Author: Luca Pardi

Divergenza.

Mi sembra che ci sia una tendenza in atto alla divergenza delle opinioni e perciò alla radicalizzazione delle posizioni. Da una parte c’è chi vede lo svolgersi di tutte le catastrofi prevedibili e previste: il clima, la sesta estinzione di massa, altre catastrofi ambientali e socio-economiche tutte riconducibili ad un evento: il raggiungimento dei limiti biofisici della crescita umana, cioè l’overshoot, il superamento della capacità di carico, la tracimazione ecologica. Dall’altra parte ci sono coloro che perseguono la e credono nella ripresa del cammino plurisecolare di progresso e sviluppo della nostra specie, considerano la crisi attuale come una delle tante fasi di stasi cui seguirà, grazie all’innovazione tecnologica e politica, una nuova fase di crescita e sviluppo.

Pessimisti contro Ottimisti.

Nel mezzo vedo, in occidente una massa semiaddormentata di persone che affogano le loro angosce nelle residuali orge del consumismo (cfr IPOD6), nel mondo in via di sviluppo: una massa ancora più grande di formichine idealmente proiettate verso l’impossibile orgia consumista, nei paesi poveri una corsa al si salvi chi può, fra epidemie di Ebola, malnutrizione, miseria, e tentativi di migrazione, che spesso finiscono in fondo al mare, verso i paesi ancora ricchi.

I Pessimisti vedono il caos e la catastrofe avvicinarsi. Gli Ottimisti ribattono con il consueto sorrisino condiscendente che: si ci sono dei problemi, ma è sempre stato così, ed è una presunzione di ciascuna generazione lidea di vivere in un periodo eccezionale. Oltre a credere nell’esistenza della Terra Piatta e Infinita, un luogo nel quale quando si è sfruttato un’area ci si sposta e si comincia a sfruttarne un’altra, credono anche nella Storia Piatta. La realtà storica darebbe ragione alla presunzione di “tutte le generazioni” solo nel secolo scorso l’umanità ha vissuto un paio di catastrofi maggiori: la prima e la seconda guerra mondiale, e solo i nati dopo il 1945 in occidente possono dirsi indenni.
Il Pessimista elenca i segnali negativi, molti, l’Ottimista si butta sui tecnicismi. Il Pessimista parla di proiezioni e l’Ottimista ribatte con i dati attuali, l’unica cosa che conosce insieme a quelli del passato, e per lui il futuro è l’estrapolazione del passato dato che la Storia è piatta.

Non credo che ci sia un possibile punto d’incontro, una mediazione, possiamo fare tutti gli sforzi, ma le posizioni sono inconciliabili anche quando, e a me capita, si mantiene un livello di dibattito civile.

Gli Ottimisti hanno, nei confronti della massa, dormiente o freneticamente impegnata, un grande vantaggio: sono ottimisti. Hanno una narrativa vincente perché narcotizzante.

Purtroppo la capacità di reazione alla crisi che verrà (ah io mi colloco fra i pessimisti quindi do per scontato che si sia in una fase immediatamente precedente al collasso) dipende in gran parte dalla conoscenza dei problemi che la determinano, quelli che i Pessimisti continuano a ripetere da decenni. Non dipende, o dipende in minima parte, da una nuova esplosione di innovazione tecnologica che ci porterà a sostituire il petrolio con il sole e il vento, dipende da quanto sappiamo sul funzionamento degli ecosistemi terrestri e sugli effetti che su questi ha il metabolismo sociale ed economico umano.

Ma come fare per rendere questo sapere operativo? Come svegliare la massa narcotizzata? Io non ho una risposta perché vedo che anche i tentativi di coinvolgere le persone comuni in un processo virtuoso di transizione verso la sostenibilità, non mobilita che minoranze infime, e non modifica che in modo impercettibile la rotta del Titanic.

La risposta degli iper-pessimisti la conosco, è facile: “siamo fregati, aspettiamo il collasso”, quindi me la potete risparmiare.… more

La missione impossibile

Archiviata la marcia per il Clima del 21 settembre cosa si può dire?
Chi l’ha organizzata ed è sceso per le strade la considera comprensibilmente un successo. A me 1 milione, o poco meno o poco più, a livello mondiale mi sembra sempre il solito “qualcosa per mille” che sono in grado di mobilitare le cosiddette battaglie ambientaliste a meno che non siano manifestazioni NIMBY (tutti sapete cosa vuol dire).

Evidentemente l’uomo continua ad essere quello descritto all’inizio de “I limiti dello sviluppo”. La maggior parte di noi si occupa di cose che sono vicine nel tempo e nello spazio. Ciò che viene percepito lontano spazialmente o temporalmente ha un “tasso di sconto” molto penalizzante tanto da non avere valore qui ed ora.

Si fanno le marce per spingere i governi a spingere l’ONU a stringere un trattato fra centinaia di nazioni per limitare le emissioni di gas serra. Una missione impossibile. Ma non si fa nulla per spingere i governi a riflettere sulla possibilità di adottare un’agenda demografica in relazione alle risorse disponibili. Nessuno che chieda ai governi e ai parlamenti di riflettere sulla capacità di carico dei propri territori. O, se vogliamo, sulle possibili diverse capacità di carico che si possono prevedere in funzione di uno sviluppo tecnologico possibile e l’inevitabile progressivo declino della qualità di molte risorse essenziali. Dell’impronta ecologica rimane sempre e solo il Consumo e la Tecnologia. Quest’ultima spesso in posizione ambivalente, perché in quanto motore di efficienza riduce l’impatto, anche se ha storicamente aumentato i consumi. Mentre sul consumo la maggior parte degli ambientalisti ha una atteggiamento moralista riassunto nella definizione stessa della società consumista. 

La popolazione è, direbbero le persone uscite dalle scuole di studi sociali ed economici, un dato esogeno. Non modificabile. 

Si tratta di uno scotoma culturale che, quando viene evidenziato, provoca reazioni irritate o elucubrazioni giustificative da parte di persone con diversa ideologia, religione ed etnia. 

La natalità non si tocca. Per i cattolici c’è sicuramente il fatto che si va a sfruculiare il tabù del sesso. Per i liberali c’è il tabù dell’intromissione nelle libertà individuali, per i comunisti il mito della massa buona, intelligente e operosa, e in tempi recenti anche eco-sostenibile, che si genera dalla liberazione dall’odiato capitalismo. Per gli islamici estremisti c’è il bisogno, in mancanza di tecnologie adeguate, di combattere la jihad con la population womb (Cit. Arafat, che non era islamico, ma il concetto è chiaro). I mussulmani non estremisti, ed evoluti, sono, forse, i meno peggio perché non hanno il tabù cristiano della separazione fra piacere sessuale e procreazione. E poi ci sono i paesi di cultura confuciana che sono assai meglio su questo tema. Almeno lo hanno affrontato. Per qualche motivo, a me non del tutto chiaro, ho incontrato resistenze perfino da parte degli Atei Agnostici Razionalisti quando gli ho proposto un Malthus day. Malthus è anatemizzato per sempre da tutti.

Ma non dimentichiamoci che Malthus deve essere ricordato non perché le sue previsioni a breve sono risultate sbagliate, ma perché ha evocato la possibilità di un overshoot ecologico che, puntualmente, superata l’ubriacatura da combustibili fossili si sta ripresentando con gli interessi, sotto forma della stessa combinazione proposta da Malthus, popolazione vs risorse disponibili. more

La missione impossibile

Archiviata la marcia per il Clima del 21 settembre cosa si può dire?
Chi l’ha organizzata ed è sceso per le strade la considera comprensibilmente un successo. A me 1 milione, o poco meno o poco più, a livello mondiale mi sembra sempre il solito “qualcosa per mille” che sono in grado di mobilitare le cosiddette battaglie ambientaliste a meno che non siano manifestazioni NIMBY (tutti sapete cosa vuol dire).

Evidentemente l’uomo continua ad essere quello descritto all’inizio de “I limiti dello sviluppo”. La maggior parte di noi si occupa di cose che sono vicine nel tempo e nello spazio. Ciò che viene percepito lontano spazialmente o temporalmente ha un “tasso di sconto” molto penalizzante tanto da non avere valore qui ed ora.

Si fanno le marce per spingere i governi a spingere l’ONU a stringere un trattato fra centinaia di nazioni per limitare le emissioni di gas serra. Una missione impossibile. Ma non si fa nulla per spingere i governi a riflettere sulla possibilità di adottare un’agenda demografica in relazione alle risorse disponibili. Nessuno che chieda ai governi e ai parlamenti di riflettere sulla capacità di carico dei propri territori. O, se vogliamo, sulle possibili diverse capacità di carico che si possono prevedere in funzione di uno sviluppo tecnologico possibile e l’inevitabile progressivo declino della qualità di molte risorse essenziali. Dell’impronta ecologica rimane sempre e solo il Consumo e la Tecnologia. Quest’ultima spesso in posizione ambivalente, perché in quanto motore di efficienza riduce l’impatto, anche se ha storicamente aumentato i consumi. Mentre sul consumo la maggior parte degli ambientalisti ha una atteggiamento moralista riassunto nella definizione stessa della società consumista. 

La popolazione è, direbbero le persone uscite dalle scuole di studi sociali ed economici, un dato esogeno. Non modificabile. 

Si tratta di uno scotoma culturale che, quando viene evidenziato, provoca reazioni irritate o elucubrazioni giustificative da parte di persone con diversa ideologia, religione ed etnia. 

La natalità non si tocca. Per i cattolici c’è sicuramente il fatto che si va a sfruculiare il tabù del sesso. Per i liberali c’è il tabù dell’intromissione nelle libertà individuali, per i comunisti il mito della massa buona, intelligente e operosa, e in tempi recenti anche eco-sostenibile, che si genera dalla liberazione dall’odiato capitalismo. Per gli islamici estremisti c’è il bisogno, in mancanza di tecnologie adeguate, di combattere la jihad con la population womb (Cit. Arafat, che non era islamico, ma il concetto è chiaro). I mussulmani non estremisti, ed evoluti, sono, forse, i meno peggio perché non hanno il tabù cristiano della separazione fra piacere sessuale e procreazione. E poi ci sono i paesi di cultura confuciana che sono assai meglio su questo tema. Almeno lo hanno affrontato. Per qualche motivo, a me non del tutto chiaro, ho incontrato resistenze perfino da parte degli Atei Agnostici Razionalisti quando gli ho proposto un Malthus day. Malthus è anatemizzato per sempre da tutti.

Ma non dimentichiamoci che Malthus deve essere ricordato non perché le sue previsioni a breve sono risultate sbagliate, ma perché ha evocato la possibilità di un overshoot ecologico che, puntualmente, superata l’ubriacatura da combustibili fossili si sta ripresentando con gli interessi, sotto forma della stessa combinazione proposta da Malthus, popolazione vs risorse disponibili. more

La missione impossibile

Archiviata la marcia per il Clima del 21 settembre cosa si può dire?
Chi l’ha organizzata ed è sceso per le strade la considera comprensibilmente un successo. A me 1 milione, o poco meno o poco più, a livello mondiale mi sembra sempre il solito “qualcosa per mille” che sono in grado di mobilitare le cosiddette battaglie ambientaliste a meno che non siano manifestazioni NIMBY (tutti sapete cosa vuol dire).

Evidentemente l’uomo continua ad essere quello descritto all’inizio de “I limiti dello sviluppo”. La maggior parte di noi si occupa di cose che sono vicine nel tempo e nello spazio. Ciò che viene percepito lontano spazialmente o temporalmente ha un “tasso di sconto” molto penalizzante tanto da non avere valore qui ed ora.

Si fanno le marce per spingere i governi a spingere l’ONU a stringere un trattato fra centinaia di nazioni per limitare le emissioni di gas serra. Una missione impossibile. Ma non si fa nulla per spingere i governi a riflettere sulla possibilità di adottare un’agenda demografica in relazione alle risorse disponibili. Nessuno che chieda ai governi e ai parlamenti di riflettere sulla capacità di carico dei propri territori. O, se vogliamo, sulle possibili diverse capacità di carico che si possono prevedere in funzione di uno sviluppo tecnologico possibile e l’inevitabile progressivo declino della qualità di molte risorse essenziali. Dell’impronta ecologica rimane sempre e solo il Consumo e la Tecnologia. Quest’ultima spesso in posizione ambivalente, perché in quanto motore di efficienza riduce l’impatto, anche se ha storicamente aumentato i consumi. Mentre sul consumo la maggior parte degli ambientalisti ha una atteggiamento moralista riassunto nella definizione stessa della società consumista. 

La popolazione è, direbbero le persone uscite dalle scuole di studi sociali ed economici, un dato esogeno. Non modificabile. 

Si tratta di uno scotoma culturale che, quando viene evidenziato, provoca reazioni irritate o elucubrazioni giustificative da parte di persone con diversa ideologia, religione ed etnia. 

La natalità non si tocca. Per i cattolici c’è sicuramente il fatto che si va a sfruculiare il tabù del sesso. Per i liberali c’è il tabù dell’intromissione nelle libertà individuali, per i comunisti il mito della massa buona, intelligente e operosa, e in tempi recenti anche eco-sostenibile, che si genera dalla liberazione dall’odiato capitalismo. Per gli islamici estremisti c’è il bisogno, in mancanza di tecnologie adeguate, di combattere la jihad con la population womb (Cit. Arafat, che non era islamico, ma il concetto è chiaro). I mussulmani non estremisti, ed evoluti, sono, forse, i meno peggio perché non hanno il tabù cristiano della separazione fra piacere sessuale e procreazione. E poi ci sono i paesi di cultura confuciana che sono assai meglio su questo tema. Almeno lo hanno affrontato. Per qualche motivo, a me non del tutto chiaro, ho incontrato resistenze perfino da parte degli Atei Agnostici Razionalisti quando gli ho proposto un Malthus day. Malthus è anatemizzato per sempre da tutti.

Ma non dimentichiamoci che Malthus deve essere ricordato non perché le sue previsioni a breve sono risultate sbagliate, ma perché ha evocato la possibilità di un overshoot ecologico che, puntualmente, superata l’ubriacatura da combustibili fossili si sta ripresentando con gli interessi, sotto forma della stessa combinazione proposta da Malthus, popolazione vs risorse disponibili. more

Pensierino della domenica.

Sentire la rassegna stampa ogni mattina conferma la mia opinione secondo cui le classi dirigenti politiche, imprenditoriali, sindacali, accademiche, culturali, etniche e religiose non hanno ancora capito in quale genere di crisi siamo. 

Mi rendo conto anche che la mia opinione non è né modesta né, tantomeno, umile. “Proprio te hai capito?”. E’ un problema che mi pongo ogni giorno davanti allo specchio. Il fatto lo spiega molto bene il passaggio di un libro che ho letto recentemente: “Natura in bancarotta” scritto da Wijkman e Rocktroem. Il secondo autore è un accademico svedese che da decenni si occupa di sostenibilità e ha fondato lo Stockholm Resilience Center, una istituzione interdisciplinare e transdisciplinare in cui si elabora strategie e visioni per un mondo sostenibile. 

Bene, Rockstroem ad un certo punto parla della difficoltà di trovare sia naturalisti che umanisti che abbiano una visione sistemica. Questa è, testualmente, il passaggio:

Da direttore di due organizzazioni che si occupano di sostenibilità e resilienza 
afferma: "devo faticare per trovare e assumere scienziati che comprendano appieno
le dimensioni sociali del loro lavoro, o economisti, politologi, antropologi, filosofi che capiscano appieno le dinamiche complesse del sistema biochimico del nostro pianeta.
Siamo ad un passaggio cruciale della storia dell'umanità: è ora di ammettere che la scienza, in base alla quale vengono prese molte delle decisioni che cambieranno il corso dello sviluppo umano, non si basa su soluzioni sistemiche."


La nostra società ha selezionato in funzione del grado di specializzazione. Negli anni cinquanta in un testo ormai dimenticato di futurologia ecologica e socioeconomica: “il futuro è già cominciato”, Robert Jungk (L’autore anche del più noto “Lo stato Atomico”) diceva che c’era bisogno di generalisti più che di specialisti. Da allora ad oggi solo lo specialismo è stato premiato. Forse non è colpa di nessuno, il sistema funziona bene finché i flussi di energia e materia dalla natura alla società sono facili e abbondanti e la natura è in grado di accogliere e metabolizzare senza grosse perturbazioni i rifiuti delle nostre attività. 

In un simile ambiente l’innovazione e lo sviluppo tecnologico incrementano efficacemente l’efficienza del sistema e i problemi, quando ci sono (e spesso ci sono) passano inosservati o possono essere trascurati.

Quando invece, come sta succedendo in questo inizio secolo, il flusso di energia e materia diventa viscoso e i cascami si accumulano nell’ambiente; come accade con la CO2 in atmosfera, i nitrati e i fosfati nel suolo e nei bacini idrici, la plastica nei giri oceanici, gli inquinanti tossici di origine sintetica nei suoli e negli organismi ecc, cresce il bisogno di una visione sistemica che è invece totalmente assente. Al tempo stesso la rincorsa tecnologica diventa sempre più inefficace a causa del noto (ma in certe circostanze ingnorato) principio dei rendimenti marginali decrescenti. Man mano che il sistema diventa più complesso trovare vie di uscita tecnologiche diventa più difficile e costoso. Il principio ha riscontri in ecologia, economia e termodinamica, ma nessuno ha il coraggio di tirare le somme: la tecnologia può ancora vincere qualche battaglia, ma ha perso la guerra.

La tecnologia si applica a migliorare l’efficienza dei sistemi, ma se il sistema è sbagliato aumentarne l’efficienza è inutile.
 
C’è un aggravante che riguarda le classi dirigenti, coloro che per ragioni di capacità e/o fortuna hanno ottenuto risultati eccelenti nell’ambiente culturale iperspecialistico che si è solidificato nei secoli scorsi, vengono chiamati a risolvere problemi di cui sono tanto all’oscuro quanto l’uomo della strada, con l’aggravante di essere dotati di un’autostima debordante che li rende ciechi rispetto a qualsiasi limite culturale possano avere. Un affare serio.more

Pensierino della domenica.

Sentire la rassegna stampa ogni mattina conferma la mia opinione secondo cui le classi dirigenti politiche, imprenditoriali, sindacali, accademiche, culturali, etniche e religiose non hanno ancora capito in quale genere di crisi siamo. 

Mi rendo conto anche che la mia opinione non è né modesta né, tantomeno, umile. “Proprio te hai capito?”. E’ un problema che mi pongo ogni giorno davanti allo specchio. Il fatto lo spiega molto bene il passaggio di un libro che ho letto recentemente: “Natura in bancarotta” scritto da Wijkman e Rocktroem. Il secondo autore è un accademico svedese che da decenni si occupa di sostenibilità e ha fondato lo Stockholm Resilience Center, una istituzione interdisciplinare e transdisciplinare in cui si elabora strategie e visioni per un mondo sostenibile. 

Bene, Rockstroem ad un certo punto parla della difficoltà di trovare sia naturalisti che umanisti che abbiano una visione sistemica. Questa è, testualmente, il passaggio:

Da direttore di due organizzazioni che si occupano di sostenibilità e resilienza 
afferma: "devo faticare per trovare e assumere scienziati che comprendano appieno
le dimensioni sociali del loro lavoro, o economisti, politologi, antropologi, filosofi che capiscano appieno le dinamiche complesse del sistema biochimico del nostro pianeta.
Siamo ad un passaggio cruciale della storia dell'umanità: è ora di ammettere che la scienza, in base alla quale vengono prese molte delle decisioni che cambieranno il corso dello sviluppo umano, non si basa su soluzioni sistemiche."


La nostra società ha selezionato in funzione del grado di specializzazione. Negli anni cinquanta in un testo ormai dimenticato di futurologia ecologica e socioeconomica: “il futuro è già cominciato”, Robert Jungk (L’autore anche del più noto “Lo stato Atomico”) diceva che c’era bisogno di generalisti più che di specialisti. Da allora ad oggi solo lo specialismo è stato premiato. Forse non è colpa di nessuno, il sistema funziona bene finché i flussi di energia e materia dalla natura alla società sono facili e abbondanti e la natura è in grado di accogliere e metabolizzare senza grosse perturbazioni i rifiuti delle nostre attività. 

In un simile ambiente l’innovazione e lo sviluppo tecnologico incrementano efficacemente l’efficienza del sistema e i problemi, quando ci sono (e spesso ci sono) passano inosservati o possono essere trascurati.

Quando invece, come sta succedendo in questo inizio secolo, il flusso di energia e materia diventa viscoso e i cascami si accumulano nell’ambiente; come accade con la CO2 in atmosfera, i nitrati e i fosfati nel suolo e nei bacini idrici, la plastica nei giri oceanici, gli inquinanti tossici di origine sintetica nei suoli e negli organismi ecc, cresce il bisogno di una visione sistemica che è invece totalmente assente. Al tempo stesso la rincorsa tecnologica diventa sempre più inefficace a causa del noto (ma in certe circostanze ingnorato) principio dei rendimenti marginali decrescenti. Man mano che il sistema diventa più complesso trovare vie di uscita tecnologiche diventa più difficile e costoso. Il principio ha riscontri in ecologia, economia e termodinamica, ma nessuno ha il coraggio di tirare le somme: la tecnologia può ancora vincere qualche battaglia, ma ha perso la guerra.

La tecnologia si applica a migliorare l’efficienza dei sistemi, ma se il sistema è sbagliato aumentarne l’efficienza è inutile.
 
C’è un aggravante che riguarda le classi dirigenti, coloro che per ragioni di capacità e/o fortuna hanno ottenuto risultati eccelenti nell’ambiente culturale iperspecialistico che si è solidificato nei secoli scorsi, vengono chiamati a risolvere problemi di cui sono tanto all’oscuro quanto l’uomo della strada, con l’aggravante di essere dotati di un’autostima debordante che li rende ciechi rispetto a qualsiasi limite culturale possano avere. Un affare serio.more

Pensierino della domenica.

Sentire la rassegna stampa ogni mattina conferma la mia opinione secondo cui le classi dirigenti politiche, imprenditoriali, sindacali, accademiche, culturali, etniche e religiose non hanno ancora capito in quale genere di crisi siamo. 

Mi rendo conto anche che la mia opinione non è né modesta né, tantomeno, umile. “Proprio te hai capito?”. E’ un problema che mi pongo ogni giorno davanti allo specchio. Il fatto lo spiega molto bene il passaggio di un libro che ho letto recentemente: “Natura in bancarotta” scritto da Wijkman e Rocktroem. Il secondo autore è un accademico svedese che da decenni si occupa di sostenibilità e ha fondato lo Stockholm Resilience Center, una istituzione interdisciplinare e transdisciplinare in cui si elabora strategie e visioni per un mondo sostenibile. 

Bene, Rockstroem ad un certo punto parla della difficoltà di trovare sia naturalisti che umanisti che abbiano una visione sistemica. Questa è, testualmente, il passaggio:

Da direttore di due organizzazioni che si occupano di sostenibilità e resilienza 
afferma: "devo faticare per trovare e assumere scienziati che comprendano appieno
le dimensioni sociali del loro lavoro, o economisti, politologi, antropologi, filosofi che capiscano appieno le dinamiche complesse del sistema biochimico del nostro pianeta.
Siamo ad un passaggio cruciale della storia dell'umanità: è ora di ammettere che la scienza, in base alla quale vengono prese molte delle decisioni che cambieranno il corso dello sviluppo umano, non si basa su soluzioni sistemiche."


La nostra società ha selezionato in funzione del grado di specializzazione. Negli anni cinquanta in un testo ormai dimenticato di futurologia ecologica e socioeconomica: “il futuro è già cominciato”, Robert Jungk (L’autore anche del più noto “Lo stato Atomico”) diceva che c’era bisogno di generalisti più che di specialisti. Da allora ad oggi solo lo specialismo è stato premiato. Forse non è colpa di nessuno, il sistema funziona bene finché i flussi di energia e materia dalla natura alla società sono facili e abbondanti e la natura è in grado di accogliere e metabolizzare senza grosse perturbazioni i rifiuti delle nostre attività. 

In un simile ambiente l’innovazione e lo sviluppo tecnologico incrementano efficacemente l’efficienza del sistema e i problemi, quando ci sono (e spesso ci sono) passano inosservati o possono essere trascurati.

Quando invece, come sta succedendo in questo inizio secolo, il flusso di energia e materia diventa viscoso e i cascami si accumulano nell’ambiente; come accade con la CO2 in atmosfera, i nitrati e i fosfati nel suolo e nei bacini idrici, la plastica nei giri oceanici, gli inquinanti tossici di origine sintetica nei suoli e negli organismi ecc, cresce il bisogno di una visione sistemica che è invece totalmente assente. Al tempo stesso la rincorsa tecnologica diventa sempre più inefficace a causa del noto (ma in certe circostanze ingnorato) principio dei rendimenti marginali decrescenti. Man mano che il sistema diventa più complesso trovare vie di uscita tecnologiche diventa più difficile e costoso. Il principio ha riscontri in ecologia, economia e termodinamica, ma nessuno ha il coraggio di tirare le somme: la tecnologia può ancora vincere qualche battaglia, ma ha perso la guerra.

La tecnologia si applica a migliorare l’efficienza dei sistemi, ma se il sistema è sbagliato aumentarne l’efficienza è inutile.
 
C’è un aggravante che riguarda le classi dirigenti, coloro che per ragioni di capacità e/o fortuna hanno ottenuto risultati eccelenti nell’ambiente culturale iperspecialistico che si è solidificato nei secoli scorsi, vengono chiamati a risolvere problemi di cui sono tanto all’oscuro quanto l’uomo della strada, con l’aggravante di essere dotati di un’autostima debordante che li rende ciechi rispetto a qualsiasi limite culturale possano avere. Un affare serio.more

Il paese degli elefanti.

Ho scritto questo libro per due motivi, il primo motivo, quello scatenante è la reazione nei confronti di coloro che vorrebbero far passare un interesse privato e circoscritto per un interesse generale. Qui parlo ovviamente dei vari agenti di public relations delle compagnie petrolifere a cominciare dall’ex presidente del consiglio Romano Prodi che in diversi interventi ha sostenuto che procedere ad estrarre (cioè a far estrarre dai suoi amici petrolieri) le ultime gocce di petrolio e le ultime bolle di gas nel nostro sottosuolo è di grande importanza strategica per l’economia del paese. La seconda ragione per cui ho scritto è che ad un certo punto, dopo un po’ di anni che uno studia, o cerca di comunicare quello che ha studiato o si sente inutile. Quindi la querelle sulle riserve italiane è stata in fondo per me una scusa per parlare dei limiti delle risorse petrolifere e rinnovare il dibattito sulla base energetica della nostra società affermando che, come ha detto qualcuno, è meglio abbandonare il petrolio prima che lui abbandoni noi.

…dire che in Italia abbiamo quantità ingenti di idrocarburi, è come dire che l’Italia è il paese degli elefanti perché ci sono due elefanti allo zoo di Pistoia e altri 4 o 5 sparsi nei circhi. Non è così! E’ una frottola.

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Il paese degli elefanti.

Ho scritto questo libro per due motivi, il primo motivo, quello scatenante è la reazione nei confronti di coloro che vorrebbero far passare un interesse privato e circoscritto per un interesse generale. Qui parlo ovviamente dei vari agenti di public relations delle compagnie petrolifere a cominciare dall’ex presidente del consiglio Romano Prodi che in diversi interventi ha sostenuto che procedere ad estrarre (cioè a far estrarre dai suoi amici petrolieri) le ultime gocce di petrolio e le ultime bolle di gas nel nostro sottosuolo è di grande importanza strategica per l’economia del paese. La seconda ragione per cui ho scritto è che ad un certo punto, dopo un po’ di anni che uno studia, o cerca di comunicare quello che ha studiato o si sente inutile. Quindi la querelle sulle riserve italiane è stata in fondo per me una scusa per parlare dei limiti delle risorse petrolifere e rinnovare il dibattito sulla base energetica della nostra società affermando che, come ha detto qualcuno, è meglio abbandonare il petrolio prima che lui abbandoni noi.

…dire che in Italia abbiamo quantità ingenti di idrocarburi, è come dire che l’Italia è il paese degli elefanti perché ci sono due elefanti allo zoo di Pistoia e altri 4 o 5 sparsi nei circhi. Non è così! E’ una frottola.

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Il paese degli elefanti.

Ho scritto questo libro per due motivi, il primo motivo, quello scatenante è la reazione nei confronti di coloro che vorrebbero far passare un interesse privato e circoscritto per un interesse generale. Qui parlo ovviamente dei vari agenti di public relations delle compagnie petrolifere a cominciare dall’ex presidente del consiglio Romano Prodi che in diversi interventi ha sostenuto che procedere ad estrarre (cioè a far estrarre dai suoi amici petrolieri) le ultime gocce di petrolio e le ultime bolle di gas nel nostro sottosuolo è di grande importanza strategica per l’economia del paese. La seconda ragione per cui ho scritto è che ad un certo punto, dopo un po’ di anni che uno studia, o cerca di comunicare quello che ha studiato o si sente inutile. Quindi la querelle sulle riserve italiane è stata in fondo per me una scusa per parlare dei limiti delle risorse petrolifere e rinnovare il dibattito sulla base energetica della nostra società affermando che, come ha detto qualcuno, è meglio abbandonare il petrolio prima che lui abbandoni noi.

…dire che in Italia abbiamo quantità ingenti di idrocarburi, è come dire che l’Italia è il paese degli elefanti perché ci sono due elefanti allo zoo di Pistoia e altri 4 o 5 sparsi nei circhi. Non è così! E’ una frottola.

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