Author: Massimiliano Rupalti (Rupo)

Cosa è successo sull’Isola di Pasqua – Un nuovo scenario (persino più spaventoso)

Da “Krulwich wonders”. Traduzione di MR

Di Robert Krulwich

Tutti quanti conosciamo la storia, o almeno penso che la conosciamo. Lasciate che ve la racconti alla vecchia maniera, poi in quella nuova. Vedete voi quale vi preoccupa di più.

Robert Krulwich/NPR

Prima versione: l’Isola di Pasqua è un piccolo lembo di terra di 63 miglia quadrate – a più di 1.000 miglia dal punto abitato più vicino nell’Oceano Pacifico. Ne 1200 DC (o giù di lì), un piccolo gruppo di Polinesiani – potrebbe essere stata una singola famiglia – si sono diretti lì, si sono insediati ed hanno cominciato a coltivare. Quando sono arrivati, il luogo era ricoperto da alberi – 16 milioni di alberi, alcuni che raggiungevano i 100 piedi di altezza. Questi coloni erano agricoltori che praticavano l’agricoltura “taglia e brucia”, quindi hanno bruciato i boschi, aperto spazi e cominciato a moltiplicarsi. Ben presto l’isola aveva troppe persone, troppo pochi alberi e quindi, in sole poche generazioni, nessun albero.

Robert Krulwich/NPR

Come racconta Jared Diamond nel suo best seller Collasso, l’Isola di Pasqua è “l’esempio più chiaro di una società che ha distrutto sé stessa sfruttando troppo le proprie risorse”. Una volta iniziato l’abbattimento di alberi, non si è fermato finché l’intera foresta non era scomparsa. Diamond chiama questo comportamento autodistruttivo “ecocidio” ed ha avvertito che il destino dell’Isola di Pasqua un giorno potrebbe essere il anche il nostro destino. Quando il capitano James Cook ha visitato il posto nel 1774, il suo equipaggio ha contato circa 700 isolani (rispetto ad una popolazione precedente di migliaia), che vivevano vite marginali, le loro canoe ridotte a frammenti rattoppati di legno galleggiante. E questa è diventata la lezione dell’Isola di Pasqua – di non osare di abusare delle piante e degli animali intorno a noi, perché se lo facciamo cadremo, tutti noi, insieme.

Robert Krulwich/NPR

E tuttavia, incomprensibilmente, quelle stesse persone sono riuscite a scolpire enormi statue – quasi un migliaio, con enormi occhi vuoti e facce scarne; qualcuna dal peso di 75 tonnellate. Le statue erano rivolte non verso l’esterno, non verso il mare, ma verso l’interno, verso l’ormai vuoto e denudato paesaggio. Quando il capitano Cook le vide, molti di questi “moai” erano stati rovesciati e giacevano a faccia in giù in segno di abietta sconfitta. Bene, questa è la storia che tutti conosciamo, la storia del collasso. Quella nuova è molto diversa.

Una storia di successo?

Proviene da due antropologi, Terry Hunt e Carl Lipo, dell’Università delle Hawaii. Essi dicono, “Piuttosto che un caso di fallimento abietto”, ciò che è accaduto alla gente dell’Isola di Pasqua “è un’improbabile storia di successo”.  Successo?Come può mai qualcuno chiamare ciò che è successo nell’Isola di Pasqua un “successo”? Be’, ho dato un’occhiata al loro libro, Le statue che camminavano, e stranamente ciò che dicono ha senso, anche se dirò in anticipo che ciò che chiamano “successo” mi sembra altrettanto spaventoso – forse ancora più spaventoso.

Ecco la loro argomentazione: i professori Hunt e Lipo dicono che i cacciatori di fossili e i paleobotanici non hanno scoperto nessuna prova solida che i primi coloni Polinesiani diedero fuoco alla foresta per liberare la terra – ciò che viene chiamata “grande agricoltura preistorica”. Gli alberi sono morti, nessun dubbio. Ma al posto del fuoco, Hunt e Lipo danno la colpa ai topi.

Robert Krulwich/NPR

I topi polinesiani (Rattus exulans) erano nascosti nelle loro canoe, dicono Hunt e Lipo, e quando sono sbarcati, senza nessun nemico e con molte radici di palma da mangiare, si sono dati alla baldoria, mangiando e distruggendo albero dopo albero e moltiplicandosi ad un ritmo furioso. Come ha riportato un recensore sul Wall Street Journal:

Nelle impostazioni di laboratorio, il topo polinesiano può raddoppiare in 47 giorni. Mettetene una coppia fertile in un’isola senza predatori e cibo abbondante e l’aritmetica suggerisce il risultato… Se gli animali si fossero moltiplicati come hanno fatto alle Hawaii, calcolano gli autori, [l’Isola di Pasqua] ne avrebbe rapidamente ospitato fra i 2 e i 3 milioni. Fra i cibi preferiti del R. exulans ci sono i semi e i germogli degli alberi. Gli esseri umani hanno sicuramente abbattuto parte della foresta, ma il danno reale sarebbe venuto dai topi che impedivano la nuova crescita. 

Quando gli alberi se ne sono andati, la stessa cosa hanno fatto 20 altre specie di piante della foresta e 6 uccelli di terra e diversi uccelli di mare. Così c’è stata decisamente meno scelta di cibo, una dieta molto più ristretta, tuttavia la gente continuava a vivere sull’Isola di Pasqua e il cibo, sembra, non era il loro grande problema.

Carne di topo. Ne volete?

Per prima cosa, potevano mangiare topi. Come riporta J.B. MacKinnon nel suo nuovo libro Il mondo di una volta e quello futuro, gli archeologi hanno esaminato gli antichi cumuli di rifiuti sull’Isola di Pasqua cercando ossa di scarto ed hanno trovato “che il 60% delle ossa provenivano dai topi introdotti”. Quindi avevano trovato un sostituto di carne.

Robert Krulwich/NPR

Per di più, siccome l’isola non aveva molta acqua e il suo suolo non era ricco, gli isolani hanno preso delle pietre, le hanno spaccate e sparpagliate sui campi aperti creando una superficie irregolare. Quando soffiava il vento dal mare le pietre irregolari creavano flussi d’aria più irregolari che “rilasciavano i nutrienti minerali della pietra”, dice J.B. MacKinnon, il che ha dato ai suoli la quantità sufficiente di aumento dei nutrienti per sostenere i vegetali fondamentali. Un decimo dell’isola aveva questi “giardini” di pietre spaccate e producevano cibo sufficiente “a sostenere una densità di popolazione simile a posti come l’Oklahoma, il Colorado, la Svezia e la Nuova Zelanda di oggi”. Secondo MacKinnon, gli scienziati dicono che gli scheletri dell’Isola di Pasqua di quel tempo mostrano “meno malnutrizione degli Europei”. Quando un esploratore olandese, Jacob Roggevin, capitò da quelle parti, nel 1722, scrisse che gli isolani non chiedevano cibo. Volevano invece i cappelli europei. E, naturalmente, la gente che ha fame di solito non ha tempo ed energia per scolpire ed innalzare statue di 70 tonnellate intorno alla loro isola.

Una storia di “successo”? 

Perché questa è una storia di successo? Perché, dicono gli antropologi hawaiiani, i clan e le famiglie sull’Isola di Pasqua non sono crollate. E vero, l’isola è diventata desolata, più vuota. L’ecosistema era severamente compromesso. Tuttavia, dicono gli antropologi, gli abitanti dell’Isola di Pasqua non sono scomparsi. Si sono adattati. Non avevano legno per costruire canoe per andare a pescare al largo. Avevano meno uccelli da cacciare. Non avevano noci di cocco. Ma hanno continuato mangiando carne di topo e piccole porzioni di vegetali. Si accontentavano.

Robert Krulwich/NPR
Una domanda pignola: se tutti mangiavano abbastanza, perché la popolazione è declinata? Probabilmente, dicono i professori, a causa di malattie trasmesse sessualmente dopo l’arrivo degli europei. Bene, forse non c’è stato “ecocidio”. Ma è una buona notizia? Dovremmo celebrare? Me lo chiedo. Ciò che abbiamo qui sono due scenari che riguardano apparentemente il passato dell’Isola di Pasqua, ma che riguardano in realtà ciò che potrebbe essere il futuro del nostro pianeta. Il primo scenario – un collasso ecologico – nessuno lo vuole. Ma pensiamo un attimo a questa nuova alternativa – in cui gli esseri umani degradano il loro ambiente ma in qualche modo “se la cavano”. E’ migliore?In qualche modo, penso che questa storia di “successo” sia altrettanto spaventosa. 
Il pericolo del “successo”
E se l’ecosistema del pianeta, come dice J.B. MacKinnon, “viene ridotto in rovina, anche se la sua gente resiste, adorando i propri dei e bramando oggetti di status mentre sopravvive mangiando un qualche equivalente futuristico della carne di topo e degli orti di pietre degli abitanti dell’Isola di Pasqua?”
Gli esseri umani sono una specie molto adattabile. Abbiamo visto la gente crescere abituata alle baraccopoli, adattarsi ai campi di concentramento, imparare a vivere con qualsiasi destino gli si ponga davanti. Se il nostro futuro è quello di degradare continuamente il pianeta, perdendo pianta dopo pianta, animale dopo animale, dimenticando ciò di cui una volte godevamo, adattandoci a circostanze inferiori, senza mai gridare “E’ finita!” – accontentandosi sempre , questo non lo chiamerei “successo”. 
La lezione? Ricordate Tang, la bibita da colazione
Le persone non riescono a ricordare ciò che hanno visto i loro bisnonni, mangiato e amato del mondo. Sanno solo ciò che sanno. Per evitare una crisi ecologica, dobbiamo allarmarci. E allora che tutti noi agiamo. La nuova storia dell’Isola di pasqua suggerisce che gli esseri umani potrebbero non vedere mai l’allarme. E come la storia delle persone abituate a parlare della Tang, un succo d’arancia bibita completamente sintetico reso popolare dalla NASA. Se sapete che sapore ha il vero succo d’arancia, la Tang non è una gran conquista. Ma se siete stati in un viaggio di 50 anni, se avete perso la memoria del vero succo d’arancia allora, gradualmente, cominciate a pensare che la Tang sia deliziosa. Sull’Isola di Pasqua, la gente ha imparato a vivere con meno e dimenticato com’era avere di più. Forse è questo che ci accadrà. Eccola la lezione. E non è una lezione allegra. Come dice MacKinnon: “Se state aspettando che una crisi ecologica persuada gli esseri umani a cambiare le loro relazioni problematiche con la natura, potreste aspettate molto, molto a lungo”.

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Il partito del petrolio di scisto è alla frutta

Da “zerohedge”. Traduzione di MR

Di Tyler Durden

Andy Hall di Phibro (attualmente Astenback Capital Management) sa una cosa o due sul mercato del petrolio – e anche se non lo sapesse (e fosse tutta fortuna), i suoi punti di vista sono sufficientemente rispettati da influenzare il pensiero di gruppo dell’industria. Che è la ragione per cui, per chiunque sia interessato a sapere dove il principale motore del mercato del petrolio vede l’offerta di petrolio nel prossimo decennio, ecco i suoi pensieri completi dalla sua ultima lettera agli investitori di Astenback. Di particolare interesse l’avvertimento di Hall a tutti gli ottimisti del petrolio di scisto: “Secondo i dati DOE, per Bakken e Eagle Ford, il tasso di declino del patrimonio dei pozzi ha funzionato su entrambi i fronti del 6,5% al mese. La produzione dai nuovi pozzi ha proceduto a 90.000 barili al giorno per mese, il che significa una crescita netta della produzione di 25.000 barili al giorno per mese. Diventerà più piccola al procedere della produzione ed è questo il motivo che a parità di condizioni la crescita di produzione per entrambi i giacimenti continuerà a rallentare negli anni a venire. Quando tutti i siti facilmente perforabili sono esauriti – al più tardi poco dopo il 2020 – la produzione di questi giacimenti declinerà”.

Dalla Gestione del Capitale di Astenback

Offerta di petrolio

La velocità con cui è stato raggiunto un accordo provvisorio con l’Iran è stata inaspettata. Ugualmente inaspettato è stato l’immediato allentamento delle sanzioni relative all’accesso alla copertura bancaria ed assicurativa. Questo potrà potenzialmente risultare in un aumento delle esportazioni iraniane di circa 400.000 barili al giorno. Oltre a questo è difficile prevedere cosa possa succedere. La prossima serie di negoziati sarà certamente molto più difficile. Le fondamentali differenze di punti di vista che sono state appianate nei recenti colloqui devono essere risolte pienamente e sarà molto difficile farlo. Inoltre, la capacità fisica dell’Iran di esportare molto più petrolio aggiuntivo è in dubbio perché i suoi vecchi giacimenti petroliferi hanno fame di investimenti.

Come per la Libia, è improbabile che le cose miglioreranno presto. L’agitazione e lo scontento politico sembra peggiorare. Mentre alcune esportazioni petrolifere è probabile che riprendano – in particolare dalla parte occidentale del paese (Tripolitania), i livelli generali di esportazioni di petrolio dalla Libia nel 2014 saranno ben al di sotto di quelli del 2013.

Le esportazioni irachene dovrebbero aumentare di 300.000 barili al giorno nel 2014 in quanto i nuovi impianti per l’esportazione diventano operativi. Ma c’è un rischio significativo di interruzioni dovute ai conflitti tribali in Iraq che rasentano la guerra civile. Il malcontento dell’Arabia Saudita al quasi riavvicinamento dell’Occidente all’Iran è probabile che aggiunga combustibile all’incendio nel conflitto Sunniti-Sciiti per la supremazia sulla regione.

Se ci si aspetta che i guadagni delle esportazioni dall’Iran nel 2014 compensino le perdite dalla Libia, le esportazioni potenziali nette dall’OPEC assommerebbero a qualsiasi incremento si materializzi dall’Iraq. L’Arabia Saudita ha pompato petrolio a ritmi prossimi alla sua massima capacità pratica (se non ipotetica) di 10,5 milioni di barili al giorno per gran parte del 2013. Pertanto potrebbe facilmente ospitare qualsiasi produzione aggiuntiva da parte dell’Iraq per mantenere un prezzo del Brent a 100 dollari – supponendo che lo si voglia fare e che divenga necessario farlo. Tuttavia, 100 dollari sono significativamente inferiori a 110, che è la soglia di riferimento alla quale è stato scambiato in media negli ultimi tre anni.

Questo per quanto riguarda l’OPEC; e l’offerta non-OPEC? Gran parte di chi fa previsioni prevede che cresca di circa 1,4 milioni di barili al giorno con il contributo maggiore – circa 1,1 milioni di barili al giorno – che provengono da Stati Uniti e Canada e il resto principalmente da Brasile e Kazakistan. La produzione di petrolio del Brasile è stata prevista in crescita ogni anno negli ultimi 4 o 5 anni ed ogni volta ha deluso. Infatti Petrobras ha lottato per evitare un declino produttivo. Forse il 2014 è l’anno in cui ribaltano le cose ma forse anche no. Il giacimento di Kashagan in Kazakistan è entrato rapidamente in produzione lo scorso settembre – quasi un decennio oltre i programmi. E’ stato di nuovo chiuso quasi subito per problemi tecnici. L’ipotesi è che il consorzio di aziende che operano nel giacimento riusciranno finalmente ad ottenere una piena produzione nel 2014.

Il contributo del Canada per alimentare la crescita è forse il più prevedibile in quanto proviene da aggiunte alla capacità delle sabbie bituminose la cui tecnologia è provata e testata. Le aggiunte pianificate fornite entrano in produzione secondo il programma del 2014, queste dovrebbero ammontare a circa 200.000 barili al giorno.

Gran parte di coloro che fanno previsioni presumono che gli Stati Uniti aggiungano 900.000 barili al giorno di offerta petrolifera nel 2014, in gran parte provenienti dal proseguimento del boom del petrolio di scisto. Questo sarebbe inferiore all’incremento cui abbiamo assistito quest’anno o nel 2012, ma il clima del mercato sembra dare per scontata una sorpresa al rialzo. Come detto sopra, molte aziende hanno creato un trambusto con notizie di nuove eccitanti proiezioni oltre a Bakken e Eagle Ford, che finora hanno sostenuto quasi la totalità della crescita della produzione di petrolio di scisto. Infatti a prima vista sembrano esserci molte prospettive potenziali che è difficile tracciarle tutte. Anche all’interno di Bakken e Eagle Ford, discorsi su spaziatura in profondità (down-spacing), perfezionamenti in piazzola di perforazione e “super pozzi” con tassi di produzione iniziali molto alti risultanti da nuove tecniche di perfezionamento hanno creato un’impressione di una cornucopia di crescita infinita e quell’impressione pesa sui prossimi prezzi WTI.

Ma parte di quanto sta succedendo qui è il desiderio dell’industria di mantenere un livello di rumore coerente con l’aumento delle valutazioni azionarie e l’afflusso di capitale verso quel settore.

Il gioco serio ora è uno dei più vecchi d’America: il bacino del Permiano. Una manciata di aziende con grandi appezzamenti nella regione stanno facendo valutazioni molto ottimistiche delle loro prospezioni in quei luoghi. Queste sono basate su proiezioni a lungo termine fatte basate sui dati di produzione di pochi mesi in una manciata di pozzi. Ci si chiede se i dati siano pescati in base alla convenienza per essere presentati agli investitori. Sentiamo parlare dei grandi pozzi ma non di quelli deludenti, Inoltre, molte aziende stanno puntando su tassi iniziali di produzione più alti senza tenere conto del maggior esaurimento che vanno di pari passo con questi maggiori tassi iniziali. EOG (Europa Oil & Gas), il più grande e il miglior attore del petrolio di scisto ha recentemente asserito che il Permiano – un gioco nel quale sta attivamente investendo – sarà molto più difficile da sviluppare di quanto non lo siano stati Bakken e Eagle Ford. EOG calcola che i pozzi petroliferi orizzontali nel Permiano hanno una produttività di poco più di un terzo di quelli di Eagle Ford. La EOG ha ulteriormente dichiarato in varie occasioni che la rapida crescita della produzione di petrolio di scisto è già alle nostre spalle.

In parte, questa è semplice matematica. Il DOE (Department of Energy) ha recentemente cominciato a pubblicare le previsioni di produzione a breve termine per ciascuno dei maggiori attori dello scisto. Il DOE ha proiettato gli aumenti mensili di produzione sulla base del totale degli impianti ed ha osservato la loro produttività (nuovi pozzi per impianto al mese moltiplicato per la produzione per impianto) e sottraendo da questo il declino di produzione proveniente dal patrimonio dei pozzi. Secondo i dati del DOEper Bakken e Eagle Ford il tasso di declino del patrimonio dei pozzi è stato del 6,5% al mese in entrambi i siti. Quando questi giacimenti stavano producendo entrambi 500.000 barili al giorno quel declino del patrimonio pertanto ammontava a 33.000 barili al giorno al mese per giacimento. Con entrambi i giacimenti che ora producono 1 milione di barili al giorno, il declino del patrimonio è di 65.000 barili al giorno al mese. La produzione dai nuovi pozzi è proseguita a circa 90.000 barili al giorno al mese per giacimento, il che significa una crescita netta della produzione di 25.000 barili al giorno al mese. Si restringerà mentre la produzione aumenta ed è per questo che a parità di condizioni la crescita della produzione di entrambi i giacimenti continuerà a rallentare nei prossimi anni. Quando tutti questi siti facilmente perforabili sono esauriti – al massimo poco dopo il 2020 – la produzione di questi due giacimenti declinerà.

Altri hanno fatto la stessa analisi. Un paio di settimane fa la IEA ha espresso preoccupazione che l’euforia del petrolio di scisto stava scoraggiando investimenti a più lungo termine in altre parti del mondo che sarebbero necessari per sostenere l’offerta quando la produzione statunitense di petrolio di scisto comincerà a declinare. La rallentata crescita della produzione di petrolio di scisto viene riflessa anche nelle previsioni del gruppo di analisi indipendente ITG (Independent Test Group). ITG ha intrapreso un’analisi più approfondita dei giochi del petrolio di scisto negli Stati Uniti ed ha usato un approccio puntiforme e rigoroso nella previsione del futuro della produzione del petrolio di scisto e non di scisto degli Stati Uniti. Naturalmente la loro previsione, come ogni altra, dipende dagli assunti di base. Ma ITG difficilmente può essere identificato come scettico sul petrolio di scisto – al contrario. Eppure la loro previsione per la crescita della produzione negli Stati Uniti a sua volta annuncia un rallentamento drammatico nel tasso di crescita. La loro previsione più recente è che la crescita della produzione statunitense, esclusa l’Alaska, sarà di 700.000 barili al giorno complessivamente nella produzione di petrolio. 200.000 barili al giorno in meno dell’opinione generale.

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Il partito del petrolio di scisto è alla frutta

Da “zerohedge”. Traduzione di MR

Di Tyler Durden

Andy Hall di Phibro (attualmente Astenback Capital Management) sa una cosa o due sul mercato del petrolio – e anche se non lo sapesse (e fosse tutta fortuna), i suoi punti di vista sono sufficientemente rispettati da influenzare il pensiero di gruppo dell’industria. Che è la ragione per cui, per chiunque sia interessato a sapere dove il principale motore del mercato del petrolio vede l’offerta di petrolio nel prossimo decennio, ecco i suoi pensieri completi dalla sua ultima lettera agli investitori di Astenback. Di particolare interesse l’avvertimento di Hall a tutti gli ottimisti del petrolio di scisto: “Secondo i dati DOE, per Bakken e Eagle Ford, il tasso di declino del patrimonio dei pozzi ha funzionato su entrambi i fronti del 6,5% al mese. La produzione dai nuovi pozzi ha proceduto a 90.000 barili al giorno per mese, il che significa una crescita netta della produzione di 25.000 barili al giorno per mese. Diventerà più piccola al procedere della produzione ed è questo il motivo che a parità di condizioni la crescita di produzione per entrambi i giacimenti continuerà a rallentare negli anni a venire. Quando tutti i siti facilmente perforabili sono esauriti – al più tardi poco dopo il 2020 – la produzione di questi giacimenti declinerà”.

Dalla Gestione del Capitale di Astenback

Offerta di petrolio

La velocità con cui è stato raggiunto un accordo provvisorio con l’Iran è stata inaspettata. Ugualmente inaspettato è stato l’immediato allentamento delle sanzioni relative all’accesso alla copertura bancaria ed assicurativa. Questo potrà potenzialmente risultare in un aumento delle esportazioni iraniane di circa 400.000 barili al giorno. Oltre a questo è difficile prevedere cosa possa succedere. La prossima serie di negoziati sarà certamente molto più difficile. Le fondamentali differenze di punti di vista che sono state appianate nei recenti colloqui devono essere risolte pienamente e sarà molto difficile farlo. Inoltre, la capacità fisica dell’Iran di esportare molto più petrolio aggiuntivo è in dubbio perché i suoi vecchi giacimenti petroliferi hanno fame di investimenti.

Come per la Libia, è improbabile che le cose miglioreranno presto. L’agitazione e lo scontento politico sembra peggiorare. Mentre alcune esportazioni petrolifere è probabile che riprendano – in particolare dalla parte occidentale del paese (Tripolitania), i livelli generali di esportazioni di petrolio dalla Libia nel 2014 saranno ben al di sotto di quelli del 2013.

Le esportazioni irachene dovrebbero aumentare di 300.000 barili al giorno nel 2014 in quanto i nuovi impianti per l’esportazione diventano operativi. Ma c’è un rischio significativo di interruzioni dovute ai conflitti tribali in Iraq che rasentano la guerra civile. Il malcontento dell’Arabia Saudita al quasi riavvicinamento dell’Occidente all’Iran è probabile che aggiunga combustibile all’incendio nel conflitto Sunniti-Sciiti per la supremazia sulla regione.

Se ci si aspetta che i guadagni delle esportazioni dall’Iran nel 2014 compensino le perdite dalla Libia, le esportazioni potenziali nette dall’OPEC assommerebbero a qualsiasi incremento si materializzi dall’Iraq. L’Arabia Saudita ha pompato petrolio a ritmi prossimi alla sua massima capacità pratica (se non ipotetica) di 10,5 milioni di barili al giorno per gran parte del 2013. Pertanto potrebbe facilmente ospitare qualsiasi produzione aggiuntiva da parte dell’Iraq per mantenere un prezzo del Brent a 100 dollari – supponendo che lo si voglia fare e che divenga necessario farlo. Tuttavia, 100 dollari sono significativamente inferiori a 110, che è la soglia di riferimento alla quale è stato scambiato in media negli ultimi tre anni.

Questo per quanto riguarda l’OPEC; e l’offerta non-OPEC? Gran parte di chi fa previsioni prevede che cresca di circa 1,4 milioni di barili al giorno con il contributo maggiore – circa 1,1 milioni di barili al giorno – che provengono da Stati Uniti e Canada e il resto principalmente da Brasile e Kazakistan. La produzione di petrolio del Brasile è stata prevista in crescita ogni anno negli ultimi 4 o 5 anni ed ogni volta ha deluso. Infatti Petrobras ha lottato per evitare un declino produttivo. Forse il 2014 è l’anno in cui ribaltano le cose ma forse anche no. Il giacimento di Kashagan in Kazakistan è entrato rapidamente in produzione lo scorso settembre – quasi un decennio oltre i programmi. E’ stato di nuovo chiuso quasi subito per problemi tecnici. L’ipotesi è che il consorzio di aziende che operano nel giacimento riusciranno finalmente ad ottenere una piena produzione nel 2014.

Il contributo del Canada per alimentare la crescita è forse il più prevedibile in quanto proviene da aggiunte alla capacità delle sabbie bituminose la cui tecnologia è provata e testata. Le aggiunte pianificate fornite entrano in produzione secondo il programma del 2014, queste dovrebbero ammontare a circa 200.000 barili al giorno.

Gran parte di coloro che fanno previsioni presumono che gli Stati Uniti aggiungano 900.000 barili al giorno di offerta petrolifera nel 2014, in gran parte provenienti dal proseguimento del boom del petrolio di scisto. Questo sarebbe inferiore all’incremento cui abbiamo assistito quest’anno o nel 2012, ma il clima del mercato sembra dare per scontata una sorpresa al rialzo. Come detto sopra, molte aziende hanno creato un trambusto con notizie di nuove eccitanti proiezioni oltre a Bakken e Eagle Ford, che finora hanno sostenuto quasi la totalità della crescita della produzione di petrolio di scisto. Infatti a prima vista sembrano esserci molte prospettive potenziali che è difficile tracciarle tutte. Anche all’interno di Bakken e Eagle Ford, discorsi su spaziatura in profondità (down-spacing), perfezionamenti in piazzola di perforazione e “super pozzi” con tassi di produzione iniziali molto alti risultanti da nuove tecniche di perfezionamento hanno creato un’impressione di una cornucopia di crescita infinita e quell’impressione pesa sui prossimi prezzi WTI.

Ma parte di quanto sta succedendo qui è il desiderio dell’industria di mantenere un livello di rumore coerente con l’aumento delle valutazioni azionarie e l’afflusso di capitale verso quel settore.

Il gioco serio ora è uno dei più vecchi d’America: il bacino del Permiano. Una manciata di aziende con grandi appezzamenti nella regione stanno facendo valutazioni molto ottimistiche delle loro prospezioni in quei luoghi. Queste sono basate su proiezioni a lungo termine fatte basate sui dati di produzione di pochi mesi in una manciata di pozzi. Ci si chiede se i dati siano pescati in base alla convenienza per essere presentati agli investitori. Sentiamo parlare dei grandi pozzi ma non di quelli deludenti, Inoltre, molte aziende stanno puntando su tassi iniziali di produzione più alti senza tenere conto del maggior esaurimento che vanno di pari passo con questi maggiori tassi iniziali. EOG (Europa Oil & Gas), il più grande e il miglior attore del petrolio di scisto ha recentemente asserito che il Permiano – un gioco nel quale sta attivamente investendo – sarà molto più difficile da sviluppare di quanto non lo siano stati Bakken e Eagle Ford. EOG calcola che i pozzi petroliferi orizzontali nel Permiano hanno una produttività di poco più di un terzo di quelli di Eagle Ford. La EOG ha ulteriormente dichiarato in varie occasioni che la rapida crescita della produzione di petrolio di scisto è già alle nostre spalle.

In parte, questa è semplice matematica. Il DOE (Department of Energy) ha recentemente cominciato a pubblicare le previsioni di produzione a breve termine per ciascuno dei maggiori attori dello scisto. Il DOE ha proiettato gli aumenti mensili di produzione sulla base del totale degli impianti ed ha osservato la loro produttività (nuovi pozzi per impianto al mese moltiplicato per la produzione per impianto) e sottraendo da questo il declino di produzione proveniente dal patrimonio dei pozzi. Secondo i dati del DOEper Bakken e Eagle Ford il tasso di declino del patrimonio dei pozzi è stato del 6,5% al mese in entrambi i siti. Quando questi giacimenti stavano producendo entrambi 500.000 barili al giorno quel declino del patrimonio pertanto ammontava a 33.000 barili al giorno al mese per giacimento. Con entrambi i giacimenti che ora producono 1 milione di barili al giorno, il declino del patrimonio è di 65.000 barili al giorno al mese. La produzione dai nuovi pozzi è proseguita a circa 90.000 barili al giorno al mese per giacimento, il che significa una crescita netta della produzione di 25.000 barili al giorno al mese. Si restringerà mentre la produzione aumenta ed è per questo che a parità di condizioni la crescita della produzione di entrambi i giacimenti continuerà a rallentare nei prossimi anni. Quando tutti questi siti facilmente perforabili sono esauriti – al massimo poco dopo il 2020 – la produzione di questi due giacimenti declinerà.

Altri hanno fatto la stessa analisi. Un paio di settimane fa la IEA ha espresso preoccupazione che l’euforia del petrolio di scisto stava scoraggiando investimenti a più lungo termine in altre parti del mondo che sarebbero necessari per sostenere l’offerta quando la produzione statunitense di petrolio di scisto comincerà a declinare. La rallentata crescita della produzione di petrolio di scisto viene riflessa anche nelle previsioni del gruppo di analisi indipendente ITG (Independent Test Group). ITG ha intrapreso un’analisi più approfondita dei giochi del petrolio di scisto negli Stati Uniti ed ha usato un approccio puntiforme e rigoroso nella previsione del futuro della produzione del petrolio di scisto e non di scisto degli Stati Uniti. Naturalmente la loro previsione, come ogni altra, dipende dagli assunti di base. Ma ITG difficilmente può essere identificato come scettico sul petrolio di scisto – al contrario. Eppure la loro previsione per la crescita della produzione negli Stati Uniti a sua volta annuncia un rallentamento drammatico nel tasso di crescita. La loro previsione più recente è che la crescita della produzione statunitense, esclusa l’Alaska, sarà di 700.000 barili al giorno complessivamente nella produzione di petrolio. 200.000 barili al giorno in meno dell’opinione generale.

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Gaia: non abbiamo ancora visto niente

Da “Cassandra’s Legacy”. Traduzione di MR

La magnifica Signora
che raccoglie in sé i poteri divini di Cielo e Terra
e rivaleggia col grande An,
è la più grande fra i grandi Dei.
Essa rende i loro verdetti definitivi.

(dal corpo di testo elettronico della Letteratura Sumera)

Una recensione del libro di Tim Lenton e Andrew Watson “Le rivoluzioni che hanno fatto la Terra” (Oxford 2011)

Gli autori de “Le rivoluzioni che hanno fatto la Terra” cominciano proprio dall’inizio menzionando il nome di Gaia per il tema del loro libro; la storia dell’ecosistema terrestre. Alcuni vedono Gaia come un essere vivente, alcuni come una Dea benevola, alcuni come un groviglio di retroazioni e altri pensano che non esista proprio. Tuttavia, là fuori c’è una ragione, c’è una logica. L’ecosistema (ossia “Gaia”) è li per fare qualcosa – è lì per dissipare entropia al tasso più rapido possibile. E lo fa in maniera molto creativa, per mezzo di un’innumerevole varietà di cose e creature che vediamo intorno a noi. Stiamo appena cominciando a capire come funziona esattamente questo gigantesco sistema e come è cambiato negli eoni. Probabilmente è la storia più affascinante mai raccontata – e non è ancora finita.

Se sapete qualcosa di questa storia lunga diversi miliardi di anni, non potete che dispiacervi per i poveri allocchi che pensano che tutto il problema del cambiamento climatico si riduca a certe dichiarazioni sciocche come “il clima è sempre cambiato”. Il clima terrestre, infatti, è sempre cambiato, ma sempre per qualche ragione. Ed ora sta cambiando molto velocemente per una ragione che comprendiamo: le emissioni di gas serra causate dagli esseri umani. E’ un cambiamento che sta avvenendo troppo velocemente perché i meccanismi planetari che normalmente stabilizzano il clima possano intervenire. I risultati potrebbero essere molto negativi per gli esseri umani, ma a Gaia non importa degli esseri umani. Semplicemente sopravvive.

Sfortunatamente, gli esseri umani sembrano non capire il pasticcio in cui si sono cacciati con le loro emissioni di carbonio. Una ragione è che i meccanismi climatici di Gaia sono descritti in saggi scientifici nascosti dietro siti a pagamento per il profitto degli editori commerciali e scritti in un linguaggio oscuro e proibitivo. Per i non iniziati, imparare la storia della Terra e del suo clima dai saggi accademici non è tanto più facile di quanto sarebbe decifrare gli inni alla Dea della Terra Inanna (un nome di Gaia più antico) dalle tavole cuneiformi sumere. Ma la conoscenza scientifica su Gaia sta cominciando a filtrare dal mondo rarefatto dell’accademia al mondo reale delle persone comuni e il libro “Le rivoluzioni che hanno fatto la Terra” ci dà almeno una possibilità di imparare i fondamentali di questo tema.

“Le rivoluzioni” è scritto in un inglese semplice, non in cuneiforme, e gli autori hanno fatto uno sforzo notevole per essere chiari e comprensibili dai profani. Ciò non significa che sia un libro facile e Lenton e Watson avvertono il lettore che “Il libro copre delle aree che spaziano in difficoltà dal semplice all’estenuante”. Hanno ragione: ha volte si ha la sensazione che decifrare il cuneiforme potrebbe essere più facile che non decifrare alcune sezioni di questo libro. Probabilmente è inevitabile: Gaia è un sistema complesso, uno dei sistemi più complessi di cui siamo a conoscenza. E per tutte le cose importanti ed affascinanti, imparare gli usi e i costumi della Dea richiede (e merita) tempo ed attenzione.

Ma se ci si lascia prendere dalla storia che gli autori delle “Rivoluzioni” ci raccontano, be’, non è necessario andare nei dettagli più complicati (diciamo la questione del frazionamento indipendente della massa degli isotopi di zolfo). E che storia ci raccontano! Copre 4 miliardi di anni e attraversa una serie di eventi drammatici; “rivoluzioni”, come le chiamano correttamente gli autori. Elencano un totale di 8 eventi del genere, dall’apparizione delle molecole che si auto-riproducono all’origine dei linguaggi simbolici, con l’apparire degli esseri umani. In questa serie di rivoluzioni, Gaia ha intensificato il proprio metabolismo in direzione di una trasduzione dell’energia solare sempre più efficiente; ogni rivoluzione è stata, fondamentalmente, una rivoluzione metabolica. Lenton e Watson stimano (p.49) che il miglioramento dell’efficienza metabolica sia stata perlomeno di un fattore 1000 rispetto alle prime forme di vita sulla Terra, rispetto all’attuale biosfera.

Quindi, non abbiamo ancora visto niente: il motore planetario si è avviato e potrebbe tranquillamente andare in fuorigiri. E’ questo il punto che esprimono Lenton e Watson: le rivoluzioni non sono finite. C’è un sacco di spazio per la crescita di Gaia, visto che l’intera biosfera oggi non cattura che il 2% dell’energia che arriva dal Sole. Quindi, potremmo essere pronti per un nuovo salto che potrebbe portare la complessità dell’ecosistema a livelli finora inimmaginabili.

Cosa potrebbe essere questa nuova rivoluzione è difficile da dire. Qui, il capitolo delle “Rivoluzioni” che descrive il futuro dell’ecosistema è – devo dirlo – il meno soddisfacente del libro. Tenta un’impresa impossibile: poche pagine non sono sufficienti per affrontare un problema così gigantesco. E’ certo, comunque, che le rivoluzioni non sono mai indolori e sarebbe sbagliato pensare che il nuovo salto metabolico salverà l’umanità dai disastri autoinflitti del riscaldamento globale. Potrebbe salvare solo alcuni di noi, o forse nessuno. A Gaia non importa degli esseri umani, sopravvive semplicemente. Vedremo cosa ha in serbo il futuro per noi. Nel frattempo, mi leggo per la seconda volta “Le rivoluzioni” – come merita.

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Gaia: non abbiamo ancora visto niente

Da “Cassandra’s Legacy”. Traduzione di MR

La magnifica Signora
che raccoglie in sé i poteri divini di Cielo e Terra
e rivaleggia col grande An,
è la più grande fra i grandi Dei.
Essa rende i loro verdetti definitivi.

(dal corpo di testo elettronico della Letteratura Sumera)

Una recensione del libro di Tim Lenton e Andrew Watson “Le rivoluzioni che hanno fatto la Terra” (Oxford 2011)

Gli autori de “Le rivoluzioni che hanno fatto la Terra” cominciano proprio dall’inizio menzionando il nome di Gaia per il tema del loro libro; la storia dell’ecosistema terrestre. Alcuni vedono Gaia come un essere vivente, alcuni come una Dea benevola, alcuni come un groviglio di retroazioni e altri pensano che non esista proprio. Tuttavia, là fuori c’è una ragione, c’è una logica. L’ecosistema (ossia “Gaia”) è li per fare qualcosa – è lì per dissipare entropia al tasso più rapido possibile. E lo fa in maniera molto creativa, per mezzo di un’innumerevole varietà di cose e creature che vediamo intorno a noi. Stiamo appena cominciando a capire come funziona esattamente questo gigantesco sistema e come è cambiato negli eoni. Probabilmente è la storia più affascinante mai raccontata – e non è ancora finita.

Se sapete qualcosa di questa storia lunga diversi miliardi di anni, non potete che dispiacervi per i poveri allocchi che pensano che tutto il problema del cambiamento climatico si riduca a certe dichiarazioni sciocche come “il clima è sempre cambiato”. Il clima terrestre, infatti, è sempre cambiato, ma sempre per qualche ragione. Ed ora sta cambiando molto velocemente per una ragione che comprendiamo: le emissioni di gas serra causate dagli esseri umani. E’ un cambiamento che sta avvenendo troppo velocemente perché i meccanismi planetari che normalmente stabilizzano il clima possano intervenire. I risultati potrebbero essere molto negativi per gli esseri umani, ma a Gaia non importa degli esseri umani. Semplicemente sopravvive.

Sfortunatamente, gli esseri umani sembrano non capire il pasticcio in cui si sono cacciati con le loro emissioni di carbonio. Una ragione è che i meccanismi climatici di Gaia sono descritti in saggi scientifici nascosti dietro siti a pagamento per il profitto degli editori commerciali e scritti in un linguaggio oscuro e proibitivo. Per i non iniziati, imparare la storia della Terra e del suo clima dai saggi accademici non è tanto più facile di quanto sarebbe decifrare gli inni alla Dea della Terra Inanna (un nome di Gaia più antico) dalle tavole cuneiformi sumere. Ma la conoscenza scientifica su Gaia sta cominciando a filtrare dal mondo rarefatto dell’accademia al mondo reale delle persone comuni e il libro “Le rivoluzioni che hanno fatto la Terra” ci dà almeno una possibilità di imparare i fondamentali di questo tema.

“Le rivoluzioni” è scritto in un inglese semplice, non in cuneiforme, e gli autori hanno fatto uno sforzo notevole per essere chiari e comprensibili dai profani. Ciò non significa che sia un libro facile e Lenton e Watson avvertono il lettore che “Il libro copre delle aree che spaziano in difficoltà dal semplice all’estenuante”. Hanno ragione: ha volte si ha la sensazione che decifrare il cuneiforme potrebbe essere più facile che non decifrare alcune sezioni di questo libro. Probabilmente è inevitabile: Gaia è un sistema complesso, uno dei sistemi più complessi di cui siamo a conoscenza. E per tutte le cose importanti ed affascinanti, imparare gli usi e i costumi della Dea richiede (e merita) tempo ed attenzione.

Ma se ci si lascia prendere dalla storia che gli autori delle “Rivoluzioni” ci raccontano, be’, non è necessario andare nei dettagli più complicati (diciamo la questione del frazionamento indipendente della massa degli isotopi di zolfo). E che storia ci raccontano! Copre 4 miliardi di anni e attraversa una serie di eventi drammatici; “rivoluzioni”, come le chiamano correttamente gli autori. Elencano un totale di 8 eventi del genere, dall’apparizione delle molecole che si auto-riproducono all’origine dei linguaggi simbolici, con l’apparire degli esseri umani. In questa serie di rivoluzioni, Gaia ha intensificato il proprio metabolismo in direzione di una trasduzione dell’energia solare sempre più efficiente; ogni rivoluzione è stata, fondamentalmente, una rivoluzione metabolica. Lenton e Watson stimano (p.49) che il miglioramento dell’efficienza metabolica sia stata perlomeno di un fattore 1000 rispetto alle prime forme di vita sulla Terra, rispetto all’attuale biosfera.

Quindi, non abbiamo ancora visto niente: il motore planetario si è avviato e potrebbe tranquillamente andare in fuorigiri. E’ questo il punto che esprimono Lenton e Watson: le rivoluzioni non sono finite. C’è un sacco di spazio per la crescita di Gaia, visto che l’intera biosfera oggi non cattura che il 2% dell’energia che arriva dal Sole. Quindi, potremmo essere pronti per un nuovo salto che potrebbe portare la complessità dell’ecosistema a livelli finora inimmaginabili.

Cosa potrebbe essere questa nuova rivoluzione è difficile da dire. Qui, il capitolo delle “Rivoluzioni” che descrive il futuro dell’ecosistema è – devo dirlo – il meno soddisfacente del libro. Tenta un’impresa impossibile: poche pagine non sono sufficienti per affrontare un problema così gigantesco. E’ certo, comunque, che le rivoluzioni non sono mai indolori e sarebbe sbagliato pensare che il nuovo salto metabolico salverà l’umanità dai disastri autoinflitti del riscaldamento globale. Potrebbe salvare solo alcuni di noi, o forse nessuno. A Gaia non importa degli esseri umani, sopravvive semplicemente. Vedremo cosa ha in serbo il futuro per noi. Nel frattempo, mi leggo per la seconda volta “Le rivoluzioni” – come merita.

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Il GISS della NASA mostra che il novembre del 2013 è il più caldo mai registrato. Il Jet Stream mutilato porta 4-8°C al di sopra della media in Russia e sull’Artico

Da “robertscribbler”. Traduzione di MR

(Anomalia della temperatura globale a novembre 2013. Fonte dell’immagine: NASA )

I record di temperatura continuano a cadere. Nonostante un autunno e un’inizio di inverno in qualche modo più freddi della media in gran parte degli Stati Uniti, il mondo ha continuato nella sua inesorabile tendenza al riscaldamento frantumando un precedente record di temperatura media massima del mese di novembre. Secondo il GISS della NASA, novembre 2013 è stato il più caldo mai registrato da quando sono iniziati i rilevamenti nel 1880. Di 0,77°C al di sopra della media 1951-1980, il novembre 2013 è stato di 0,02°C più caldo del novembre del 2010, il precedente novembre più caldo.

Quasi tutte le regioni del globo hanno mostrato temperature al di sopra della media. Le due eccezioni sono state l’Antartide occidentale e le regioni adiacenti del Nord America centro-orientale. Le temperature in queste regioni sono state da 0,5 a 4,1°C al di sotto del normale. Le regioni più calde del mondo hanno riguardato l’Antartide, l’Oceano Pacifico al di sotto dell’Alaska, l’Alaska e un grande fascia che comprende la Russia e le regioni adiacenti dell’Artico. Il caldo dell’Antartico è andato da 1 a 4°C al di sopra del normale ed ha coperto gran parte del continente. Ampie regioni dell’Alaska e degli oceani Pacifico e Artico adiacenti sono andate da 0,5 a 4°C al di sopra della media.

Ma la zona più calda comprende una enorme sezione della Russia e dell’adiacente Oceano Artico. Lì, una ondulazione persistente e di grande ampiezza nel Jet Stream ha portato temperature molto più calde della media molto a nord, forzando le temperature in una gamma da 4 a 8°C al di sopra della media su un’enorme regione e portando un cuneo di caldo fino al Polo Nord. Secondo la dottoressa Jennifer Francis e il dottor Jeff Masters, una tale ampiezza delle onde del Jet Stream sono sia i motori principali del meteo estremo sia il diretto risultato delle massicce perdite di ghiaccio marino che hanno luogo dal 2007.

Novembre 2013 è il primo esempio di amplificazione polare

Un più rapido riscaldamento ai poli, o amplificazione polare, è stata coinvolta in un rallentamento osservato nel Jet Stream che è diventato sempre più pronunciato negli anni recenti, dando come risultato sia ondate di calore e siccità sia eventi di forti piogge. Le temperature osservate hanno mostrato una amplificazione classica e pronunciata ai poli con l’emisfero nord che ha l’amplificazione più pronunciata. Vale la pena di notare che non è previsto che l’emisfero meridionale si amplifichi così rapidamente, in quanto l’oceano meridionale agisce da enorme dissipatore.

(Anomalie zonali delle temperature di novembre 2013. Fonte dell’immagine: NASA)

Le letture di CO2 e metano osservate durante il periodo sono state a loro volta molto alte sull’Artico e sul nord della Russia con numerosi picchi sulla gamma da 1.900 e 2.200 ppm (parti per miliardo) di metano e livelli di CO2 che salgono al di sopra delle 400 ppm per gran parte della regione dell’Artico a fine novembre. Anche se è probabile che contribuiscano all’amplificazione dell’Artico, questi valori di per sé non sono sufficienti per spiegare le temperature molto alte osservate in Russia durante il periodo che, come segnalato sopra, hanno coinciso con uno schema che blocca l’ondulazione nel Jet Stream dell’emisfero settentrionale. Il caldo anomalo dell’Alaska è anche coinciso con una forte ondulazione che è persistita sulla regione per gran parte di quest’anno.

Queste condizioni di caldo da record sono eccezionali, specialmente se si considera che l’ENSO rimane in uno stato neutrale. Tali condizioni non promettono bene per l’ENSO del prossimo anno, quando emergerà.

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Il GISS della NASA mostra che il novembre del 2013 è il più caldo mai registrato. Il Jet Stream mutilato porta 4-8°C al di sopra della media in Russia e sull’Artico

Da “robertscribbler”. Traduzione di MR

(Anomalia della temperatura globale a novembre 2013. Fonte dell’immagine: NASA )

I record di temperatura continuano a cadere. Nonostante un autunno e un’inizio di inverno in qualche modo più freddi della media in gran parte degli Stati Uniti, il mondo ha continuato nella sua inesorabile tendenza al riscaldamento frantumando un precedente record di temperatura media massima del mese di novembre. Secondo il GISS della NASA, novembre 2013 è stato il più caldo mai registrato da quando sono iniziati i rilevamenti nel 1880. Di 0,77°C al di sopra della media 1951-1980, il novembre 2013 è stato di 0,02°C più caldo del novembre del 2010, il precedente novembre più caldo.

Quasi tutte le regioni del globo hanno mostrato temperature al di sopra della media. Le due eccezioni sono state l’Antartide occidentale e le regioni adiacenti del Nord America centro-orientale. Le temperature in queste regioni sono state da 0,5 a 4,1°C al di sotto del normale. Le regioni più calde del mondo hanno riguardato l’Antartide, l’Oceano Pacifico al di sotto dell’Alaska, l’Alaska e un grande fascia che comprende la Russia e le regioni adiacenti dell’Artico. Il caldo dell’Antartico è andato da 1 a 4°C al di sopra del normale ed ha coperto gran parte del continente. Ampie regioni dell’Alaska e degli oceani Pacifico e Artico adiacenti sono andate da 0,5 a 4°C al di sopra della media.

Ma la zona più calda comprende una enorme sezione della Russia e dell’adiacente Oceano Artico. Lì, una ondulazione persistente e di grande ampiezza nel Jet Stream ha portato temperature molto più calde della media molto a nord, forzando le temperature in una gamma da 4 a 8°C al di sopra della media su un’enorme regione e portando un cuneo di caldo fino al Polo Nord. Secondo la dottoressa Jennifer Francis e il dottor Jeff Masters, una tale ampiezza delle onde del Jet Stream sono sia i motori principali del meteo estremo sia il diretto risultato delle massicce perdite di ghiaccio marino che hanno luogo dal 2007.

Novembre 2013 è il primo esempio di amplificazione polare

Un più rapido riscaldamento ai poli, o amplificazione polare, è stata coinvolta in un rallentamento osservato nel Jet Stream che è diventato sempre più pronunciato negli anni recenti, dando come risultato sia ondate di calore e siccità sia eventi di forti piogge. Le temperature osservate hanno mostrato una amplificazione classica e pronunciata ai poli con l’emisfero nord che ha l’amplificazione più pronunciata. Vale la pena di notare che non è previsto che l’emisfero meridionale si amplifichi così rapidamente, in quanto l’oceano meridionale agisce da enorme dissipatore.

(Anomalie zonali delle temperature di novembre 2013. Fonte dell’immagine: NASA)

Le letture di CO2 e metano osservate durante il periodo sono state a loro volta molto alte sull’Artico e sul nord della Russia con numerosi picchi sulla gamma da 1.900 e 2.200 ppm (parti per miliardo) di metano e livelli di CO2 che salgono al di sopra delle 400 ppm per gran parte della regione dell’Artico a fine novembre. Anche se è probabile che contribuiscano all’amplificazione dell’Artico, questi valori di per sé non sono sufficienti per spiegare le temperature molto alte osservate in Russia durante il periodo che, come segnalato sopra, hanno coinciso con uno schema che blocca l’ondulazione nel Jet Stream dell’emisfero settentrionale. Il caldo anomalo dell’Alaska è anche coinciso con una forte ondulazione che è persistita sulla regione per gran parte di quest’anno.

Queste condizioni di caldo da record sono eccezionali, specialmente se si considera che l’ENSO rimane in uno stato neutrale. Tali condizioni non promettono bene per l’ENSO del prossimo anno, quando emergerà.

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Michael Klare: il picco del petrolio è morto, lunga vita al picco del petrolio!

Da “Tomdispatch”. Traduzione di MR

Eccoci qua in un “vortice polare” da record con le Everglades della Florida che stanno per congelare e il Minnesota che registra venti freddi di -60°F. Questi sistemi meteorologici più estremi, che dovrebbero scaldare i cuori dei negazionisti climatici, potrebbero di fatto risultare essere collegati al cambiamento climatico (grazie ad un Artico in fusione che si scalda il doppio più velocemente del resto del pianeta – vedi video della Casa Bianca). Nel frattempo, dall’altra parte del mondo, l’Australia ha vissuto un’impressionante ondata di calore, essendo appena uscita da un anno che ha avuto il giorno, la settimana e il mese più caldi e la media generale più alta mai registrata in quel continente. Tuttavia, diamo ai negazionisti climatici ciò che è loro dovuto. E’ da tanto che dichiarano che la scienza del clima sia, al massimo, un’attività incline all’errore. E’ un punto col quale il professor Steven Sherwood è d’accordo. Risulta che sia l’autore di uno studio appena apparso sulla rivista Nature focalizzato sulla copertura nuvolosa e sul cambiamento climatico futuri. Lo studio conclude che il pianeta si scalderà più rapidamente di quanto previsto, come minimo raggiungendo i +4°C per il 2100 (il che, naturalmente, significherebbe una catastrofe inimmaginabile). Ecco il suo modo di dare ai negazionisti ciò che è loro dovuto: “Agli scettici del clima piace criticare i modelli climatici perché interpretano male le cose e noi siamo i primi ad ammettere che non sono perfetti, ma quello che stiamo scoprendo è che gli errori vengono fatti da quei modelli che prevedono meno riscaldamento, non da quelli che ne prevedono di più”.

Nel frattempo, l’anno appena trascorso è stato generalmente un anno monotono nella nuova era del cambiamento climatico. Anche se i risultati finali non saranno disponibili fino a marzo, sarà fra i 10 anni più caldi da quando sono state registrate per la prima volta le temperature, più o meno fra il quarto e il settimo. (A proposito, i 10 anni più caldi sono stati tutti dal 1998, nove nell’ultimo decennio). Per la prima volta nella storia, il pianeta ha brevemente e minacciosamente raggiunto le 400 ppm di CO2 atmosferico; gli oceani diventano più acidi; le siccità e gli incendi si sono rafforzati; le tempeste hanno imperversato, anche se solo una ha raggiunto proporzioni epiche, il Tifone Haiyan nelle Filippine; il ghiaccio marino estivo dell’Artico ha avuto una grande fusione (significativamente al di sopra dei livelli del ventesimo secolo, ma meno del 2012); la copertura dei media sul cambiamento climatico è aumentata in modo modesto per la prima volta in anni e ed uno dei maggiori cavalli di battaglia del movimento del negazionismo climatico – la supposta “pausa del riscaldamento” che sta attraversando il pianeta – è finita nel cesso. Nel frattempo, le previsioni stanno cominciando ad arrivare e suggeriscono che – se si sviluppa un fenomeno de El Niño nell’Oceano Pacifico, come credono alcuni scienziati – il 2014 potrebbe rivelarsi da guinness dei primati. Con l’inizio dell’anno sappiamo di più su cosa ci riserva il futuro in qualche modo con maggiore certezza e, parlando in generale, visto che continuano ad essere immesse quantità record di biossido di carbonio nell’atmosfera, facciamo decisamente poco per questo. Per adattare quell’esempio classico sui limiti della libertà di espressione, immaginate che una grande squadra di scienziati ora stia continuamente gridando “Al fuoco!” nel cinema globale e, come risultato, più piromani con fiamme ossidriche stiano arrivando in continuazione. Dopotutto, di quelli che non fanno niente per il cambiamento climatico, nessuno ne sta facendo di più delle compagnie petrolifere e delle nazioni – dall’Arabia Saudita alla Russia – che sono di fatto gigantesche compagnie petrolifere. Come indica Michael Klare nel suo ultimo post, l’urgenza dei giganti petroliferi e dei loro sostenitori di dichiarare che non ci sono limiti al futuro dell’estrazione di petrolio e gas naturale è, perlomeno, agghiacciante, in un pianeta che si scalda. Sembrano intenti a dare alla frase “Il limite è il cielo” un nuovo, torvo significato. Per fortuna, come il nostro esperto interno di energia evidenzia, potrebbero avere una sorpresa o due nel percorso. Tom

Forse il necrologio per il picco del petrolio potrebbe essere arrivato troppo presto

Di Michael T. Klare

Fra le grandi storie sull’energia del 2013, il “picco del petrolio” – la nozione un tempo popolare secondo al quale il produzione mondiale avrebbe presto raggiunto un livello massimo e sarebbe iniziato un declino irreversibile – è stata completamente screditata. Lo sviluppo esplosivo del petrolio da scisto ed di altri combustibili non convenzionali negli Stati Uniti ha aiutato a deporlo nella sua tomba.

Mentre l’anno andava avanti, i necrologi si sono susseguiti in modo rapido e furioso. “Oggi, è probabilmente sicuro dire che abbiamo ucciso il ‘picco del petrolio’ una volta per tutte, grazie alla combinazione di nuove tecniche di produzione di petrolio e gas da scisto”, ha dichiarato Rob Wile, un giornalista energetico ed economico di Business Insider. Commenti analoghi di esperti energetici sono stati comuni, portando a un titolo da requiem su Time.com , annunciando che “Il picco del petrolio è morto”.

Non così in fretta, però. L’attuale giro di necrologi ricordano la famosa frase di Mark Twain: “La notizia della mia morte è stata fortemente esagerata”. Prime che i necrologi per la teoria del picco del petrolio si ammucchino troppo, diamo uno sguardo accurato a queste asserzioni. Fortunatamente, la International Energy Agency (IEA), il braccio armato della grandi potenze industrializzate con sede a Parigi, di recente lo ha fatto – e i risultati sono stati inattesi. Pur non reinsediando il picco del petrolio nel suo trono, ha reso chiaro che gran parte del parlare del pozzo petrolifero perpetuo del petrolio di scisto americano è ampiamente esagerato. Lo sfruttamento di quelle riserve di scisto potrebbero ritardare l’inizio del picco del petrolio pr un anno o giù di lì, osservano gli esperti dell’agenzia, ma il quadro a lungo termine “non è cambiato granché con l’arrivo del [petrolio di scisto]”.

Il punto di vista della IEA su questo tema e particolarmente degno di nota a perché le sue affermazioni di solo un anno fa, secondo le quali gli Stati Uniti avrebbero superato l’Arabia Saudita diventando i principali produttori di petrolio, hanno inizialmente scatenato il diluvio del “picco del petrolio è morto”. Scrivendo nell’edizione del 2012 del suo World Energy Outlook, l’agenzia ha dichiarato non solo che “è previsto che gli Stati Uniti diventino i più grandi produttori di petrolio al mondo” circa nel 2020, ma anche che con la produzione da scisto degli Stati Uniti e delle sabbie bituminose canadesi che entrano in produzione, “il Nord America diventa un esportatore netto di petrolio nel 2030”.

Quello stesso rapporto del novembre del 2012 sottolineava di tecnologie di produzione avanzate – cioè la perforazione orizzontale e la fratturazione idraulica (“fracking”) – per estrarre petrolio e gas naturale dalla roccia un tempo inaccessibile, specialmente lo scisto. Il rapporto copriva anche lo sfruttamento progressivo del bitume canadese (sabbie bituminose o sabbie petrolifere), un’altra risorsa ritenuta precedentemente troppo proibitiva per essere economica da sviluppare. Con la produzione di questi ad altri combustibili “non convenzionali” pronti ad esplodere nei prossimi anni, suggeriva il rapporto, il lungamente atteso picco della produzione mondiale di petrolio poteva essere rimandata a lungo nel futuro.

La pubblicazione dell’edizione del 2012 del World Energy Outlook ha innescato una frenesia globale di segnalazioni speculativa, gran parte della quale annunciava una nuova era di abbondanza energetica per l’America. “America Saudita” è stato il titolo su un osanna del genere del Wall Street Journal. Citando il nuovo studio della IEA, quel saggio annunciava “un boom energetico per gli Stati Uniti” portato dalla “innovazione tecnologica e dal rischio d’impresa finanziato da capitale privato”. Da quel momento in poigli analisti americani dell’energia hanno parlato entusiasticamente delle capacità di una serie di nuove tecnologie estrattive, in particolare del fracking, di liberare il petrolio e il gas naturale da formazioni di scisto fino a quel momento inaccessibili. “Questa è una vera rivoluzione energetica”, proclamava il quotidiano.

Ma questo è successo allora. L’edizione più recente del World Energy Outlook, pubblicata lo scorso novembre, è stata molto più circospetta. Sì, il petrolio di scisto, le sabbie bituminose ed altri combustibili non convenzionali si aggiungeranno alle forniture globali nei prossimi anni e, sì, la tecnologia aiuterà a prolungare la vita del petrolio. Ciononostante, è facile dimenticare che stiamo anche assistendo all’esaurimento in blocco dei giacimenti mondiali esistenti e quindi tutti questi aumenti nella produzione da scisto deve essere controbilanciata dai declini della produzione convenzionale. In circostanze ideali – alti livelli di investimento, continui progressi tecnologici, domanda e prezzi adeguati – potrebbe essere possibile evitare un imminente picco della produzione mondiale, ma l’ultimo rapporto della IEA chiarisce, non c’è alcuna garanzia che questo avverrà.

Approssimarsi gradatamente al picco

Prima di immergerci in profondità nella valutazione della IEA, diamo uno sguardo rapido alla teoria del picco del petrolio in sé.

Per come è stata sviluppata negli anni 50 dal geologo petrolifero M. King Hubbert, la teoria del picco del petrolio sostiene che ogni singolo giacimento petrolifero (o paese produttore di petrolio) sperimenterà un alto tasso di crescita della produzione durante lo sviluppo iniziale, quando le perforazioni vengono introdotte per la prima volta in una riserva che contiene petrolio. In seguito, la crescita rallenterà, in quanto le risorse più prontamente accessibili sono state estratte e dev’essere fatto affidamento su depositi meno produttivi. A questo punto – di solito quando sono state estratte metà delle risorse di un giacimento (o di un paese) – la produzione quotidiana raggiunge un livello massimo, o “picco”, e poi comincia a calare, Naturalmente, il giacimento o i giacimenti continueranno a produrre anche dopo il picco, ma saranno richiesti sempre più sforzi e spese per estrarre ciò che rimane. Alla fine, il costo di produzione eccederà i proventi delle vendite e l’estrazione sarà conclusa.

Per Hubbert ed i suoi seguaci, l’ascesa e il declino dei giacimenti petroliferi è una conseguenza inevitabile di forze naturali: il petrolio si trova in giacimenti sotterranei pressurizzati e quindi verrà spinto verso la superficie quando viene fatta una perforazione nel terreno. Tuttavia, una volta che una parte significativa delle risorse in quel giacimento sono state estratte, la pressione del giacimento scenderà e serviranno mezzi artificiali – acqua, gas, o inserimenti artificiali – per ripristinare la pressione e sostenere la produzione. Prima o poi, tali mezzi diventano costosi in modo proibitivo.

La teoria del picco del petrolio sostiene che ciò che è vero per un singolo giacimento, o serie di giacimenti, sia vero per il mondo nel suo insieme. Fino a circa il 2005, sembrava infatti che il mondo stesse finendo sempre più vicino ad un picco della produzione giornaliera di petrolio, come i seguaci di Hubbert avevano a lungo previsto. (Hubbert è morto nel 1989). Diversi sviluppi recenti hanno, tuttavia, sollevato domande sulla precisione della teoria. In particolare le grandi compagnie petrolifere private hanno preso ad impiegare tecnologie avanzate per aumentare la produzione dei giacimenti sotto il loro controllo, allungando la vita dei giacimenti esistenti attraverso l’uso di ciò che viene chiamato “maggior recupero di petrolio” (o EOR, nell’acronimo inglese). Le compagnie hanno anche usato nuovi metodi per sfruttare i giacimenti un tempo considerati inaccessibili in luoghi come l’Artico e le profonde acque oceaniche, aprendo così la possibilità di un futuro meno Hubbertiano.

Sviluppando queste nuove tecnologie, le “compagnie petrolifere internazionali” (IOC) di proprietà privata cercavano di superare il loro principale handicap: gran parte del “petrolio facile” del mondo – la cosa sulla quale si è concentrato Hubbert e che sgorga ogni qualvolta vien fatta una perforazione – è già stata consumata o è controllata da “compagnie petrolifere nazionali” (NOC) di proprietà dello stato, comprese la saudita Aramco, la Compagnia Petrolifera Nazionale Iraniana e la kuwaitiana Compagnia Petrolifera Nazionale, fra le altre. Secondo la IEA, queste compagnie di stato controllano circa l’80% delle riserve conosciute mondiali di petrolio, lasciando relativamente poco da sfruttare alle IOC.

Per aumentare la produzione dalle riserve limitate ancora sotto il loro controllo – principalmente dislocate in Nord America, nell’Artico e nelle acque adiacenti – le ditte private hanno lavorato sodo per sviluppare tecniche di sfruttamento del “petrolio difficile”. In questo, hanno avuto un grande successo: ora stanno portando nuovi flussi di petrolio nel mercato e, facendo questo, hanno scosso le fondamenta della teoria del picco del petrolio.

Coloro che dicono che il “picco del petrolio è morto” citano proprio questa combinazione di fattori. Allungando la vita dei giacimenti esistenti attraverso l’EOR e aggiungendo intere nuove fonti di petrolio, l’offerta globale può essere estesa all’infinito. Di conseguenza, dicono, il mondo possiede una “fornitura relativamente infinita” di petrolio (e gas naturale). Questo, per esempio, è stato il modo in cui Barry Smitherman della Commissione Ferroviaria del Texas (che regola l’industria petrolifera di stato) ha descritto la situazione globale ad un recente incontro della Società dei Geofisici di Esplorativi.

Il picco della tecnologia

Al posto del picco del petrolio, quindi, c’è una nuova teoria che non ha ancora un nome, ma che si potrebbe chiamare tecno dinamismo. Non c’è limite fisico, sostiene questa teoria, all’offerta globale di petrolio finché l’industria petrolifera è preparata, e gli viene consentito, ad applicare la propria stregoneria allo scopo di trovare e produrne di più. Daniel Yergin, autore dei classici dell’industria Il premio e La ricerca, è un sostenitore chiave di questa teoria. Ha recentemente riassunto la situazione in questo modo: “I miglioramenti tecnologici raggiungono risorse che non erano fisicamente accessibili e le trasformano in riserve recuperabili”. Di conseguenza, ha aggiunto, “le stime della riserva globale di petrolio continuano a crescere”.

Da questo punto di vista, l’offerta mondiale di petrolio è essenzialmente sconfinata. In aggiunta al petrolio “convenzionale” – quello che sgorga dal terreno – la IEA identifica 6 flussi potenziali di liquidi petroliferi: liquidi del gas naturale; sabbie bituminose e petrolio super pesante; petrolio da cherogene (solidi petroliferi derivati dallo scisto che devono essere fusi per diventare utilizzabili); petrolio di scisto; liquidi da carbone (CTL) e  liquidi da gas (GTL). Insieme, questi flussi “non convenzionali” potrebbero teoricamente aggiungere diversi trilioni di barili di petrolio potenzialmente recuperabile all’offerta globale, estendendo plausibilmente l’era del petrolio per centinaia di anni (e nel processo, attraverso il cambiamento climatico, trasformando il pianeta in un deserto inabitabile).

Ma proprio come il picco del petrolio aveva delle serie limitazioni, così le ha anche il tecno dinamismo. Al suo centro c’è la convinzione che la domanda mondiale di petrolio in aumento continuerà ad alimentare gli investimenti sempre più costosi nelle nuove tecnologie richieste per sfruttare le risorse di petrolio difficili da ottenere che rimangono. Come suggerito nell’edizione del 2013 del World Energy Outlook della IEA, tuttavia, questa convinzione dovrebbe essere trattata con un considerevole scetticismo.
Fra le sfide principali a questa teoria ci sono:

1. Aumento dei costi tecnologici: Mentre i costi per sviluppare una risorsa normalmente declinano nel corso del tempo mentre l’industria acquisisce esperienza con le tecnologie coinvolte, La legge di Hubbert dell’esaurimento non se ne va. In altre parole, le ditte petrolifere sviluppano invariabilmente le risorse di “petrolio difficile” più facili, lasciando le più difficili (e più costose) per dopo. Per esempio, lo sfruttamento delle sabbie bituminose del Canada è cominciato con la fascia mineraria di depositi vicini alla superficie. Siccome questi si stanno esaurendo, tuttavia, le ditte energetiche ora stanno inseguendo le riserve sotterranee profonde usando tecnologie di gran lunga più costose. Analogamente, molti dei depositi più abbondanti di petrolio di scisto in Nord Dakota ora sono stati esauriti, richiedendo un aumentato ritmo di trivellazioni per mantenere i livelli di produzione. Di conseguenza, riporta la IEA, il costo dello sviluppo di nuove risorse petrolifere aumenteranno continuamente: fino a 80 dollari al barile per il petrolio ottenuto usando tecniche avanzate di EOR, 90 dollari al barile per le sabbie bituminose e il petrolio extra pesante, 100 dollari o più per il cherogene o il petrolio Artico e 110 dollari per CTL e GTL. Il mercato potrebbe non essere in grado, tuttavia, di sostenere livelli così alti, mettendo in dubbio tali investimenti.

2. Crescente rischio politico e ambientale: Per definizione, le riserve di petrolio difficile sono dislocate in aree problematiche. Per esempio, un 13% stimato del petrolio mondiale non scoperto si trova nell’Artico, insieme al 30% del gas naturale non sfruttato. I rischi ambientali associati al loro sfruttamento nelle peggiori condizioni meteorologiche immaginabili diventeranno rapidamente più evidenti – e quindi, di fronte all’aumento del potenziale di sversamenti catastrofici in un Artico in fusione, aspettiamoci un aumento relativo dell’opposizione politica a tali perforazioni. Infatti, un recente aumento ha scatenato le proteste sia in Alaska sia in Russia, compreso il pluri-pubblicizzato tentativo del settembre 2013 degli attivisti di Greenpeace di scalare una piattaforma petrolifera russa in mare. Analogamente, l’espansione delle operazioni di fracking hanno provocato un aumento costante dell’attivismo anti-fracking. In risposta a tali proteste e ad altri fattori, le ditte petrolifere sono state costrette ad adottare norme di protezione ambientale sempre più stringenti, facendo aumentare ulteriormente il costo di produzione.

3. Riduzione della domanda legata al clima: Lo sguardo tecno-ottimista presume che la domanda di petrolio continuerà a salire, spingendo gli investitori a fornire i finanziamenti aggiuntivi necessari a sviluppare le tecnologie richieste. Tuttavia, mentre gli effetti di un cambiamento climatico dilagante accelerano, e probabile che sempre più entità politiche cerchino di imporre freni di un qualche tipo alla combustione di petrolio, sopprimendo la domanda – e scoraggiando così gli investimenti. Questo sta già accadendo negli Stati Uniti, dove aumenti obbligatori nell’efficienza degli standard di efficienza dei combustibili dei veicoli si prevede che riducano significativamente la domanda. La futura “distruzione della domanda” di questo tipo è destinata a imporre una pressione verso il basso sui prezzi del petrolio, diminuendo l’inclinazione degli investitori al finanziamento di nuovi e costosi progetti di sviluppo.

Combinate questi 3 fattori ed è possibile concepire un “picco della tecnologia”, non dissimile dal picco della produzione di petrolio originariamente immaginato da M. King Hubbert. Un tale tecno picco è probabile che accada quando le fonti “facili” di petrolio “difficile” siano state esaurite, gli oppositori del fracking e di altre sgradevoli forme di produzione abbiano imposto regolamenti ambientali restrittivi (e costosi) sulle operazioni di perforazione e la domanda globale sia diminuita sotto un livello sufficiente da giustificare investimenti in costose operazioni estrattive. A quel punto, la produzione globale di petrolio declinerà anche se le forniture son “sconfinate” e la tecnologia è ancora in grado di sbloccare più petrolio ogni anno.

Il picco del petrolio riconsiderato

La teoria del picco del petrolio, come concepita originariamente da Hubbert e dai suoi seguaci, era ampiamente governata da forze naturali. Come abbiamo visto, tuttavia, queste possono essere sopraffatte dall’applicazione di tecnologie sempre più sofisticate. Le riserve di energia un tempo considerate inaccessibili possono essere messe in produzione ed altre un tempo ritenute esaurite possono tornare in produzione; piuttosto che essere finite, le basi petrolifere mondiali ora sembrano virtualmente inesauribili.

Questo significa che la produzione globale di petrolio continuerà a salire, anno dopo anno, senza raggiungere un picco? Ciò appare improbabile. Quello che sembra di gran lunga più probabile è che assisteremo ad un lento assottigliamento della produzione nel prossimo decennio o due mentre i costi di produzione crescono e il cambiamento climatico – insieme all’opposizione alla strada scelta dai giganti dell’energia – prendono slancio. Alla fine, le forze che tendono a ridurre la disponibilità sovrasteranno quelle che favoriscono una maggiore produzione ed un picco della produzione stessa ne sarà il risultato, anche se non dovuto alle sole forze naturali.

Un tale risultato, infatti, è previsto in uno dei 3 possibili scenari energetici che gli esperti mainstream della IEA hanno tracciato nell’ultima edizione del World Energy Outlook. Il primo non prevede alcun cambiamento nelle politiche di governo nei prossimi 25 anni e vede la fornitura mondiale di petrolio salire da 87 a 110 milioni di barili al giorno per il 2035; il secondo prevede qualche tentativo di frenare le emissioni di carbonio e proietta quindi una produzione che raggiunge “solo” 101 milioni di barili al giorno per la fine del periodo di indagine.

E’ la terza traiettoria, lo “Scenario 450”, che dovrebbe far sollevare le ciglia. Questo scenario prevede che si sviluppi uno slancio per un’azione globale per mantenere le emissioni di gas serra al di sotto delle 450 parti per milione – il livello massimo al quale sarebbe possibile evitare che le temperature medie globali salgano di 2°C (causando effetti climatici catastrofici). Di conseguenza, prevede un picco della produzione globale di petrolio intorno al 2020 a circa 91 milioni di barili al giorno, con un declino a 78 milioni di barili per il 2035.

Sarebbe prematuro suggerire che lo “Scenario 450” sarebbe il tracciato immediato per l’umanità, visto che è abbastanza chiaro che, al momento, ci troviamo su un’autostrada per l’inferno che si combina bene coi primi 2 scenari della IEA. Tenete in mente, inoltre, che molti scienziati credono che anche un aumento della temperatura di 2°C sarebbe sufficiente a produrre effetti climatici catastrofici. Ma mentre gli effetti del cambiamento climatico diventano più pronunciati nelle nostre vite, contate su una cosa: il clamore per un’azione da parte del governo diventerà più intenso e quindi alla fine è probabile che assisteremo a una qualche variante dello scenario 450 che prende forma. Nel processo, la domanda mondiale di petrolio sarà fortemente limitata, eliminando l’incentivo all’investimento in costosi nuovi schemi di produzione.

La linea di fondo: il picco globale del petrolio rimane nel nostro futuro, anche se non puramente per le ragioni date da Hubbert e dai suoi seguaci. Con la graduale sparizione del petrolio “facile”, le grandi ditte private sono costrette a sfruttare riserve sempre più difficili e fuori portata, portando quindi i costi di produzione ad aumentare e a scoraggiare potenzialmente nuovi investimenti in un tempo in cui il cambiamento climatico e l’attivismo ambientale sono in crescita.

Il picco del petrolio è morto! Lunga vita al picco del petrolio!

Michael T. Klare, un frequentatore regolare di TomDispatch, è un professore di studi sulla pace e la sicurezza mondiale al Hampshire College ed è autore, più di recente, de “La corsa a quel che è rimasto”, Una versione in forma di documentario del suo libro, “Sangue e petrolio” è disponibile presso il Media Education Foundation.

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Michael Klare: il picco del petrolio è morto, lunga vita al picco del petrolio!

Da “Tomdispatch”. Traduzione di MR

Eccoci qua in un “vortice polare” da record con le Everglades della Florida che stanno per congelare e il Minnesota che registra venti freddi di -60°F. Questi sistemi meteorologici più estremi, che dovrebbero scaldare i cuori dei negazionisti climatici, potrebbero di fatto risultare essere collegati al cambiamento climatico (grazie ad un Artico in fusione che si scalda il doppio più velocemente del resto del pianeta – vedi video della Casa Bianca). Nel frattempo, dall’altra parte del mondo, l’Australia ha vissuto un’impressionante ondata di calore, essendo appena uscita da un anno che ha avuto il giorno, la settimana e il mese più caldi e la media generale più alta mai registrata in quel continente. Tuttavia, diamo ai negazionisti climatici ciò che è loro dovuto. E’ da tanto che dichiarano che la scienza del clima sia, al massimo, un’attività incline all’errore. E’ un punto col quale il professor Steven Sherwood è d’accordo. Risulta che sia l’autore di uno studio appena apparso sulla rivista Nature focalizzato sulla copertura nuvolosa e sul cambiamento climatico futuri. Lo studio conclude che il pianeta si scalderà più rapidamente di quanto previsto, come minimo raggiungendo i +4°C per il 2100 (il che, naturalmente, significherebbe una catastrofe inimmaginabile). Ecco il suo modo di dare ai negazionisti ciò che è loro dovuto: “Agli scettici del clima piace criticare i modelli climatici perché interpretano male le cose e noi siamo i primi ad ammettere che non sono perfetti, ma quello che stiamo scoprendo è che gli errori vengono fatti da quei modelli che prevedono meno riscaldamento, non da quelli che ne prevedono di più”.

Nel frattempo, l’anno appena trascorso è stato generalmente un anno monotono nella nuova era del cambiamento climatico. Anche se i risultati finali non saranno disponibili fino a marzo, sarà fra i 10 anni più caldi da quando sono state registrate per la prima volta le temperature, più o meno fra il quarto e il settimo. (A proposito, i 10 anni più caldi sono stati tutti dal 1998, nove nell’ultimo decennio). Per la prima volta nella storia, il pianeta ha brevemente e minacciosamente raggiunto le 400 ppm di CO2 atmosferico; gli oceani diventano più acidi; le siccità e gli incendi si sono rafforzati; le tempeste hanno imperversato, anche se solo una ha raggiunto proporzioni epiche, il Tifone Haiyan nelle Filippine; il ghiaccio marino estivo dell’Artico ha avuto una grande fusione (significativamente al di sopra dei livelli del ventesimo secolo, ma meno del 2012); la copertura dei media sul cambiamento climatico è aumentata in modo modesto per la prima volta in anni e ed uno dei maggiori cavalli di battaglia del movimento del negazionismo climatico – la supposta “pausa del riscaldamento” che sta attraversando il pianeta – è finita nel cesso. Nel frattempo, le previsioni stanno cominciando ad arrivare e suggeriscono che – se si sviluppa un fenomeno de El Niño nell’Oceano Pacifico, come credono alcuni scienziati – il 2014 potrebbe rivelarsi da guinness dei primati. Con l’inizio dell’anno sappiamo di più su cosa ci riserva il futuro in qualche modo con maggiore certezza e, parlando in generale, visto che continuano ad essere immesse quantità record di biossido di carbonio nell’atmosfera, facciamo decisamente poco per questo. Per adattare quell’esempio classico sui limiti della libertà di espressione, immaginate che una grande squadra di scienziati ora stia continuamente gridando “Al fuoco!” nel cinema globale e, come risultato, più piromani con fiamme ossidriche stiano arrivando in continuazione. Dopotutto, di quelli che non fanno niente per il cambiamento climatico, nessuno ne sta facendo di più delle compagnie petrolifere e delle nazioni – dall’Arabia Saudita alla Russia – che sono di fatto gigantesche compagnie petrolifere. Come indica Michael Klare nel suo ultimo post, l’urgenza dei giganti petroliferi e dei loro sostenitori di dichiarare che non ci sono limiti al futuro dell’estrazione di petrolio e gas naturale è, perlomeno, agghiacciante, in un pianeta che si scalda. Sembrano intenti a dare alla frase “Il limite è il cielo” un nuovo, torvo significato. Per fortuna, come il nostro esperto interno di energia evidenzia, potrebbero avere una sorpresa o due nel percorso. Tom

Forse il necrologio per il picco del petrolio potrebbe essere arrivato troppo presto

Di Michael T. Klare

Fra le grandi storie sull’energia del 2013, il “picco del petrolio” – la nozione un tempo popolare secondo al quale il produzione mondiale avrebbe presto raggiunto un livello massimo e sarebbe iniziato un declino irreversibile – è stata completamente screditata. Lo sviluppo esplosivo del petrolio da scisto ed di altri combustibili non convenzionali negli Stati Uniti ha aiutato a deporlo nella sua tomba.

Mentre l’anno andava avanti, i necrologi si sono susseguiti in modo rapido e furioso. “Oggi, è probabilmente sicuro dire che abbiamo ucciso il ‘picco del petrolio’ una volta per tutte, grazie alla combinazione di nuove tecniche di produzione di petrolio e gas da scisto”, ha dichiarato Rob Wile, un giornalista energetico ed economico di Business Insider. Commenti analoghi di esperti energetici sono stati comuni, portando a un titolo da requiem su Time.com , annunciando che “Il picco del petrolio è morto”.

Non così in fretta, però. L’attuale giro di necrologi ricordano la famosa frase di Mark Twain: “La notizia della mia morte è stata fortemente esagerata”. Prime che i necrologi per la teoria del picco del petrolio si ammucchino troppo, diamo uno sguardo accurato a queste asserzioni. Fortunatamente, la International Energy Agency (IEA), il braccio armato della grandi potenze industrializzate con sede a Parigi, di recente lo ha fatto – e i risultati sono stati inattesi. Pur non reinsediando il picco del petrolio nel suo trono, ha reso chiaro che gran parte del parlare del pozzo petrolifero perpetuo del petrolio di scisto americano è ampiamente esagerato. Lo sfruttamento di quelle riserve di scisto potrebbero ritardare l’inizio del picco del petrolio pr un anno o giù di lì, osservano gli esperti dell’agenzia, ma il quadro a lungo termine “non è cambiato granché con l’arrivo del [petrolio di scisto]”.

Il punto di vista della IEA su questo tema e particolarmente degno di nota a perché le sue affermazioni di solo un anno fa, secondo le quali gli Stati Uniti avrebbero superato l’Arabia Saudita diventando i principali produttori di petrolio, hanno inizialmente scatenato il diluvio del “picco del petrolio è morto”. Scrivendo nell’edizione del 2012 del suo World Energy Outlook, l’agenzia ha dichiarato non solo che “è previsto che gli Stati Uniti diventino i più grandi produttori di petrolio al mondo” circa nel 2020, ma anche che con la produzione da scisto degli Stati Uniti e delle sabbie bituminose canadesi che entrano in produzione, “il Nord America diventa un esportatore netto di petrolio nel 2030”.

Quello stesso rapporto del novembre del 2012 sottolineava di tecnologie di produzione avanzate – cioè la perforazione orizzontale e la fratturazione idraulica (“fracking”) – per estrarre petrolio e gas naturale dalla roccia un tempo inaccessibile, specialmente lo scisto. Il rapporto copriva anche lo sfruttamento progressivo del bitume canadese (sabbie bituminose o sabbie petrolifere), un’altra risorsa ritenuta precedentemente troppo proibitiva per essere economica da sviluppare. Con la produzione di questi ad altri combustibili “non convenzionali” pronti ad esplodere nei prossimi anni, suggeriva il rapporto, il lungamente atteso picco della produzione mondiale di petrolio poteva essere rimandata a lungo nel futuro.

La pubblicazione dell’edizione del 2012 del World Energy Outlook ha innescato una frenesia globale di segnalazioni speculativa, gran parte della quale annunciava una nuova era di abbondanza energetica per l’America. “America Saudita” è stato il titolo su un osanna del genere del Wall Street Journal. Citando il nuovo studio della IEA, quel saggio annunciava “un boom energetico per gli Stati Uniti” portato dalla “innovazione tecnologica e dal rischio d’impresa finanziato da capitale privato”. Da quel momento in poigli analisti americani dell’energia hanno parlato entusiasticamente delle capacità di una serie di nuove tecnologie estrattive, in particolare del fracking, di liberare il petrolio e il gas naturale da formazioni di scisto fino a quel momento inaccessibili. “Questa è una vera rivoluzione energetica”, proclamava il quotidiano.

Ma questo è successo allora. L’edizione più recente del World Energy Outlook, pubblicata lo scorso novembre, è stata molto più circospetta. Sì, il petrolio di scisto, le sabbie bituminose ed altri combustibili non convenzionali si aggiungeranno alle forniture globali nei prossimi anni e, sì, la tecnologia aiuterà a prolungare la vita del petrolio. Ciononostante, è facile dimenticare che stiamo anche assistendo all’esaurimento in blocco dei giacimenti mondiali esistenti e quindi tutti questi aumenti nella produzione da scisto deve essere controbilanciata dai declini della produzione convenzionale. In circostanze ideali – alti livelli di investimento, continui progressi tecnologici, domanda e prezzi adeguati – potrebbe essere possibile evitare un imminente picco della produzione mondiale, ma l’ultimo rapporto della IEA chiarisce, non c’è alcuna garanzia che questo avverrà.

Approssimarsi gradatamente al picco

Prima di immergerci in profondità nella valutazione della IEA, diamo uno sguardo rapido alla teoria del picco del petrolio in sé.

Per come è stata sviluppata negli anni 50 dal geologo petrolifero M. King Hubbert, la teoria del picco del petrolio sostiene che ogni singolo giacimento petrolifero (o paese produttore di petrolio) sperimenterà un alto tasso di crescita della produzione durante lo sviluppo iniziale, quando le perforazioni vengono introdotte per la prima volta in una riserva che contiene petrolio. In seguito, la crescita rallenterà, in quanto le risorse più prontamente accessibili sono state estratte e dev’essere fatto affidamento su depositi meno produttivi. A questo punto – di solito quando sono state estratte metà delle risorse di un giacimento (o di un paese) – la produzione quotidiana raggiunge un livello massimo, o “picco”, e poi comincia a calare, Naturalmente, il giacimento o i giacimenti continueranno a produrre anche dopo il picco, ma saranno richiesti sempre più sforzi e spese per estrarre ciò che rimane. Alla fine, il costo di produzione eccederà i proventi delle vendite e l’estrazione sarà conclusa.

Per Hubbert ed i suoi seguaci, l’ascesa e il declino dei giacimenti petroliferi è una conseguenza inevitabile di forze naturali: il petrolio si trova in giacimenti sotterranei pressurizzati e quindi verrà spinto verso la superficie quando viene fatta una perforazione nel terreno. Tuttavia, una volta che una parte significativa delle risorse in quel giacimento sono state estratte, la pressione del giacimento scenderà e serviranno mezzi artificiali – acqua, gas, o inserimenti artificiali – per ripristinare la pressione e sostenere la produzione. Prima o poi, tali mezzi diventano costosi in modo proibitivo.

La teoria del picco del petrolio sostiene che ciò che è vero per un singolo giacimento, o serie di giacimenti, sia vero per il mondo nel suo insieme. Fino a circa il 2005, sembrava infatti che il mondo stesse finendo sempre più vicino ad un picco della produzione giornaliera di petrolio, come i seguaci di Hubbert avevano a lungo previsto. (Hubbert è morto nel 1989). Diversi sviluppi recenti hanno, tuttavia, sollevato domande sulla precisione della teoria. In particolare le grandi compagnie petrolifere private hanno preso ad impiegare tecnologie avanzate per aumentare la produzione dei giacimenti sotto il loro controllo, allungando la vita dei giacimenti esistenti attraverso l’uso di ciò che viene chiamato “maggior recupero di petrolio” (o EOR, nell’acronimo inglese). Le compagnie hanno anche usato nuovi metodi per sfruttare i giacimenti un tempo considerati inaccessibili in luoghi come l’Artico e le profonde acque oceaniche, aprendo così la possibilità di un futuro meno Hubbertiano.

Sviluppando queste nuove tecnologie, le “compagnie petrolifere internazionali” (IOC) di proprietà privata cercavano di superare il loro principale handicap: gran parte del “petrolio facile” del mondo – la cosa sulla quale si è concentrato Hubbert e che sgorga ogni qualvolta vien fatta una perforazione – è già stata consumata o è controllata da “compagnie petrolifere nazionali” (NOC) di proprietà dello stato, comprese la saudita Aramco, la Compagnia Petrolifera Nazionale Iraniana e la kuwaitiana Compagnia Petrolifera Nazionale, fra le altre. Secondo la IEA, queste compagnie di stato controllano circa l’80% delle riserve conosciute mondiali di petrolio, lasciando relativamente poco da sfruttare alle IOC.

Per aumentare la produzione dalle riserve limitate ancora sotto il loro controllo – principalmente dislocate in Nord America, nell’Artico e nelle acque adiacenti – le ditte private hanno lavorato sodo per sviluppare tecniche di sfruttamento del “petrolio difficile”. In questo, hanno avuto un grande successo: ora stanno portando nuovi flussi di petrolio nel mercato e, facendo questo, hanno scosso le fondamenta della teoria del picco del petrolio.

Coloro che dicono che il “picco del petrolio è morto” citano proprio questa combinazione di fattori. Allungando la vita dei giacimenti esistenti attraverso l’EOR e aggiungendo intere nuove fonti di petrolio, l’offerta globale può essere estesa all’infinito. Di conseguenza, dicono, il mondo possiede una “fornitura relativamente infinita” di petrolio (e gas naturale). Questo, per esempio, è stato il modo in cui Barry Smitherman della Commissione Ferroviaria del Texas (che regola l’industria petrolifera di stato) ha descritto la situazione globale ad un recente incontro della Società dei Geofisici di Esplorativi.

Il picco della tecnologia

Al posto del picco del petrolio, quindi, c’è una nuova teoria che non ha ancora un nome, ma che si potrebbe chiamare tecno dinamismo. Non c’è limite fisico, sostiene questa teoria, all’offerta globale di petrolio finché l’industria petrolifera è preparata, e gli viene consentito, ad applicare la propria stregoneria allo scopo di trovare e produrne di più. Daniel Yergin, autore dei classici dell’industria Il premio e La ricerca, è un sostenitore chiave di questa teoria. Ha recentemente riassunto la situazione in questo modo: “I miglioramenti tecnologici raggiungono risorse che non erano fisicamente accessibili e le trasformano in riserve recuperabili”. Di conseguenza, ha aggiunto, “le stime della riserva globale di petrolio continuano a crescere”.

Da questo punto di vista, l’offerta mondiale di petrolio è essenzialmente sconfinata. In aggiunta al petrolio “convenzionale” – quello che sgorga dal terreno – la IEA identifica 6 flussi potenziali di liquidi petroliferi: liquidi del gas naturale; sabbie bituminose e petrolio super pesante; petrolio da cherogene (solidi petroliferi derivati dallo scisto che devono essere fusi per diventare utilizzabili); petrolio di scisto; liquidi da carbone (CTL) e  liquidi da gas (GTL). Insieme, questi flussi “non convenzionali” potrebbero teoricamente aggiungere diversi trilioni di barili di petrolio potenzialmente recuperabile all’offerta globale, estendendo plausibilmente l’era del petrolio per centinaia di anni (e nel processo, attraverso il cambiamento climatico, trasformando il pianeta in un deserto inabitabile).

Ma proprio come il picco del petrolio aveva delle serie limitazioni, così le ha anche il tecno dinamismo. Al suo centro c’è la convinzione che la domanda mondiale di petrolio in aumento continuerà ad alimentare gli investimenti sempre più costosi nelle nuove tecnologie richieste per sfruttare le risorse di petrolio difficili da ottenere che rimangono. Come suggerito nell’edizione del 2013 del World Energy Outlook della IEA, tuttavia, questa convinzione dovrebbe essere trattata con un considerevole scetticismo.
Fra le sfide principali a questa teoria ci sono:

1. Aumento dei costi tecnologici: Mentre i costi per sviluppare una risorsa normalmente declinano nel corso del tempo mentre l’industria acquisisce esperienza con le tecnologie coinvolte, La legge di Hubbert dell’esaurimento non se ne va. In altre parole, le ditte petrolifere sviluppano invariabilmente le risorse di “petrolio difficile” più facili, lasciando le più difficili (e più costose) per dopo. Per esempio, lo sfruttamento delle sabbie bituminose del Canada è cominciato con la fascia mineraria di depositi vicini alla superficie. Siccome questi si stanno esaurendo, tuttavia, le ditte energetiche ora stanno inseguendo le riserve sotterranee profonde usando tecnologie di gran lunga più costose. Analogamente, molti dei depositi più abbondanti di petrolio di scisto in Nord Dakota ora sono stati esauriti, richiedendo un aumentato ritmo di trivellazioni per mantenere i livelli di produzione. Di conseguenza, riporta la IEA, il costo dello sviluppo di nuove risorse petrolifere aumenteranno continuamente: fino a 80 dollari al barile per il petrolio ottenuto usando tecniche avanzate di EOR, 90 dollari al barile per le sabbie bituminose e il petrolio extra pesante, 100 dollari o più per il cherogene o il petrolio Artico e 110 dollari per CTL e GTL. Il mercato potrebbe non essere in grado, tuttavia, di sostenere livelli così alti, mettendo in dubbio tali investimenti.

2. Crescente rischio politico e ambientale: Per definizione, le riserve di petrolio difficile sono dislocate in aree problematiche. Per esempio, un 13% stimato del petrolio mondiale non scoperto si trova nell’Artico, insieme al 30% del gas naturale non sfruttato. I rischi ambientali associati al loro sfruttamento nelle peggiori condizioni meteorologiche immaginabili diventeranno rapidamente più evidenti – e quindi, di fronte all’aumento del potenziale di sversamenti catastrofici in un Artico in fusione, aspettiamoci un aumento relativo dell’opposizione politica a tali perforazioni. Infatti, un recente aumento ha scatenato le proteste sia in Alaska sia in Russia, compreso il pluri-pubblicizzato tentativo del settembre 2013 degli attivisti di Greenpeace di scalare una piattaforma petrolifera russa in mare. Analogamente, l’espansione delle operazioni di fracking hanno provocato un aumento costante dell’attivismo anti-fracking. In risposta a tali proteste e ad altri fattori, le ditte petrolifere sono state costrette ad adottare norme di protezione ambientale sempre più stringenti, facendo aumentare ulteriormente il costo di produzione.

3. Riduzione della domanda legata al clima: Lo sguardo tecno-ottimista presume che la domanda di petrolio continuerà a salire, spingendo gli investitori a fornire i finanziamenti aggiuntivi necessari a sviluppare le tecnologie richieste. Tuttavia, mentre gli effetti di un cambiamento climatico dilagante accelerano, e probabile che sempre più entità politiche cerchino di imporre freni di un qualche tipo alla combustione di petrolio, sopprimendo la domanda – e scoraggiando così gli investimenti. Questo sta già accadendo negli Stati Uniti, dove aumenti obbligatori nell’efficienza degli standard di efficienza dei combustibili dei veicoli si prevede che riducano significativamente la domanda. La futura “distruzione della domanda” di questo tipo è destinata a imporre una pressione verso il basso sui prezzi del petrolio, diminuendo l’inclinazione degli investitori al finanziamento di nuovi e costosi progetti di sviluppo.

Combinate questi 3 fattori ed è possibile concepire un “picco della tecnologia”, non dissimile dal picco della produzione di petrolio originariamente immaginato da M. King Hubbert. Un tale tecno picco è probabile che accada quando le fonti “facili” di petrolio “difficile” siano state esaurite, gli oppositori del fracking e di altre sgradevoli forme di produzione abbiano imposto regolamenti ambientali restrittivi (e costosi) sulle operazioni di perforazione e la domanda globale sia diminuita sotto un livello sufficiente da giustificare investimenti in costose operazioni estrattive. A quel punto, la produzione globale di petrolio declinerà anche se le forniture son “sconfinate” e la tecnologia è ancora in grado di sbloccare più petrolio ogni anno.

Il picco del petrolio riconsiderato

La teoria del picco del petrolio, come concepita originariamente da Hubbert e dai suoi seguaci, era ampiamente governata da forze naturali. Come abbiamo visto, tuttavia, queste possono essere sopraffatte dall’applicazione di tecnologie sempre più sofisticate. Le riserve di energia un tempo considerate inaccessibili possono essere messe in produzione ed altre un tempo ritenute esaurite possono tornare in produzione; piuttosto che essere finite, le basi petrolifere mondiali ora sembrano virtualmente inesauribili.

Questo significa che la produzione globale di petrolio continuerà a salire, anno dopo anno, senza raggiungere un picco? Ciò appare improbabile. Quello che sembra di gran lunga più probabile è che assisteremo ad un lento assottigliamento della produzione nel prossimo decennio o due mentre i costi di produzione crescono e il cambiamento climatico – insieme all’opposizione alla strada scelta dai giganti dell’energia – prendono slancio. Alla fine, le forze che tendono a ridurre la disponibilità sovrasteranno quelle che favoriscono una maggiore produzione ed un picco della produzione stessa ne sarà il risultato, anche se non dovuto alle sole forze naturali.

Un tale risultato, infatti, è previsto in uno dei 3 possibili scenari energetici che gli esperti mainstream della IEA hanno tracciato nell’ultima edizione del World Energy Outlook. Il primo non prevede alcun cambiamento nelle politiche di governo nei prossimi 25 anni e vede la fornitura mondiale di petrolio salire da 87 a 110 milioni di barili al giorno per il 2035; il secondo prevede qualche tentativo di frenare le emissioni di carbonio e proietta quindi una produzione che raggiunge “solo” 101 milioni di barili al giorno per la fine del periodo di indagine.

E’ la terza traiettoria, lo “Scenario 450”, che dovrebbe far sollevare le ciglia. Questo scenario prevede che si sviluppi uno slancio per un’azione globale per mantenere le emissioni di gas serra al di sotto delle 450 parti per milione – il livello massimo al quale sarebbe possibile evitare che le temperature medie globali salgano di 2°C (causando effetti climatici catastrofici). Di conseguenza, prevede un picco della produzione globale di petrolio intorno al 2020 a circa 91 milioni di barili al giorno, con un declino a 78 milioni di barili per il 2035.

Sarebbe prematuro suggerire che lo “Scenario 450” sarebbe il tracciato immediato per l’umanità, visto che è abbastanza chiaro che, al momento, ci troviamo su un’autostrada per l’inferno che si combina bene coi primi 2 scenari della IEA. Tenete in mente, inoltre, che molti scienziati credono che anche un aumento della temperatura di 2°C sarebbe sufficiente a produrre effetti climatici catastrofici. Ma mentre gli effetti del cambiamento climatico diventano più pronunciati nelle nostre vite, contate su una cosa: il clamore per un’azione da parte del governo diventerà più intenso e quindi alla fine è probabile che assisteremo a una qualche variante dello scenario 450 che prende forma. Nel processo, la domanda mondiale di petrolio sarà fortemente limitata, eliminando l’incentivo all’investimento in costosi nuovi schemi di produzione.

La linea di fondo: il picco globale del petrolio rimane nel nostro futuro, anche se non puramente per le ragioni date da Hubbert e dai suoi seguaci. Con la graduale sparizione del petrolio “facile”, le grandi ditte private sono costrette a sfruttare riserve sempre più difficili e fuori portata, portando quindi i costi di produzione ad aumentare e a scoraggiare potenzialmente nuovi investimenti in un tempo in cui il cambiamento climatico e l’attivismo ambientale sono in crescita.

Il picco del petrolio è morto! Lunga vita al picco del petrolio!

Michael T. Klare, un frequentatore regolare di TomDispatch, è un professore di studi sulla pace e la sicurezza mondiale al Hampshire College ed è autore, più di recente, de “La corsa a quel che è rimasto”, Una versione in forma di documentario del suo libro, “Sangue e petrolio” è disponibile presso il Media Education Foundation.

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Il grande soffocamento – avremo ossigeno sufficiente per respirare?

Da “Cassandra’s Lagacy” Traduzione di MR

La concentrazione di ossigeno nell’atmosfera registrata all’osservatorio di Mauna Loa (link). Sta scendendo e la spiegazione ovvia è che è il risultato della combustione di combustibili fossili. Ma rischiamo di soffocare in questo modo? Fortunatamente è molto improbabile, almeno a breve termine. Tuttavia guardando “l’altra faccia” della storia dell’emissione di biossido di carbonio ci dà una buona prospettiva di cosa succede all’ecosistema a causa delle attività umane. 

Tutti siamo preoccupati per il riscaldamento globale, e giustamente. Tuttavia, c’è un altro aspetto del problema del riscaldamento: per ogni molecola aggiuntiva di biossido di carbonio (CO2) generata bruciando combustibili fossili deve essere consumata una molecola di ossigeno (O2). Ciò significa sempre meno ossigeno nell’atmosfera. Quindi, il soffocamento non sarà un problema in più dal riscaldamento globale? (alcuni sembrano essere davvero preoccupati del fatto che possa essere così).

Fortunatamente, la risposta è “no”. Non rischiamo di finire l’ossigeno, almeno non sul breve periodo. Ma la storia non è semplice e possiamo imparare molto su quanto sta succedendo alla nostra atmosfera, al nostro clima e al nostro ecosistema, se guardiamo la cosa nei dettagli.

Per prima cosa, cosa intendiamo per “soffocamento”? L’attuale concentrazione di ossigeno nell’atmosfera è del 21% in volume. Ci siamo evoluti per vivere con questo livello di ossigeno ed il livello minimo per gli esseri umani perché funzionino normalmente è intorno al 19% (Vedi qui). Siamo già nei guai al di sotto del 17% e proprio non possiamo sopravvivere al di sotto del 10%. Così, dobbiamo stare attenti a quello che facciamo della nostra atmosfera, non ci possiamo permettere di perdere più di un 1-2% dell’ossigeno che abbiamo.

Ora, quanto ossigeno abbiamo consumato bruciando combustibili fossili, finora? Non molto, in realtà. Keeling ha scoperto uno 0,0317% di riduzione nella concentrazione di ossigeno atmosferico dal 1990 al 2008. Chiaramente non soffocheremo, almeno non subito.

Ma dobbiamo andare più in profondità nel problema. Considerate che abbiamo bruciato combustibili fossili molto al lungo dal 1990. Possiamo approssimativamente calcolare la perdita totale considerando che la concentrazione del biossido di carbonio nell’atmosfera è aumentata di circa 120 ppm in volume durante l’ultimo secolo. Una quantità analoga è stata assorbita dagli oceani, quindi possiamo dire che abbiamo prodotto l’equivalente di circa 250 ppm di CO2 e quindi circa 250 ppm di ossigeno (0,025%) devono essere spariti. Ma siamo ancora bene all’interno dei limiti di sicurezza.

E in futuro? I risultati di Keeling ci dicono che, al tasso attuale, consumiamo circa lo 0,02% di ossigeno ogni 10 anni. Per arrivare vicini alla soglia di sicurezza del 1% ci vogliono secoli ma, naturalmente, non saremo in grado di continuare a bruciare combustibili fossili ai tassi attuali per così tanto tempo. Mentre ruzzoliamo dall’altra parte della curva di Hubbert, non saremo probabilmente in grado di fare di più che raddoppiare la quantità già emessa (e forse molto meno, secondo lo scenario di Seneca che vede il declino come molto più rapido della crescita). Persino nelle ipotesi più estreme, al massimo potremmo emettere non oltre quattro volte la quantità emessa finora. Ciò corrisponderebbe ad una perdita di circa lo 0,2% dell’ossigeno totale disponibile. Non trascurabile ma, per quanto ne sappiamo, non pericoloso.

Quindi, bruciare combustibili fossili decisamente non ci soffocherà; non direttamente, almeno. Ma ci sono effetti indiretti. Uno è la perdita di biomassa causata dalle attività umane. Quando le piante e gli animali muoiono, il carbonio in essi contenuto viene normalmente ossidato in biossido di carbonio, consumando ossigeno nel processo. La quantità totale di carbonio immagazzinato nelle creature viventi e nei suoli è stimato in circa 2.100 miliardi di tonnellate (Gton). Se tutto questo carbonio dovesse reagire con l’ossigeno, consumerebbe circa 5600 Gton di ossigeno (tenendo conto che un atomo di ossigeno pesa più di un atomo di carbonio e che ogni atomo di carbonio consuma due atomi di ossigeno). La massa totale di ossigeno nell’atmosfera è calcolata nell’ordine di 1,2×10^9 Gtons (vedi anche questo riferimento). Quindi, anche bruciare completamente tutta l’ecosfera del pianeta intaccherebbe appena la concentrazione totale di ossigeno, circa lo 0,4%.

Potremmo considerare anche il rilascio degli idrati di metano immagazzinati nel permafrost, una cosa che potrebbe accadere come risultato del riscaldamento globale. Il metano è un forte gas serra e quindi il processo si rinforza da sé, è questa l’origine della cosiddetta “catastrofe del metano” che risulterebbe in un disastroso effetto serra fuori controllo. La massa totale di metano immagazzinato nel permafrost è stimato nell’ordine di 500-2500 Gton di carbonio. Nel caso peggiore, il metano potrebbe consumare un altro 0,4% di ossigeno atmosferico.

Sommando tutto ciò che abbiamo preso in considerazione finora, metano, materia organica, combustibili fossili, vediamo che, anche per ipotesi piuttosto estreme, siamo ancora al di sotto della soglia del 1%. Così, sembra che siamo al sicuro. Tuttavia, dovremmo anche tenere conto che la riserva di gran lunga più grande di carbonio organico (e quindi in grado di combinarsi con l’ossigeno) sulla crosta terrestre è in forma di “kerogene”, il risultato della parziale decomposizione di materia organica. (Figura sotto da Manicore.com).

10^10 Gtons di kerogene è un valore talmente grande che se si dovesse combinare con l’ossigeno (circa 10^9 ton) non rimarrebbe più ossigeno nell’atmosfera. E questo sarebobe, in effetti, “il grande soffocamento”.

Per fortuna è parecchio improbabile che accada. Il kerogene può reagire con l’ossigeno ed è, in realtà, la fonte originaria del petrolio che estraiamo e bruciamo oggi. Ma il processo naturale è molto lento e quello fatto dall’uomo molto costoso. Gli esseri umani non saranno mai in grado di bruciare più di una percentuale microscopica del kerogene della crosta terrestre (anche se a molti di loro, probabilmente, piacerebbe provarci).

Quindi, vediamo che la perdita di ossigeno, il grande soffocamento, non è una cosa di cui ci dovremmo preoccupare perché abbiamo molto più ossigeno nell’atmosfera di quanto ne possiamo consumare persino nelle peggiori ipotesi possibili. Abbiamo questo margine di sicurezza perché l’ossigeno libero è il risultato di miliardi di anni di attività di fotosintesi che ha immesso enormi quantità di ossigeno nell’atmosfera. Di questo ossigeno, gran parte è stato assorbito negli ossidi inorganici, principalmente ossidi di ferro. Solo una piccola percentuale si è gradualmente accumulata nell’atmosfera, come vediamo nella figura seguente (da Wikipedia – tenete conto del fatto che c’è una grande incertezza in queste stime)

Notate che un picco nella concentrazione di ossigeno è stato raggiunto in un passato remoto, forse in corrispondenza del picco della produttività biologica del pianeta. Al picco, la concentrazione di ossigeno potrebbe aver raggiunto un valore di oltre il 30% in volume – gli esseri umani non avrebbero potuto sopravvivere in quelle condizioni! Poi, potrebbe essere sceso a circa il 15% e, ancora una volta, non saremmo stati in grado di sopravvivere con quella concentrazione.

Così, l’ossigeno non è semplicemente accumulato nell’atmosfera per restarci per sempre. E’ un gas reattivo e la sua concentrazione è collegata all’evoluzione dell’ecosistema. Ci sono fattori che possono fortemente cambiare la sua concentrazione, probabilmente implicando una reazione con la riserva di kerogene. Non possiamo sapere con certezza quali fattori causino questa reazione, ma una nuova flessione dell’ossigeno della concentrazione d’ossigeno risultante dai cambiamenti planetari in corso non può essere esclusa – anche se questa sarebbe probabilmente estremamente lenta per gli standard umani. Ciò di cui possiamo star sicuri è che dovremmo fare attenzione nel modo in cui trattiamo l’ecosistema terrestre – ne facciamo parte!

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