e offerta come termini qualitativi che aiutano a concettualizzare una situazione di mercato. Si può dire, “se il caffè dovesse costare 20 euro a tazzina, ne berrei molto meno”. Ovvio.

Ma la cosa curiosa è che né la domanda né l’offerta sono misurabili da sole eccetto che in casi piuttosto speciali. Sono due facce della stessa medaglia: parlare di “picco della domanda” è un po’ come chiedere qual’è il suono di una mano sola (va bene, so che Bart Simpson quello lo ha risolto, ma non addentriamoci in questa faccenda…).

La stessa cosa vale per il “picco dell’offerta” che un tipico specchietto per le allodole degli abbondantisti che tendono ad accusare i picchisti di dire che presto “finiremo il petrolio”. Non lo finiremo. La produzione è determinata da diversi fattori: la domanda (ciò che le persone sono disposte a spendere per il petrolio) insieme all’offerta (quanti soldi sono disposte a spendere le industrie per investire in estrazione petrolifera) per generare un parametro misurabile, che è la produzione. Possiamo equiparare la produzione alla domanda, va bene. Ma il picco del petrolio non è né picco della domanda né picco dell’offerta. E’ il picco della produzione.

Quindi, il concetto di “picco del petrolio” è il risultato di un’evoluzione dinamica di produzione e consumo determinata principalmente da come scende l’EROEI nel tempo mentre l’estrazione procede. Può essere modellata e in questo modo si ottiene, in effetti, una curva a campana. Cliccate qui per un articolo in proposito

Alla fine, va bene discutere del picco della domanda. Ma a un certo punto dovremo smettere di discutere e pensare alle soluzioni.

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(A proposito: ci sono casi in cui si POTREBBE ragionevolmente parlare di domanda che viene colpita da fattori che non siano i prezzi. Pensate all’argento: la tecnologia della fotografia digitale ha distrutto la domanda di argento per le pellicole fotografiche. Bene, ma ci sono due cose da considerare: una è che non c’è stata nessuna discontinuità tecnologica paragonabile per i combustibili fossili. L’altra è che la fotografia digitale non ha ridotto la domanda di argento. Non è visibile alcuna riduzione della produzione di argento negli ultimi decenni. Il buon vecchio Jevons domina ancora). 

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Picco della domanda: il suono di una mano sola

Da “Cassandra’s Legacy”. Traduzione di MR

Parlare di “picco della domanda” circa l’attuale stasi della produzione mondiale di petrolio è un po’ come il concetto del “suono di una mano sola” è un vecchio “koan” Zen. Questo enigma è stato risolto da Bart Simpson di recente. 

Il concetto di “picco della domanda” sta acquisendo popolarità nella discussione sul picco del petrolio. E’ un buon esempio di come una discussione si può smarrire in una terra di nessuno di idee e concetti senza fondamento quando questo “picco della domanda” viene visto come una smentita dell’idea che abbiamo dei limiti a quello che possiamo fare su questo pianeta. Così, l’implicazione è che la presente mancanza di crescita nella produzione mondiale di petrolio (che è un preludio al picco), come pure la riduzione del consumo nei paesi dell’OCSE, sono cose che non hanno a che vedere coi limiti fisici della produzione petrolifera. Al contrario, è una scelta che abbiamo fatto noi. Abbiamo deciso di consumare meno petrolio perché siamo abbastanza intelligenti da aver trovato dei modi per usarne di meno. Quindi vedete? Comandiamo ancora noi, siamo ancora i padroni del pianeta.

E’ un concetto che, sfortunatamente, non regge quando è messo di fronte a tutto quello che sta succedendo. Per esempio, forse abbiamo comprato auto più efficienti, ma è anche vero che in media percorriamo meno chilometri in un anno. Semplicemente non possiamo più permetterci di guidare come eravamo abituati a fare e questo è difficile vederlo come una scelta.

Ma, allora, cosa si intende esattamente per “picco della domanda”? Gli economisti parlano di domanda e offerta e quindi dichiarano che la domanda deve essere sempre uguale all’offerta. Il che va bene finché si vedono domanda e offerta come termini qualitativi che aiutano a concettualizzare una situazione di mercato. Si può dire, “se il caffè dovesse costare 20 euro a tazzina, ne berrei molto meno”. Ovvio.

Ma la cosa curiosa è che né la domanda né l’offerta sono misurabili da sole eccetto che in casi piuttosto speciali. Sono due facce della stessa medaglia: parlare di “picco della domanda” è un po’ come chiedere qual’è il suono di una mano sola (va bene, so che Bart Simpson quello lo ha risolto, ma non addentriamoci in questa faccenda…).

La stessa cosa vale per il “picco dell’offerta” che un tipico specchietto per le allodole degli abbondantisti che tendono ad accusare i picchisti di dire che presto “finiremo il petrolio”. Non lo finiremo. La produzione è determinata da diversi fattori: la domanda (ciò che le persone sono disposte a spendere per il petrolio) insieme all’offerta (quanti soldi sono disposte a spendere le industrie per investire in estrazione petrolifera) per generare un parametro misurabile, che è la produzione. Possiamo equiparare la produzione alla domanda, va bene. Ma il picco del petrolio non è né picco della domanda né picco dell’offerta. E’ il picco della produzione.

Quindi, il concetto di “picco del petrolio” è il risultato di un’evoluzione dinamica di produzione e consumo determinata principalmente da come scende l’EROEI nel tempo mentre l’estrazione procede. Può essere modellata e in questo modo si ottiene, in effetti, una curva a campana. Cliccate qui per un articolo in proposito

Alla fine, va bene discutere del picco della domanda. Ma a un certo punto dovremo smettere di discutere e pensare alle soluzioni.

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(A proposito: ci sono casi in cui si POTREBBE ragionevolmente parlare di domanda che viene colpita da fattori che non siano i prezzi. Pensate all’argento: la tecnologia della fotografia digitale ha distrutto la domanda di argento per le pellicole fotografiche. Bene, ma ci sono due cose da considerare: una è che non c’è stata nessuna discontinuità tecnologica paragonabile per i combustibili fossili. L’altra è che la fotografia digitale non ha ridotto la domanda di argento. Non è visibile alcuna riduzione della produzione di argento negli ultimi decenni. Il buon vecchio Jevons domina ancora). 

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Cosa è successo sull’Isola di Pasqua – Un nuovo scenario (persino più spaventoso)

Da “Krulwich wonders”. Traduzione di MR

Di Robert Krulwich

Tutti quanti conosciamo la storia, o almeno penso che la conosciamo. Lasciate che ve la racconti alla vecchia maniera, poi in quella nuova. Vedete voi quale vi preoccupa di più.

Robert Krulwich/NPR

Prima versione: l’Isola di Pasqua è un piccolo lembo di terra di 63 miglia quadrate – a più di 1.000 miglia dal punto abitato più vicino nell’Oceano Pacifico. Ne 1200 DC (o giù di lì), un piccolo gruppo di Polinesiani – potrebbe essere stata una singola famiglia – si sono diretti lì, si sono insediati ed hanno cominciato a coltivare. Quando sono arrivati, il luogo era ricoperto da alberi – 16 milioni di alberi, alcuni che raggiungevano i 100 piedi di altezza. Questi coloni erano agricoltori che praticavano l’agricoltura “taglia e brucia”, quindi hanno bruciato i boschi, aperto spazi e cominciato a moltiplicarsi. Ben presto l’isola aveva troppe persone, troppo pochi alberi e quindi, in sole poche generazioni, nessun albero.

Robert Krulwich/NPR

Come racconta Jared Diamond nel suo best seller Collasso, l’Isola di Pasqua è “l’esempio più chiaro di una società che ha distrutto sé stessa sfruttando troppo le proprie risorse”. Una volta iniziato l’abbattimento di alberi, non si è fermato finché l’intera foresta non era scomparsa. Diamond chiama questo comportamento autodistruttivo “ecocidio” ed ha avvertito che il destino dell’Isola di Pasqua un giorno potrebbe essere il anche il nostro destino. Quando il capitano James Cook ha visitato il posto nel 1774, il suo equipaggio ha contato circa 700 isolani (rispetto ad una popolazione precedente di migliaia), che vivevano vite marginali, le loro canoe ridotte a frammenti rattoppati di legno galleggiante. E questa è diventata la lezione dell’Isola di Pasqua – di non osare di abusare delle piante e degli animali intorno a noi, perché se lo facciamo cadremo, tutti noi, insieme.

Robert Krulwich/NPR

E tuttavia, incomprensibilmente, quelle stesse persone sono riuscite a scolpire enormi statue – quasi un migliaio, con enormi occhi vuoti e facce scarne; qualcuna dal peso di 75 tonnellate. Le statue erano rivolte non verso l’esterno, non verso il mare, ma verso l’interno, verso l’ormai vuoto e denudato paesaggio. Quando il capitano Cook le vide, molti di questi “moai” erano stati rovesciati e giacevano a faccia in giù in segno di abietta sconfitta. Bene, questa è la storia che tutti conosciamo, la storia del collasso. Quella nuova è molto diversa.

Una storia di successo?

Proviene da due antropologi, Terry Hunt e Carl Lipo, dell’Università delle Hawaii. Essi dicono, “Piuttosto che un caso di fallimento abietto”, ciò che è accaduto alla gente dell’Isola di Pasqua “è un’improbabile storia di successo”.  Successo?Come può mai qualcuno chiamare ciò che è successo nell’Isola di Pasqua un “successo”? Be’, ho dato un’occhiata al loro libro, Le statue che camminavano, e stranamente ciò che dicono ha senso, anche se dirò in anticipo che ciò che chiamano “successo” mi sembra altrettanto spaventoso – forse ancora più spaventoso.

Ecco la loro argomentazione: i professori Hunt e Lipo dicono che i cacciatori di fossili e i paleobotanici non hanno scoperto nessuna prova solida che i primi coloni Polinesiani diedero fuoco alla foresta per liberare la terra – ciò che viene chiamata “grande agricoltura preistorica”. Gli alberi sono morti, nessun dubbio. Ma al posto del fuoco, Hunt e Lipo danno la colpa ai topi.

Robert Krulwich/NPR

I topi polinesiani (Rattus exulans) erano nascosti nelle loro canoe, dicono Hunt e Lipo, e quando sono sbarcati, senza nessun nemico e con molte radici di palma da mangiare, si sono dati alla baldoria, mangiando e distruggendo albero dopo albero e moltiplicandosi ad un ritmo furioso. Come ha riportato un recensore sul Wall Street Journal:

Nelle impostazioni di laboratorio, il topo polinesiano può raddoppiare in 47 giorni. Mettetene una coppia fertile in un’isola senza predatori e cibo abbondante e l’aritmetica suggerisce il risultato… Se gli animali si fossero moltiplicati come hanno fatto alle Hawaii, calcolano gli autori, [l’Isola di Pasqua] ne avrebbe rapidamente ospitato fra i 2 e i 3 milioni. Fra i cibi preferiti del R. exulans ci sono i semi e i germogli degli alberi. Gli esseri umani hanno sicuramente abbattuto parte della foresta, ma il danno reale sarebbe venuto dai topi che impedivano la nuova crescita. 

Quando gli alberi se ne sono andati, la stessa cosa hanno fatto 20 altre specie di piante della foresta e 6 uccelli di terra e diversi uccelli di mare. Così c’è stata decisamente meno scelta di cibo, una dieta molto più ristretta, tuttavia la gente continuava a vivere sull’Isola di Pasqua e il cibo, sembra, non era il loro grande problema.

Carne di topo. Ne volete?

Per prima cosa, potevano mangiare topi. Come riporta J.B. MacKinnon nel suo nuovo libro Il mondo di una volta e quello futuro, gli archeologi hanno esaminato gli antichi cumuli di rifiuti sull’Isola di Pasqua cercando ossa di scarto ed hanno trovato “che il 60% delle ossa provenivano dai topi introdotti”. Quindi avevano trovato un sostituto di carne.

Robert Krulwich/NPR

Per di più, siccome l’isola non aveva molta acqua e il suo suolo non era ricco, gli isolani hanno preso delle pietre, le hanno spaccate e sparpagliate sui campi aperti creando una superficie irregolare. Quando soffiava il vento dal mare le pietre irregolari creavano flussi d’aria più irregolari che “rilasciavano i nutrienti minerali della pietra”, dice J.B. MacKinnon, il che ha dato ai suoli la quantità sufficiente di aumento dei nutrienti per sostenere i vegetali fondamentali. Un decimo dell’isola aveva questi “giardini” di pietre spaccate e producevano cibo sufficiente “a sostenere una densità di popolazione simile a posti come l’Oklahoma, il Colorado, la Svezia e la Nuova Zelanda di oggi”. Secondo MacKinnon, gli scienziati dicono che gli scheletri dell’Isola di Pasqua di quel tempo mostrano “meno malnutrizione degli Europei”. Quando un esploratore olandese, Jacob Roggevin, capitò da quelle parti, nel 1722, scrisse che gli isolani non chiedevano cibo. Volevano invece i cappelli europei. E, naturalmente, la gente che ha fame di solito non ha tempo ed energia per scolpire ed innalzare statue di 70 tonnellate intorno alla loro isola.

Una storia di “successo”? 

Perché questa è una storia di successo? Perché, dicono gli antropologi hawaiiani, i clan e le famiglie sull’Isola di Pasqua non sono crollate. E vero, l’isola è diventata desolata, più vuota. L’ecosistema era severamente compromesso. Tuttavia, dicono gli antropologi, gli abitanti dell’Isola di Pasqua non sono scomparsi. Si sono adattati. Non avevano legno per costruire canoe per andare a pescare al largo. Avevano meno uccelli da cacciare. Non avevano noci di cocco. Ma hanno continuato mangiando carne di topo e piccole porzioni di vegetali. Si accontentavano.

Robert Krulwich/NPR
Una domanda pignola: se tutti mangiavano abbastanza, perché la popolazione è declinata? Probabilmente, dicono i professori, a causa di malattie trasmesse sessualmente dopo l’arrivo degli europei. Bene, forse non c’è stato “ecocidio”. Ma è una buona notizia? Dovremmo celebrare? Me lo chiedo. Ciò che abbiamo qui sono due scenari che riguardano apparentemente il passato dell’Isola di Pasqua, ma che riguardano in realtà ciò che potrebbe essere il futuro del nostro pianeta. Il primo scenario – un collasso ecologico – nessuno lo vuole. Ma pensiamo un attimo a questa nuova alternativa – in cui gli esseri umani degradano il loro ambiente ma in qualche modo “se la cavano”. E’ migliore?In qualche modo, penso che questa storia di “successo” sia altrettanto spaventosa. 
Il pericolo del “successo”
E se l’ecosistema del pianeta, come dice J.B. MacKinnon, “viene ridotto in rovina, anche se la sua gente resiste, adorando i propri dei e bramando oggetti di status mentre sopravvive mangiando un qualche equivalente futuristico della carne di topo e degli orti di pietre degli abitanti dell’Isola di Pasqua?”
Gli esseri umani sono una specie molto adattabile. Abbiamo visto la gente crescere abituata alle baraccopoli, adattarsi ai campi di concentramento, imparare a vivere con qualsiasi destino gli si ponga davanti. Se il nostro futuro è quello di degradare continuamente il pianeta, perdendo pianta dopo pianta, animale dopo animale, dimenticando ciò di cui una volte godevamo, adattandoci a circostanze inferiori, senza mai gridare “E’ finita!” – accontentandosi sempre , questo non lo chiamerei “successo”. 
La lezione? Ricordate Tang, la bibita da colazione
Le persone non riescono a ricordare ciò che hanno visto i loro bisnonni, mangiato e amato del mondo. Sanno solo ciò che sanno. Per evitare una crisi ecologica, dobbiamo allarmarci. E allora che tutti noi agiamo. La nuova storia dell’Isola di pasqua suggerisce che gli esseri umani potrebbero non vedere mai l’allarme. E come la storia delle persone abituate a parlare della Tang, un succo d’arancia bibita completamente sintetico reso popolare dalla NASA. Se sapete che sapore ha il vero succo d’arancia, la Tang non è una gran conquista. Ma se siete stati in un viaggio di 50 anni, se avete perso la memoria del vero succo d’arancia allora, gradualmente, cominciate a pensare che la Tang sia deliziosa. Sull’Isola di Pasqua, la gente ha imparato a vivere con meno e dimenticato com’era avere di più. Forse è questo che ci accadrà. Eccola la lezione. E non è una lezione allegra. Come dice MacKinnon: “Se state aspettando che una crisi ecologica persuada gli esseri umani a cambiare le loro relazioni problematiche con la natura, potreste aspettate molto, molto a lungo”.

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