ASPO Italia

Il picco del diesel

Originale di Antonio Turiel
su The
Oil Crash
. Traduzione di Massimiliano Rupalti

Immagine
da StreetsBlog.org


Di ANTONIO TURIEL

Cari lettori,

Continua
la mancanza di combustibile in quasi tutta la provincia di
Salta (Argentina)
“, “I
lavoratori del settore del trasporto merci contestano il
profilo basso che il governo argentino dà alla scarsità di
combustibili
“, “La
scarsità di diesel può durare per settimane nel Canada
occidenatale
“, “Una
scarsità della produzione di diesel nel Regno Unito metterebbe
a rischio la sua sicurezza energetica
“, “Si
profila una crisi della benzina in Russia mentre i prezzi
internazionali crescono
“, “La
scarsità di diesel accende lo scontento in Cina
“, “La
Cina fa importazioni straordinarie di diesel per far fronte
alla scarsità interna
“, “La
scarsità di combustibile può portare a tagli di corrente,
secondo i residenti degli Emirati Arabi Uniti
“, “Gli
yemeniti devono far fronte ad una crisi del combustibile nel
bel mezzo della protesta
“…

Sono solo alcuni dei titoli apparsi
sulla stampa internazionale negli ultimi mesi. Dietro ai
problemi di scarsità ci sono una moltitudine di cause, reali
o presunte, ma hanno un curioso tratto in comune: in tutto
il mondo sono sempre più frequenti le notizie sulla scarsità
di combustibili, principalmente del diesel (potete vedere
altro su
Energy Shortage, da dove provengono quelle che ho
riportato sopra).

 
Lo abbiamo già commentato
alla fine dello scorso anno
: c’è un fantasma
che minaccia il mondo, quello della scarsità del diesel. Non
scarsità di petrolio (che anche è una minaccia ma a più
lungo termine), non la scarsità di altri combustibili (anche
questa finirà con l’arrivare), ma una minaccia già presente.
Non c’è sufficiente diesel per coprire la domanda mondiale
ed il problema ha tutta l’aria di aggravarsi. Ma, perché si
sta verificando questo problema? Come succede di solito, ci
sono vari fattori che influiscono, non tutti allo stesso
modo e non tutti si sviluppano alla stessa velocità. Questo
rende la previsione piuttosto difficile. Tuttavia dà
l’impressione che, per quanto riguarda il diesel, stiamo
giungendo ad un collo di bottiglia abbastanza definitivo.

Il grafico seguente è stato costruito sui dati della Joint
Oil Data Initiative
. E’ un’iniziativa
per dar maggior trasparenza al mercato del petrolio e quello
che tenta di fare è omogeneizzare i dati sparpagliati del
mercato del petrolio e renderli più affidabili. Per questo,
a parte le compilazioni statistiche delle agenzie che vi
partecipano (fra queste le più importanti agenzie pubbliche
e private d’occidente), producono questionari trimestrali
che permettono di individuare le anomalie e correggerle –
con molti limiti, ovviamente. Non tutti i paesi vengono
revisionati dalla JODI (anche se la maggioranza sì) per cui
i loro dati non hanno una scala realmente globale. Anche
così, l’analisi dell’evoluzione della produzione di diesel
su scala globale che ci offre la JODI è abbastanza
rivelatrice:


La figura
corrisponde alla produzione sganciata dalle stazioni (per
compensare i diversi schemi di consumo a seconda della
stazione) facendo una media in ogni punto sui quattro
trimestri precedenti (questo implica, pertanto, che il
riferimento temporale di ogni punto dovrebbe essere spostato
di due trimestri verso sinistra, ma in ogni caso questo
dettaglio non ha importanza per l’esposizione che segue). Il
grafico è diverso da quelli ai quali siamo abituati per la
produzione di petrolio (vedete, per esempio, quella che
avevo preparato per
il
post sullo sfasamento fra offerta e domanda
), poiché la produzione di diesel
(gasolio per autotrazione) non ha raggiunto il tetto fino al
2008, nonostante la stagnazione della produzione di
petrolio. Poi, il calo per la crisi, un nuovo tetto nel 2011
e da lì una tendenza, anche se leggera, a calare, senza che
che si possa giustificare con una grande recessione (poiché
ha avuto inizio nei primi mesi del 2011). Cosa sta
succedendo?

Sta succedendo che il mondo sta rimanendo senza capacità di
produrre più diesel e questo è un fenomeno nuovo con una
dinamica propria, non completamente coincidente con quella
del petrolio. Ovviamente la scarsità di petrolio porterà
inevitabilmente ad una scarsità di diesel, ma ci può essere
scarsità di diesel prima che arrivi la scarsità di petrolio.
Di fatto, è esattamente quello che sta succedendo e le
ragioni di questa diversa dinamica sono fondamentalmente
due.

Sapete già che da
un decennio la IEA sì è inventata un termine che definisce
“tutti i liquidi del petrolio” e che equivale a tutte le
sostanze, estratte e sintetizzate, che più o meno possono
fare le veci del petrolio. Questo utile concetto è stato
introdotto per dissimulare il fatto che la produzione di
petrolio greggio (quello che realmente si estrae dal
sottosuolo) stava giungendo al suo picco di produzione, al
suo zenit, e nella categoria “tutti i liquidi” entrano tutte
le sostanze che si possono sintetizzare e processare come
succedanei del petrolio (per questo si parla di “produzione
di petrolio” invece di “estrazione di petrolio”, perché il
petrolio in parte si fabbrica, in realtà). Quello che
succede è che questi petroli, petroli non convenzionali, di
alcuni dei quali abbiamo già parlato in altre occasioni, non
sono esattamente spendibili o buoni sostituti del petrolio
greggio. In particolare, non tutti sono adatti a produrre
diesel. Ed ecco la prima causa di scarsità del diesel: di
tutti i tipi di petrolio che entrano nella lista “tutti i
liquidi” quelli che sono aumentati di più sono i cosiddetti
“liquidi del gas naturale” (
NGL, il loro acronimo inglese). Questi NGL
sono idrocarburi di catena corta che sono il risultato della
“pulizia” del gas che esce dai pozzi, e anche se si possono
usare per sintetizzare diesel, risulta molto costoso
(ricordate che
fattibile
e redditizio
non sono la
stessa cosa
)
tanto energeticamente quanto economicamente. Di fatto, il
petrolio soggetto ad essere convertito in diesel è già
sicuramente in leggero declino.


Questa mancanza di diesel è abbastanza grave, perché la
maggior parte delle macchine di questo mondo sono diesel,
così come tutto il trasporto su gomma di merci e una parte
sempre più grande di automobili (a causa del miglior
rendimento del motore diesel rispetto a quello a benzina).
Di fatto, la domanda di diesel nel periodo in questione non
ha fatto altro che aumentare, a causa, fra le altre cose,
del disastro di Fukushima, che ha fatto sì che il Giappone
aumentasse le sue importazioni (
le
centrali nucleari del Giappone che vengono fermate per
manutenzione non vengono riattivate, secondo un piano del
Governo per denuclearizzare il paese
e il fabbisogno di elettricità viene
affidato ai generatori diesel ed alle centrali termiche
alimentate col diesel). Questo spiega la scarsità di diesel
in tutto il mondo e rende molto complicata la vita a chi
sostiene la teoria del “peak demand”, il picco della domanda
(
che
abbiamo già commentato in questo blog
) e
che sostengono che la riduzione della produzione in realtà
una diminuzione cercata e pilotata del consumo per via,
essenzialmente, dei miglioramenti nell’efficienza, e non di
quello che sembra stia accadendo, che è la distruzione della
domanda.


C’è, tuttavia, un secondo effetto che si sente sempre di
più: la diminuzione dei
margini di
raffinazione
nelle raffinerie.
Questi “margini di raffinazione” si riferiscono al
differenziale del prezzo dei prodotti raffinati rispetto a
quello del petrolio dal quale si estraggono. Le raffinerie
hanno un controllo abbastanza puntuale sui loro costi
operativi, ma non tanto sul prezzo al quale viene loro
venduto il petrolio ed a quello che pagano loro per la
benzina e gli altri distillati.
Come in tutto il
mercato dei prodotti petroliferi, è norma comune siglare
contratti differiti nel tempo, per esempio, a un mese, tre
mesi o sei mesi. I problemi arrivano quando ti tocca
pagare per il petrolio la stessa cifra che ricavi dalla
vendita della benzina, gasolio, ecc, soprattutto quando
gli orizzonti temporali di quello che compri e vendi non
collimano (per esempio, petrolio a un mese e vendita della
benzina a tre mesi). Le raffinerie tendono a fissare un
margine di raffinazione di alcuni dollari al barile,
normalmente intorno ai 10 dollari, ma
non
è la stessa cosa guadagnare 10 dollari quando il prezzo medio
di un barile è 40 dollari, rispetto a quando è 140 dollari
; Piccole fluttuazioni del prezzo del
petrolio, quando questo è alto, possono far crollare
facilmente il margine di raffinazione fino a renderlo
negativo, come è
successo
nel 2009
o è
successo ad alcune industrie petrolifere nel 2010
. Nel caso delle raffinerie che
appartengono ad un’industria petrolifera questo non è un
problema, ma durante gli ultimi decenni le industrie hanno
esternalizzato questa parte degli affari, che hanno sempre
avuto margini più scarsi, migliorando così le proprie
rendite, ma rendendo ancora più fragile il mercato del
petrolio. Per peggiorare le cose, le raffinerie si
confrontano col problema di avere un eccesso di benzina.
Infatti, raffinando il petrolio si può leggermente variare
la quantità delle due grandi categorie di prodotti di
raffinazione (benzina e distillati), ma non quanto si
vorrebbe, poiché la quantità di petrolio che finisce
convertito in benzine oscilla fra la metà ed i due terzi,
nei lavorati più comuni. Tuttavia, salvo negli Stati Uniti,
in tutto il mondo c’è stata una tendenza a convertire la
mobilità privata al diesel, diminuendo così il consumo di
benzina. Dall’altra parte, la benzina è usata praticamente
solo per la mobilità privata, il settore che ha ridotto di
più i consumi durante la crisi. Così allora, le raffinerie
devono equilibrare la vendita di un prodotto che ha un calo
di domanda, la benzina – che è la metà o più della
produzione – con quella di un insieme di prodotti, fra i
quali anche il diesel, che hanno un aumento della domanda.
Non possono alzare molto il margine perché affogherebbero
nella benzina invenduta, né abbassarlo troppo perché si
rovinerebbero. Conseguenza: le raffinerie non trovano la
loro posizione di redditività e cominciano a fallire o a
chiudere
sine die. Negli Stati Uniti notano preoccupati
che, nonostante la crisi e la caduta della domanda di
benzina,
il
suo prezzo non smette di salire per colpa della chiusura delle
raffinerie
. Almeno cinque
raffinerie della costa est degli Stati uniti hanno chiuso
nelle ultima settimane
, il che da l’idea
di come si stia aggravando il problema. Il problema sta
diventando sistemico anche in Europa:
settanta
(sì, 70!) raffinerie in tutta Europa hanno chiuso o stanno per
chiudere
; nella notizia che
linko dicono che è “per l’embargo all’Iran”, sapete già, che
questo non entrerà in vigore fino a giugno prossimo e per il
quale, come dice il nostro ministro, potremo trovare
petrolio da altri fornitori. Segno sempre più evidente della
difficoltà di accettare una realtà più complessa e
sgradevole. E non pensate che chiudano solo piccole
raffinerie: Petroplus, la più grande d’Europa, che forniva
il 4,4% di tutti i prodotti consumati nel vecchio continente
e le cui
difficoltà
sono state recentemente commentate su Crisis Energética
, alla fine ha
fallito
.

Senza dubbio stiamo vivendo un momento storico. Sembra
sempre più probabile che si realizzi la previsione che aveva
fatto
il
rapporto dei Lloyd’s nel 2010, cioè che ci potrebbero essere
dei problemi di fornitura nel 2013
. Il
resto del mondo, come accertano le notizie linkate
all’inizio del post, è già lì. Manchiamo solo noi. Come
verranno interpretate mediaticamente queste difficoltà?
Quante guerre per le risorse si potranno giustificare a
seconda della lunghezza delle code alle stazioni di
servizio?



Nota finale: in Italia c’è stato un blocco di
diversi giorni da parte dei camionisti, degli agricoltori e
dei pescatori che protestavano per gli alti prezzi del
carburante.
E’
stato molto esteso al sud, dove è durato quasi due settimane e
causando problemi gravi
, compresa la
mancata fornitura di alimenti. Un nuovo promemoria della
fragilità
del nostro sistema
e del fatto che i
problemi gravi sono più vicini di quanto pensiamo. Però
Voi non avete sentito niente di tutto questo, perché
questa notizia conviene metterla a tacere, non sia mai che
la gente se ne faccia un’idea. E’
il
picco dell’informazione
.


Saluti,
AMT
Originale di Antonio Turiel su The
Oil Crash
. Traduzione di Massimiliano Rupalti

more

Il picco del diesel

Originale di Antonio Turiel
su The
Oil Crash
. Traduzione di Massimiliano Rupalti

Immagine
da StreetsBlog.org



Di ANTONIO TURIEL

Cari lettori,

Continua
la mancanza di combustibile in quasi tutta la provincia di
Salta (Argentina)
“, “I
lavoratori del settore del trasporto merci contestano il
profilo basso che il governo argentino dà alla scarsità di
combustibili
“, “La
scarsità di diesel può durare per settimane nel Canada
occidenatale
“, “Una
scarsità della produzione di diesel nel Regno Unito metterebbe
a rischio la sua sicurezza energetica
“, “Si
profila una crisi della benzina in Russia mentre i prezzi
internazionali crescono
“, “La
scarsità di diesel accende lo scontento in Cina
“, “La
Cina fa importazioni straordinarie di diesel per far fronte
alla scarsità interna
“, “La
scarsità di combustibile può portare a tagli di corrente,
secondo i residenti degli Emirati Arabi Uniti
“, “Gli
yemeniti devono far fronte ad una crisi del combustibile nel
bel mezzo della protesta
“…

Sono solo alcuni dei titoli apparsi
sulla stampa internazionale negli ultimi mesi. Dietro ai
problemi di scarsità ci sono una moltitudine di cause, reali
o presunte, ma hanno un curioso tratto in comune: in tutto
il mondo sono sempre più frequenti le notizie sulla scarsità
di combustibili, principalmente del diesel (potete vedere
altro su
Energy Shortage, da dove provengono quelle che ho
riportato sopra).

 
Lo abbiamo già commentato
alla fine dello scorso anno
: c’è un fantasma
che minaccia il mondo, quello della scarsità del diesel. Non
scarsità di petrolio (che anche è una minaccia ma a più
lungo termine), non la scarsità di altri combustibili (anche
questa finirà con l’arrivare), ma una minaccia già presente.
Non c’è sufficiente diesel per coprire la domanda mondiale
ed il problema ha tutta l’aria di aggravarsi. Ma, perché si
sta verificando questo problema? Come succede di solito, ci
sono vari fattori che influiscono, non tutti allo stesso
modo e non tutti si sviluppano alla stessa velocità. Questo
rende la previsione piuttosto difficile. Tuttavia dà
l’impressione che, per quanto riguarda il diesel, stiamo
giungendo ad un collo di bottiglia abbastanza definitivo.

Il grafico seguente è stato costruito sui dati della Joint
Oil Data Initiative
. E’ un’iniziativa
per dar maggior trasparenza al mercato del petrolio e quello
che tenta di fare è omogeneizzare i dati sparpagliati del
mercato del petrolio e renderli più affidabili. Per questo,
a parte le compilazioni statistiche delle agenzie che vi
partecipano (fra queste le più importanti agenzie pubbliche
e private d’occidente), producono questionari trimestrali
che permettono di individuare le anomalie e correggerle –
con molti limiti, ovviamente. Non tutti i paesi vengono
revisionati dalla JODI (anche se la maggioranza sì) per cui
i loro dati non hanno una scala realmente globale. Anche
così, l’analisi dell’evoluzione della produzione di diesel
su scala globale che ci offre la JODI è abbastanza
rivelatrice:


La figura
corrisponde alla produzione sganciata dalle stazioni (per
compensare i diversi schemi di consumo a seconda della
stazione) facendo una media in ogni punto sui quattro
trimestri precedenti (questo implica, pertanto, che il
riferimento temporale di ogni punto dovrebbe essere spostato
di due trimestri verso sinistra, ma in ogni caso questo
dettaglio non ha importanza per l’esposizione che segue). Il
grafico è diverso da quelli ai quali siamo abituati per la
produzione di petrolio (vedete, per esempio, quella che
avevo preparato per
il
post sullo sfasamento fra offerta e domanda
), poiché la produzione di diesel
(gasolio per autotrazione) non ha raggiunto il tetto fino al
2008, nonostante la stagnazione della produzione di
petrolio. Poi, il calo per la crisi, un nuovo tetto nel 2011
e da lì una tendenza, anche se leggera, a calare, senza che
che si possa giustificare con una grande recessione (poiché
ha avuto inizio nei primi mesi del 2011). Cosa sta
succedendo?

Sta succedendo che il mondo sta rimanendo senza capacità di
produrre più diesel e questo è un fenomeno nuovo con una
dinamica propria, non completamente coincidente con quella
del petrolio. Ovviamente la scarsità di petrolio porterà
inevitabilmente ad una scarsità di diesel, ma ci può essere
scarsità di diesel prima che arrivi la scarsità di petrolio.
Di fatto, è esattamente quello che sta succedendo e le
ragioni di questa diversa dinamica sono fondamentalmente
due.

Sapete già che da
un decennio la IEA sì è inventata un termine che definisce
“tutti i liquidi del petrolio” e che equivale a tutte le
sostanze, estratte e sintetizzate, che più o meno possono
fare le veci del petrolio. Questo utile concetto è stato
introdotto per dissimulare il fatto che la produzione di
petrolio greggio (quello che realmente si estrae dal
sottosuolo) stava giungendo al suo picco di produzione, al
suo zenit, e nella categoria “tutti i liquidi” entrano tutte
le sostanze che si possono sintetizzare e processare come
succedanei del petrolio (per questo si parla di “produzione
di petrolio” invece di “estrazione di petrolio”, perché il
petrolio in parte si fabbrica, in realtà). Quello che
succede è che questi petroli, petroli non convenzionali, di
alcuni dei quali abbiamo già parlato in altre occasioni, non
sono esattamente spendibili o buoni sostituti del petrolio
greggio. In particolare, non tutti sono adatti a produrre
diesel. Ed ecco la prima causa di scarsità del diesel: di
tutti i tipi di petrolio che entrano nella lista “tutti i
liquidi” quelli che sono aumentati di più sono i cosiddetti
“liquidi del gas naturale” (
NGL, il loro acronimo inglese). Questi NGL
sono idrocarburi di catena corta che sono il risultato della
“pulizia” del gas che esce dai pozzi, e anche se si possono
usare per sintetizzare diesel, risulta molto costoso
(ricordate che
fattibile
e redditizio
non sono la
stessa cosa
)
tanto energeticamente quanto economicamente. Di fatto, il
petrolio soggetto ad essere convertito in diesel è già
sicuramente in leggero declino.


Questa mancanza di diesel è abbastanza grave, perché la
maggior parte delle macchine di questo mondo sono diesel,
così come tutto il trasporto su gomma di merci e una parte
sempre più grande di automobili (a causa del miglior
rendimento del motore diesel rispetto a quello a benzina).
Di fatto, la domanda di diesel nel periodo in questione non
ha fatto altro che aumentare, a causa, fra le altre cose,
del disastro di Fukushima, che ha fatto sì che il Giappone
aumentasse le sue importazioni (
le
centrali nucleari del Giappone che vengono fermate per
manutenzione non vengono riattivate, secondo un piano del
Governo per denuclearizzare il paese
e il fabbisogno di elettricità viene
affidato ai generatori diesel ed alle centrali termiche
alimentate col diesel). Questo spiega la scarsità di diesel
in tutto il mondo e rende molto complicata la vita a chi
sostiene la teoria del “peak demand”, il picco della domanda
(
che
abbiamo già commentato in questo blog
) e
che sostengono che la riduzione della produzione in realtà
una diminuzione cercata e pilotata del consumo per via,
essenzialmente, dei miglioramenti nell’efficienza, e non di
quello che sembra stia accadendo, che è la distruzione della
domanda.


C’è, tuttavia, un secondo effetto che si sente sempre di
più: la diminuzione dei
margini di
raffinazione
nelle raffinerie.
Questi “margini di raffinazione” si riferiscono al
differenziale del prezzo dei prodotti raffinati rispetto a
quello del petrolio dal quale si estraggono. Le raffinerie
hanno un controllo abbastanza puntuale sui loro costi
operativi, ma non tanto sul prezzo al quale viene loro
venduto il petrolio ed a quello che pagano loro per la
benzina e gli altri distillati.
Come in tutto il
mercato dei prodotti petroliferi, è norma comune siglare
contratti differiti nel tempo, per esempio, a un mese, tre
mesi o sei mesi. I problemi arrivano quando ti tocca
pagare per il petrolio la stessa cifra che ricavi dalla
vendita della benzina, gasolio, ecc, soprattutto quando
gli orizzonti temporali di quello che compri e vendi non
collimano (per esempio, petrolio a un mese e vendita della
benzina a tre mesi). Le raffinerie tendono a fissare un
margine di raffinazione di alcuni dollari al barile,
normalmente intorno ai 10 dollari, ma
non
è la stessa cosa guadagnare 10 dollari quando il prezzo medio
di un barile è 40 dollari, rispetto a quando è 140 dollari
; Piccole fluttuazioni del prezzo del
petrolio, quando questo è alto, possono far crollare
facilmente il margine di raffinazione fino a renderlo
negativo, come è
successo
nel 2009
o è
successo ad alcune industrie petrolifere nel 2010
. Nel caso delle raffinerie che
appartengono ad un’industria petrolifera questo non è un
problema, ma durante gli ultimi decenni le industrie hanno
esternalizzato questa parte degli affari, che hanno sempre
avuto margini più scarsi, migliorando così le proprie
rendite, ma rendendo ancora più fragile il mercato del
petrolio. Per peggiorare le cose, le raffinerie si
confrontano col problema di avere un eccesso di benzina.
Infatti, raffinando il petrolio si può leggermente variare
la quantità delle due grandi categorie di prodotti di
raffinazione (benzina e distillati), ma non quanto si
vorrebbe, poiché la quantità di petrolio che finisce
convertito in benzine oscilla fra la metà ed i due terzi,
nei lavorati più comuni. Tuttavia, salvo negli Stati Uniti,
in tutto il mondo c’è stata una tendenza a convertire la
mobilità privata al diesel, diminuendo così il consumo di
benzina. Dall’altra parte, la benzina è usata praticamente
solo per la mobilità privata, il settore che ha ridotto di
più i consumi durante la crisi. Così allora, le raffinerie
devono equilibrare la vendita di un prodotto che ha un calo
di domanda, la benzina – che è la metà o più della
produzione – con quella di un insieme di prodotti, fra i
quali anche il diesel, che hanno un aumento della domanda.
Non possono alzare molto il margine perché affogherebbero
nella benzina invenduta, né abbassarlo troppo perché si
rovinerebbero. Conseguenza: le raffinerie non trovano la
loro posizione di redditività e cominciano a fallire o a
chiudere
sine die. Negli Stati Uniti notano preoccupati
che, nonostante la crisi e la caduta della domanda di
benzina,
il
suo prezzo non smette di salire per colpa della chiusura delle
raffinerie
. Almeno cinque
raffinerie della costa est degli Stati uniti hanno chiuso
nelle ultima settimane
, il che da l’idea
di come si stia aggravando il problema. Il problema sta
diventando sistemico anche in Europa:
settanta
(sì, 70!) raffinerie in tutta Europa hanno chiuso o stanno per
chiudere
; nella notizia che
linko dicono che è “per l’embargo all’Iran”, sapete già, che
questo non entrerà in vigore fino a giugno prossimo e per il
quale, come dice il nostro ministro, potremo trovare
petrolio da altri fornitori. Segno sempre più evidente della
difficoltà di accettare una realtà più complessa e
sgradevole. E non pensate che chiudano solo piccole
raffinerie: Petroplus, la più grande d’Europa, che forniva
il 4,4% di tutti i prodotti consumati nel vecchio continente
e le cui
difficoltà
sono state recentemente commentate su Crisis Energética
, alla fine ha
fallito
.

Senza dubbio stiamo vivendo un momento storico. Sembra
sempre più probabile che si realizzi la previsione che aveva
fatto
il
rapporto dei Lloyd’s nel 2010, cioè che ci potrebbero essere
dei problemi di fornitura nel 2013
. Il
resto del mondo, come accertano le notizie linkate
all’inizio del post, è già lì. Manchiamo solo noi. Come
verranno interpretate mediaticamente queste difficoltà?
Quante guerre per le risorse si potranno giustificare a
seconda della lunghezza delle code alle stazioni di
servizio?



Nota finale: in Italia c’è stato un blocco di
diversi giorni da parte dei camionisti, degli agricoltori e
dei pescatori che protestavano per gli alti prezzi del
carburante.
E’
stato molto esteso al sud, dove è durato quasi due settimane e
causando problemi gravi
, compresa la
mancata fornitura di alimenti. Un nuovo promemoria della
fragilità
del nostro sistema
e del fatto che i
problemi gravi sono più vicini di quanto pensiamo. Però
Voi non avete sentito niente di tutto questo, perché
questa notizia conviene metterla a tacere, non sia mai che
la gente se ne faccia un’idea. E’
il
picco dell’informazione
.


Saluti,
AMT
Originale di Antonio Turiel su The
Oil Crash
. Traduzione di Massimiliano Rupalti

more

Il picco del diesel

Originale di Antonio Turiel
su The
Oil Crash
. Traduzione di Massimiliano Rupalti

Immagine
da StreetsBlog.org


Di ANTONIO TURIEL

Cari lettori,

Continua
la mancanza di combustibile in quasi tutta la provincia di
Salta (Argentina)
“, “I
lavoratori del settore del trasporto merci contestano il
profilo basso che il governo argentino dà alla scarsità di
combustibili
“, “La
scarsità di diesel può durare per settimane nel Canada
occidenatale
“, “Una
scarsità della produzione di diesel nel Regno Unito metterebbe
a rischio la sua sicurezza energetica
“, “Si
profila una crisi della benzina in Russia mentre i prezzi
internazionali crescono
“, “La
scarsità di diesel accende lo scontento in Cina
“, “La
Cina fa importazioni straordinarie di diesel per far fronte
alla scarsità interna
“, “La
scarsità di combustibile può portare a tagli di corrente,
secondo i residenti degli Emirati Arabi Uniti
“, “Gli
yemeniti devono far fronte ad una crisi del combustibile nel
bel mezzo della protesta
“…

Sono solo alcuni dei titoli apparsi
sulla stampa internazionale negli ultimi mesi. Dietro ai
problemi di scarsità ci sono una moltitudine di cause, reali
o presunte, ma hanno un curioso tratto in comune: in tutto
il mondo sono sempre più frequenti le notizie sulla scarsità
di combustibili, principalmente del diesel (potete vedere
altro su
Energy Shortage, da dove provengono quelle che ho
riportato sopra).

 
Lo abbiamo già commentato
alla fine dello scorso anno
: c’è un fantasma
che minaccia il mondo, quello della scarsità del diesel. Non
scarsità di petrolio (che anche è una minaccia ma a più
lungo termine), non la scarsità di altri combustibili (anche
questa finirà con l’arrivare), ma una minaccia già presente.
Non c’è sufficiente diesel per coprire la domanda mondiale
ed il problema ha tutta l’aria di aggravarsi. Ma, perché si
sta verificando questo problema? Come succede di solito, ci
sono vari fattori che influiscono, non tutti allo stesso
modo e non tutti si sviluppano alla stessa velocità. Questo
rende la previsione piuttosto difficile. Tuttavia dà
l’impressione che, per quanto riguarda il diesel, stiamo
giungendo ad un collo di bottiglia abbastanza definitivo.

Il grafico seguente è stato costruito sui dati della Joint
Oil Data Initiative
. E’ un’iniziativa
per dar maggior trasparenza al mercato del petrolio e quello
che tenta di fare è omogeneizzare i dati sparpagliati del
mercato del petrolio e renderli più affidabili. Per questo,
a parte le compilazioni statistiche delle agenzie che vi
partecipano (fra queste le più importanti agenzie pubbliche
e private d’occidente), producono questionari trimestrali
che permettono di individuare le anomalie e correggerle –
con molti limiti, ovviamente. Non tutti i paesi vengono
revisionati dalla JODI (anche se la maggioranza sì) per cui
i loro dati non hanno una scala realmente globale. Anche
così, l’analisi dell’evoluzione della produzione di diesel
su scala globale che ci offre la JODI è abbastanza
rivelatrice:


La figura
corrisponde alla produzione sganciata dalle stazioni (per
compensare i diversi schemi di consumo a seconda della
stazione) facendo una media in ogni punto sui quattro
trimestri precedenti (questo implica, pertanto, che il
riferimento temporale di ogni punto dovrebbe essere spostato
di due trimestri verso sinistra, ma in ogni caso questo
dettaglio non ha importanza per l’esposizione che segue). Il
grafico è diverso da quelli ai quali siamo abituati per la
produzione di petrolio (vedete, per esempio, quella che
avevo preparato per
il
post sullo sfasamento fra offerta e domanda
), poiché la produzione di diesel
(gasolio per autotrazione) non ha raggiunto il tetto fino al
2008, nonostante la stagnazione della produzione di
petrolio. Poi, il calo per la crisi, un nuovo tetto nel 2011
e da lì una tendenza, anche se leggera, a calare, senza che
che si possa giustificare con una grande recessione (poiché
ha avuto inizio nei primi mesi del 2011). Cosa sta
succedendo?

Sta succedendo che il mondo sta rimanendo senza capacità di
produrre più diesel e questo è un fenomeno nuovo con una
dinamica propria, non completamente coincidente con quella
del petrolio. Ovviamente la scarsità di petrolio porterà
inevitabilmente ad una scarsità di diesel, ma ci può essere
scarsità di diesel prima che arrivi la scarsità di petrolio.
Di fatto, è esattamente quello che sta succedendo e le
ragioni di questa diversa dinamica sono fondamentalmente
due.

Sapete già che da
un decennio la IEA sì è inventata un termine che definisce
“tutti i liquidi del petrolio” e che equivale a tutte le
sostanze, estratte e sintetizzate, che più o meno possono
fare le veci del petrolio. Questo utile concetto è stato
introdotto per dissimulare il fatto che la produzione di
petrolio greggio (quello che realmente si estrae dal
sottosuolo) stava giungendo al suo picco di produzione, al
suo zenit, e nella categoria “tutti i liquidi” entrano tutte
le sostanze che si possono sintetizzare e processare come
succedanei del petrolio (per questo si parla di “produzione
di petrolio” invece di “estrazione di petrolio”, perché il
petrolio in parte si fabbrica, in realtà). Quello che
succede è che questi petroli, petroli non convenzionali, di
alcuni dei quali abbiamo già parlato in altre occasioni, non
sono esattamente spendibili o buoni sostituti del petrolio
greggio. In particolare, non tutti sono adatti a produrre
diesel. Ed ecco la prima causa di scarsità del diesel: di
tutti i tipi di petrolio che entrano nella lista “tutti i
liquidi” quelli che sono aumentati di più sono i cosiddetti
“liquidi del gas naturale” (
NGL, il loro acronimo inglese). Questi NGL
sono idrocarburi di catena corta che sono il risultato della
“pulizia” del gas che esce dai pozzi, e anche se si possono
usare per sintetizzare diesel, risulta molto costoso
(ricordate che
fattibile
e redditizio
non sono la
stessa cosa
)
tanto energeticamente quanto economicamente. Di fatto, il
petrolio soggetto ad essere convertito in diesel è già
sicuramente in leggero declino.


Questa mancanza di diesel è abbastanza grave, perché la
maggior parte delle macchine di questo mondo sono diesel,
così come tutto il trasporto su gomma di merci e una parte
sempre più grande di automobili (a causa del miglior
rendimento del motore diesel rispetto a quello a benzina).
Di fatto, la domanda di diesel nel periodo in questione non
ha fatto altro che aumentare, a causa, fra le altre cose,
del disastro di Fukushima, che ha fatto sì che il Giappone
aumentasse le sue importazioni (
le
centrali nucleari del Giappone che vengono fermate per
manutenzione non vengono riattivate, secondo un piano del
Governo per denuclearizzare il paese
e il fabbisogno di elettricità viene
affidato ai generatori diesel ed alle centrali termiche
alimentate col diesel). Questo spiega la scarsità di diesel
in tutto il mondo e rende molto complicata la vita a chi
sostiene la teoria del “peak demand”, il picco della domanda
(
che
abbiamo già commentato in questo blog
) e
che sostengono che la riduzione della produzione in realtà
una diminuzione cercata e pilotata del consumo per via,
essenzialmente, dei miglioramenti nell’efficienza, e non di
quello che sembra stia accadendo, che è la distruzione della
domanda.


C’è, tuttavia, un secondo effetto che si sente sempre di
più: la diminuzione dei
margini di
raffinazione
nelle raffinerie.
Questi “margini di raffinazione” si riferiscono al
differenziale del prezzo dei prodotti raffinati rispetto a
quello del petrolio dal quale si estraggono. Le raffinerie
hanno un controllo abbastanza puntuale sui loro costi
operativi, ma non tanto sul prezzo al quale viene loro
venduto il petrolio ed a quello che pagano loro per la
benzina e gli altri distillati.
Come in tutto il
mercato dei prodotti petroliferi, è norma comune siglare
contratti differiti nel tempo, per esempio, a un mese, tre
mesi o sei mesi. I problemi arrivano quando ti tocca
pagare per il petrolio la stessa cifra che ricavi dalla
vendita della benzina, gasolio, ecc, soprattutto quando
gli orizzonti temporali di quello che compri e vendi non
collimano (per esempio, petrolio a un mese e vendita della
benzina a tre mesi). Le raffinerie tendono a fissare un
margine di raffinazione di alcuni dollari al barile,
normalmente intorno ai 10 dollari, ma
non
è la stessa cosa guadagnare 10 dollari quando il prezzo medio
di un barile è 40 dollari, rispetto a quando è 140 dollari
; Piccole fluttuazioni del prezzo del
petrolio, quando questo è alto, possono far crollare
facilmente il margine di raffinazione fino a renderlo
negativo, come è
successo
nel 2009
o è
successo ad alcune industrie petrolifere nel 2010
. Nel caso delle raffinerie che
appartengono ad un’industria petrolifera questo non è un
problema, ma durante gli ultimi decenni le industrie hanno
esternalizzato questa parte degli affari, che hanno sempre
avuto margini più scarsi, migliorando così le proprie
rendite, ma rendendo ancora più fragile il mercato del
petrolio. Per peggiorare le cose, le raffinerie si
confrontano col problema di avere un eccesso di benzina.
Infatti, raffinando il petrolio si può leggermente variare
la quantità delle due grandi categorie di prodotti di
raffinazione (benzina e distillati), ma non quanto si
vorrebbe, poiché la quantità di petrolio che finisce
convertito in benzine oscilla fra la metà ed i due terzi,
nei lavorati più comuni. Tuttavia, salvo negli Stati Uniti,
in tutto il mondo c’è stata una tendenza a convertire la
mobilità privata al diesel, diminuendo così il consumo di
benzina. Dall’altra parte, la benzina è usata praticamente
solo per la mobilità privata, il settore che ha ridotto di
più i consumi durante la crisi. Così allora, le raffinerie
devono equilibrare la vendita di un prodotto che ha un calo
di domanda, la benzina – che è la metà o più della
produzione – con quella di un insieme di prodotti, fra i
quali anche il diesel, che hanno un aumento della domanda.
Non possono alzare molto il margine perché affogherebbero
nella benzina invenduta, né abbassarlo troppo perché si
rovinerebbero. Conseguenza: le raffinerie non trovano la
loro posizione di redditività e cominciano a fallire o a
chiudere
sine die. Negli Stati Uniti notano preoccupati
che, nonostante la crisi e la caduta della domanda di
benzina,
il
suo prezzo non smette di salire per colpa della chiusura delle
raffinerie
. Almeno cinque
raffinerie della costa est degli Stati uniti hanno chiuso
nelle ultima settimane
, il che da l’idea
di come si stia aggravando il problema. Il problema sta
diventando sistemico anche in Europa:
settanta
(sì, 70!) raffinerie in tutta Europa hanno chiuso o stanno per
chiudere
; nella notizia che
linko dicono che è “per l’embargo all’Iran”, sapete già, che
questo non entrerà in vigore fino a giugno prossimo e per il
quale, come dice il nostro ministro, potremo trovare
petrolio da altri fornitori. Segno sempre più evidente della
difficoltà di accettare una realtà più complessa e
sgradevole. E non pensate che chiudano solo piccole
raffinerie: Petroplus, la più grande d’Europa, che forniva
il 4,4% di tutti i prodotti consumati nel vecchio continente
e le cui
difficoltà
sono state recentemente commentate su Crisis Energética
, alla fine ha
fallito
.

Senza dubbio stiamo vivendo un momento storico. Sembra
sempre più probabile che si realizzi la previsione che aveva
fatto
il
rapporto dei Lloyd’s nel 2010, cioè che ci potrebbero essere
dei problemi di fornitura nel 2013
. Il
resto del mondo, come accertano le notizie linkate
all’inizio del post, è già lì. Manchiamo solo noi. Come
verranno interpretate mediaticamente queste difficoltà?
Quante guerre per le risorse si potranno giustificare a
seconda della lunghezza delle code alle stazioni di
servizio?



Nota finale: in Italia c’è stato un blocco di
diversi giorni da parte dei camionisti, degli agricoltori e
dei pescatori che protestavano per gli alti prezzi del
carburante.
E’
stato molto esteso al sud, dove è durato quasi due settimane e
causando problemi gravi
, compresa la
mancata fornitura di alimenti. Un nuovo promemoria della
fragilità
del nostro sistema
e del fatto che i
problemi gravi sono più vicini di quanto pensiamo. Però
Voi non avete sentito niente di tutto questo, perché
questa notizia conviene metterla a tacere, non sia mai che
la gente se ne faccia un’idea. E’
il
picco dell’informazione
.


Saluti,
AMT
Originale di Antonio Turiel su The
Oil Crash
. Traduzione di Massimiliano Rupalti

more

Il picco del diesel

Originale di Antonio Turiel
su The
Oil Crash
. Traduzione di Massimiliano Rupalti

Immagine
da StreetsBlog.org


Di ANTONIO TURIEL

Cari lettori,

Continua
la mancanza di combustibile in quasi tutta la provincia di
Salta (Argentina)
“, “I
lavoratori del settore del trasporto merci contestano il
profilo basso che il governo argentino dà alla scarsità di
combustibili
“, “La
scarsità di diesel può durare per settimane nel Canada
occidenatale
“, “Una
scarsità della produzione di diesel nel Regno Unito metterebbe
a rischio la sua sicurezza energetica
“, “Si
profila una crisi della benzina in Russia mentre i prezzi
internazionali crescono
“, “La
scarsità di diesel accende lo scontento in Cina
“, “La
Cina fa importazioni straordinarie di diesel per far fronte
alla scarsità interna
“, “La
scarsità di combustibile può portare a tagli di corrente,
secondo i residenti degli Emirati Arabi Uniti
“, “Gli
yemeniti devono far fronte ad una crisi del combustibile nel
bel mezzo della protesta
“…

Sono solo alcuni dei titoli apparsi
sulla stampa internazionale negli ultimi mesi. Dietro ai
problemi di scarsità ci sono una moltitudine di cause, reali
o presunte, ma hanno un curioso tratto in comune: in tutto
il mondo sono sempre più frequenti le notizie sulla scarsità
di combustibili, principalmente del diesel (potete vedere
altro su
Energy Shortage, da dove provengono quelle che ho
riportato sopra).

 
Lo abbiamo già commentato
alla fine dello scorso anno
: c’è un fantasma
che minaccia il mondo, quello della scarsità del diesel. Non
scarsità di petrolio (che anche è una minaccia ma a più
lungo termine), non la scarsità di altri combustibili (anche
questa finirà con l’arrivare), ma una minaccia già presente.
Non c’è sufficiente diesel per coprire la domanda mondiale
ed il problema ha tutta l’aria di aggravarsi. Ma, perché si
sta verificando questo problema? Come succede di solito, ci
sono vari fattori che influiscono, non tutti allo stesso
modo e non tutti si sviluppano alla stessa velocità. Questo
rende la previsione piuttosto difficile. Tuttavia dà
l’impressione che, per quanto riguarda il diesel, stiamo
giungendo ad un collo di bottiglia abbastanza definitivo.

Il grafico seguente è stato costruito sui dati della Joint
Oil Data Initiative
. E’ un’iniziativa
per dar maggior trasparenza al mercato del petrolio e quello
che tenta di fare è omogeneizzare i dati sparpagliati del
mercato del petrolio e renderli più affidabili. Per questo,
a parte le compilazioni statistiche delle agenzie che vi
partecipano (fra queste le più importanti agenzie pubbliche
e private d’occidente), producono questionari trimestrali
che permettono di individuare le anomalie e correggerle –
con molti limiti, ovviamente. Non tutti i paesi vengono
revisionati dalla JODI (anche se la maggioranza sì) per cui
i loro dati non hanno una scala realmente globale. Anche
così, l’analisi dell’evoluzione della produzione di diesel
su scala globale che ci offre la JODI è abbastanza
rivelatrice:


La figura
corrisponde alla produzione sganciata dalle stazioni (per
compensare i diversi schemi di consumo a seconda della
stazione) facendo una media in ogni punto sui quattro
trimestri precedenti (questo implica, pertanto, che il
riferimento temporale di ogni punto dovrebbe essere spostato
di due trimestri verso sinistra, ma in ogni caso questo
dettaglio non ha importanza per l’esposizione che segue). Il
grafico è diverso da quelli ai quali siamo abituati per la
produzione di petrolio (vedete, per esempio, quella che
avevo preparato per
il
post sullo sfasamento fra offerta e domanda
), poiché la produzione di diesel
(gasolio per autotrazione) non ha raggiunto il tetto fino al
2008, nonostante la stagnazione della produzione di
petrolio. Poi, il calo per la crisi, un nuovo tetto nel 2011
e da lì una tendenza, anche se leggera, a calare, senza che
che si possa giustificare con una grande recessione (poiché
ha avuto inizio nei primi mesi del 2011). Cosa sta
succedendo?

Sta succedendo che il mondo sta rimanendo senza capacità di
produrre più diesel e questo è un fenomeno nuovo con una
dinamica propria, non completamente coincidente con quella
del petrolio. Ovviamente la scarsità di petrolio porterà
inevitabilmente ad una scarsità di diesel, ma ci può essere
scarsità di diesel prima che arrivi la scarsità di petrolio.
Di fatto, è esattamente quello che sta succedendo e le
ragioni di questa diversa dinamica sono fondamentalmente
due.

Sapete già che da
un decennio la IEA sì è inventata un termine che definisce
“tutti i liquidi del petrolio” e che equivale a tutte le
sostanze, estratte e sintetizzate, che più o meno possono
fare le veci del petrolio. Questo utile concetto è stato
introdotto per dissimulare il fatto che la produzione di
petrolio greggio (quello che realmente si estrae dal
sottosuolo) stava giungendo al suo picco di produzione, al
suo zenit, e nella categoria “tutti i liquidi” entrano tutte
le sostanze che si possono sintetizzare e processare come
succedanei del petrolio (per questo si parla di “produzione
di petrolio” invece di “estrazione di petrolio”, perché il
petrolio in parte si fabbrica, in realtà). Quello che
succede è che questi petroli, petroli non convenzionali, di
alcuni dei quali abbiamo già parlato in altre occasioni, non
sono esattamente spendibili o buoni sostituti del petrolio
greggio. In particolare, non tutti sono adatti a produrre
diesel. Ed ecco la prima causa di scarsità del diesel: di
tutti i tipi di petrolio che entrano nella lista “tutti i
liquidi” quelli che sono aumentati di più sono i cosiddetti
“liquidi del gas naturale” (
NGL, il loro acronimo inglese). Questi NGL
sono idrocarburi di catena corta che sono il risultato della
“pulizia” del gas che esce dai pozzi, e anche se si possono
usare per sintetizzare diesel, risulta molto costoso
(ricordate che
fattibile
e redditizio
non sono la
stessa cosa
)
tanto energeticamente quanto economicamente. Di fatto, il
petrolio soggetto ad essere convertito in diesel è già
sicuramente in leggero declino.


Questa mancanza di diesel è abbastanza grave, perché la
maggior parte delle macchine di questo mondo sono diesel,
così come tutto il trasporto su gomma di merci e una parte
sempre più grande di automobili (a causa del miglior
rendimento del motore diesel rispetto a quello a benzina).
Di fatto, la domanda di diesel nel periodo in questione non
ha fatto altro che aumentare, a causa, fra le altre cose,
del disastro di Fukushima, che ha fatto sì che il Giappone
aumentasse le sue importazioni (
le
centrali nucleari del Giappone che vengono fermate per
manutenzione non vengono riattivate, secondo un piano del
Governo per denuclearizzare il paese
e il fabbisogno di elettricità viene
affidato ai generatori diesel ed alle centrali termiche
alimentate col diesel). Questo spiega la scarsità di diesel
in tutto il mondo e rende molto complicata la vita a chi
sostiene la teoria del “peak demand”, il picco della domanda
(
che
abbiamo già commentato in questo blog
) e
che sostengono che la riduzione della produzione in realtà
una diminuzione cercata e pilotata del consumo per via,
essenzialmente, dei miglioramenti nell’efficienza, e non di
quello che sembra stia accadendo, che è la distruzione della
domanda.


C’è, tuttavia, un secondo effetto che si sente sempre di
più: la diminuzione dei
margini di
raffinazione
nelle raffinerie.
Questi “margini di raffinazione” si riferiscono al
differenziale del prezzo dei prodotti raffinati rispetto a
quello del petrolio dal quale si estraggono. Le raffinerie
hanno un controllo abbastanza puntuale sui loro costi
operativi, ma non tanto sul prezzo al quale viene loro
venduto il petrolio ed a quello che pagano loro per la
benzina e gli altri distillati.
Come in tutto il
mercato dei prodotti petroliferi, è norma comune siglare
contratti differiti nel tempo, per esempio, a un mese, tre
mesi o sei mesi. I problemi arrivano quando ti tocca
pagare per il petrolio la stessa cifra che ricavi dalla
vendita della benzina, gasolio, ecc, soprattutto quando
gli orizzonti temporali di quello che compri e vendi non
collimano (per esempio, petrolio a un mese e vendita della
benzina a tre mesi). Le raffinerie tendono a fissare un
margine di raffinazione di alcuni dollari al barile,
normalmente intorno ai 10 dollari, ma
non
è la stessa cosa guadagnare 10 dollari quando il prezzo medio
di un barile è 40 dollari, rispetto a quando è 140 dollari
; Piccole fluttuazioni del prezzo del
petrolio, quando questo è alto, possono far crollare
facilmente il margine di raffinazione fino a renderlo
negativo, come è
successo
nel 2009
o è
successo ad alcune industrie petrolifere nel 2010
. Nel caso delle raffinerie che
appartengono ad un’industria petrolifera questo non è un
problema, ma durante gli ultimi decenni le industrie hanno
esternalizzato questa parte degli affari, che hanno sempre
avuto margini più scarsi, migliorando così le proprie
rendite, ma rendendo ancora più fragile il mercato del
petrolio. Per peggiorare le cose, le raffinerie si
confrontano col problema di avere un eccesso di benzina.
Infatti, raffinando il petrolio si può leggermente variare
la quantità delle due grandi categorie di prodotti di
raffinazione (benzina e distillati), ma non quanto si
vorrebbe, poiché la quantità di petrolio che finisce
convertito in benzine oscilla fra la metà ed i due terzi,
nei lavorati più comuni. Tuttavia, salvo negli Stati Uniti,
in tutto il mondo c’è stata una tendenza a convertire la
mobilità privata al diesel, diminuendo così il consumo di
benzina. Dall’altra parte, la benzina è usata praticamente
solo per la mobilità privata, il settore che ha ridotto di
più i consumi durante la crisi. Così allora, le raffinerie
devono equilibrare la vendita di un prodotto che ha un calo
di domanda, la benzina – che è la metà o più della
produzione – con quella di un insieme di prodotti, fra i
quali anche il diesel, che hanno un aumento della domanda.
Non possono alzare molto il margine perché affogherebbero
nella benzina invenduta, né abbassarlo troppo perché si
rovinerebbero. Conseguenza: le raffinerie non trovano la
loro posizione di redditività e cominciano a fallire o a
chiudere
sine die. Negli Stati Uniti notano preoccupati
che, nonostante la crisi e la caduta della domanda di
benzina,
il
suo prezzo non smette di salire per colpa della chiusura delle
raffinerie
. Almeno cinque
raffinerie della costa est degli Stati uniti hanno chiuso
nelle ultima settimane
, il che da l’idea
di come si stia aggravando il problema. Il problema sta
diventando sistemico anche in Europa:
settanta
(sì, 70!) raffinerie in tutta Europa hanno chiuso o stanno per
chiudere
; nella notizia che
linko dicono che è “per l’embargo all’Iran”, sapete già, che
questo non entrerà in vigore fino a giugno prossimo e per il
quale, come dice il nostro ministro, potremo trovare
petrolio da altri fornitori. Segno sempre più evidente della
difficoltà di accettare una realtà più complessa e
sgradevole. E non pensate che chiudano solo piccole
raffinerie: Petroplus, la più grande d’Europa, che forniva
il 4,4% di tutti i prodotti consumati nel vecchio continente
e le cui
difficoltà
sono state recentemente commentate su Crisis Energética
, alla fine ha
fallito
.

Senza dubbio stiamo vivendo un momento storico. Sembra
sempre più probabile che si realizzi la previsione che aveva
fatto
il
rapporto dei Lloyd’s nel 2010, cioè che ci potrebbero essere
dei problemi di fornitura nel 2013
. Il
resto del mondo, come accertano le notizie linkate
all’inizio del post, è già lì. Manchiamo solo noi. Come
verranno interpretate mediaticamente queste difficoltà?
Quante guerre per le risorse si potranno giustificare a
seconda della lunghezza delle code alle stazioni di
servizio?



Nota finale: in Italia c’è stato un blocco di
diversi giorni da parte dei camionisti, degli agricoltori e
dei pescatori che protestavano per gli alti prezzi del
carburante.
E’
stato molto esteso al sud, dove è durato quasi due settimane e
causando problemi gravi
, compresa la
mancata fornitura di alimenti. Un nuovo promemoria della
fragilità
del nostro sistema
e del fatto che i
problemi gravi sono più vicini di quanto pensiamo. Però
Voi non avete sentito niente di tutto questo, perché
questa notizia conviene metterla a tacere, non sia mai che
la gente se ne faccia un’idea. E’
il
picco dell’informazione
.


Saluti,
AMT
Originale di Antonio Turiel su The
Oil Crash
. Traduzione di Massimiliano Rupalti

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Decrescita (più o meno felice), rientro dolce, recessione, collasso. Facciamo ordine con i termini

E’ soprendente come, dopo anni di dibattito pubblico, ancora non si sia capito di cosa si parla quando si parla di decrescita (più o meno felice). Ultimo in ordine di tempo, fra quelli che conosco, un post che ho avuto il dispiacere di leggere sul blog di un sedicente esperto di questioni energetiche.

Questi equivoci sul concetto di decrescita sono, almeno in parte, derivati da una certa vaghezza dei promotori della decrescita, dalla tendenza affabulatoria di alcuni di loro, da una certa approssimazione nell’approfondimento tecnico-scientifico di altri.

Cerchiamo di fare un po’ di ordine terminologico chiarendo subito che, quando si parla di decrescita (ma io ho sempre preferito l’idea del rientro dolce) non si parla meramente della riduzione del PIL. Quella è una cosa diversa: gli economisti la chiamano recessione e se è particolarmente ripida si chiama collasso economico. La decrescita, o il rientro dolce, non sono questo e neppure la transizione proposta dal Movimento delle Transition Town. Eventualmente queste sono quello che vorremmo mentre la recessione e il collasso sarà quello che avremo.

Essi sono, al contrario, un cambiamento radicale del paradigma che guida la nostra società e, in particolare, la transizione a società il cui metabolismo sociale ed economico sia in equilibrio dinamico (omeostasi) con gli ecosistemi che le ospitano. L’elaborazione teorica di questa nuova economia ecologica non è recente e i polemisti, i retori della crescita, gli scettici di professione, i cinici di mestiere, insomma quelli che quando parlano di decrescita, o di transizione o di rientro dolce (non sapendo di cosa parlano) sfoggiando il sorrisino inclinato di quelli che hanno capito tutto loro, e lo hanno capito prima e meglio, potrebbero utilmente farsi un po’ di bibliografia partendo dai nomi di Nicholas Georgescu Roegen, Hermann Daly e andando avanti con l’autore di Plan B: Lester Brown e molti altri. Volentieri forniamo una bibliografia più completa agli interessati.

Dopo un po’ di studio capiranno che la decrescita, così intesa, non è neppure la caricatura di autarchia secondo cui uno è costretto a coltivare i campi italiani con le vanghe fatte di ferro italiano, bruciando carbone italiano (e petrolio lucano). No, come ho già fatto notare altrove,  l’Italia non è in grado di sostentare la propria popolazione con le sole risorse locali. E’ chiaro a tutti, quindi, che la transizione non può essere transizione all’autarchia, e non può esserlo virtualmente per nessuna nazione al mondo, pur essendo chiaro che i paesi industrializzati sono quelli maggiormente in stato di overshoot ecologico.

Secondo questi incalliti ottimisti della decrescita, rientro dolce, transizione, dovrebbe avvenire qualcosa di diverso che preveda una graduale (o meno graduale a seconda di quando iniziamo a prendere atto della situazione di overshoot ecologico della nostra specie) riduzione dei consumi di risorse e della crescita demografica [1], ma non interrompere improvvisamente ogni relazione economica internazionale che sarebbe impraticabile e disastroso per tutti.

Dunque stabilito che decrescita e recessione non sono la stessa cosa, passiamo a commentare un altro aspetto del post citato.

Esercitiamoci sul tema: TAV – NOTAV e fotovoltaico.

Si dice che su TAV e fotovoltaico si usa il doppio standard nella valutazione tecnica. Argomento retorico usato a piene mani, quello del doppio standard, da tutti i fedeli dello scientismo ideologico. Retorico e vuoto. Infatti è evidente che la stessa persona può valutare tecnicamente un’opera come la TAV assolutamente inutile e considerare il fotovoltaico sommamente appropriato. Il doppio standard non vale neppure nel caso che uno si opponesse alla TAV in Val di Susa, ma non si opponesse alla TAV a Firenze, semplicemente perché si tratta di progetti diversi che vanno valutati con diversi metri. Si potrebbe parlare di doppio standard se uno si opponesse alla coltivazione di mais OGM Monsanto in Toscana, ma fosse favorevole alla coltivazione di mais OGM Monsanto in Ucraina. Oppure se si opponesse alla sperimentazione dei nuovi farmaci sui tifosi dell’Inter, ma non su quelli del Milan. Questo si sarebbe un caso estremo di applicazione di un doppio standard.

Dispiace per i nostri polemisti esperti di questioni energetiche, ma l’argomento retorico è vuoto.

Su una cosa si può assentire con l’opinione espressa con una certa confusione nel post citato, ma che è anche, spesso, un cavallo di battaglia degli anti-ecologisti. Il movimento ecologista è stato, particolarmente in Italia, in parte colonizzato dagli anticapitalisti di origine marxista e non solo. E’ anche vero però che alla sua origine teorica e pratica l’ecologismo non è anticapitalista. Inoltre si potrebbe dire che per notare la situazione non propriamente smagliante del capitalismo, sia dal punto di vista ambientale che dal punto di vista sociale, non c’è bisogno degli anticapitalisti. Per avere un saggio di qualcuno che è molto critico nei confronti dell’evoluzione del capitalismo basta leggere Geminello Alvi che non è certamente marxista, ma piuttosto di ispirazione liberale- conservatrice. Ma per qualcosa di più profondamente critico ci si può rifare a Ivan Illich che 40 anni fa, da posizioni, democratiche e nonviolente, proponeva il superamento del sistema industrialista basato sulla crescita, raccomandando anche ai paesi sottosviluppati di rinunciare a percorrere il passaggio distruttivo della crescita economica di tipo occidentale.

[1]. Attenzione, prima che qualche lettore distratto mi dia del nazista (è successo), faccio notare che ho detto riduzione della crescita e non della popolazione in assoluto, processo, quest’ultimo certamente necessario, ma che necessita tempi lunghi per non essere traumatico e violento.

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Decrescita (più o meno felice), rientro dolce, recessione, collasso. Facciamo ordine con i termini

E’ soprendente come, dopo anni di dibattito pubblico, ancora non si sia capito di cosa si parla quando si parla di decrescita (più o meno felice). Ultimo in ordine di tempo, fra quelli che conosco, un post che ho avuto il dispiacere di leggere sul blog di un sedicente esperto di questioni energetiche.

Questi equivoci sul concetto di decrescita sono, almeno in parte, derivati da una certa vaghezza dei promotori della decrescita, dalla tendenza affabulatoria di alcuni di loro, da una certa approssimazione nell’approfondimento tecnico-scientifico di altri.

Cerchiamo di fare un po’ di ordine terminologico chiarendo subito che, quando si parla di decrescita (ma io ho sempre preferito l’idea del rientro dolce) non si parla meramente della riduzione del PIL. Quella è una cosa diversa: gli economisti la chiamano recessione e se è particolarmente ripida si chiama collasso economico. La decrescita, o il rientro dolce, non sono questo e neppure la transizione proposta dal Movimento delle Transition Town. Eventualmente queste sono quello che vorremmo mentre la recessione e il collasso sarà quello che avremo.

Essi sono, al contrario, un cambiamento radicale del paradigma che guida la nostra società e, in particolare, la transizione a società il cui metabolismo sociale ed economico sia in equilibrio dinamico (omeostasi) con gli ecosistemi che le ospitano. L’elaborazione teorica di questa nuova economia ecologica non è recente e i polemisti, i retori della crescita, gli scettici di professione, i cinici di mestiere, insomma quelli che quando parlano di decrescita, o di transizione o di rientro dolce (non sapendo di cosa parlano) sfoggiando il sorrisino inclinato di quelli che hanno capito tutto loro, e lo hanno capito prima e meglio, potrebbero utilmente farsi un po’ di bibliografia partendo dai nomi di Nicholas Georgescu Roegen, Hermann Daly e andando avanti con l’autore di Plan B: Lester Brown e molti altri. Volentieri forniamo una bibliografia più completa agli interessati.

Dopo un po’ di studio capiranno che la decrescita, così intesa, non è neppure la caricatura di autarchia secondo cui uno è costretto a coltivare i campi italiani con le vanghe fatte di ferro italiano, bruciando carbone italiano (e petrolio lucano). No, come ho già fatto notare altrove,  l’Italia non è in grado di sostentare la propria popolazione con le sole risorse locali. E’ chiaro a tutti, quindi, che la transizione non può essere transizione all’autarchia, e non può esserlo virtualmente per nessuna nazione al mondo, pur essendo chiaro che i paesi industrializzati sono quelli maggiormente in stato di overshoot ecologico.

Secondo questi incalliti ottimisti della decrescita, rientro dolce, transizione, dovrebbe avvenire qualcosa di diverso che preveda una graduale (o meno graduale a seconda di quando iniziamo a prendere atto della situazione di overshoot ecologico della nostra specie) riduzione dei consumi di risorse e della crescita demografica [1], ma non interrompere improvvisamente ogni relazione economica internazionale che sarebbe impraticabile e disastroso per tutti.

Dunque stabilito che decrescita e recessione non sono la stessa cosa, passiamo a commentare un altro aspetto del post citato.

Esercitiamoci sul tema: TAV – NOTAV e fotovoltaico.

Si dice che su TAV e fotovoltaico si usa il doppio standard nella valutazione tecnica. Argomento retorico usato a piene mani, quello del doppio standard, da tutti i fedeli dello scientismo ideologico. Retorico e vuoto. Infatti è evidente che la stessa persona può valutare tecnicamente un’opera come la TAV assolutamente inutile e considerare il fotovoltaico sommamente appropriato. Il doppio standard non vale neppure nel caso che uno si opponesse alla TAV in Val di Susa, ma non si opponesse alla TAV a Firenze, semplicemente perché si tratta di progetti diversi che vanno valutati con diversi metri. Si potrebbe parlare di doppio standard se uno si opponesse alla coltivazione di mais OGM Monsanto in Toscana, ma fosse favorevole alla coltivazione di mais OGM Monsanto in Ucraina. Oppure se si opponesse alla sperimentazione dei nuovi farmaci sui tifosi dell’Inter, ma non su quelli del Milan. Questo si sarebbe un caso estremo di applicazione di un doppio standard.

Dispiace per i nostri polemisti esperti di questioni energetiche, ma l’argomento retorico è vuoto.

Su una cosa si può assentire con l’opinione espressa con una certa confusione nel post citato, ma che è anche, spesso, un cavallo di battaglia degli anti-ecologisti. Il movimento ecologista è stato, particolarmente in Italia, in parte colonizzato dagli anticapitalisti di origine marxista e non solo. E’ anche vero però che alla sua origine teorica e pratica l’ecologismo non è anticapitalista. Inoltre si potrebbe dire che per notare la situazione non propriamente smagliante del capitalismo, sia dal punto di vista ambientale che dal punto di vista sociale, non c’è bisogno degli anticapitalisti. Per avere un saggio di qualcuno che è molto critico nei confronti dell’evoluzione del capitalismo basta leggere Geminello Alvi che non è certamente marxista, ma piuttosto di ispirazione liberale- conservatrice. Ma per qualcosa di più profondamente critico ci si può rifare a Ivan Illich che 40 anni fa, da posizioni, democratiche e nonviolente, proponeva il superamento del sistema industrialista basato sulla crescita, raccomandando anche ai paesi sottosviluppati di rinunciare a percorrere il passaggio distruttivo della crescita economica di tipo occidentale.

[1]. Attenzione, prima che qualche lettore distratto mi dia del nazista (è successo), faccio notare che ho detto riduzione della crescita e non della popolazione in assoluto, processo, quest’ultimo certamente necessario, ma che necessita tempi lunghi per non essere traumatico e violento.

more

Decrescita (più o meno felice), rientro dolce, recessione, collasso. Facciamo ordine con i termini

E’ soprendente come, dopo anni di dibattito pubblico, ancora non si sia capito di cosa si parla quando si parla di decrescita (più o meno felice). Ultimo in ordine di tempo, fra quelli che conosco, un post che ho avuto il dispiacere di leggere sul blog di un sedicente esperto di questioni energetiche.

Questi equivoci sul concetto di decrescita sono, almeno in parte, derivati da una certa vaghezza dei promotori della decrescita, dalla tendenza affabulatoria di alcuni di loro, da una certa approssimazione nell’approfondimento tecnico-scientifico di altri.

Cerchiamo di fare un po’ di ordine terminologico chiarendo subito che, quando si parla di decrescita (ma io ho sempre preferito l’idea del rientro dolce) non si parla meramente della riduzione del PIL. Quella è una cosa diversa: gli economisti la chiamano recessione e se è particolarmente ripida si chiama collasso economico. La decrescita, o il rientro dolce, non sono questo e neppure la transizione proposta dal Movimento delle Transition Town. Eventualmente queste sono quello che vorremmo mentre la recessione e il collasso sarà quello che avremo.

Essi sono, al contrario, un cambiamento radicale del paradigma che guida la nostra società e, in particolare, la transizione a società il cui metabolismo sociale ed economico sia in equilibrio dinamico (omeostasi) con gli ecosistemi che le ospitano. L’elaborazione teorica di questa nuova economia ecologica non è recente e i polemisti, i retori della crescita, gli scettici di professione, i cinici di mestiere, insomma quelli che quando parlano di decrescita, o di transizione o di rientro dolce (non sapendo di cosa parlano) sfoggiando il sorrisino inclinato di quelli che hanno capito tutto loro, e lo hanno capito prima e meglio, potrebbero utilmente farsi un po’ di bibliografia partendo dai nomi di Nicholas Georgescu Roegen, Hermann Daly e andando avanti con l’autore di Plan B: Lester Brown e molti altri. Volentieri forniamo una bibliografia più completa agli interessati.

Dopo un po’ di studio capiranno che la decrescita, così intesa, non è neppure la caricatura di autarchia secondo cui uno è costretto a coltivare i campi italiani con le vanghe fatte di ferro italiano, bruciando carbone italiano (e petrolio lucano). No, come ho già fatto notare altrove,  l’Italia non è in grado di sostentare la propria popolazione con le sole risorse locali. E’ chiaro a tutti, quindi, che la transizione non può essere transizione all’autarchia, e non può esserlo virtualmente per nessuna nazione al mondo, pur essendo chiaro che i paesi industrializzati sono quelli maggiormente in stato di overshoot ecologico.

Secondo questi incalliti ottimisti della decrescita, rientro dolce, transizione, dovrebbe avvenire qualcosa di diverso che preveda una graduale (o meno graduale a seconda di quando iniziamo a prendere atto della situazione di overshoot ecologico della nostra specie) riduzione dei consumi di risorse e della crescita demografica [1], ma non interrompere improvvisamente ogni relazione economica internazionale che sarebbe impraticabile e disastroso per tutti.

Dunque stabilito che decrescita e recessione non sono la stessa cosa, passiamo a commentare un altro aspetto del post citato.

Esercitiamoci sul tema: TAV – NOTAV e fotovoltaico.

Si dice che su TAV e fotovoltaico si usa il doppio standard nella valutazione tecnica. Argomento retorico usato a piene mani, quello del doppio standard, da tutti i fedeli dello scientismo ideologico. Retorico e vuoto. Infatti è evidente che la stessa persona può valutare tecnicamente un’opera come la TAV assolutamente inutile e considerare il fotovoltaico sommamente appropriato. Il doppio standard non vale neppure nel caso che uno si opponesse alla TAV in Val di Susa, ma non si opponesse alla TAV a Firenze, semplicemente perché si tratta di progetti diversi che vanno valutati con diversi metri. Si potrebbe parlare di doppio standard se uno si opponesse alla coltivazione di mais OGM Monsanto in Toscana, ma fosse favorevole alla coltivazione di mais OGM Monsanto in Ucraina. Oppure se si opponesse alla sperimentazione dei nuovi farmaci sui tifosi dell’Inter, ma non su quelli del Milan. Questo si sarebbe un caso estremo di applicazione di un doppio standard.

Dispiace per i nostri polemisti esperti di questioni energetiche, ma l’argomento retorico è vuoto.

Su una cosa si può assentire con l’opinione espressa con una certa confusione nel post citato, ma che è anche, spesso, un cavallo di battaglia degli anti-ecologisti. Il movimento ecologista è stato, particolarmente in Italia, in parte colonizzato dagli anticapitalisti di origine marxista e non solo. E’ anche vero però che alla sua origine teorica e pratica l’ecologismo non è anticapitalista. Inoltre si potrebbe dire che per notare la situazione non propriamente smagliante del capitalismo, sia dal punto di vista ambientale che dal punto di vista sociale, non c’è bisogno degli anticapitalisti. Per avere un saggio di qualcuno che è molto critico nei confronti dell’evoluzione del capitalismo basta leggere Geminello Alvi che non è certamente marxista, ma piuttosto di ispirazione liberale- conservatrice. Ma per qualcosa di più profondamente critico ci si può rifare a Ivan Illich che 40 anni fa, da posizioni, democratiche e nonviolente, proponeva il superamento del sistema industrialista basato sulla crescita, raccomandando anche ai paesi sottosviluppati di rinunciare a percorrere il passaggio distruttivo della crescita economica di tipo occidentale.

[1]. Attenzione, prima che qualche lettore distratto mi dia del nazista (è successo), faccio notare che ho detto riduzione della crescita e non della popolazione in assoluto, processo, quest’ultimo certamente necessario, ma che necessita tempi lunghi per non essere traumatico e violento.

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Decrescita (più o meno felice), rientro dolce, recessione, collasso. Facciamo ordine con i termini

E’ soprendente come, dopo anni di dibattito pubblico, ancora non si sia capito di cosa si parla quando si parla di decrescita (più o meno felice). Ultimo in ordine di tempo, fra quelli che conosco, un post che ho avuto il dispiacere di leggere sul blog di un sedicente esperto di questioni energetiche.

Questi equivoci sul concetto di decrescita sono, almeno in parte, derivati da una certa vaghezza dei promotori della decrescita, dalla tendenza affabulatoria di alcuni di loro, da una certa approssimazione nell’approfondimento tecnico-scientifico di altri.

Cerchiamo di fare un po’ di ordine terminologico chiarendo subito che, quando si parla di decrescita (ma io ho sempre preferito l’idea del rientro dolce) non si parla meramente della riduzione del PIL. Quella è una cosa diversa: gli economisti la chiamano recessione e se è particolarmente ripida si chiama collasso economico. La decrescita, o il rientro dolce, non sono questo e neppure la transizione proposta dal Movimento delle Transition Town. Eventualmente queste sono quello che vorremmo mentre la recessione e il collasso sarà quello che avremo.

Essi sono, al contrario, un cambiamento radicale del paradigma che guida la nostra società e, in particolare, la transizione a società il cui metabolismo sociale ed economico sia in equilibrio dinamico (omeostasi) con gli ecosistemi che le ospitano. L’elaborazione teorica di questa nuova economia ecologica non è recente e i polemisti, i retori della crescita, gli scettici di professione, i cinici di mestiere, insomma quelli che quando parlano di decrescita, o di transizione o di rientro dolce (non sapendo di cosa parlano) sfoggiando il sorrisino inclinato di quelli che hanno capito tutto loro, e lo hanno capito prima e meglio, potrebbero utilmente farsi un po’ di bibliografia partendo dai nomi di Nicholas Georgescu Roegen, Hermann Daly e andando avanti con l’autore di Plan B: Lester Brown e molti altri. Volentieri forniamo una bibliografia più completa agli interessati.

Dopo un po’ di studio capiranno che la decrescita, così intesa, non è neppure la caricatura di autarchia secondo cui uno è costretto a coltivare i campi italiani con le vanghe fatte di ferro italiano, bruciando carbone italiano (e petrolio lucano). No, come ho già fatto notare altrove,  l’Italia non è in grado di sostentare la propria popolazione con le sole risorse locali. E’ chiaro a tutti, quindi, che la transizione non può essere transizione all’autarchia, e non può esserlo virtualmente per nessuna nazione al mondo, pur essendo chiaro che i paesi industrializzati sono quelli maggiormente in stato di overshoot ecologico.

Secondo questi incalliti ottimisti della decrescita, rientro dolce, transizione, dovrebbe avvenire qualcosa di diverso che preveda una graduale (o meno graduale a seconda di quando iniziamo a prendere atto della situazione di overshoot ecologico della nostra specie) riduzione dei consumi di risorse e della crescita demografica [1], ma non interrompere improvvisamente ogni relazione economica internazionale che sarebbe impraticabile e disastroso per tutti.

Dunque stabilito che decrescita e recessione non sono la stessa cosa, passiamo a commentare un altro aspetto del post citato.

Esercitiamoci sul tema: TAV – NOTAV e fotovoltaico.

Si dice che su TAV e fotovoltaico si usa il doppio standard nella valutazione tecnica. Argomento retorico usato a piene mani, quello del doppio standard, da tutti i fedeli dello scientismo ideologico. Retorico e vuoto. Infatti è evidente che la stessa persona può valutare tecnicamente un’opera come la TAV assolutamente inutile e considerare il fotovoltaico sommamente appropriato. Il doppio standard non vale neppure nel caso che uno si opponesse alla TAV in Val di Susa, ma non si opponesse alla TAV a Firenze, semplicemente perché si tratta di progetti diversi che vanno valutati con diversi metri. Si potrebbe parlare di doppio standard se uno si opponesse alla coltivazione di mais OGM Monsanto in Toscana, ma fosse favorevole alla coltivazione di mais OGM Monsanto in Ucraina. Oppure se si opponesse alla sperimentazione dei nuovi farmaci sui tifosi dell’Inter, ma non su quelli del Milan. Questo si sarebbe un caso estremo di applicazione di un doppio standard.

Dispiace per i nostri polemisti esperti di questioni energetiche, ma l’argomento retorico è vuoto.

Su una cosa si può assentire con l’opinione espressa con una certa confusione nel post citato, ma che è anche, spesso, un cavallo di battaglia degli anti-ecologisti. Il movimento ecologista è stato, particolarmente in Italia, in parte colonizzato dagli anticapitalisti di origine marxista e non solo. E’ anche vero però che alla sua origine teorica e pratica l’ecologismo non è anticapitalista. Inoltre si potrebbe dire che per notare la situazione non propriamente smagliante del capitalismo, sia dal punto di vista ambientale che dal punto di vista sociale, non c’è bisogno degli anticapitalisti. Per avere un saggio di qualcuno che è molto critico nei confronti dell’evoluzione del capitalismo basta leggere Geminello Alvi che non è certamente marxista, ma piuttosto di ispirazione liberale- conservatrice. Ma per qualcosa di più profondamente critico ci si può rifare a Ivan Illich che 40 anni fa, da posizioni, democratiche e nonviolente, proponeva il superamento del sistema industrialista basato sulla crescita, raccomandando anche ai paesi sottosviluppati di rinunciare a percorrere il passaggio distruttivo della crescita economica di tipo occidentale.

[1]. Attenzione, prima che qualche lettore distratto mi dia del nazista (è successo), faccio notare che ho detto riduzione della crescita e non della popolazione in assoluto, processo, quest’ultimo certamente necessario, ma che necessita tempi lunghi per non essere traumatico e violento.

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Parco Arpad Weisz: il destino dell’Occidente?

 Di Armando Boccone
Foto 1 –
L’ingresso di Parco Arpad Weisz
Qualche
mese fa, nel fare una passeggiata nella zona in cui vivo a Bologna, mi sono
imbattuto nel Parco Arpad Weisz. Ricordavo vagamente di avere sentito parlare
della sua costruzione alcuni anni  prima.
Il ricordo forse derivava dalla persona a cui il parco sarebbe stato intitolato
(Arpad Weisz, ungherese, allenatore delle squadre di calcio dell’Inter e poi
del Bologna negli anni precedenti la seconda guerra mondiale e poi, per via
delle sue origini ebraiche, costretto ad andare 
via dall’Italia e infine deportato a Auschwitz dove morì nel 1944).
Sono
rimasto scandalizzato dalla visione delle condizioni in cui il parco versa:
erbacce e rifiuti dappertutto,  alberi
nati spontaneamente, un ricovero per
persone emarginate, ecc. Ciò che mi ha colpito soprattutto sono state le
panchine e i giochi per bambini: si vede chiaramente che dopo la loro messa in
opera non sono mai stati usati.

Foto 2 –
L’evidente stato di degrado in cui versa il parco
Mi sono
chiesto come mai si fosse creata questa situazione. Da una ricerca fatta ho
scoperto che la costruzione faceva parte delle opere di urbanizzazione primaria
a cui era tenuto il vicino centro commerciale (che, in quanto proprietario, si
sarebbe occupato poi anche della sua manutenzione). 
I lavori di
costruzione terminano nel giugno 2009. 
Appena dopo ci sarebbe dovuto essere il collaudo ma ciò non è potuto
avvenire  per gravi vizi nella
realizzazione delle opere e per lo stato di abbandono in cui il parco versa per
la mancata manutenzione da parte della proprietà. Il parco quindi non si sarebbe
mai dovuto aprire ma nonostante questo la proprietà ha tolto le recinzioni del
cantiere rendendo così praticamente possibile l’entrata da parte del pubblico.
Foto 3 Un
ricovero per persone emarginate
Il Comune
di Bologna ha emanato varie diffide nei confronti del centro commerciale
affinché sanasse la situazione ma senza nessun esito. Per questo motivo il
Comune stesso sta valutando la possibilità di acquisizione del parco e di fare
le necessarie opere per renderlo fruibile da parte della popolazione.
Come mai le cose sono andate nel modo visto?
La storia
del Parco Arpad Weisz è strettamente collegata alla storia del Centro
Commerciale Dima Shopping Emilia Levante.
Questo
centro commerciale è sorto sull’area in precedenza occupata dalla
concessionaria FIAT ed è stato inaugurato nel dicembre 2007.
Le cose per
questo centro commerciale sono andate male già dagli inizi perché non tutti gli
spazi disponibili sono occupati dai negozi (questo risulta sia dalle ricerche
che ho fatto sul web sia per averlo visto di persona). Le cause sono dovute sia
alla crisi che allora (siamo alla fine del 2007) comincia già a intravedersi
sia perché il centro commerciale non è riuscito a “collegarsi” al grosso
supermarket adiacente, con cui avrebbe ottenuto delle ovvie sinergie. I due
esercizi sono stati sempre separati per cui una volta fatta la spesa in un
esercizio si sarebbe dovuti andare a depositare la spesa in macchina, poi
spostarsi nel parcheggio dell’altro esercizio ed infine entrarci per fare
ulteriori acquisti.
E’ da
pensare che appena il Centro commerciale ha visto che le cose si sono messe  male ha tirato i remi in barca e ha cercato di
eliminare tutte le spese possibili: fra le spese c’é il completamento e la
successiva gestione del Parco Arpad Weisz.
Dovrebbe
toccare al Comune di Bologna sanare la situazione sopportando le necessarie
spese sia per la sua acquisizione che per il completamento dei lavori e infine
per la sua gestione.
Ma ai Comuni in questi ultimi anni sono state tagliate diverse entrate per cui si
sono visti costretti ad aumentare il costo per i cittadini dei servizi gestiti
dai comuni stessi: ho l’impressione che il comune di Bologna non si accollerà
quelle spese, che le cose potranno solamente peggiorare e che il Parco Arpad
Weisz andrà incontro a un maggiore degrado.
Una piccola ricerca sul campo
Qualche
giorno fa sono andato al parco e al centro commerciale. Sono andato per fare
alcune fotografie sia del parco che del centro commerciale, per fare delle
interviste e per vedere come si comporta quella “natura artificiale” costituita
dal parco dopo alcuni anni di abbandono.
Ho visto
dei giovani alberi nati spontaneamente, i prati pieni di erbacce e le siepi e
gli alberi cresciuti liberamente senza subire potature. Pensavo che la mancanza
di cure, di uso di insetticidi e di medicinali vari per la cura delle piante
avesse portate queste stesse piante a subire gli attacchi di insetti e di malattie
varie. Salvo un tipo di pianta (di cui alla foto 4) che mostra alcune foglie
deformate (forse mangiate da insetti) e alcune macchioline rosse sempre sulle
foglie (non so se derivanti da malattie o naturali) tutta la vegetazione non
reca segni particolari.

Foto 4
– Particolare di una pianta 
Ma il danno
più evidente al parco è quello apportato dall’uomo. Ci sono rifiuti di ogni
genere: dalle bottiglie di birra usate da giovani che si appartano nel parco ai
classici sacchetti di plastica pieni di rifiuti, da una bicicletta senza ruote  all’immancabile materasso.  Il vialetto che taglia in due il parco è
cosparso di vetri in frantumi mentre, diversamente da quanto letto su materiale
disponibile sul web, non vedo nessuna siringa.
Mi sono poi
recato al centro commerciale.
L’ultima
volta ci sono stato l’estate scorsa. Avevo notato che avevano chiuso i due più
grossi negozi del centro. In uno di questi tempo prima avevo comprato il
televisore. Mi hanno detto che ha chiuso non solamente questo punto vendita ma tutta
la catena di cui faceva parte.
Foto 5
– Particolare del centro commerciale con i negozi chiusi
Al
parcheggio chiedo a una coppia che è uscita proprio in quel momento e che si
appresta a entrare nel proprio SUV se il centro sia ancora aperto oppure già chiuso
(avevo sentito sia voci che fosse stato chiuso il 29 febbraio sia che fosse
ancora aperto).
Il signore
della coppia mi dice che chiuderà fra qualche giorno per essere ristrutturato e
che poi fra circa un anno aprirà un nuovo centro commerciale.
Entro nel
centro. Esistono 4-5 esercizi commerciali ancora aperti. Mi rivolgo alla
signora che gestisce un negozio di abbigliamento. Dice che quella sarà l’ultima
settimana di apertura ma può darsi che le diano ancora un’altra settimana. Dopo
il suo esercizio si trasferirà in un altro posto non molto distante. Dice che
il  centro commerciale “non ha funzionato
dagli inizi”, che adesso ristruttureranno tutto e che non sa né quando riaprirà
né con quali attività.
Entro poi
in un negozio di articoli e giochi  per bambini.
La giovane commessa mi dice che il negozio chiuderà fra qualche giorno ma lei e
l’altro personale saranno traferiti in altri negozi che la catena di cui
fa parte possiede nella città di Bologna. Dice che ogni negozio paga l’affitto
e le utenze dirette. Tutto il resto è a carico del centro commerciale. I negozi
che in passato hanno chiuso è perché le cose andavano male e lo stesso centro
commerciale chiude perché le cose vanno male.
Ho notato
che anche i bagni sono chiusi però in questo caso sono solamente fuori uso  per problemi tecnici!!  (vedere la foto 6). Funzionano invece le
scale mobili che collegano il centro commerciale al parcheggio interrato, anche
se nessuno le usa.
Foto 6
– Bagni fuori uso per problemi tecnici

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Parco Arpad Weisz: il destino dell’Occidente?

 Di Armando Boccone
Foto 1 –
L’ingresso di Parco Arpad Weisz
Qualche
mese fa, nel fare una passeggiata nella zona in cui vivo a Bologna, mi sono
imbattuto nel Parco Arpad Weisz. Ricordavo vagamente di avere sentito parlare
della sua costruzione alcuni anni  prima.
Il ricordo forse derivava dalla persona a cui il parco sarebbe stato intitolato
(Arpad Weisz, ungherese, allenatore delle squadre di calcio dell’Inter e poi
del Bologna negli anni precedenti la seconda guerra mondiale e poi, per via
delle sue origini ebraiche, costretto ad andare 
via dall’Italia e infine deportato a Auschwitz dove morì nel 1944).
Sono
rimasto scandalizzato dalla visione delle condizioni in cui il parco versa:
erbacce e rifiuti dappertutto,  alberi
nati spontaneamente, un ricovero per
persone emarginate, ecc. Ciò che mi ha colpito soprattutto sono state le
panchine e i giochi per bambini: si vede chiaramente che dopo la loro messa in
opera non sono mai stati usati.

Foto 2 –
L’evidente stato di degrado in cui versa il parco
Mi sono
chiesto come mai si fosse creata questa situazione. Da una ricerca fatta ho
scoperto che la costruzione faceva parte delle opere di urbanizzazione primaria
a cui era tenuto il vicino centro commerciale (che, in quanto proprietario, si
sarebbe occupato poi anche della sua manutenzione). 
I lavori di
costruzione terminano nel giugno 2009. 
Appena dopo ci sarebbe dovuto essere il collaudo ma ciò non è potuto
avvenire  per gravi vizi nella
realizzazione delle opere e per lo stato di abbandono in cui il parco versa per
la mancata manutenzione da parte della proprietà. Il parco quindi non si sarebbe
mai dovuto aprire ma nonostante questo la proprietà ha tolto le recinzioni del
cantiere rendendo così praticamente possibile l’entrata da parte del pubblico.
Foto 3 Un
ricovero per persone emarginate
Il Comune
di Bologna ha emanato varie diffide nei confronti del centro commerciale
affinché sanasse la situazione ma senza nessun esito. Per questo motivo il
Comune stesso sta valutando la possibilità di acquisizione del parco e di fare
le necessarie opere per renderlo fruibile da parte della popolazione.
Come mai le cose sono andate nel modo visto?
La storia
del Parco Arpad Weisz è strettamente collegata alla storia del Centro
Commerciale Dima Shopping Emilia Levante.
Questo
centro commerciale è sorto sull’area in precedenza occupata dalla
concessionaria FIAT ed è stato inaugurato nel dicembre 2007.
Le cose per
questo centro commerciale sono andate male già dagli inizi perché non tutti gli
spazi disponibili sono occupati dai negozi (questo risulta sia dalle ricerche
che ho fatto sul web sia per averlo visto di persona). Le cause sono dovute sia
alla crisi che allora (siamo alla fine del 2007) comincia già a intravedersi
sia perché il centro commerciale non è riuscito a “collegarsi” al grosso
supermarket adiacente, con cui avrebbe ottenuto delle ovvie sinergie. I due
esercizi sono stati sempre separati per cui una volta fatta la spesa in un
esercizio si sarebbe dovuti andare a depositare la spesa in macchina, poi
spostarsi nel parcheggio dell’altro esercizio ed infine entrarci per fare
ulteriori acquisti.
E’ da
pensare che appena il Centro commerciale ha visto che le cose si sono messe  male ha tirato i remi in barca e ha cercato di
eliminare tutte le spese possibili: fra le spese c’é il completamento e la
successiva gestione del Parco Arpad Weisz.
Dovrebbe
toccare al Comune di Bologna sanare la situazione sopportando le necessarie
spese sia per la sua acquisizione che per il completamento dei lavori e infine
per la sua gestione.
Ma ai Comuni in questi ultimi anni sono state tagliate diverse entrate per cui si
sono visti costretti ad aumentare il costo per i cittadini dei servizi gestiti
dai comuni stessi: ho l’impressione che il comune di Bologna non si accollerà
quelle spese, che le cose potranno solamente peggiorare e che il Parco Arpad
Weisz andrà incontro a un maggiore degrado.
Una piccola ricerca sul campo
Qualche
giorno fa sono andato al parco e al centro commerciale. Sono andato per fare
alcune fotografie sia del parco che del centro commerciale, per fare delle
interviste e per vedere come si comporta quella “natura artificiale” costituita
dal parco dopo alcuni anni di abbandono.
Ho visto
dei giovani alberi nati spontaneamente, i prati pieni di erbacce e le siepi e
gli alberi cresciuti liberamente senza subire potature. Pensavo che la mancanza
di cure, di uso di insetticidi e di medicinali vari per la cura delle piante
avesse portate queste stesse piante a subire gli attacchi di insetti e di malattie
varie. Salvo un tipo di pianta (di cui alla foto 4) che mostra alcune foglie
deformate (forse mangiate da insetti) e alcune macchioline rosse sempre sulle
foglie (non so se derivanti da malattie o naturali) tutta la vegetazione non
reca segni particolari.

Foto 4
– Particolare di una pianta 
Ma il danno
più evidente al parco è quello apportato dall’uomo. Ci sono rifiuti di ogni
genere: dalle bottiglie di birra usate da giovani che si appartano nel parco ai
classici sacchetti di plastica pieni di rifiuti, da una bicicletta senza ruote  all’immancabile materasso.  Il vialetto che taglia in due il parco è
cosparso di vetri in frantumi mentre, diversamente da quanto letto su materiale
disponibile sul web, non vedo nessuna siringa.
Mi sono poi
recato al centro commerciale.
L’ultima
volta ci sono stato l’estate scorsa. Avevo notato che avevano chiuso i due più
grossi negozi del centro. In uno di questi tempo prima avevo comprato il
televisore. Mi hanno detto che ha chiuso non solamente questo punto vendita ma tutta
la catena di cui faceva parte.
Foto 5
– Particolare del centro commerciale con i negozi chiusi
Al
parcheggio chiedo a una coppia che è uscita proprio in quel momento e che si
appresta a entrare nel proprio SUV se il centro sia ancora aperto oppure già chiuso
(avevo sentito sia voci che fosse stato chiuso il 29 febbraio sia che fosse
ancora aperto).
Il signore
della coppia mi dice che chiuderà fra qualche giorno per essere ristrutturato e
che poi fra circa un anno aprirà un nuovo centro commerciale.
Entro nel
centro. Esistono 4-5 esercizi commerciali ancora aperti. Mi rivolgo alla
signora che gestisce un negozio di abbigliamento. Dice che quella sarà l’ultima
settimana di apertura ma può darsi che le diano ancora un’altra settimana. Dopo
il suo esercizio si trasferirà in un altro posto non molto distante. Dice che
il  centro commerciale “non ha funzionato
dagli inizi”, che adesso ristruttureranno tutto e che non sa né quando riaprirà
né con quali attività.
Entro poi
in un negozio di articoli e giochi  per bambini.
La giovane commessa mi dice che il negozio chiuderà fra qualche giorno ma lei e
l’altro personale saranno traferiti in altri negozi che la catena di cui
fa parte possiede nella città di Bologna. Dice che ogni negozio paga l’affitto
e le utenze dirette. Tutto il resto è a carico del centro commerciale. I negozi
che in passato hanno chiuso è perché le cose andavano male e lo stesso centro
commerciale chiude perché le cose vanno male.
Ho notato
che anche i bagni sono chiusi però in questo caso sono solamente fuori uso  per problemi tecnici!!  (vedere la foto 6). Funzionano invece le
scale mobili che collegano il centro commerciale al parcheggio interrato, anche
se nessuno le usa.
Foto 6
– Bagni fuori uso per problemi tecnici

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