Author: Michele Migliorino

La Mente di fronte alle catastrofi (2) Quanto siamo resilienti?

(Pubblicato anche sul blog Appello per la Resilienza)

Di Daniele Migliorino
In questo post propongo un’esercizio mentale volto ad anticipare un evento negativo, qualcosa di simile a quegli esercizi spirituali che facevano alcuni medievali, come la “meditatio mortis”. Prendiamo l’ipotesi dell’arrivo di una meteora sulla terra, ipotesi che è stata cavalcata dalla filmografia catastrofista (basti pensare ad Armageddon).  Risultati immagini per meteorite

Per quanto ne so – basandomi ad esempio sulla “Storia della Terra” di McDougall – un’evento del genere è qualcosa che prima o poi riaccadrà, per via delle leggi della probabilità. Qui non mi interessa quando e se accadrà qualcosa del genere, quanto piuttosto prendere questo esempio come la “madre” di tutte le catastrofi annunciate.

Supponiamo che… un’organizzazione spaziale tipo la NASA avverta la popolazione che fra 6 mesi si abbatterà sulla Terra un’asteroide di dimensioni sufficientemente grandi da spazzare via metà della popolazione mondiale e che farebbe collassare l’intero network finanziario-commerciale su cui si basa la vita umana. Qualcosa come migliaia e migliaia di volte la potenza della più potente bomba atomica che sia capace di produrre, per esempio, il bravo Kim Jong-un.

Supponiamo che tutti gli enti governativi decidano che l’allerta è reale e avvertano la popolazione. Che cosa accadrebbe?

Nel film citato sopra gli esperti di turno valutano che l’unica chance per l’umanità è spaccare in due la meteora in modo da deviarla. La responsabilità nel film finisce per ricadere su quel gruppetto di astronauti che si incaricherà della missione.

Supponiamo che però non si possa far esplodere la meteora perchè è già troppo tardi… La popolazione viene avvisata che l’impatto è certo. La mente delle persone subito capisce e anticipa (la mente ha funzione di “anticipare”; si veda il post) che “sarà la catastrofe”. A una parte dell’umanità toccherebbe la sorte peggiore, senza che si possa sapere a chi… Ci troveremmo ad affrontare tutti insieme, senza distinzioni di razze e privilegi sociali, lo stesso pericolo.

Le persone come reagiranno? Panico totale o collaborazione? La mente come si comporterà? Come un cavallo imbizzarrito o sarà sufficientemente calma per affrontare la situazione? In questi momenti sarebbe meglio aver coltivato la “consapevolezza” come un buddista o la frenesia come un’occidentale?
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Può essere che dopo un periodo iniziale di panico si cominci a cercare insieme delle soluzioni. Non sarebbe la più grande ricerca collettiva di una soluzione volta al bene comune?

La soluzione migliore che viene trovata prima di tutto è di calcolare il momento esatto in cui vi sarà l’impatto così da capire in che luogo avverrà e dunque… evacuare l’intera popolazione mondiale nel punto opposto della Terra! In tal modo forse sarà possibile salvarsi quasi tutti (ribadisco che questa “ipotesi” non ha valore reale; è solo a titolo di esperimento mentale)

La gente si arrende all’evidenza e comincia a entrare nell’ordine delle idee che non c’è alternativa. Ecco il punto che mi interessa: avviene un’immenso cambiamento per tutti e bisogna metterlo in atto. Bisogna trasferirsi dall’altra parte del globo e abbandonare tutto ciò che si aveva e faceva.

Improvvisamente non esiste più nessuna vita quotidiana con le sue piccole gioie e timori, con i suoi ritmi e regolarità, aspettative, responsabilità, progetti, ecc. Cambia l’intero campo dei valori individuali e collettivi. La mente viene invasa da immagini e pensieri nuovi che cacciano sullo sfondo la maggior parte di quelli che era solita rappresentarsi. Ora c’è un solo obiettivo: salvarsi e aiutare anche i propri familiari e tutto diviene funzionale a questo scopo. Paradossalmente per qualcuno la vita potrebbe anche riacquistare un “senso” poichè ne risperimenta il valore (la mente anticipa che si potrebbe perdere la vita).

TORNIAMO ALLA “REALTA'”…

La nostra situazione attuale riguardo ai cambiamenti climatici, mi domando, è poi molto diversa? L’unica differenza è che i dati che abbiamo a riguardo non possono darci certezze su cosa accadrà. Continuando però a spalmare le conseguenze più gravi di questo “evento” nei decenni a venire – come se non fossimo mai realmente nell’occhio del ciclone, ma sempre “Demain“, come il titolo del film francese – di fatto finiamo con non concretizzare mai alcun comportamento collettivo adeguato (ma nemmeno individuale).

Il problema è che adesso c’è una vita concreta che devo mandare avanti, con tutti i suoi doveri, ed è assai difficile pensare che il futuro è adesso. “Che cosa dovremmo fare?” si chiedono in molti, con senso di impotenza. L’immenso problema è che la nostra stessa quotidianità è implicata nel problema. Non è che il Global Worming sia una fatalità che giunge all’umanità da un’altro pianeta, come una meteora appunto: siamo tutti noi, chi più chi meno, a contribuire alla quotidiana immissione di gas serra con i nostri comportamenti.

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Il sistema, dicono alcuni, è lock-in: è bloccato. Operare dei cambiamenti nel sistema è incredibilmente arduo, poichè bisogna modificare le “regole del gioco”, quelle strutture/feedback che lo mantengono in essere. Cosa fare? Come farlo?

Ciò che non è abbastanza chiaro ai più è che ognuno di noi ha la sua parte di responsabilità in questa storia. Additiamo la responsabilità maggiore alle multinazionali, ai politici e al “sistema”. Non possiamo accettare di farne parte anche noi. Siamo tutti “costretti” a giocare a questo gioco perverso guidato dalle corporations?

Ciò che intendevo evidenziare è come tutti gli equilibri e le dinamiche cambiano quando un pericolo è evidente. Non c’è più alcun “sistema lock-in” di fronte a mobilitazioni simili, di colpo tutta la forza coercitiva che sembrava imporci di partecipare, quasi dall’esterno, secondo le norme stabilite alla vita sociale – viene meno.

Il sistema è bloccato solo perchè noi lo vogliamo (di solito inconsapevolmente). E’ ingenuo pensare che i politici faranno qualcosa, anche se onesti, perché il politico non può cambiare la struttura del sistema.

Non ci potrà essere nessun “cambiamento sistemico guidato dal risveglio morale” (R. Heinberg) fino a che continuiamo a fare le stesse cose e come le facciamo prima. Se non facciamo diventare il cambiamento climatico “il nostro lavoro” che cosa credete che cambierà? Qui sta il vero blocco e modificarlo significa diventare resilienti, cioè in grado di affrontare il cambiamento.

Dobbiamo proprio esagerare, non come i buontemponi qui sotto!

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La Politica può cambiare le cose?

Nel loro grande e ultimo aggiornamento – I nuovi limiti dello sviluppo, 2004; – del loro primo lavoro D. e D. Meadows e Jorgen Randers affermano: “l’umanità può rispondere in tre modi ai segnali che indicano come l’uso delle risorse e l’emissione di inquinanti siano cresciuti oltre i limiti sostenibili. Un modo è non riconoscere, occultare o confondere i segnali”; “un secondo modo di rispondere è alleviare le pressioni derivanti dai limiti ricorrendo ad artifici tecnici o economici”; “il terzo modo è volgersi alle cause sottostanti, fare un passo indietro e riconoscere che il sistema socioeconomico umano, così com’è organizzato oggi, non è governabile, ha superato i limiti e va verso il collasso; dopo di che, cercare di cambiare la struttura del sistema” (pag.282-284). 
 
Ora, poichè secondo gli autori “tutto quello che possiamo fare è intervenire sui flussi produttivi da cui dipendono le attività umane riportandoli a livelli sostenibili attraverso scelte, tecnologia e organizzazioni umane…” (pag.35), cosa può voler dire cambiare la struttura se è l'”economia-politica” la struttura del sistema?

Fra le scelte necessarie che l’umanità dovrebbe compiere vi è, come noto, una autoriduzione della popolazione: si dovrà raggiungere una stabilità fra natalità e mortalità, poichè la popolazione è uno dei due “motori della crescita esponenziale nella società umana” (insieme al “capitale produttivo”; pag.50) e tende a crescere a tassi iperesponenziali.

Se cambiare la struttura significa regolare il sistema economico, bisognerà fare i conti con “l’anello di crescita del capitale” il quale ha fatto si che “l’industria crescesse maggiormente della popolazione” generando crisi da sovraproduzione e bassa domanda. Inoltre, bisognerà fare i conti col fatto che “le forme attuali di crescita perpetuano la povertà e ampliano il divario fra ricchi e poveri” (pag.66).
La questione che si pone perciò è: è possibile modificare il sistema economico evitando che vi siano accumulazioni di capitale (monopoli) e disuguaglianze?

Vi sono “fattori che regolano la crescita e che possono contenere il sistema entro confini accettabili” (pag.54)? Si tratta appunto di capire se vi siano feeback negativi (nel senso utilizzato in LTG 2004) entro un’economia monetaria, in grado di riequilibrarla e se questa possa assumere una forma diversa dal capitalismo neoliberista attuale. Poichè “sono all’opera due strutture generali […] che per ragioni sistemiche danno al privilegiato potere e risorse per accrescere il loro privilegio” e che “tendono ad essere endemici in ogni società se questa non introduce coscientemente strutture di compensazione per contrastare le disuguaglianze” (pag.69).

Quali potrebbero essere queste strutture di compensazione? Si tratta di interventi politici come “imposte progressive sul reddito”, ecc. Ma siamo sicuri che questo cambierebbe la struttura del sistema? Chiediamo dunque: è possibile cambiare il sistema economico mantenendo inalterata quella “struttura politica” che gli fa da sfondo? Qual è questa struttura? La questione è assai spinosa perché pone il problema di “chi e come” può cambiare una struttura.

La nostra cultura risponde all’unanimità che solamente tramite mutamenti di carattere politico è possibile cambiare le strutture della nostra società. Ma se fosse persino la Politica una struttura, o meglio, un sistema? In che senso?

La cosa non dovrebbe stupire se si risale all’accezione con cui si denominava nel XVIII secolo: Economia politica classica. Ebbene si: l’economia è una forma di politica e non è disgiungibile da essa (dopo Torleb Veblen, fra i più recenti Jean Baudrillard è quello che l’ha mostrato meglio), perciò l’idea che l’economia sia qualcosa di regolabile dalla politica è un’idea ingenua ma assai difficile da rigettare, poichè la dimensione politica è il fondamento della nostra cultura (in particolare mantenere la divisione fra la sfera privata degli elettori e quella pubblica dei decisori) e di ciò che ci vantiamo di chiamare democrazia.

Si tratta di dimostrare che la creazione della ricchezza non può aver luogo senza un correlativo aumento della popolazione. Un’affermazione certamente scandalosa. Vi sono condizioni alla base che sono:

1- un continuo aumento dei flussi estrattivi: energia a basso costo e materie prime
2- un aumento costante della produzione industriale
3- aumento costante della domanda di beni e servizi e dunque dei consumi

Ora, la popolazione deve crescere per alimentare i consumi o può aumentare il PIL procapite mantenendo stabile la popolazione? Qui infatti, come dicono in LTG “la bassa crescita della popolazione comporta un maggiore PIL procapite” invece, al contrario, nei paesi poveri l'”aumento di popolazione genera più povertà e ancora aumento di popolazione” (pag.66).

 
 [fonte: “Ambiente, Risorse, Sviluppo Sostenibile; di Selenia Arigliano]

A livello globale non esistono “diverse” economie bensì una medesima economia globalizzata. Ora, non è un caso che la Cina sia entrata nel WTO sin dal 2001 e che da allora sia diventata l’autentico motore della crescita mondiale, infatti è più o meno da allora che le economie occidentali hanno incominciato a rallentare. E la Cina non è esattamente un paese piccolo.

Dall’altra parte se non fosse per l’India non vi sarebbe un’adeguato “output” a consumare una fetta della produzione mondiale. Questi due paesi sono quelli che dobbiamo ringraziare quando elogiamo la crescita (e quando deridiamo il “made in China”; i governi mondiali hanno ben pensato di chiudere un’occhio nei confronti della odiosa ideologia comunista, trattandosi di affari..). Qui sotto, in azzurro “the rest of the world” comprende Cina e India, mentre notiamo come i paesi OCSE in blu scuro e tutti gli altri colori tendano al declino in termini di consumi energetici:

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[fonte: Gail Tverberg, Our Finite World]

Se consideriamo che la popolazione dei paesi sviluppati cresce ad una media dello 0,4% è evidente che ci pensa il resto del mondo a compensare questa situazione (Asia in media 0,9% e paesi poveri oltre 2% annuo). E’ per questo che gli investitori occidentali si rivolgono ai mercati emergenti, poichè là trovano quella spinta alla crescita della popolazione e del capitale produttivo che si è ormai esaurita in Occidente. Quando toccheranno anche loro i “limiti dello sviluppo”? A quel punto vedremo anche là diminuire i tassi di crescita della popolazione.

Conclusione

Non sembra verosimile che la sfera politica possa generare feedback negativi tali da cambiare o equilibrare la struttura del sistema invertendo la tendenza al BAU delle nostre società. Ragion per cui attendersi dei cambiamenti su larga scala (come la COP21) dai politici non ha alcun senso poiché la “classe politica” mantiene tutti gli interessi nel perpetuare questo sistema e mostrerà sempre resistenze al cambiamento.

Se la Politica è un sistema, accoppiato all’economia, vediamo che andare a modificarne la struttura sembrerebbe qualcosa di una misura tale da non essere nemmeno compresa. Come cambiare la politica senza una rivoluzione politica a sua volta? Tale è la nostra forma mentis.

And so, what’s next?


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La Mente di fronte alle catastrofi

(Pubblicato anche sul blog “Appello per la Resilienza”)

Risultati immagini per verso un'ecologia della mentePer chi conosce il problema dei “limiti dello sviluppo” può sembrare sorprendente rileggere oggi l’ultima parte di “Verso un ecologia della mente” di Gregory Bateson. Questo padre del pensiero sistemico aveva già chiaro il destino che attende la nostra civiltà (se non cambia… ecc, ecc)

Se io sono nel giusto, allora il nostro atteggiamento mentale rispetto a ciò che siamo e a ciò che sono gli altri deve venire ristrutturato. Non si tratta di uno scherzo e non so quanto tempo abbiamo prima della fine. (G. Bateson, pag. 503; grassetto mio)

Questo veniva detto nel gennaio 1970, dunque prima che fosse pubblicato il primo rapporto sui Limiti dello sviluppo (1972). Ora, sono passati quasi 50 anni da questi avvertimenti e ci troviamo, noi contemporanei, a vivere proprio “quel” momento che sembrava non arrivare mai. Siamo “on the cusp of collapse” direbbe David Korowicz.

Tuttavia – rilevo – la nostra specie non sembra affatto in grado di reagire di fronte ad un pericolo annunciato, probabilmente il più grave della storia umana. Intendo dire tutti: dallo scienziato al filosofo, dall’operaio all’agricoltore. Come mai dunque? Sebbene la questione sia stata assai discussa (anche su questo blog) qui mi interrogo su altre motivazioni.

La mente “mente” dicono i buddisti. Il pensiero è un’anticipazione della realtà, una sua rappresentazione, dicono gli occidentali.

Il pensiero è una pre-occupazione – sia esso scientifico, filosofico o artistico – viene “prima” del “contatto” vero e proprio con la realtà e nel quale la coscienza si spegne, per così dire. O si pensa o si è tutt’uno con la realtà. Questo non significa che non si debba mai pensare, ma che bisogna comprendere che il pensiero è una simbolizzazione della realtà.

Sfortunatamente siamo malati di troppo pensiero e non siamo quasi mai in contatto col mondo. Siamo “con” i nostri pensieri, ma i pensieri non sono il mondo. La realtà è non-verbale, direbbero ancora una volta i buddisti.

Tutti i cosiddetti “catastrofisti”, mi sembra, si trovano d’accordo su un punto: che vi sarà un “tipping point”, un punto di svolta dopo del quale accadrà certamente un grosso cambiamento, ma non c’è accordo su che cosa accadrà. Le opinioni variano dagli estremi di un “catastrofismo ottimista” sino all’apocalisse e all’estinzione umana a breve termine (detta NTHE in inglese).

ANTROPOCENTRISMO

Quando si parla di “antropocentrismo” ci si può spingere fino a riferirsi a ciò che accumuna tutti gli uomini di questo pianeta, non solamente una cultura specifica (con le dovute eccezioni). Secondo questa idea siamo tutti affetti da una forma di egocentrismo che ci porta, inconsapevolmente o meno, a ritenerci più importanti degli altri esseri.

“Ogni essere vivente è imperialista” diceva Bertrand Russell. Non solo noi ma tutti gli esseri. Per ogni specie si potrebbe cambiare il suffisso “antropo” e lasciare “centrismo”. Sembra inscritto in tutti gli esseri viventi quello di sentirsi al centro dell’universo, ma l’uomo è la forma autocosciente di questo delirio, come già diceva Nietzsche. Non molto tempo è passato da quando pensavamo che Dio avesse creato per noi piante, animali e tutto il resto.

Se mettete Dio all’esterno e lo ponete di fronte alla sua creazione, e avete l’idea di essere stati creati a sua immagine e somiglianza, voi vi vedrete logicamente e naturalmente come fuori contro le cose che vi circondano. E nel momento in cui vi arrogherete tutta la mente, tutto il mondo circostante vi apparirà senza mente e quindi senza diritto a considerazione morale o etica (op.cit.,p. 503)

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LA PARTE E IL TUTTO

Sebbene però la “natura” – termine con cui in modo bizzarro etichettiamo tutto ciò che noi non siamo – abbia una logica nella sua ciclica “distruzione” e creazione (nel senso che le catene alimentari sono crudeli ma “funzionali” all’armonia dell’insieme) noi invece sembriamo agire in maniera del tutto disfunzionale, sia dal punto di vista della nostra specie che dal punto di vista del pianeta. Ci distruggiamo a vicenda e distruggiamo il pianeta – pianeta di cui facciamo parte. Ecco, ciò che intendo dire si riduce a questa affermazione, che va indagata in profondità.

 […] se un organismo o un’aggregato di organismi stabilisce di agire avendo di mira la propria sopravvivenza allora il suo “progresso” finisce per distruggere l’ambiente […] in effetti avrà distrutto se stesso. (op.cit., p. 491)

Quando diciamo che noi siamo parte della natura in realtà lo diciamo solo a parole ma non “a fatti”. Siamo consapevoli di derivare dalle scimmie? Solo a parole. Di più: siamo consapevoli di derivare dai batteri? No. Il pensiero evolutivo ci ha abituato a questa consapevolezza, ma è qualcosa che abbiamo digerito senza masticarlo veramente. Lo abbiamo accettato come vero e ovvio ma senza pensare davvero alle sue conseguenze.

Non deriviamo però solamente da qualcos’altro, noi siamo quell’altro che pur facciamo fatica a riconoscere. Siamo letteralmente costituiti di parti di mondo, compresa la componente inerte (minerali), in ogni nostra parte.

E’ questa la radice di tutti i nostri problemi, un grande ritardo “culturale” se volete, un grandioso disadattamento della specie, una incapacità di accettare la propria origine. E’ la hybris dell’homo sapiens sapiens.

Nessuno sa quanto tempo ci resti, nel sistema attuale, prima che si abbatta su di noi qualche disastro, più grave della distruzione di un gruppo di nazioni. Il compito più importante oggi è forse di imparare a pensare nella nuova maniera. (op.cit., p. 503)

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Una religione chiamata Economia

Post di Michele Migliorino (pubblicato anche sul blog “Appello per la Resilienza”)

Fa parte delle narrazioni collettive l’idea che le religioni stiano lasciando il passo ad uno stadio umano più evoluto. La scienza e la tecnica si emancipano da ogni discorso mitico e religioso nella convinzione che a guidarle sia solo la razionalità. Il Dio Ragione ha soppiantato il vecchio Dio.

Nietzsche, oltre un secolo fa, avvertiva che Dio è morto e che noi l’abbiamo ucciso. Oggi uno spettro si aggira per le nostre società: è il nichilismo che segue alla sua morte. In che cosa consiste? Secondo Nietzsche nella svalutazione di tutti i valori che fino ad ora sono stati sacri e sui quali è stata fondata la civiltà occidentale.

 «Ciò che racconto è la storia dei prossimi due secoli. Descrivo ciò che verrà, ciò che non potrà più venire diversamente: l’avvento del nihilismo. Questa storia può essere raccontata già oggi, poiché qui è all’opera la necessità stessa. Questo futuro parla già con cento segni, questo destino si annunzia dappertutto: tutte le orecchie sono già ritte per questa musica del futuro. Tutta la nostra cultura europea si muove già da gran tempo con una tensione torturante che cresce di decennio in decennio, come se si avviasse verso una catastrofe inquieta, violenta, precipitosa; come un fiume che vuole sfociare, che non si rammenta più, che ha paura di rammentare» (Nietzsche, Frammenti Postumi, 1887-1888) 

Non è necessario che un Dio sia posto come trascendente per essere denominato come tale. Ciò che  troviamo oggi come conseguenza della secolarizzazione è un nuovo dio, immanente: l’Economia. Niente più “ascesi intramondana” e volontà di salvezza poichè oikonomos, (in greco, la “cura della casa”), è divenuta l’unica preoccupazione. Questa esigenza è cresciuta già nei secoli che precedono la morte di Dio, fin dal Rinascimento, con l’ampliarsi del commercio mondiale, per divenire una macchina planetaria di approvvigionamento e distribuzione che prevede miliardi o addirittura trilioni di transazioni monetarie informatizzate al secondo.

Perché l’Economia è un Dio? Perchè essa ha preso il posto dei vecchi valori e perché la utilizziamo per colmare il vuoto lasciato dal nichilismo. Molto semplicemente, il nichilismo è giunto poichè un valore fondamentale è stato superato: l’aldilà. Oggi ci troviamo inconsciamente nella situazione di non reperire più un senso nell’esistenza poichè per due millenni (ma forse molto di più) abbiamo creduto che non vi fosse un senso in questa vita, e che quindi questa dovesse avere necessariamente una sua “copia originale” da un’altra parte, in un mondo trascendente. Da Platone al cattolicesimo, questa è una matrice fondamentale con cui dobbiamo fare i conti quando parliamo della nostra “cultura”.

Ciò che è straordinario è che non vogliamo “vedere” che cosa abbiamo prodotto! E’ per questo che ci affanniamo e corriamo da tutte le parti: non possiamo ancora accettare che non ci sia qualcosa dopo la morte! La nostra condizione storica ci obbliga piuttosto a capire che cosa significa un’esistenza mortale e finita. In fondo siamo convinti che non vi sia alcun senso e che dunque tanto vale “vivere al massimo”; arraffare ogni momento di questa effimera esistenza; non perdere nessuna opportunità perchè “ogni lasciata è perduta”.

L’economia è questo “correre” in un girone infernale – una crescita infinita su un pianeta finito – svincolato da ogni limite che la ostacoli –  perchè se non c’è senso “tutto è permesso” (Dostojevski) e non ci saranno conseguenze. Nessun Dio giudicatore che ci aspetta per valutare meriti e peccati. Tuttavia, se non c’è alcun senso non varrebbe la pena di farla finita subito? Non sarebbe più lungimirante?

Primo, per i mortali non nascere è meglio di tutto;
ma nati, quanto prima varcare le soglie dell’Ade. (Esiodo)

L’economia opera come una gigantesca rimozione. E’ come se stessimo cercando di fabbricare il senso stesso tramite le nostre attività quotidiane. Infatti più siamo impegnati più la vita ci sembra avere senso. Quando siamo in movimento – come le merci – ci dimentichiamo di quel rumore cosmico di fondo, di quella mancanza che talvolta ci assilla domandando: ma che senso ha tutto questo?

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Per quanto le cose vadano male e c’è la crisi in pochi saranno disposti a dire che l’economia non è una buona cosa. Per questo ci crediamo ciecamente, non la mettiamo in discussione, proprio come una religione con il suo Dio. Invece del valore dell’aldilà, noi abbiamo il Dio-denaro che ci permette di fare qualunque cosa, o almeno così crediamo. Tutto consiste nel credere in qualcosa – per questo è difficile liberarsi del termine religione in senso lato.

Ma perchè l’economia non è una buona cosa? (ho già cominciato delle riflessioni qui) Perchè non è possibile creare ricchezza per tutti. La ricchezza è qualcosa che può appartenere solo ad alcuni. Io posso essere ricco solo se tu sei povero; la ricchezza è una relazione fra due termini: ci deve essere povertà perchè vi sia ricchezza.

Lo si vede bene per la faccenda delle disuguaglianze. Sebbene il divario fra ricchi e poveri continua a crescere da decenni, il tenore medio di vita dei poveri è aumentato. Vittoria del capitalismo? Si, infatti anche qui la nostra religione ci protegge da ogni eresia: dobbiamo riformare il sistema economico, ridistribuire la ricchezza, monitorare i grandi capitali, porre nuove leggi che limitino le multinazionali! Così salveremo il terzo mondo, dobbiamo promuovere lo sviluppo dell’Africa! Ecco allora giustificate le guerre per esportare la democrazia, la quale instaurerà un governo che garantirà le condizioni affinchè anche loro possano avere accesso alla ricchezza. 

E lo si vede perchè dove passa Economia c’è distruzione: di foreste, di mari, di specie viventi, di noi stessi e delle nostre infinite culture disseminate per il pianeta. Il realismo ormai imporrebbe di mettere l’Economia nel cestino della storia per provare a vedere se è possibile creare società in modi che non implicano lo scambio di risorse ed energia in una maniera così abietta.

Sarebbe ora di diventare blasfemi verso questa religione, ma si sa, il fenomeno della “folla” è arduo da superare, poichè è il meccanismo stesso della nostra evoluzione (secondo Renè Girard). Temiamo di perdere i nostri possessi e ci temiamo a vicenda; ci è difficile andar contro ciò che fanno gli altri. Ci è estremamente difficile rigettare ciò che ci fa vivere: Economia. Ma se ciò che oggi ci fa vivere fosse ciò che domani ci farà morire?

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Perché non riusciamo a fare la Transizione: stagnazione o collasso economico? (conclusione)

(Pubblicato anche su Appello per la Resilienza – https://appelloperlaresilienza.wordpress.com/)

di Michele Migliorino

Nella seconda parte avevo detto che avviene uno spostamento della ricchezza dalla parte dei produttori poichè la creazione di profitto avviene come “differenza fra l’eccedenza del valore realizzato dalla produzione sul consumo” (cit., L. Gallino). Deve diminuire costantemente la frazione di capitale investita in forza lavoro affinchè si generi profitto da reinvestire per l’aumento della produzione. Questo processo di spostamento avviene sia “microscopicamente” all’interno dei paesi ricchi, sia “macroscopicamente” a livello globale fra paesi ricchi e paesi poveri. I ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. In tutti e due i casi, sebbene aumenti lentamente il benessere procapite, la quantità di ricchezza complessiva che finisce nelle tasche del ricco aumenta progressivamente, inesorabilmente.

Nella quarta parte si diceva che è la risorsa petrolio ad alimentare il feedback dello sviluppo economico. Esso genera economia in quanto una risorsa produce nuove possibilità di lavoro poichè l’energia che se ne ricava mette in moto le attività umane. L’energia (Joule) genera lavoro (“exergia”; vedi Ugo Bardi). Ciò che sostengo è che nel momento in cui lo sfruttamento della risorsa avviene entro un sistema di tipo capitalistico, il tipo di feedback positivo che sorge impedisce che intervengano feedback negativi che mantengano il sistema in equilibrio poichè l’economia che si sviluppa ha una struttura intrinsecamente inegualitaria.

Il mercato della domanda e dell’offerta corrisponde alla divisione dei capitali, ovvero alla divisione sociale fra possessori di profitti e lavoratori. Sarebbe possibile in linea di principio redistribuire la ricchezza (tassa sul capitale) ma questo diviene contradditorio in una società aperta e globalizzata fondata sulla libera iniziativa economica. Chi infatti porrà un tetto ai monopoli se non lo Stato? E’ proprio questo sovraorganismo che però viene a mancare in una società come la nostra, poichè pone limiti alla circolazione dei capitali.

E’ in voga l’idea che ci aspetta una “stagnazione secolare” ma può essere che le analisi economiche non abbiano considerato adeguatamente il ruolo di una risorsa così determinante come il petrolio, perché si rifiutano di vedere l’economia come qualcosa di vincolato dall’ecosistema.

Immagine ridisegnata; di Herman Daly, https://www.csbsju.edu/Documents/Clemens%20Lecture/lecture/Book99.pdf

Tuttavia, anche qualora entro un’economia ecologica e circolare l’ambiente non costituisse più un’esternalità del processo economico e i costi non fossero più addossati alla collettività, come impedire che il sistema si scinda nuovamente in produttori e consumatori, dato che è questa la modalità che permette la creazione del valore monetario?

Stagnazione secolare o collasso?

Most people assume that oil prices, and for that matter other energy prices, will rise as we reach limits. This isn’t really the way the system works; oil prices can be expected to fall too low, as we reach limits.  

(La maggior parte della gente assume che i prezzi del petrolio, e di conseguenza quelli delle altre forme di energia, si alzeranno man mano che ci avviciniamo ai limiti. Questo non è però il modo in cui funziona il sistema; possiamo aspettarci che i prezzi crolleranno, quando raggiungiamo i limiti)

Gail Tverberg, Our Finite World, https://ourfiniteworld.com/2017/05/05/why-we-should-be-concerned-about-low-oil-prices/

Ci si aspetta che il sistema verrà affetto da grave recessione (definitiva?) nel momento in cui i costi della produzione del petrolio saranno troppo alti in rapporto al suo prezzo di vendita (non si sa quale sia il costo reale di un barile di petrolio per l’economia). E’ quello che sta accadendo, ci dice Gail Tverberg, alle industrie petrolifere, sebbene non stia avvenendo quel rialzo dei prezzi che ci si aspettava. Piuttosto la bassa domanda di energia sta provocando fallimenti a catena e tagli agli investimenti allo scopo di mantenere ancora una profittabilità (secondo i dati di Bloomberg e Alix partners gli investimenti dell’industria petrolifera sono aumentati del 13% dal 2010 al 2013 ma sono diminuiti del 19% dal 2014 al 2016; cit. in Globalizzazione addio?, a cura di Mario Deaglio, 2016 ).

L’aumento della capacità produttiva (economie di scala) è possibile se la produzione viene meccanizzata/automatizzata. Ciò comporta aumento della disoccupazione. Ora, se il sistema viene affetto da un’aumento dei costi all’origine le aziende si trovano a non poter generare quei surplus di profitto che solo consente di ripagare la forza lavoro. Si genera dunque una situazione di totale squilibrio per cui  la componente lavorativa della popolazione (l’output del sistema) non è più in grado di star dietro alla produzione con adeguati consumi (PIL) poichè i bassi redditi non glielo consentono. I bassi consumi provocano un’ulteriore effetto “anti-sistemico” nel settore produttivo sotto forma di riduzione del personale, licenziamenti, ecc.

Conclusione

La questione dell’energia per l’economia, per via dell’altissima connessione e interdipendenza delle diverse economie, riguarda il mondo nella sua totalità. Non vi sono “molte” economie bensì un sistema globalizzato. Ora, la situazione di crescita attuale è retta dall’economia cinese, sebbene tende a diminuire rispetto ai ritmi pre-2007. La Cina è il vero motore dell’economia mondiale, nonostante un PIL ancora inferiore a quello USA. Anche altre economie stanno “emergendo”, come l’India, ma la loro funzione è importante in questa fase più a livello di “motore dei consumi” che di produzione industriale.

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Immagine da Gail Tverberg – Our Finite World

Così, l’economia può essere in crisi in un’area (paesi dell’OCSE) ma la situazione restare equilibrata a livello mondiale per via della crescita delle produzioni e dei consumi nei paesi non-OCSE, che stanno “prendendo la staffa” ai primi. (La situazione nel suo complesso deve essere sempre necessariamente una situazione di crescita dei consumi, correlativamente a quella della produzione).

La questione del carbone è più importante di quello che sembra (si veda Gail Tverberg – An analysis of China coal supply and its impact on China’s future economic growth), poichè è il grande motore della crescita cinese (oltre il secondo combustile mondiale). I grafici seguenti sono presi dall’articolo di Gail Tverberg “China: Is peak coal part of its problems?” – Our Finite World.Figure 2. China's energy consumption by fuel, based on BP 2016 SRWE.
 Immagine da Gail Tverberg – Our Finite World

 Anche questa risorsa è soggetta ad un picco di produzione come le altre e sembra averlo raggiunto nel 2014.Figure 9. Areas where coal production has peaked, based on BP 2016 SRWE.

Non si tratta forse tanto di attendere il momento esatto in cui l’offerta di idrocarburi non potrà più star dietro alla domanda globale, poichè gli indicatori macroeconomici segnalano già una situazione di rischio sistemico. Gail Tverberg ritiene che l’economia mondiale potrebbe già nel 2017-2018 (2017-the-year-when-the-world-economy-starts-coming-apart – Our Finite World) trovarsi a non saper più come affrontare i problemi sistemici dovuti alla bassa domanda di energia e ai bassi salari, poichè i mezzi dei governi e delle banche centrali (soprattutto Quantitative Easing e abbassare i tassi di interesse) non possono sopperire a lungo a una situazione di criticità strutturale. In particolare è il problema del debito pubblico nell’Eurozona a preoccupare e l’Italia si trova nell’occhio del ciclone (al centro nella figura a inizio articolo, in rosso).

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Perché non riusciamo a fare la Transizione? Il problema dell’economia (parte quarta)

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 (Pubblicato anche su Appello per la Resilienza – https://appelloperlaresilienza.wordpress.com/)

Aurelio Peccei, fondatore del Club di Roma, sosteneva fosse assurdo rifiutare in toto il concetto di crescita. Il problema è se può esistere una crescita armoniosa e, ciò che ci interessa qui, se questo obiettivo sia raggiungibile entro il sistema economico. In questo articolo ritorno su come secondo Gail Tverberg (Our Finite World) il problema dei salari dei lavoratori (“non-elité workers“) influenza l’economia in veste di “output”.

Input e output del sistema economico

Nella seconda parte avevo sostenuto che l’input del sistema economico è costituito dai produttori, l’output dai consumatori, la forza-lavoro e che dalle dinamiche generate dal loro incontro emerge il sistema economico come lo conosciamo.

La divisione sociale fra possessori dei mezzi di produzione e forza-lavoro rimane valida poichè non è segnata in modo arbitrario all’interno del vasto campo economico. Si tratta dell’evidenza per cui è unicamente la categoria dei produttori-imprenditori a ricavare profitti dall’attività produttiva.

Ma se i profitti rimangono esclusivi di tale categoria da dove provengono i soldi per pagare i salari dei lavoratori? Una parte dei profitti derivanti dalla produzione andranno a ripagare la forza-lavoro che ha prodotto il bene. Al tempo stesso il lavoratore oltre che forza-lavoro diviene forza-consumo poichè il salario ottenuto che gli serve per procurarsi i mezzi di sussistenza verrà speso in quelle merce che ha contribuito a produrre.

(Dell’intero valore prodotto nell’arco della giornata lavorativa al lavoratore ne viene solamente una parte; la restante viene trattenuta dal produttore ed è questo a generare plus-valore cioè profitto. Può sembrare riduttivo pensare che gli introiti di una grande azienda si ricavino in questo modo ma è proprio per questo che il produttore appena può non esita a ridurre il personale o a automatizzare la produzione. E’ anche per questo che al datore di lavoro non conviene avere lavoratori part-time se può ricavare lo stesso numero di ore di lavoro da un minor numero di lavoratori a tempo pieno)

Ne viene che la domanda dei beni/prodotti può essere generata solo da coloro che lavorano, se ci accordiamo di riservare questo termine solo a coloro che sono ottengono il loro stipendio da altri e non possono ricavare dei profitti dalla loro attività lavorativa. Sono i lavoratori però che “chiudono il cerchio” (output) in quanto forza-lavoro e forza-consumo senza la quale la produzione industriale non avrebbe alcuno sbocco.

Schema della crescita fisica dell’economia
Dobbiamo ora integrare la tematica dell’energia e delle risorse entro la cornice macroeconomica. E’ quello che ha fatto Gail Tverberg.

Questo schema mostra in maniera semplificata le principali linee di flusso che generano crescita economica. Non ha importanza qui considerare la storia economica. Lo schema descrive quella fase della storia umana in cui i combustibili fossili vengono utilizzati come energia primaria per generare attività economica (l’Antropocene). La crescita economica da questo punto di vista è un gigantesco feedback positivo alimentato dalla disponibilità e capacità delle risorse fossili di generare energia a basso costo nella prima fase del loro sfruttamento (mi riferirò al petrolio per semplificare ulteriormente).

La fase di “vacche grasse” (cit. Ugo Bardi)

Fino a che i costi di produzione del petrolio rimangono bassi, le aziende produttrici possono permettersi di venderlo ottenendo surplus (profitti) considerevoli. I settori agricolo e industriale sono i primi beneficiari in quanto richiedono flussi costanti di energia. E’ un periodo di espansione. Il mercato può beneficiare di una grande offerta di beni ed è questo probabilmente a creare le condizioni per un’ampia domanda. In questa fase la società è stimolata ad acquistare e a consumare. Ciò che è essenziale è che i profitti derivanti dalla produzione sono così grandi da permettere:

a) un aumento della scala produttiva e nuovi investimenti (input);
b) un pagamento dei salari ai lavoratori sufficiente a garantirgli una quantità di moneta e potere d’acquisto che possa venir speso in consumi (output).

Se l’inflazione aumenta, diminuisce il potere d’acquisto della forza-lavoro (il consumatore) che non può più permettersi di alimentare i consumi, il che fa contrarre il settore produttivo che ne dipende.

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E’ nella fase in cui il costo dell’energia per la società è basso che i consumatori possono permettersi spese extra (grosse auto, immobili, ecc) e fare ricorso al credito. La spirale produzione-consumo si autoalimenta e l’economia cresce. Non si vedono ostacoli al procedere in questo modo.

La fase di “vacche magre”

Tuttavia con il passare del tempo i costi di estrazione e produzione aumentano (è il comportamento di ogni risorsa finita). Ciò comporta conseguenze per il sistema economico, un circolo vizioso difficile da controbilanciare, poichè l’intera attività economica è adattata su un’unico tipo di risorse e non c’è un’alternativa possibile in tempi brevi (bassa resilienza). Nel momento in cui il prezzo di una risorsa così importante comincia a crescere questo influenza non solo le aziende che lo producono ma l’intera economia, che entra in recessione, a cominciare da quei settori che dipendono direttamente da un determinato prezzo del petrolio, finendo con l’influenzare a cascata anche gli altri.
Come l’aumento del prezzo del petrolio influenza l’economia? Avviene un aumento dei prezzi dei prodotti industriali poichè questi incorporano il prezzo del petrolio.

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Ora, è il settore della produzione industriale che determina la crescita o la recessione di un economia e da sola consuma la metà dell’energia mondiale disponibile (Bayar, Cilic, Effects of Oil and Natural Gas Prices on Industrial Production in the Eurozone Countries). Si tratta di una catena di aumento dei costi di produzione all’origine che genera aumento dei costi di vendita delle merci finali nel mercato. I benefici netti cominciano a diminuire (curva di Tainter).

 L’economia necessita di crescere il che significa flussi di energia e materia in continuo aumento al fine di generare una produzione/offerta di merci che sostenga la domanda che viene dalla società. Col tempo però il lavoratore-consumatore diviene sempre meno in grado di partecipare alla domanda poiché il suo potere d’acquisto si erode parallelamente e in virtù dell’arricchimento dei produttori.

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La serie storica vede un andamento sinusoidale dei profitti aziendali (in rosso) fino al 2000 – diminuiscono ogni volta in corrispondenza delle crisi da sovrapproduzione? – dal 2000 avviene l’impennata, cui segue il crollo nel 2007-2008 e una nuova risalita. Nel frattempo i salari dei “non-elité workers” paragonati alla crescita dell’economia tendono costantemente verso il basso dagli anni ’60-’70, come si era visto nella seconda parte.

(continua…)

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Perché non riusciamo a fare la Transizione? Il problema dell’economia (terza parte)

(Pubblicato anche su Appello per la Resilienza, https://appelloperlaresilienza.wordpress.com/)

In questo articolo indago la relazione fra consumi e crescita economica. In particolare, dato che i consumi della popolazione richiedono “a monte” consumi di energia, non sembra possibile ridurre i consumi per il semplice motivo che questi sono la conditio sine qua non di qualsiasi economia.
 
La consunzione come processo economico
Se si pensa all’estensione che il consumo ha assunto nelle nostre attività quotidiane è difficile non percepirlo come qualche cosa di “osceno”. La parola implica un esaurimento, una delapidazione di materia. Effettivamente è proprio questo il significato che assume nelle nostre società. Esse vivono del consumo di qualcosa in maniera tale da impedire o rendere difficoltoso il riutilizzo. E’ molto interessante consultare la definizione che ne dà il vocabolario, per esempio il Treccani dice: “logorare, finire a poco a poco con l’uso” e “Ridurre al nulla un bene, un prodotto adoperandolo per particolari necessità, per il soddisfacimento di proprî bisogni, o in genere sfruttarlo per un uso determinato”.

Una ri-sorsa è tale perché può rinnovarsi nel tempo. Ma bisogna prendere delle precauzioni affinchè possa continuare a generarsi. Il processo economico in quanto tale vive della “fine” o morte di un oggetto, di una merce. Questa è la condizione affichè il processo produttivo possa perpetuarsi (su questo Jean Baudrillard ha scritto pagine memorabili ne La società dei consumi). Come sarebbe possibile il consumo altrimenti? Come sarebbe possibile il “consumismo” senza la consunzione dell’oggetto? Il livello dei consumi può aumentare solo se vi è un ciclo incessante di ricreazione di oggetti (la sfida dell’economia circolare consiste nello sfruttare questa fatalità del processo economico. Sarà possibile trasformare il rifiuto in risorsa e generare addirittura maggiore valore tramite ulteriori cicli di trasformazione della risorsa? Ne parlerò nella quarta parte). Solo così si comprende il fenomeno della “obsolescenza programmata”. Tutti possono notare che le auto si rompono più facilmente di una volta. Ciò avviene affinchè se ne possano produrre e comperare regolarmente di nuove.

 

Dunque il sistema economico per definizione necessita dell’esaurirsi del “valore d’uso” di una merce affinchè sia possibile far ricominciare lo scambio. Economia è “circolazione”, cominciata storicamente con la circolazione delle merci ma oggi ridotta a scambio di denaro. La nota-di-cambio di una merce (banconota) da mezzo diventa fine (valore di scambio) (si vedano gli scritti di E. Severino e U.Galimberti).

Il circolo vizioso
Abbiamo ricordato che l’obiettivo degli “ecologisti” (per riunire in un’unica categoria tutti coloro che hanno sensibilità verso le sorti del pianeta e dell’uomo) è ridurre i consumi: la cosiddetta sostenibilità, lo sviluppo sostenibile (anche se secondo alcuni la sostenibilità non dovrebbe implicare una riduzione del consumo di materia ed energia, qui interessa solo comprendere il meccanismo interno dell’economia). Ora, c’è un signore, il già citato Serge Latouche, che ha capito che questo non è possibile. Lo sviluppo sostenibile è un ossimoro, diceva.

Ovunque si sente parlare di “rilanciare i consumi”. Ebbene, come possiamo ridurli se l’economia ha bisogno di “rilanciarli” per continuare a crescere? E’ chiaro: senza vendite, senza spese, senza consumi, l’economia non può andare avanti.

Forse non abbiamo compreso tutte le implicazioni della crescita, soprattutto a livello economico. L’economia non può sussistere senza crescita perché il sistema socio-economico è una CAS (Complex Adaptive System), è adattato alla crescita, come dice David Korowicz (c’è un tasso di crescita fisso, ignoto, al di sotto del quale l’economia collassa). Che cos’è la crescita? E’ l’aumento di denaro nel mondo (come si è visto nella prima parte) a tassi esponenziali.

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Fonte: Gail Tverberg – Our Finite World

Dal grafico qui sopra però si può notare come la vera e propria crescita delle nostre economie sia avvenuta durante il “boom economico”, dalla fine della seconda guerra mondiale alll’inizio degli anni ’70 (in corrispondenza della prima grande crisi petrolifera). Un trentennio, “i trenta gloriosi” sono chiamati in Francia. Tale crescita non è avvenuta solamente in maniera esponenziale, ma iperesponenziale, in quanto gli stessi tassi di crescita sono aumentati. Questo non significa che in seguito l’economia abbia smesso di espandersi, ma che non si sono più raggiunti quei tassi di crescita. La crescita implica che ogni anno si produca di più del precedente, non mi stanco di ripetere questo mantra (per esempio: se nel 2017 +1%= dovremo produrre la stessa quantità di merci del 2016 e l’1% in più!). Ora, la crescita economica (insieme all’aumento di popolazione, secondo Limits to growth, I nuovi limiti dello sviluppo, 2004) genera un anello di retroazione positivo che alimenta la crescita “secondaria” degli altri settori economici.

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Il tema di questo articolo è mostrare che l’economia genera questo meccanismo autocatalitico che impedisce per definizione una diminuzione dei consumi. Possiamo considerare, nella sua essenza, il sistema economico come un circuito INPUT-OUTPUT, quello della domanda e dell’offerta. Sebbene, come hanno fatto notare alcuni, non sembrano più valere le leggi classiche della domanda e dell’offerta, ciò non cambia in nulla il fatto che da un lato ci debba essere qualcuno che produce e vende qualcosa (input) e dall’altro qualcuno che lo deve comperare (output) (su questo anche seconda parte).

Perché dunque non è possibile ridurre i consumi? Perché solo il continuo aumento dei consumi può alimentare il continuo aumento della produzione, sebbene ciò non sia possibile a lungo termine per le ragioni legate alla finitezza degli stock di materia della Terra (situazione picco dei minerali segnalata da Ugo Bardi nel 2011). Ed è proprio questo a generare il problema. Il sogno degli economisti è una crescita illimitata disincarnata dalla fisica dell’energia e della materia (lo scenario 0 di LTG 2004, per intendersi). L’economia umana è una struttura dissipativa che per mantenersi richiede flussi continui e in aumento.

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Fonte: Gail Tverberg – Our Finite World
   
La materia (non) è energia!
La crescita del PIL dipende in tutto e per tutto dal consumo di energia e secondo Gail Tverberg vi è una correlazione lineare al 99,9% fra crescita mondiale del PIL (GDP Growth) e crescita mondiale del consumo di energia (Energy growth).

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Se l’economia si serve nell’Antropocene di una quantità enorme di energia primaria (corrispondente a 17 TW di potenza nel 2013, secondo Ugo Bardi), ciò è di ordini di grandezza molto inferiori a quanto sarebbe possibile attuare tramite i PV (celle solari). Solamente coprendo 1/5 del Sahara si potrebbero ottenere 50 TW.

La questione si sposta: come sopperire al problema dei flussi di materia? L’economia necessita della produzione materiale per il processo di scambio, non può vivere a lungo di scambi meramente virtuali (come fa dagli anni ’80: il 97% del denaro è virtuale, secondo David Korowicz). Nella quarta parte cercherò di chiarire se l’economia costituisce un “ostacolo” verso quella successiva rivoluzione metabolica che, come ha indicato Ugo Bardi, in un articolo straordinario,

“avvierebbe l’ecosfera verso un livello di trasduzione nuovo e maggiore di quello attuale

Se è così, siamo nei guai.  
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Mi piace questa immagine dei gironi infernali di Dante. Interpretandola in modo fantasioso per raffigurare la situazione odierna, si potrebbe leggere il cerchio in basso come la base di risorse sulla quale si è edificato il castello di complessità sul quale crediamo di prosperare. Una piramide rovesciata, un gigante coi piedi d’argilla. Come dice Serge Latouche: “L’economia è una menzogna”.

(continua…)

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