Author: Luca Pardi

Proiezioni ONU per il 2100. 11 miliardi di persone?

Di Paul Chefurka

L’ONU ha prodotto e pubblicato recentemente un nuovo rapporto sulla popolazione. In esso viene fornita una nuova stima della popolazione umana alla fine del secolo: 11 miliardi.

11 miliardi di persone.
Undici miliardi di persone
11,000,000,000 persone.

Indipendentemente da come lo scrivi si tratta di un numero esorbitante di piedi, mani e bocche. Ma naturalmente la storia non si finisce li, vero? Questo numero scandaloso non rappresenta semplicemente corpi umani che occupano ogni possibile nicchia ecologica sul pianeta. Nascosto dietro di esso c’è l’impatto che stiamo avendo sulla geochimica e la biosfera del pianeta e come questo impatto continua ad accellerare man mano che diventiamo più numerosi e più ricchi.

Questa nota considera due aspetti di questa crescita: il nostro impatto sulla fauna selvatica del pianeta e sul nostro effetto sulla sua atmosfera.

Fauna selvatica.

Abbiamo già un impatto devastante sulla fauna selvatica del pianeta. Secondo un recente rapporto del WWF dal 1970 abbiamo letteralmente estirpato il 40% dei vertebrati terrestri selvatici. E. secondo lo studio di Vaclav Smil intitolato: “Harvesting the biosphere” (mietere la biosfera), l’insieme della biomassa umana e di quella degli animali domestici è cresciuta e quella dei vertebrati selvatici è diminuita.

Ho usato la stima di Smil delle biomasse nel 1900 e nel 2000 insieme ai nuovi numeri dell’ONU per stimare l’ammontare globale delle biomasse umana e degli animali domestici e selvatici nell’anno 10.000 aC (diecimila avanti Cristo) e nel 2100. Questo grafico mi ha perfino stupito la prima volta che l’ho prodotto.

Date questo insieme di assunzioni nel 2100 la sola vita animale sul pianeta (qui si parla solo di vertebrati. NdT) saranno gli uomini e gli animali che gli forniscono il cibo (bovini, ovini, suini, equini, pollame) e compagnia (cani, gatti ecc).

Sono necessarie due parole di spiegazione riguardanti la linea indicata come Capacità di Carico nel grafico.

Per prima cosa la linea è fissata al valore della biomassa dei vertebrati terrestri nel 10.000 aC. Ho scelto così perché a quel punto la Terra supportava tutti i possibili tipi di vita animale prima dell’intervento dell’attività umana. La crescita della biomassa oltre quel limite di 200 milioni di tonnellate è stato determinato dall’uomo. Abbiamo usato tecnologie di molti tipi e una quantità di energia continuamente crescente per trasformare la superficie del pianeta in un habita per gli uomini e gli animali domestici. E la fauna selvatica è stata progressivamente espulsa dagli ecosistemi così trasformati.

In secondo luogo ho indicato la Capacità di Carico come una linea orizzontale per semplice convenienza. In realtà essa declina nel tempo. Questo perchè la nostra presenza ha gradualmente ridotto la Capacità di Carico del pianetà attraverso le attività di distruzione degli habitat, l’esaurimento del suolo e delle acque sotterranee, l’inquinamento e il cambiamento climatico. Non possiamo dire quale sia oggi la Capacità di Carico, ma si può scommettere con certezza che se tutti gli umani e gli animali domestici si volatilizzassero domani, a causa dei danni subiti la biosfera non potrebbe supportare i 200 milioni di tonnellate di biomassa selvatica di 12.000 anni fa. E ci vorrebbero probabilmente millenni per rigenerare la Capacità di Carico precedente

Il cambiamento climatico

L’altra preoccupazione per un tale aumento della popolazione è, ovviamente, il cambiamento climatico. Le persone usano energia. Le persone che vivono nelle società avanza usano molta energia. Ad una prima approssimazione, i poveri, che vogliono diventare ricchi lo fanno aumentando il loro consumo energetico. I combustibili fossili forniscono l’87% dell’energia globale, una proporzione che non è migliorata negli ultimi 20 anni. Presi insieme questi fatti implicano che le emissioni future di CO2 resteranno almeno le stesse di quelle attuali. Realisticamente queste invece aumenteranno man mano che le persone più povere del mondo lotteranno per innalzare il loro reddito oltre i 2 $ al giorno.

Il probabile effetto di 11 miliardi di persone sarà un raddoppio delle emissioni attuali:

Mentre le emissioni di CO2 aumentano, aumenta la concentrazione atmosferica di gas serra, oltre le 400 parti per milione attuali fino a 650 ppm alla fine del secolo.

Cosa significa tale concentrazione di gas serra per il clima globale? Secondo un recente seminario del Dott. David Wasdell, il risultato sarebbe una temperatura di equilibrio fino a 10 gradi Celsius più alta di quella che era appena duecento anni fa. Oggi l’aumento è stato di appena 0,8 C e abbiamo alterato il Jet Stream Polare. L’effetto di un aumento di 10 C sarebbe inimmaginabile. Si tratterebbe inequivocabilmente un aumento di temperatura tale da determinare un’estinzione di massa globale.

Conclusioni

Dunque, vi sento dire, se qualcosa è impossibile- come questo scenario sembrerebbe- non si verificherà. Qualcosa interverrà inevitabilmente ad arrestare questa traiettoria BAU (Business As Usual). Sono d’accordo con voi.

Una delle principali caratteristiche di un grande e complesso sistema come la nostra civilizzazione planetaria è la imprevedibilità delle sue modalità di collasso. In parole povere, noi sappiamo che qualcosa si romperà, ma non possiamo dire cosa, dove e quando. Al momento i nostri soldi sono in una fase di collasso economico innescato dal collasso del sistema finanziario.

Una cosa sembra chiara. Lo stato finale che ho descritto NON si verificherà. Al momento in cui il 21simo secolo esalerà l’ultimo respiro, il mondo non conterrà 11 miliardi di persone; nonemetteremo 70 miliardi di tonnellate di CO2 per anno; e i livelli di CO2 non saranno di 650 ppm. In qualche momento fra adesso ed allora o le forze della natura o quelle dell’uomo interromperanno la musica e Homo sapiens si troverà a cercare una sedia ancora libera.

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Proiezioni ONU per il 2100. 11 miliardi di persone?

Di Paul Chefurka

L’ONU ha prodotto e pubblicato recentemente un nuovo rapporto sulla popolazione. In esso viene fornita una nuova stima della popolazione umana alla fine del secolo: 11 miliardi.

11 miliardi di persone.
Undici miliardi di persone
11,000,000,000 persone.

Indipendentemente da come lo scrivi si tratta di un numero esorbitante di piedi, mani e bocche. Ma naturalmente la storia non si finisce li, vero? Questo numero scandaloso non rappresenta semplicemente corpi umani che occupano ogni possibile nicchia ecologica sul pianeta. Nascosto dietro di esso c’è l’impatto che stiamo avendo sulla geochimica e la biosfera del pianeta e come questo impatto continua ad accellerare man mano che diventiamo più numerosi e più ricchi.

Questa nota considera due aspetti di questa crescita: il nostro impatto sulla fauna selvatica del pianeta e sul nostro effetto sulla sua atmosfera.

Fauna selvatica.

Abbiamo già un impatto devastante sulla fauna selvatica del pianeta. Secondo un recente rapporto del WWF dal 1970 abbiamo letteralmente estirpato il 40% dei vertebrati terrestri selvatici. E. secondo lo studio di Vaclav Smil intitolato: “Harvesting the biosphere” (mietere la biosfera), l’insieme della biomassa umana e di quella degli animali domestici è cresciuta e quella dei vertebrati selvatici è diminuita.

Ho usato la stima di Smil delle biomasse nel 1900 e nel 2000 insieme ai nuovi numeri dell’ONU per stimare l’ammontare globale delle biomasse umana e degli animali domestici e selvatici nell’anno 10.000 aC (diecimila avanti Cristo) e nel 2100. Questo grafico mi ha perfino stupito la prima volta che l’ho prodotto.

Date questo insieme di assunzioni nel 2100 la sola vita animale sul pianeta (qui si parla solo di vertebrati. NdT) saranno gli uomini e gli animali che gli forniscono il cibo (bovini, ovini, suini, equini, pollame) e compagnia (cani, gatti ecc).

Sono necessarie due parole di spiegazione riguardanti la linea indicata come Capacità di Carico nel grafico.

Per prima cosa la linea è fissata al valore della biomassa dei vertebrati terrestri nel 10.000 aC. Ho scelto così perché a quel punto la Terra supportava tutti i possibili tipi di vita animale prima dell’intervento dell’attività umana. La crescita della biomassa oltre quel limite di 200 milioni di tonnellate è stato determinato dall’uomo. Abbiamo usato tecnologie di molti tipi e una quantità di energia continuamente crescente per trasformare la superficie del pianeta in un habita per gli uomini e gli animali domestici. E la fauna selvatica è stata progressivamente espulsa dagli ecosistemi così trasformati.

In secondo luogo ho indicato la Capacità di Carico come una linea orizzontale per semplice convenienza. In realtà essa declina nel tempo. Questo perchè la nostra presenza ha gradualmente ridotto la Capacità di Carico del pianetà attraverso le attività di distruzione degli habitat, l’esaurimento del suolo e delle acque sotterranee, l’inquinamento e il cambiamento climatico. Non possiamo dire quale sia oggi la Capacità di Carico, ma si può scommettere con certezza che se tutti gli umani e gli animali domestici si volatilizzassero domani, a causa dei danni subiti la biosfera non potrebbe supportare i 200 milioni di tonnellate di biomassa selvatica di 12.000 anni fa. E ci vorrebbero probabilmente millenni per rigenerare la Capacità di Carico precedente

Il cambiamento climatico

L’altra preoccupazione per un tale aumento della popolazione è, ovviamente, il cambiamento climatico. Le persone usano energia. Le persone che vivono nelle società avanza usano molta energia. Ad una prima approssimazione, i poveri, che vogliono diventare ricchi lo fanno aumentando il loro consumo energetico. I combustibili fossili forniscono l’87% dell’energia globale, una proporzione che non è migliorata negli ultimi 20 anni. Presi insieme questi fatti implicano che le emissioni future di CO2 resteranno almeno le stesse di quelle attuali. Realisticamente queste invece aumenteranno man mano che le persone più povere del mondo lotteranno per innalzare il loro reddito oltre i 2 $ al giorno.

Il probabile effetto di 11 miliardi di persone sarà un raddoppio delle emissioni attuali:

Mentre le emissioni di CO2 aumentano, aumenta la concentrazione atmosferica di gas serra, oltre le 400 parti per milione attuali fino a 650 ppm alla fine del secolo.

Cosa significa tale concentrazione di gas serra per il clima globale? Secondo un recente seminario del Dott. David Wasdell, il risultato sarebbe una temperatura di equilibrio fino a 10 gradi Celsius più alta di quella che era appena duecento anni fa. Oggi l’aumento è stato di appena 0,8 C e abbiamo alterato il Jet Stream Polare. L’effetto di un aumento di 10 C sarebbe inimmaginabile. Si tratterebbe inequivocabilmente un aumento di temperatura tale da determinare un’estinzione di massa globale.

Conclusioni

Dunque, vi sento dire, se qualcosa è impossibile- come questo scenario sembrerebbe- non si verificherà. Qualcosa interverrà inevitabilmente ad arrestare questa traiettoria BAU (Business As Usual). Sono d’accordo con voi.

Una delle principali caratteristiche di un grande e complesso sistema come la nostra civilizzazione planetaria è la imprevedibilità delle sue modalità di collasso. In parole povere, noi sappiamo che qualcosa si romperà, ma non possiamo dire cosa, dove e quando. Al momento i nostri soldi sono in una fase di collasso economico innescato dal collasso del sistema finanziario.

Una cosa sembra chiara. Lo stato finale che ho descritto NON si verificherà. Al momento in cui il 21simo secolo esalerà l’ultimo respiro, il mondo non conterrà 11 miliardi di persone; nonemetteremo 70 miliardi di tonnellate di CO2 per anno; e i livelli di CO2 non saranno di 650 ppm. In qualche momento fra adesso ed allora o le forze della natura o quelle dell’uomo interromperanno la musica e Homo sapiens si troverà a cercare una sedia ancora libera.

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Genova per noi ….

… che stiamo in mezzo alla campagna
e abbiamo il sole in piazza pochi giorni
e il resto è pioggia che ci bagna.

Queste le parole di una canzone di Paolo Conte resa popolare da Bruno Lauzi negli anni ’70. Evocativa. C’è Genova, c’è la pioggia che bagna noi, ma porta via loro. Con questo motivo in testa in questi giorni mi chiedevo come sia possibile il ripetersi di queste catastrofi e al tempo stesso il perdurare di un modo di affrontarle totalmente inadeguato. Da parte di tutti, non solo dei politici e dei tecnici, ma anche da parte dell’uomo qualunque. Quello con cui si discute al bar o in treno.

Cosa rappresenta Genova oggi?

Quello che rappresentano tutte le altre catastrofi climatiche che avvengono con frequenza sempre maggiore da diversi anni a questa parte. Genova ci ricorda oggi che prima ci sono stati nubifragi seguiti da inondazioni a Imola e nel Gargano (2 morti) in settembre, Refrontolo in provincia di Treviso il 2 agosto (4 morti), in privinvia di Ancona (3 morti) in maggio, in provincia di Pisa e a Modena (1 morto) a gennaio. In Sardegna con 18 morti nel novembre del 2013. Nel 2012 c’era stata la bassa Maremma toscana (6 morti) e nello stesso periodo altre alluvioni in provincia di Massa Carrara (1 morto) e Orvieto.Nel 2011 nella provincia di Messina (3 morti) e sempre quell’anno, in novembre, di nuovo Genova (6 morti). Il 25 ottobre del 2011 nelle Cinque Terre, Val di Vara e Lunigiana (13 morti). In Piemonte nel 2009 ci furono 23 morti e 11 dispersi molte migliaia di sfollati. Fino a Sarno nel 1998 con 159 morti. Si potrebbe continuare il conteggio. Gli eventi sono presi da una lista impressionante che ho trovato su una lista delle inondazioni in Italia su Wikipedia. E magari non è completa.

Si dovrebbe continuare riportando le catastrofi climatiche nel Mondo, spesso molto più mortifere di quelle che abbiamo sofferto in Italia. Ne vengono riportate in tutto il mondo: Australia nel 2012 e nel 2013, in Europa con lo straripamento di grandi fiumi grandi e piccoli, negli Stati Uniti, in Cina e nel subcontinente indiano.

Cosa hanno in comune tutte queste catastrofi?
1) L’aggravarsi degli effetti del riscaldamento climatico causato dall’uomo, con i fenomeni estremi che aumentano di intensità e frequenza
2) Il fatto che questi fenomeni colpiscono in territorio profondamente modificato dall’urbanizzazione e dalla trasformazione dei biomi naturali per scopi dettati dalle necessità umane, agricoltura, pascolo, industrializzazione, canalizzazioni ecc.
3) In alcune parti del mondo (e in particolare da noi in Italia) l’incuria nella gestione del territorio.
4) La lentezza ad intervenire degli Stati e degli Enti preposti a causa di una crescente complessificazione istituzionale.

Per quanto riguarda quest’ultimo punto il caso di Genova è tipico. La complessità dei meccanismi necessari per far partire i lavori di riassetto è tale che ci vogliono anni per prendere una decisione che alla fine non viene presa. Tutti i passaggi che hanno finito per rendere il sistema ingestibile sono stati probabilmente introdotti a fin di bene per garantire la libertà di impresa, la trasparenza degli appalti, l’efficienza degli interventi, il controllo sui flussi di denaro ecc, ecc ma alla fine bloccano tutto. E’ una legge dei sistemi complessi l’aumento di complessità è un modo di risolvere i problemi, fino ad un certo punto. Superata una certa soglia l’effetto di ulteriore complessificazione è controproducente, ma a quel punto il sistema non può più tornare indietro e, generalmente, si ha una rapida semplificazione involontaria, cioè un collasso. Il Joseph Tainter ha formulato questa legge dei ritorni decrescenti della complessità e l’ha applicata in diversi contesti, dalla caduta dell’Impero Romano all’incidente della Deep Water Horizon nel Golfo del Messico. E’ una legge che sia applica sia alle tecnologie, che alle istituzioni.

Detto questo non ci dobbiamo fossilizzare solo osulle cause prossime, quelle indicate nel punti 3) e 4), ma riflettere informati sulle cause più remote la 1) e la 2) che insieme sono a loro volta l’effetto di un overshoot della nostra specie data da esplosione demografica e consumismo. Generalmente nel dibattito politico ci si ferma alle cause prossime ed è tutto un proliferare di accuse incrociate senza grossi risultati.

Sarebbe invece il momento di fermarsi a riflettere sul destino della nostra società nel suo complesso, sulla sua sostenibilità ecologica, energetica e sociale.
Certo è più facile prendersela con Renzi perché non ha fatto qualcosa in tempo, con Burlando perché si è parato il culo piuttosto che prendersi delle responsabilità, con le lungaggini della giustizia, con il bizantismo delle procedure, con il sistema delle gare di appalto. Tutte cose dove i più dotati potranno sfoggiare una conoscenza tecnica tanto approfondita quanto inutile. Alla fine ci ritroveremo di nuovo a guardare sbigottiti altre strade trasformate in fiumi di fango, altri mucchi di automobili, altri funerali. Ognuno con le proprie certezze.

Cosa potrebbe succedere se invece nell’opinione pubblica si cominciasse a considerare altro? E’ possibile vivere su un territorio con una popolazione continuamente crescente? Non vi fate ingannare la popolazione italiana non è in calo e se lo è (perché poi nessuno ha realmente i numeri esatti) lo è in misura irrilevante rispetto all’impatto ambientale che essa ha sul territorio. E’ possibile continuare a consumare materia ed energia nel modo in cui siamo abituati? Ed è possibile fare questo mentre altri popoli che contano miliardi di altri umani vogliono entrare a far parte del banchetto? Possono gli ecosistemi terrestri sopportare altri decenni di crescita materiale di una singola specie? Ha senso continuare con il mantra della crescita economica quando è chiaro quanto il sole che il problema è la crescita dei consumi e della popolazione, cioè la crescita?

Ponendosi queste domande si potrebbe anche arrivare a farsi un idea delle cose che ciascuno di noi sia esso sindaco o presidente del consiglio, potrebbe e dovrebbe fare per evitare altri sbigottimenti funerei.

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Genova per noi ….

… che stiamo in mezzo alla campagna
e abbiamo il sole in piazza pochi giorni
e il resto è pioggia che ci bagna.

Queste le parole di una canzone di Paolo Conte resa popolare da Bruno Lauzi negli anni ’70. Evocativa. C’è Genova, c’è la pioggia che bagna noi, ma porta via loro. Con questo motivo in testa in questi giorni mi chiedevo come sia possibile il ripetersi di queste catastrofi e al tempo stesso il perdurare di un modo di affrontarle totalmente inadeguato. Da parte di tutti, non solo dei politici e dei tecnici, ma anche da parte dell’uomo qualunque. Quello con cui si discute al bar o in treno.

Cosa rappresenta Genova oggi?

Quello che rappresentano tutte le altre catastrofi climatiche che avvengono con frequenza sempre maggiore da diversi anni a questa parte. Genova ci ricorda oggi che prima ci sono stati nubifragi seguiti da inondazioni a Imola e nel Gargano (2 morti) in settembre, Refrontolo in provincia di Treviso il 2 agosto (4 morti), in privinvia di Ancona (3 morti) in maggio, in provincia di Pisa e a Modena (1 morto) a gennaio. In Sardegna con 18 morti nel novembre del 2013. Nel 2012 c’era stata la bassa Maremma toscana (6 morti) e nello stesso periodo altre alluvioni in provincia di Massa Carrara (1 morto) e Orvieto.Nel 2011 nella provincia di Messina (3 morti) e sempre quell’anno, in novembre, di nuovo Genova (6 morti). Il 25 ottobre del 2011 nelle Cinque Terre, Val di Vara e Lunigiana (13 morti). In Piemonte nel 2009 ci furono 23 morti e 11 dispersi molte migliaia di sfollati. Fino a Sarno nel 1998 con 159 morti. Si potrebbe continuare il conteggio. Gli eventi sono presi da una lista impressionante che ho trovato su una lista delle inondazioni in Italia su Wikipedia. E magari non è completa.

Si dovrebbe continuare riportando le catastrofi climatiche nel Mondo, spesso molto più mortifere di quelle che abbiamo sofferto in Italia. Ne vengono riportate in tutto il mondo: Australia nel 2012 e nel 2013, in Europa con lo straripamento di grandi fiumi grandi e piccoli, negli Stati Uniti, in Cina e nel subcontinente indiano.

Cosa hanno in comune tutte queste catastrofi?
1) L’aggravarsi degli effetti del riscaldamento climatico causato dall’uomo, con i fenomeni estremi che aumentano di intensità e frequenza
2) Il fatto che questi fenomeni colpiscono in territorio profondamente modificato dall’urbanizzazione e dalla trasformazione dei biomi naturali per scopi dettati dalle necessità umane, agricoltura, pascolo, industrializzazione, canalizzazioni ecc.
3) In alcune parti del mondo (e in particolare da noi in Italia) l’incuria nella gestione del territorio.
4) La lentezza ad intervenire degli Stati e degli Enti preposti a causa di una crescente complessificazione istituzionale.

Per quanto riguarda quest’ultimo punto il caso di Genova è tipico. La complessità dei meccanismi necessari per far partire i lavori di riassetto è tale che ci vogliono anni per prendere una decisione che alla fine non viene presa. Tutti i passaggi che hanno finito per rendere il sistema ingestibile sono stati probabilmente introdotti a fin di bene per garantire la libertà di impresa, la trasparenza degli appalti, l’efficienza degli interventi, il controllo sui flussi di denaro ecc, ecc ma alla fine bloccano tutto. E’ una legge dei sistemi complessi l’aumento di complessità è un modo di risolvere i problemi, fino ad un certo punto. Superata una certa soglia l’effetto di ulteriore complessificazione è controproducente, ma a quel punto il sistema non può più tornare indietro e, generalmente, si ha una rapida semplificazione involontaria, cioè un collasso. Il Joseph Tainter ha formulato questa legge dei ritorni decrescenti della complessità e l’ha applicata in diversi contesti, dalla caduta dell’Impero Romano all’incidente della Deep Water Horizon nel Golfo del Messico. E’ una legge che sia applica sia alle tecnologie, che alle istituzioni.

Detto questo non ci dobbiamo fossilizzare solo osulle cause prossime, quelle indicate nel punti 3) e 4), ma riflettere informati sulle cause più remote la 1) e la 2) che insieme sono a loro volta l’effetto di un overshoot della nostra specie data da esplosione demografica e consumismo. Generalmente nel dibattito politico ci si ferma alle cause prossime ed è tutto un proliferare di accuse incrociate senza grossi risultati.

Sarebbe invece il momento di fermarsi a riflettere sul destino della nostra società nel suo complesso, sulla sua sostenibilità ecologica, energetica e sociale.
Certo è più facile prendersela con Renzi perché non ha fatto qualcosa in tempo, con Burlando perché si è parato il culo piuttosto che prendersi delle responsabilità, con le lungaggini della giustizia, con il bizantismo delle procedure, con il sistema delle gare di appalto. Tutte cose dove i più dotati potranno sfoggiare una conoscenza tecnica tanto approfondita quanto inutile. Alla fine ci ritroveremo di nuovo a guardare sbigottiti altre strade trasformate in fiumi di fango, altri mucchi di automobili, altri funerali. Ognuno con le proprie certezze.

Cosa potrebbe succedere se invece nell’opinione pubblica si cominciasse a considerare altro? E’ possibile vivere su un territorio con una popolazione continuamente crescente? Non vi fate ingannare la popolazione italiana non è in calo e se lo è (perché poi nessuno ha realmente i numeri esatti) lo è in misura irrilevante rispetto all’impatto ambientale che essa ha sul territorio. E’ possibile continuare a consumare materia ed energia nel modo in cui siamo abituati? Ed è possibile fare questo mentre altri popoli che contano miliardi di altri umani vogliono entrare a far parte del banchetto? Possono gli ecosistemi terrestri sopportare altri decenni di crescita materiale di una singola specie? Ha senso continuare con il mantra della crescita economica quando è chiaro quanto il sole che il problema è la crescita dei consumi e della popolazione, cioè la crescita?

Ponendosi queste domande si potrebbe anche arrivare a farsi un idea delle cose che ciascuno di noi sia esso sindaco o presidente del consiglio, potrebbe e dovrebbe fare per evitare altri sbigottimenti funerei.

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Genova per noi ….

… che stiamo in mezzo alla campagna
e abbiamo il sole in piazza pochi giorni
e il resto è pioggia che ci bagna.

Queste le parole di una canzone di Paolo Conte resa popolare da Bruno Lauzi negli anni ’70. Evocativa. C’è Genova, c’è la pioggia che bagna noi, ma porta via loro. Con questo motivo in testa in questi giorni mi chiedevo come sia possibile il ripetersi di queste catastrofi e al tempo stesso il perdurare di un modo di affrontarle totalmente inadeguato. Da parte di tutti, non solo dei politici e dei tecnici, ma anche da parte dell’uomo qualunque. Quello con cui si discute al bar o in treno.

Cosa rappresenta Genova oggi?

Quello che rappresentano tutte le altre catastrofi climatiche che avvengono con frequenza sempre maggiore da diversi anni a questa parte. Genova ci ricorda oggi che prima ci sono stati nubifragi seguiti da inondazioni a Imola e nel Gargano (2 morti) in settembre, Refrontolo in provincia di Treviso il 2 agosto (4 morti), in privinvia di Ancona (3 morti) in maggio, in provincia di Pisa e a Modena (1 morto) a gennaio. In Sardegna con 18 morti nel novembre del 2013. Nel 2012 c’era stata la bassa Maremma toscana (6 morti) e nello stesso periodo altre alluvioni in provincia di Massa Carrara (1 morto) e Orvieto.Nel 2011 nella provincia di Messina (3 morti) e sempre quell’anno, in novembre, di nuovo Genova (6 morti). Il 25 ottobre del 2011 nelle Cinque Terre, Val di Vara e Lunigiana (13 morti). In Piemonte nel 2009 ci furono 23 morti e 11 dispersi molte migliaia di sfollati. Fino a Sarno nel 1998 con 159 morti. Si potrebbe continuare il conteggio. Gli eventi sono presi da una lista impressionante che ho trovato su una lista delle inondazioni in Italia su Wikipedia. E magari non è completa.

Si dovrebbe continuare riportando le catastrofi climatiche nel Mondo, spesso molto più mortifere di quelle che abbiamo sofferto in Italia. Ne vengono riportate in tutto il mondo: Australia nel 2012 e nel 2013, in Europa con lo straripamento di grandi fiumi grandi e piccoli, negli Stati Uniti, in Cina e nel subcontinente indiano.

Cosa hanno in comune tutte queste catastrofi?
1) L’aggravarsi degli effetti del riscaldamento climatico causato dall’uomo, con i fenomeni estremi che aumentano di intensità e frequenza
2) Il fatto che questi fenomeni colpiscono in territorio profondamente modificato dall’urbanizzazione e dalla trasformazione dei biomi naturali per scopi dettati dalle necessità umane, agricoltura, pascolo, industrializzazione, canalizzazioni ecc.
3) In alcune parti del mondo (e in particolare da noi in Italia) l’incuria nella gestione del territorio.
4) La lentezza ad intervenire degli Stati e degli Enti preposti a causa di una crescente complessificazione istituzionale.

Per quanto riguarda quest’ultimo punto il caso di Genova è tipico. La complessità dei meccanismi necessari per far partire i lavori di riassetto è tale che ci vogliono anni per prendere una decisione che alla fine non viene presa. Tutti i passaggi che hanno finito per rendere il sistema ingestibile sono stati probabilmente introdotti a fin di bene per garantire la libertà di impresa, la trasparenza degli appalti, l’efficienza degli interventi, il controllo sui flussi di denaro ecc, ecc ma alla fine bloccano tutto. E’ una legge dei sistemi complessi l’aumento di complessità è un modo di risolvere i problemi, fino ad un certo punto. Superata una certa soglia l’effetto di ulteriore complessificazione è controproducente, ma a quel punto il sistema non può più tornare indietro e, generalmente, si ha una rapida semplificazione involontaria, cioè un collasso. Il Joseph Tainter ha formulato questa legge dei ritorni decrescenti della complessità e l’ha applicata in diversi contesti, dalla caduta dell’Impero Romano all’incidente della Deep Water Horizon nel Golfo del Messico. E’ una legge che sia applica sia alle tecnologie, che alle istituzioni.

Detto questo non ci dobbiamo fossilizzare solo osulle cause prossime, quelle indicate nel punti 3) e 4), ma riflettere informati sulle cause più remote la 1) e la 2) che insieme sono a loro volta l’effetto di un overshoot della nostra specie data da esplosione demografica e consumismo. Generalmente nel dibattito politico ci si ferma alle cause prossime ed è tutto un proliferare di accuse incrociate senza grossi risultati.

Sarebbe invece il momento di fermarsi a riflettere sul destino della nostra società nel suo complesso, sulla sua sostenibilità ecologica, energetica e sociale.
Certo è più facile prendersela con Renzi perché non ha fatto qualcosa in tempo, con Burlando perché si è parato il culo piuttosto che prendersi delle responsabilità, con le lungaggini della giustizia, con il bizantismo delle procedure, con il sistema delle gare di appalto. Tutte cose dove i più dotati potranno sfoggiare una conoscenza tecnica tanto approfondita quanto inutile. Alla fine ci ritroveremo di nuovo a guardare sbigottiti altre strade trasformate in fiumi di fango, altri mucchi di automobili, altri funerali. Ognuno con le proprie certezze.

Cosa potrebbe succedere se invece nell’opinione pubblica si cominciasse a considerare altro? E’ possibile vivere su un territorio con una popolazione continuamente crescente? Non vi fate ingannare la popolazione italiana non è in calo e se lo è (perché poi nessuno ha realmente i numeri esatti) lo è in misura irrilevante rispetto all’impatto ambientale che essa ha sul territorio. E’ possibile continuare a consumare materia ed energia nel modo in cui siamo abituati? Ed è possibile fare questo mentre altri popoli che contano miliardi di altri umani vogliono entrare a far parte del banchetto? Possono gli ecosistemi terrestri sopportare altri decenni di crescita materiale di una singola specie? Ha senso continuare con il mantra della crescita economica quando è chiaro quanto il sole che il problema è la crescita dei consumi e della popolazione, cioè la crescita?

Ponendosi queste domande si potrebbe anche arrivare a farsi un idea delle cose che ciascuno di noi sia esso sindaco o presidente del consiglio, potrebbe e dovrebbe fare per evitare altri sbigottimenti funerei.

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La vera causa e il capro espiatorio.

Quando si parla di crisi, sia di quella economica che di quella ecologica, ognuno ha una causa preferita. C’è la finanza predatoria, l’euro, le banche, la fed, i cinesi, gli immigranti (i nuovi barbari), i fondamentalisti islamici, le religioni monoteiste in genere, il capitalismo, il libero mercato, il mercato tout court, l’esplosione demografica, la decrescita demografica, l’anidride carbonica, i nitrati, i fosfati, il petrolio, il cambiamento climatico, l’allentamento dei vincoli morali nella società, l’educazione carente, le nuove tecnologie, la mancanza di innovazione, l’eccesso di tecnologia e la sua mancanza, i vincoli alla ricerca, la troppa libertà di ricerca, le disfunzioni dell’amministrazione, quelle del sistema giudiziario, l’eccesso di centralizzazione, l’eccesso di decentralizzazione. Una situazione che ricorda un po’ l’enumerazione delle “cause storiche della caduta dell’Impero Romano d’occidente” che si contano a centinaia.

La scimmia e la capra.

In un mondo complesso non potrebbe essere diversamente. Ma il fatto che ciascuno insista su un aspetto particolare rivela la natura monodimensionale e lineare del nostro modo di vedere la realtà. Ogni scelta che facciamo di una particolare causa è una semplificazione tranquillizzante. E’ il classico capro espiatorio. Il domidio economico, la scienza, la religione e tutte le altre cause elencate e molte altre, tutte brutte e cattive. Se solo potessimo liberarci di queste catene saremmo tutti bravi e buoni (e probabilmente anche belli) e collaboreremmo, liberi da ogni egoismo, per costruire finalmente il paradiso in terra (senza precluderci la possibilità di entrare poi in quello in cielo, il più tardi possibile).

Purtroppo non funziona e non ha mai funzionato. C’è qualcosa a monte, nell’hardware, di Homo sapiens. Lo ha evidenziato qualche giorno fa su facebook una mia amica musicista, ma con una solida formazione naturalistica (è possibile), riportando una citazione dell’etologo e primatologo Frans de Waal e attualizzandola.

Being both more systematically brutal than chimps and more empathetic than
bonobos, we are by far the most bipolar ape. Our societies are never completely peaceful, never completely competitive, never ruled by sheer selfishness, and never perfectly moral.

― Frans de Waa.
(Essendo più sistematicamente brutale degli scimpanzé, e più empatici dei bonobo, siamo la scimmia maggiormente bipolare. Le nostre società non sono mai completamente pacifiche ne mai completamente competitive, mai guidate dal puro egoismo e mai perfettamente morali).

E Flavia Barbacetto commentava.

“Mentre centinaia di operatori sanitari rischiano la propria vita per salvarne altre in Africa, un ragazzino di 14 anni giace sul letto di in un ospedale di Napoli dopo essere stato brutalmente seviziato da altri esseri umani. L’insolubile dicotomia che grava sulla nostra specie continua ogni giorno di più a lasciarmi attonita.”

Ecco ora anche io ho la mia causa preferita. So dove sia, ma non so esattamente cosa sia.

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La vera causa e il capro espiatorio.

Quando si parla di crisi, sia di quella economica che di quella ecologica, ognuno ha una causa preferita. C’è la finanza predatoria, l’euro, le banche, la fed, i cinesi, gli immigranti (i nuovi barbari), i fondamentalisti islamici, le religioni monoteiste in genere, il capitalismo, il libero mercato, il mercato tout court, l’esplosione demografica, la decrescita demografica, l’anidride carbonica, i nitrati, i fosfati, il petrolio, il cambiamento climatico, l’allentamento dei vincoli morali nella società, l’educazione carente, le nuove tecnologie, la mancanza di innovazione, l’eccesso di tecnologia e la sua mancanza, i vincoli alla ricerca, la troppa libertà di ricerca, le disfunzioni dell’amministrazione, quelle del sistema giudiziario, l’eccesso di centralizzazione, l’eccesso di decentralizzazione. Una situazione che ricorda un po’ l’enumerazione delle “cause storiche della caduta dell’Impero Romano d’occidente” che si contano a centinaia.

La scimmia e la capra.

In un mondo complesso non potrebbe essere diversamente. Ma il fatto che ciascuno insista su un aspetto particolare rivela la natura monodimensionale e lineare del nostro modo di vedere la realtà. Ogni scelta che facciamo di una particolare causa è una semplificazione tranquillizzante. E’ il classico capro espiatorio. Il domidio economico, la scienza, la religione e tutte le altre cause elencate e molte altre, tutte brutte e cattive. Se solo potessimo liberarci di queste catene saremmo tutti bravi e buoni (e probabilmente anche belli) e collaboreremmo, liberi da ogni egoismo, per costruire finalmente il paradiso in terra (senza precluderci la possibilità di entrare poi in quello in cielo, il più tardi possibile).

Purtroppo non funziona e non ha mai funzionato. C’è qualcosa a monte, nell’hardware, di Homo sapiens. Lo ha evidenziato qualche giorno fa su facebook una mia amica musicista, ma con una solida formazione naturalistica (è possibile), riportando una citazione dell’etologo e primatologo Frans de Waal e attualizzandola.

Being both more systematically brutal than chimps and more empathetic than
bonobos, we are by far the most bipolar ape. Our societies are never completely peaceful, never completely competitive, never ruled by sheer selfishness, and never perfectly moral.

― Frans de Waa.
(Essendo più sistematicamente brutale degli scimpanzé, e più empatici dei bonobo, siamo la scimmia maggiormente bipolare. Le nostre società non sono mai completamente pacifiche ne mai completamente competitive, mai guidate dal puro egoismo e mai perfettamente morali).

E Flavia Barbacetto commentava.

“Mentre centinaia di operatori sanitari rischiano la propria vita per salvarne altre in Africa, un ragazzino di 14 anni giace sul letto di in un ospedale di Napoli dopo essere stato brutalmente seviziato da altri esseri umani. L’insolubile dicotomia che grava sulla nostra specie continua ogni giorno di più a lasciarmi attonita.”

Ecco ora anche io ho la mia causa preferita. So dove sia, ma non so esattamente cosa sia.

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La vera causa e il capro espiatorio.

Quando si parla di crisi, sia di quella economica che di quella ecologica, ognuno ha una causa preferita. C’è la finanza predatoria, l’euro, le banche, la fed, i cinesi, gli immigranti (i nuovi barbari), i fondamentalisti islamici, le religioni monoteiste in genere, il capitalismo, il libero mercato, il mercato tout court, l’esplosione demografica, la decrescita demografica, l’anidride carbonica, i nitrati, i fosfati, il petrolio, il cambiamento climatico, l’allentamento dei vincoli morali nella società, l’educazione carente, le nuove tecnologie, la mancanza di innovazione, l’eccesso di tecnologia e la sua mancanza, i vincoli alla ricerca, la troppa libertà di ricerca, le disfunzioni dell’amministrazione, quelle del sistema giudiziario, l’eccesso di centralizzazione, l’eccesso di decentralizzazione. Una situazione che ricorda un po’ l’enumerazione delle “cause storiche della caduta dell’Impero Romano d’occidente” che si contano a centinaia.

La scimmia e la capra.

In un mondo complesso non potrebbe essere diversamente. Ma il fatto che ciascuno insista su un aspetto particolare rivela la natura monodimensionale e lineare del nostro modo di vedere la realtà. Ogni scelta che facciamo di una particolare causa è una semplificazione tranquillizzante. E’ il classico capro espiatorio. Il domidio economico, la scienza, la religione e tutte le altre cause elencate e molte altre, tutte brutte e cattive. Se solo potessimo liberarci di queste catene saremmo tutti bravi e buoni (e probabilmente anche belli) e collaboreremmo, liberi da ogni egoismo, per costruire finalmente il paradiso in terra (senza precluderci la possibilità di entrare poi in quello in cielo, il più tardi possibile).

Purtroppo non funziona e non ha mai funzionato. C’è qualcosa a monte, nell’hardware, di Homo sapiens. Lo ha evidenziato qualche giorno fa su facebook una mia amica musicista, ma con una solida formazione naturalistica (è possibile), riportando una citazione dell’etologo e primatologo Frans de Waal e attualizzandola.

Being both more systematically brutal than chimps and more empathetic than
bonobos, we are by far the most bipolar ape. Our societies are never completely peaceful, never completely competitive, never ruled by sheer selfishness, and never perfectly moral.

― Frans de Waa.
(Essendo più sistematicamente brutale degli scimpanzé, e più empatici dei bonobo, siamo la scimmia maggiormente bipolare. Le nostre società non sono mai completamente pacifiche ne mai completamente competitive, mai guidate dal puro egoismo e mai perfettamente morali).

E Flavia Barbacetto commentava.

“Mentre centinaia di operatori sanitari rischiano la propria vita per salvarne altre in Africa, un ragazzino di 14 anni giace sul letto di in un ospedale di Napoli dopo essere stato brutalmente seviziato da altri esseri umani. L’insolubile dicotomia che grava sulla nostra specie continua ogni giorno di più a lasciarmi attonita.”

Ecco ora anche io ho la mia causa preferita. So dove sia, ma non so esattamente cosa sia.

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Divergenza.

Mi sembra che ci sia una tendenza in atto alla divergenza delle opinioni e perciò alla radicalizzazione delle posizioni. Da una parte c’è chi vede lo svolgersi di tutte le catastrofi prevedibili e previste: il clima, la sesta estinzione di massa, altre catastrofi ambientali e socio-economiche tutte riconducibili ad un evento: il raggiungimento dei limiti biofisici della crescita umana, cioè l’overshoot, il superamento della capacità di carico, la tracimazione ecologica. Dall’altra parte ci sono coloro che perseguono la e credono nella ripresa del cammino plurisecolare di progresso e sviluppo della nostra specie, considerano la crisi attuale come una delle tante fasi di stasi cui seguirà, grazie all’innovazione tecnologica e politica, una nuova fase di crescita e sviluppo.

Pessimisti contro Ottimisti.

Nel mezzo vedo, in occidente una massa semiaddormentata di persone che affogano le loro angosce nelle residuali orge del consumismo (cfr IPOD6), nel mondo in via di sviluppo: una massa ancora più grande di formichine idealmente proiettate verso l’impossibile orgia consumista, nei paesi poveri una corsa al si salvi chi può, fra epidemie di Ebola, malnutrizione, miseria, e tentativi di migrazione, che spesso finiscono in fondo al mare, verso i paesi ancora ricchi.

I Pessimisti vedono il caos e la catastrofe avvicinarsi. Gli Ottimisti ribattono con il consueto sorrisino condiscendente che: si ci sono dei problemi, ma è sempre stato così, ed è una presunzione di ciascuna generazione lidea di vivere in un periodo eccezionale. Oltre a credere nell’esistenza della Terra Piatta e Infinita, un luogo nel quale quando si è sfruttato un’area ci si sposta e si comincia a sfruttarne un’altra, credono anche nella Storia Piatta. La realtà storica darebbe ragione alla presunzione di “tutte le generazioni” solo nel secolo scorso l’umanità ha vissuto un paio di catastrofi maggiori: la prima e la seconda guerra mondiale, e solo i nati dopo il 1945 in occidente possono dirsi indenni.
Il Pessimista elenca i segnali negativi, molti, l’Ottimista si butta sui tecnicismi. Il Pessimista parla di proiezioni e l’Ottimista ribatte con i dati attuali, l’unica cosa che conosce insieme a quelli del passato, e per lui il futuro è l’estrapolazione del passato dato che la Storia è piatta.

Non credo che ci sia un possibile punto d’incontro, una mediazione, possiamo fare tutti gli sforzi, ma le posizioni sono inconciliabili anche quando, e a me capita, si mantiene un livello di dibattito civile.

Gli Ottimisti hanno, nei confronti della massa, dormiente o freneticamente impegnata, un grande vantaggio: sono ottimisti. Hanno una narrativa vincente perché narcotizzante.

Purtroppo la capacità di reazione alla crisi che verrà (ah io mi colloco fra i pessimisti quindi do per scontato che si sia in una fase immediatamente precedente al collasso) dipende in gran parte dalla conoscenza dei problemi che la determinano, quelli che i Pessimisti continuano a ripetere da decenni. Non dipende, o dipende in minima parte, da una nuova esplosione di innovazione tecnologica che ci porterà a sostituire il petrolio con il sole e il vento, dipende da quanto sappiamo sul funzionamento degli ecosistemi terrestri e sugli effetti che su questi ha il metabolismo sociale ed economico umano.

Ma come fare per rendere questo sapere operativo? Come svegliare la massa narcotizzata? Io non ho una risposta perché vedo che anche i tentativi di coinvolgere le persone comuni in un processo virtuoso di transizione verso la sostenibilità, non mobilita che minoranze infime, e non modifica che in modo impercettibile la rotta del Titanic.

La risposta degli iper-pessimisti la conosco, è facile: “siamo fregati, aspettiamo il collasso”, quindi me la potete risparmiare.… more

Divergenza.

Mi sembra che ci sia una tendenza in atto alla divergenza delle opinioni e perciò alla radicalizzazione delle posizioni. Da una parte c’è chi vede lo svolgersi di tutte le catastrofi prevedibili e previste: il clima, la sesta estinzione di massa, altre catastrofi ambientali e socio-economiche tutte riconducibili ad un evento: il raggiungimento dei limiti biofisici della crescita umana, cioè l’overshoot, il superamento della capacità di carico, la tracimazione ecologica. Dall’altra parte ci sono coloro che perseguono la e credono nella ripresa del cammino plurisecolare di progresso e sviluppo della nostra specie, considerano la crisi attuale come una delle tante fasi di stasi cui seguirà, grazie all’innovazione tecnologica e politica, una nuova fase di crescita e sviluppo.

Pessimisti contro Ottimisti.

Nel mezzo vedo, in occidente una massa semiaddormentata di persone che affogano le loro angosce nelle residuali orge del consumismo (cfr IPOD6), nel mondo in via di sviluppo: una massa ancora più grande di formichine idealmente proiettate verso l’impossibile orgia consumista, nei paesi poveri una corsa al si salvi chi può, fra epidemie di Ebola, malnutrizione, miseria, e tentativi di migrazione, che spesso finiscono in fondo al mare, verso i paesi ancora ricchi.

I Pessimisti vedono il caos e la catastrofe avvicinarsi. Gli Ottimisti ribattono con il consueto sorrisino condiscendente che: si ci sono dei problemi, ma è sempre stato così, ed è una presunzione di ciascuna generazione lidea di vivere in un periodo eccezionale. Oltre a credere nell’esistenza della Terra Piatta e Infinita, un luogo nel quale quando si è sfruttato un’area ci si sposta e si comincia a sfruttarne un’altra, credono anche nella Storia Piatta. La realtà storica darebbe ragione alla presunzione di “tutte le generazioni” solo nel secolo scorso l’umanità ha vissuto un paio di catastrofi maggiori: la prima e la seconda guerra mondiale, e solo i nati dopo il 1945 in occidente possono dirsi indenni.
Il Pessimista elenca i segnali negativi, molti, l’Ottimista si butta sui tecnicismi. Il Pessimista parla di proiezioni e l’Ottimista ribatte con i dati attuali, l’unica cosa che conosce insieme a quelli del passato, e per lui il futuro è l’estrapolazione del passato dato che la Storia è piatta.

Non credo che ci sia un possibile punto d’incontro, una mediazione, possiamo fare tutti gli sforzi, ma le posizioni sono inconciliabili anche quando, e a me capita, si mantiene un livello di dibattito civile.

Gli Ottimisti hanno, nei confronti della massa, dormiente o freneticamente impegnata, un grande vantaggio: sono ottimisti. Hanno una narrativa vincente perché narcotizzante.

Purtroppo la capacità di reazione alla crisi che verrà (ah io mi colloco fra i pessimisti quindi do per scontato che si sia in una fase immediatamente precedente al collasso) dipende in gran parte dalla conoscenza dei problemi che la determinano, quelli che i Pessimisti continuano a ripetere da decenni. Non dipende, o dipende in minima parte, da una nuova esplosione di innovazione tecnologica che ci porterà a sostituire il petrolio con il sole e il vento, dipende da quanto sappiamo sul funzionamento degli ecosistemi terrestri e sugli effetti che su questi ha il metabolismo sociale ed economico umano.

Ma come fare per rendere questo sapere operativo? Come svegliare la massa narcotizzata? Io non ho una risposta perché vedo che anche i tentativi di coinvolgere le persone comuni in un processo virtuoso di transizione verso la sostenibilità, non mobilita che minoranze infime, e non modifica che in modo impercettibile la rotta del Titanic.

La risposta degli iper-pessimisti la conosco, è facile: “siamo fregati, aspettiamo il collasso”, quindi me la potete risparmiare.… more