Author: max strata

Crimini e misfatti

Guardiamo allo scenario peggiore che ci viene mostrato con le anticipazioni dell’ultimo report dell’ONU sui cambiamenti climatici. Tecnicamente si chiama RCP8,5 ma questo poco importa, importa invece quanto ci dice sul come e perché a fine secolo gli eventi climatici avranno ridisegnato la vita sul pianeta. La concentrazione dei gas serra, il crescendo generalizzato delle […]

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Il tempo che rimane

Stiamo perdendo tempo e di tempo ne è rimasto ben poco. Ogni mente sufficientemente lucida si può rendere conto della gravità e della complessità della situazione globale di cui la pandemia, con tutti i suoi articolati e sfuggevoli risvolti, è solo una porzione, una parziale evidenza. Praticamente perduti nella quotidianità e compressi tra le maglie […]

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Dietro l’angolo, la fine?

Nel libro “2052”, il biologo norvegese Dag Olav Hessen, descrivendo gli scenari che potranno interessare il mare del Nord nei prossimi anni, evidenzia in modo esemplare come una piccola e apparentemente insignificante specie di crostaceo, imparentato con granchi e aragoste ma dalle dimensioni di pochi millimetri, giochi un ruolo determinante all’interno di quel grande ecosistema. […]

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L’eredità di Gandhi

Nell’aria bollente di una Delhi a 40°, dopo aver percorso a piedi l’arteria urbana che con il suo traffico incessante corre fino al Red Fort mostrando senza soluzione di continuità un desolato groviglio umano di indigenti distesi all’ombra degli alberi, ho varcato l’ingresso presidiato dai militari e sono entrato nel Rajghat, il luogo in cui […]

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Pelagus. Il Mare al tempo dell’Antropocene.

Un post di Max Strata

Sono nato e cresciuto in una città di mare.

La mia casa si trovava a meno di un chilometro dalla spiaggia e fin da bambino, ogni giorno ed in ogni stagione, con il sole o con la pioggia, nell’afa estiva o sotto l’umido vento autunnale, potevo passeggiare lungo l’interminabile lido sabbioso e guardare i colori cangianti del Mediterraneo, le nuvole bianche e sottili, i grigi e turbolenti cumulonembi, il profilo aguzzo delle montagne che si trovano a poca distanza.

Nei miei ricordi più lontani ho bene impresso l’odore che il mare aveva e il sapore sapido e pulito dei frangenti. Ricordo che nelle pozze che si formavano sulla spiaggia dopo una mareggiata, potevo trovare decine di cavallucci marini (Hippocampus ramulosus) e una grande quantità di granchi, mentre dalla sabbia bagnata, scavando solo un po’, uscivano arenicole (Arenicola marina) lunghe fino 20 centimetri. Il mare era la città e la città aveva il sapore del mare. Il pesce era abbondante, la sabbia ed il sale si sentivano nelle piazze, nelle strade, nei cortili e ricorrevano nei discorsi della gente. Com’era il mare ieri, com’è oggi, come sarà domani e una certezza era condivisa: io ci sarò, ti nutrirò, ti fornirò aria buona e un clima mite. 

Oggi, a distanza di qualche decennio, quel mare è cambiato e le modificazioni ambientali che sono intervenute in questo lasso di tempo ne hanno fisicamente mutato le caratteristiche e la percezione sia a livello locale che a livello globale. Sulla costa dove sono nato e cresciuto perfino il suo colore e il suo odore non sono più gli stessi. L’innalzamento della temperatura delle acque di superficie e la quantità di nutrienti sversati dalle attività produttive e dai depuratori, ne hanno provocato un progressivo intorbidimento connesso a ripetute fioriture algali: un processo che è stato definito “fertilizzazione degli oceani”. Con la maggiore quantità di calore prodotta dal cambiamento climatico (in estate fino a 4-5 gradi sopra la media) e l’intorbidimento delle acque costiere, ampi tratti di costa vengono interessati da “blooms” che sprigionano pericolose tossine. Pfiesteria piscida, Fibrocapsa japonica, Ostreopsis ovata e altre specie, oltre a recare danni alla pesca ed alla molluschicoltura sono in grado di provocare un serio impatto sanitario. La massiccia liberazione di tossine algali può infatti avere conseguenze sulla salute umana, in quanto l’inalazione per aerosol o peggio la loro ingestione, accidentale o mediante il consumo di molluschi bivalvi contaminati, può provocare, a seconda dei casi, irritazione, dispnea, intorpidimento, intossicazione epatica, paralisi e perdita della memoria fino al coma o addirittura alla morte.

Ai fenomeni di inquinamento diffuso, all’urbanizzazione delle coste, alla distruzione delle paludi costiere, al traffico navale e ai mutamenti climatici in corso, si aggiunge una pesca intensiva che in pochi anni ha decimato gli stock ittici e continua ad impoverire la biodiversità marina ad un ritmo impressionante. E’ stato calcolato che su scala globale, la cattura di pesce selvatico si è fermata ai livelli dei primi anni novanta del XX secolo, ovvero a circa 90 milioni di tonnellate l’anno, mentre la F.A.O. ha dichiarato che 70 delle 200 più importanti specie marine sono a rischio di estinzione. 

Alcuni studi mirati indicano come negli oceani lo zooplancton sia diminuito in modo significativo e che senza efficaci controlli praticati su scala internazionale, gran parte delle risorse ittiche potrà arrivare al collasso entro la metà di questo secolo. Come scrive Jorgen Randers nel suo “2052: Rapporto al Club di Roma”, “Il pescatore che ha catturato l’ultimo grande banco di merluzzo nell’area del George’s Bank al largo della costa settentrionale degli Stati Uniti, torna a casa soddisfatto, la sua barca è piena fino all’orlo e dice alla moglie che è andato tutto bene, senza sospettare che in realtà quella era la sua ultima battuta di pesca”.

Nel caso del Mediterraneo, sulla base dei dati raccolti dal Comitato tecnico, scientifico ed economico della pesca europea (STECF), la coalizione OCEAN 2012 ha chiaramente evidenziato come il 95% degli stock ittici risultano sovrasfruttati.

L’ecologia ci insegna che i sistemi biologici non sono affatto lineari e ciò comporta che la risposta di un ecosistema ad un cambiamento causato da un fattore esterno, può non essere semplice da prevedere. I tempi e le modalità di risposta sono infatti variabili e proprio per questo possono manifestarsi cambiamenti improvvisi e drammatici che riguardano singoli processi o singole specie (per questo motivo definite specie chiave) che hanno riflessi sull’intero sistema. Il fatto, oramai accertato, che gli ecosistemi possono transitare in modo estremamente veloce e irreversibile da uno stato ad un altro quando una specie chiave viene meno o perché sono forzati ad attraversare una soglia critica spinti da una potente sollecitazione esterna, deve farci seriamente riflettere.

Quella che è tramontata è l’idea stessa della intangibilità del mare, della sua purezza e della sua presunta totale capacità di auto depurazione, della sua resistenza agli “agenti esterni”. Il mare, che da sempre, nella concezione comune, è il luogo dove tutto si perde, si diluisce e poi scompare, è cambiato e ha mostrato la sua fragilità.

Gli oceani ospitano anche una notevole quantità di rifiuti nucleari. Inizialmente affondati al largo della baia di San Francisco negli Stati Uniti e poi in altri luoghi del mondo, vi è stata immersa una quantità non definita di scorie radioattive, compresi i reattori nucleari smantellati e armi chimiche con gas altamente velenosi. Recentemente, nelle acque prospicienti alcuni impianti di rigenerazione e smaltimento delle scorie derivate dall’utilizzo del nucleare per la produzione di energia elettrica, i sommozzatori di Greenpeace hanno rilevato valori di radioattività fino a diciassette milioni di volte superiori a quelli registrati nelle zone non soggette agli scarichi. Sulle coste norvegesi, ad esempio, funghi e gamberi sono risultati contaminati da tecnezio, una sostanza radioattiva che il centro per la radioprotezione norvegese ha identificato come proveniente dall’impianto nucleare inglese di Sellafield, situato a centinaia di chilometri di distanza nel mare d’Irlanda. 

Non esiste una quantificazione su scala globale dei rifiuti liquidi e degli scarichi urbani e industriali che ogni anno veicolano in mare composti chimici tossici a più livelli. In tutto il mondo, migliaia di analisi chimiche su specie di pesci, molluschi e crostacei destinati al consumo umano hanno evidenziato contaminazioni da metalli pesanti, da P.C.B., da bisfenolo A, e da Tributilstagno (T.B.T.), quest’ultima, una sostanza usata come biocida nelle vernici antivegetative per le imbarcazioni, causa l’imposex, il fenomeno che impone caratteri sessuali secondari maschili (pene, vaso deferente e ghiandola prostatica) negli esemplari femmine. Al triste elenco non mancano i P.B.D.E., appartenenti alla categoria dei contaminanti organici persistenti (P.O.P.), che pur essendo riconosciuti come sostanza pericolosa, vengono ampiamente utilizzati nella fabbricazione di molti prodotti industriali tessili ed elettronici, negli imballaggi plastici e nel materiale edile, e proprio a causa di questo loro ampio utilizzo sono diventati ubiquitari, tant’è che la loro presenza è stata riscontrata anche negli uccelli, nei mammiferi marini, nel latte materno, nel tessuto adiposo, nel sangue e nel siero umano. 
Ultimi della fila gli ftalati, ormai onnipresenti in pellicole per alimenti, contenitori per farmaci e cosmetici, giocattoli, prodotti per l’igiene personale, ecc., sostanze che rientrano nella categoria dei cosiddetti “disturbatori endocrini”, che vengono assorbite dall’organismo anche solo attraverso il contatto con l’epidermide e che vengono messi in relazione con l’insorgenza del diabete, disturbi cardiaci, problemi di fertilità, obesità, autismo e alcuni tipi di cancro. Il fatto è che contaminazione ambientale e contaminazione alimentare sono strettamente collegate tra loro, poiché qualsiasi sostanza dispersa nell’ambiente non può esimersi dall’entrare nella catena alimentare. E che dire dei vari polimeri plastici che quotidianamente finiscono in mare. 
Recenti ricerche effettuate dal programma ambientale dell’O.N.U., hanno stimato che in ogni km quadrato di superficie oceanica si trovano fino a 20.000 frammenti di plastica con una media che passa a 400.000 frammenti nelle aree più contaminate, come nelle oramai tristemente note “isole di plastica”. In queste aree in particolare, la percentuale di micro particelle di plastica presenti in acqua è almeno 6 volte superiore a quella dello zooplancton e considerato che morfologicamente le particelle di plastica gli assomigliano molto, meduse, pesci e altri organismi marini se ne cibano, causandone, anche in questo caso, l’introduzione nella catena alimentare. I detriti plastici oceanici sono costituiti principalmente da monofilamenti incrostati di plancton e diatomee e a differenza dei rifiuti galleggianti di origine biologica non sono spontaneamente sottoposti a biodegradazione ma subiscono una fotodegradazione, ossia si disintegrano in pezzi sempre più piccoli fino alle dimensioni dei polimeri di cui sono composti.

Nei mari del mondo si stima che ogni anno a causa dell’ingestione di plastica muoiano qualcosa come 100.000 tra tartarughe e mammiferi marini e circa 1 milione di uccelli marini che vengono sterminati da tappi, ugelli degli spray, spazzolini da denti, ecc…, gli uccelli avvistano questi oggetti dal cielo, si tuffano in picchiata scambiandoli per cibo e li ingeriscono. Inoltre, i frammenti di plastica, agiscono come spugne assorbendo molti inquinanti chimici dispersi in acqua che accumulano in concentrazioni estremamente elevate. Una serie di ricerche effettuate lungo le coste della Scozia hanno dimostrato come una elevata percentuale di scampi destinati al mercato europeo (Nephrops norvegicus) presenta nel proprio apparato digerente filamenti e particelle di plastica. Come se non bastasse, un team di ricercatori del Korea Institute of Ocean Science and Technology, utilizzando una tecnica innovativa, ha recentemente raccolto campioni lungo la costa della Corea del Sud dimostrando come nei microscopici detriti galleggianti in mare, sono presenti anche leganti per vernici e resine di poliestere presenti nella vetroresina: sostanze che vengono utilizzate per realizzare e trattare vari tipi di imbarcazioni. Il gruppo di ricercatori, guidato dal chimico ambientale Won Joon Shim, ha verificato che in media, un litro di acqua marina conteneva 195 micro particelle, una concentrazione da 10 a 100 volte superiore rispetto a quelle raccolte in mare con altri metodi.

Quanto è lungo l’elenco dei crimini che la nostra specie sta infliggendo agli oceani? Secondo recenti stime della F.A.O., della Banca mondiale e della National Geographic Society, analizzate dalla Global Ocean Commission, nei mari di tutto il pianeta esisterebbero già oltre 400 “zone morte” che coprono una superficie pari a 250 mila chilometri quadrati, dove la maggior parte degli organismi marini non riesce più a sopravvivere. Inoltre, il 35% delle foreste di mangrovie e il 20% per cento delle barriere coralline risultano distrutte. Gli oceani coprono il 71% della superficie terrestre e hanno un ruolo fondamentale nella regolazione globale del clima. Assorbono calore, liberano quasi la metà dell’ossigeno che respiriamo e catturano oltre un quarto del CO2 emesso dalle attività umane (una quantità cinque volte superiore a quella delle foreste tropicali). In mare il biossido di carbonio si trasforma in acido carbonico (H2CO3) e le reazioni chimiche che si determinano provocano una riduzione degli ioni di carbonio liberi che sono fondamentali nei processi di compensazione dei carbonati e per la calcificazione dei gusci calcarei e degli scheletri di molte specie marine. Questa carenza ha un impatto sull’ecosistema e porta alla dissoluzione dei gusci calcarei delle conchiglie di molluschi, echinodermi, alghe, coralli e plancton calcareo; in pratica, agisce su tutti gli organismi la cui esistenza è legata alla fissazione del carbonato di calcio. 

L’Unesco ha presentato i risultati del Third Symposium on the Ocean in a High CO2 World, evidenziando che il fenomeno dell’acidificazione degli oceani, che avviene ad un ritmo inedito, è uno degli effetti più preoccupanti del cambiamento climatico e la prima constatazione è stata che gli oceani hanno visto il loro tasso di acidità aumentare del 26% dall’inizio dell’era industriale, con un pH che si è abbassato da 8,25 a 8,14. Ogni giorno, circa 24 milioni di tonnellate di CO2 vengono assorbite dalle acque marine e se le emissioni di questo gas resteranno immutate, il tasso di acidificazione aumenterà del 170% entro questo secolo in rapporto ai livelli anteriori all’era industriale. E’ chiaro che, nella misura in cui si accentua l’acidità, la capacità degli oceani di “trattare” l’anidride carbonica emessa in atmosfera si riduce, diminuendone il ruolo svolto nell’attenuazione del cambiamento climatico. Gli attuali tassi di rilascio di carbonio negli oceani sono infatti 10 volte più rapidi di quelli che hanno preceduto l’ultima grande estinzione di specie, che è stata quella del Paleocene-Olocene, avvenuta circa 55 milioni di anni fa.

Ma quanti conoscono il ruolo fondamentale che il mare gioca nell’equilibrio della vita sul pianeta ? Considerato che il 90% di tutte le forme viventi si trova negli oceani, è facile intuire cosa può accadere alterando i processi biochimici del più grande insieme di ecosistemi del pianeta. Pur nella consapevolezza che grandi porzioni oceaniche restano da verificare e che i “feedback” arrivano spesso in modo lento e apparentemente non chiaro, resta il fatto che ci troviamo in presenza di un cambiamento molto rapido e su larga scala che incide sui limiti del mare nel sostenere la vita sul pianeta. Assorbendo enormi quantità di carbonio e calore dall’atmosfera, gli oceani del mondo hanno finora contribuito a proteggere gli ecosistemi terrestri e gli esseri umani dagli effetti peggiori del riscaldamento globale, ma ciò sta comportando mutamenti profondi sulla vita marina. Del resto, la capacità del mare di assorbire CO2 è comunque limitata e il suo riscaldamento compartecipa allo scioglimento dei ghiacci polari in una catena di eventi che hanno effetti globali. Considerato che c’è un ritardo temporale di diversi decenni fra il rilascio del carbonio in atmosfera e gli effetti sui mari, ciò significa che una ulteriore acidificazione ed un ulteriore riscaldamento degli oceani sono al momento inevitabili, anche se la nostra specie riuscisse a ridurre drasticamente e molto rapidamente le emissioni di gas climalteranti.

Inoltre, il riscaldamento globale incrementa il fenomeno conosciuto come “deserto oceanico”. É noto infatti che le acque fredde sono ricche di sostanze nutrienti fondamentali per le catene alimentari marine e che invece gli strati superficiali, generalmente compresi tra una profondità di 30 e 100 metri, risultano più caldi e più stabili. A causa dell’irradiamento solare, la dilatazione dell’acqua che si manifesta al di sopra dei 4 °C provoca una minore densità degli strati superficiali rispetto a quelli sottostanti e ciò costituisce un vincolo per la vita oceanica. Durante la primavera i produttori primari sfruttano al massimo i nutrienti presenti negli strati superficiali via via sempre più caldi, fino a quando questi tendono ad esaurirsi e i detriti precipitano sul fondo. A questo punto, senza più cibo, le forme viventi presenti in superficie si riducono in modo drastico andando a costituire una sorta di “deserto” in mare. Così, mentre nei mari freddi le acque superficiali rimangono al di sotto dei 10 °C e riescono a rimescolarsi con gli strati profondi ricchi di sostanze nutrienti producendo vita, negli oceani caldi questo non avviene. La cattiva notizia è che già oggi, solo il 20% circa degli oceani ha caratteristiche fredde e che, con il progressivo riscaldamento del mare, questa percentuale è destinata a diminuire, “spostandosi” sempre di più verso le aree polari. Poiché in questo periodo storico le emissioni continuano ad aumentare e la temperatura media a salire, lo scenario che abbiamo di fronte appare tutt’altro che rassicurante.

Max Strata è consulente ambientale e saggista

Nella foto, raccolta di alghe nelle pozze di marea, Oceano Atlantico, Portogallo

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Gli alieni siamo noi.

Gli alieni siamo noi.

di Max Strata

No, a compromettere ogni giorno di più la biodiversità e la tenuta degli ecosistemi naturali presenti sul nostro pianeta, non sono strani mostri venuti da qualche remoto pianeta della nostra galassia nè una specie che giunge in superficie dalla profondità della terra.

Non è in corso nessun guerra dei mondi immaginata da H.G. Wells, nè il tentativo della Spectre di impossessarsi del pianeta a costo di far fuori gli esseri viventi che lo abitano.

Gli unici responsabili di quanto stà avvenendo siamo noi, la specie umana.

In effetti, uno degli aspetti più complicati da riconoscere e da accettare quando si parla di cambiamento climatico e delle attività maggiormente impattanti sul pianeta, è proprio la varietà e la drammaticità degli effetti che le nostre azioni stanno provocando a livello globale e che sono drasticamente destinate ad aumentare nel prossimo futuro se non poniamo immediatamente un freno a ciò che stiamo combinando.

Rachel Warren, scienziata del dipartimento di studi ambientali dell’Università dell’East Anglia e titolare di una importante ricerca recentemente pubblicata nella sezione Climate Change della rivista Nature, nel descrivere l’esito degli studi effettuati sul rapporto tra cambiamento climatico e sopravvivenza di specie animali e vegetali, pone l’accento sul fatto che mentre di solito l’attenzione si è focalizzata sulla scomparsadelle specie più rare o su quelle che sono a rischio di estinzione, non si parla di cosa sta accadendo allespecie più comuni e diffuse.

In assenza di concrete politiche di riduzione dell’emissione dei gas serra, l’articoloevidenzia come alla fine di questo secolo circa metà delle piante e un terzo degli animali attualmente conosciuti potrebbero essere estinti.

La causa di questa gigantesca perdita di biodiversità, è dovuta alla sensibile riduzione, o addirittura alla scomparsa, dei loro habitat naturali, ovvero dei luoghidove queste specie nascono, vivono e si riproducono. Un collasso che, spiega la ricercatrice, potrebbe avere un effetto a catena con violente ripercussioni economiche dovute al mutamento dei modelli agricoli, all’inquinamento dell’acqua e al peggioramento della qualità dell’ariarespirabile.

La ricerca si basa sull’analisi di oltre 50 mila specie di piante e di animali e i risultati dicono che solo il 4% delle specie animali – e nessuna pianta – beneficerebbero dell’aumento della temperatura.

Le ripercussioni sulla nostra specie sarebbero pertanto gravissime in quanto una perdita così diffusa della biodiversità su scala globale è destinata ad impoverire i servizi naturali che gli ecosistemi ci rendono gratuitamente: purificazione dell’acquae dell’aria,prevenzione delleinondazioni, nutrimento per il suolo, insomma tutti quei cicli biogeochimici che sono essenziali per la vita sul pianeta e che noi consideriamo scontati ma che non lo sono affatto.

Accanto a questo studio è opportuno citare anche l’aggiornamento dell’inventario del rischio di estinzione delle singole specie, la cosiddetta “Lista Rossa” che viene redatta dall’I.U.C.N., e il quadro che ne emerge è desolante.

Su 672 specie di vertebrati prese in considerazione (576 terrestri e 96 marine), quasi un terzo sono a rischio di estinzione in tempi brevi.

Oggi la concentrazione di CO2 presente in atmosfera ha raggiunto e superato le 400 parti per milione che corrispondono al 142% in più rispetto al livello preindustriale, mentre gli altri principali gas ad effetto serra, il metano e l’ossido di azoto, sono rispettivamente aumentati del 253% e del 121% rispetto ai livelli anteriori a1 1750, raggiungendo un record che non si registrava da oltre 3 milioni di anni (ben prima della comparsa dell’Homo sapienssulla Terra).

A causa di questi gas, fondamentali, per garantire la vita sul pianeta attraverso l’effetto serra ma deleteri oltre una certa soglia, oggi, la capacità della Terra di trattenere la radiazione solare è aumentata del 34% rispetto al 1990: una percentuale enorme e inimmaginabile fino a pochi anni fa.

Il cambiamento climatico è dunque ormai una minaccia per la biodiversità globale e secondo i calcoli effettuati dalT.E.E.B. (The Economics of Biodiversity and Ecosystem Services), il programma mondiale dell’O.N.U. che prova a misurare il valore economico della natura, l’impatto che le attività umane producono sulle risorse e sui sistemi naturali, ha ormai un costo di oltre 7.300 miliardi di dollari all’anno.

Per Robert Wilson, ricercatore dell’Università di Exeter nel Regno Unito e co-autore di un recente studio internazionale pubblicato dal prestigioso Proceedings of National Academy of Sciences in cui ha analizzato dati provenienti da tutto il mondo, emerge come gli effetti del riscaldamento globale sono ormai riscontrabili in ogni parte del pianeta, in ogni gruppo di animali e di piante: dagli uccelli, ai vermi, ai mammiferi marini, dalle alte catene montuose, alle giungle ed agli oceani.

Fra i casi citati nello studio, spicca l’esempio della riduzione, nel Mare di Bering, di alcuni molluschi bivalvi fonte principale di cibo per le specie al culmine della catena alimentare di quelle zone. Queste piccole conchiglie, nell’arco di soli due anni, a causa dell’assottigliamento della copertura di ghiaccio sui loro mari, si sono ridotte di ¾ passando da 12 a 3 per metro quadrato, un fatto che verosimilmente provocherà non pochi guasti agli equilibri ecologici di quell’area.

I tassi di estinzione attuali confrontati con quelli misurati attraverso lo studio dei fossili, indicano che oggi perdiamo un numero di specie da 10 a 100 volte superiore a quello registrato nei periodi storici e che in pratica, stiamo vivendo un’estinzione generalizzata di massa.

L’uso dei combustibili fossili ed il nostro “non negoziabile stile di vita” fatto di incessate urbanizzazione e distruzioone di luoghi natutali, ne sono la causa.

Negli ultimi decenni, l’impatto delle attività antropiche sull’equilibrio biologico dell’ambiente marino e sulla ricchezza della sua fauna è stato devastante.

I fenomeni di inquinamento diffuso, la cementificazione delle coste, la distruzione delle paludi costiere, il traffico navale, la pesca intensiva e i mutamenti climatici in corso, hanno decimato gli stock ittici e continuano ad impoverire la biodiversità marina ad un ritmo impressionante.

E’ stato calcolato che su scala globale, la cattura di pesce selvatico si è fermata ai livelli dei primi anni novanta del XX secolo, ovvero a circa 90 milioni di tonnellate l’anno, mentre la F.A.O. ha dichiarato che 70 delle 200 più importanti specie marine sono a rischio di estinzione.

Nei cinque continenti, il numero dei pescatori di professione è aumentato vertiginosamente e in modo differente, così, mentre in alcune zone del pianeta questo si è ridotto, in altre si è decuplicato, passando complessivamente da circa 13 milioni a oltre 30 milioni di persone dedite a questa attività.

Tuttavia non sempre è possibile effettuare delle previsioni puntuali sulla base dei dati attualmente a disposizione. Le risorse ittiche sono incostanti dato che in mare la produttività e la predazione oscillano in modo molto diverso che sulla terra ferma, in quanto la biomassa varia moltissimo in relazione alle modificazioni che avvengono nelle correnti, nella quantità di nutrienti e nella temperatura.

Rispetto ad alcuni segnali che quindi risultano non facili da interpretare, alcuni studi mirati indicano comunque come negli oceani lo zooplancton sia diminuito in modo significativo e che senza efficaci controlli praticati su scala internazionale, gran parte delle risorse ittiche potrà arrivare al collasso entro la metà di questo secolo.

Uno dei principali problemi è legato al meccanismo dei segnali deboli che arrivano dalle profondità del mare prima che il tracollo si manifesti.

E’ noto infatti che le curve di rendimento delle risorse ittiche sono piuttosto piatte e ciò può determinare un aumento della pesca per diversi anni prima che i livelli di cattura diminuiscano in modo vertiginoso e in tempi molto stretti.

Soprattutto per le specie facilmente identificabili con le moderne tecnologie di ricerca, il segnale debole suggerisce erroneamente una generale abbondanza, spesso legata a concentrazioni locali, mentre in realtà il sovrasfruttamento ha già raggiunto il suo apice.

Come scrive Jorgen Randers nel suo “2052: Rapporto al Club di Roma” (8), “Il pescatore che ha catturato l’ultimo grande banco di merluzzo nell’area del George’s Bank al largo della costa settentrionale degli Stati Uniti, torna a casa soddisfatto, la sua barca è piena fino all’orlo e dice alla moglie che è andato tutto bene, senza sospettare che in realtà quella era la sua ultima battuta di pesca”.

Su scala locale le analisi e le previsioni sono decisamente più puntuali.

Nel caso del Mediterraneo, sulla base dei dati raccolti dal Comitato tecnico, scientifico ed economico della pesca europea (STECF), la coalizione OCEAN 2012 ha chiaramente evidenziato come il 95% degli stock ittici risultano sovrasfruttati.

Secondo le ricerche effettuate per ripristinare il livello di sostenibilità degli stock, in particolare nel Tirreno centrale e meridionale, nell’Adriatico meridionale e nello Ionio, è infatti necessario ridurre il prelievo attuale di circa il 50%, con punte del 90% per la pesca al nasello in alcune aree.

Nel grafico che segue le curve mostrano i diversi possibili livelli di declino delle catture a livello mondiale misurandone il peso pro-capite (kg a persona), a partire dal progressivo impoverimento degli stock che si è manifestato nell’ultima decade del XX secolo.

L’ecologia ci insegna che i sistemi biologici non sono affatto lineari e ciò comporta che la risposta di un ecosistema ad un cambiamento causato da un fattore esterno, può non essere semplice da prevedere. I tempi e le modalità di risposta sono infatti variabili e proprio per questo possono manifestarsi cambiamenti improvvisi e drammatici che riguardano singoli processi o singole specie (per questo motivo definite specie chiave) che hanno riflessi sull’intero sistema.

In “2052” (8), lo studioso norvegese Dag O. Hessen, in un suo articolo sugli scenari che potranno interessare il mare del Nord nei prossimi anni, evidenzia in modo esemplare come una piccola e apparentemente insignificante specie di crostaceo imparentato con granchi e aragoste ma dalle dimensioni di pochi millimetri, giochi un ruolo determinante all’interno di quell’ecosistema.

Il Calanus planctonicoè infatti una specie chiave perché a dispetto delle sue dimensioni è presente in grandi quantità e influenza in modo determinante le catene trofiche di quell’area.

Poiché la temperatura del mare del Nord si sta velocemente riscaldando a causa del mutamento climatico in corso, con effetti che si estenderanno fino all’oceano artico, la popolazione di Calanus ne verrà fortemente condizionata.

Le temperature più alte, specialmente nelle acque di superficie (fino a 2 gradi in più a metà di questo secolo), limiteranno il rimescolamento di queste ultime con quelle di profondità più fredde e ricche del fitoplancton di cui questa specie si nutre, tanto da determinarne un suo calo numerico. Sfortunatamente la scarsità di Calanus significherà scarsità di cibo per molte specie di pesci, una insufficienza che a sua volta si rifletterà sugli uccelli marini, sulle foche, e sugli orsi polari, causando il famoso effetto a cascata che verosimilmente comprometterà questa notevole rete alimentare.

Come è evidente, la centralità di una specie chiave all’interno di un ecosistema ne indica la vulnerabilità.

Riferendo i contenuti della relazione biennale dell’I.P.S.O. (International Programm on the State of the Ocean), Alex Rogers, professore di biologia all’Università di Oxford, ha chiarito che l’acidificazione in corso nei mari è senza precedenti nella storia conosciuta della Terra e che la salute del mare si sta degradando vertiginosamente e con effetti imminenti rispetto a quanto previsto precedentemente .

Gli attuali tassi di rilascio di carbonio negli oceani sono infatti 10 volte più rapidi di quelli che hanno preceduto l’ultima grande estinzione di specie, che è stata quella del Paleocene-Olocene, avvenuta circa 55 milioni di anni fa.

Dai rilievi dell’ I.P.S.O. emerge quindi come l’attuale processo di acidificazione sia il più importante negli ultimi 300 milioni di anni, secondo le registrazioni geologiche.

Ma quanti conoscono il ruolo fondamentale che il mare gioca nell’equilibrio della vita sul pianeta ?

Considerato che il fitoplancton marino produce quasi la metà dell’ossigeno presente in atmosfera e che il 90% di tutte le forme viventi si trova negli oceani, è facile intuire cosa può accadere alterando i processi biochimici del più grande insieme di ecosistemi del pianeta.

I rilievi, stanno evidenziando come gli organismi marini siano sottoposti ad uno stress difficilmente tollerabile.

Gli animali marini usano segnali chimici per percepire il proprio ambiente e per localizzare prede e predatori e ci sono evidenze che il processo di acidificazione stia interferendo con questa capacità fino a comprometterla: quante di queste specie saranno effettivamente in grado di adattarsi alle nuove condizioni ?

Pur nella consapevolezza che grandi porzioni oceaniche restano da verificare e che, come abbiamo visto, i “feedback” che arrivano dagli oceani sono spesso lenti e apparentemente non chiari, Rogers ha sottolineato il fatto che ci troviamo in presenza di un cambiamento molto rapido e su larga scala che dovrebbe rappresentare una preoccupazione estremamente seria, considerati i limiti del mare nel sostenere la vita sul pianeta. E’ per questo motivo che la comunità scientifica chiede di mettere in campo un’iniziativa che permetta di sviluppare le conoscenze sull’acidificazione degli oceani, ed è per questo che l’UNESCO chiede la realizzazione di un meccanismo internazionale in grado di trattare specificamente questo problema affinché la questione non resti ai margini dei negoziati sui cambiamenti climatici.

Assorbendo enormi quantità di carbonio e calore dall’atmosfera, gli oceani del mondo hanno finora contribuito a proteggere gli ecosistemi terrestri e gli esseri umani dagli effetti peggiori del riscaldamento globale, ma ciò sta comportando mutamenti profondi sulla vita marina. Del resto, come abbiamo visto, la capacità del mare di assorbire CO2 è comunque limitata e il suo riscaldamento compartecipa allo scioglimento dei ghiacci polari in una catena di eventi che hanno effetti globali.

Considerato che c’è un ritardo temporale di diversi decenni fra il rilascio del carbonio in atmosfera e gli effetti sui mari, ciò significa che una ulteriore acidificazione ed un ulteriore riscaldamento degli oceani sono al momento inevitabili, anche se la nostra specie riuscisse a ridurre drasticamente e molto rapidamente le emissioni di gas climalteranti.

A conferma di quanto documentato, durante l’ultima giornata mondiale della Biodiversità, i biologi e i naturalisti che lavorano al programma ambientale dell’O.N.U., hanno potuto affermare che l’essere umano, attualmente, rappresenta per la quasi totalità delle specie animalie vegetaliuna autentica minaccia di estinzione di massa.

La sesta, in ordine di tempo, tra quelle conosciute dalla comparsa della vita pluricellulare.

Calcoli prudenziali, effettuati alcuni anni fa dal biologo Edward Owen Wilson, docente ad Harvard, stimano infatti che ogni anno, per cause connesse alle attività antropiche, si estinguono circa trentamila specie.

Una cifra che ora viene rivista al rialzo, in considerazione delle condizioni sempre peggiori in cui versano gli ecosistemi.

In conclusione, se non cambiamo in fretta il nostro atteggiamento e le nostre abitudini (e il riferimento non è certo alle comunità umane che vivono in modo tradizionale e a basso impatto ambientale), è bene sapere, come scrisse Bateson, che non solo porteremo a compimento la più grande strage della storia del pianeta ma noi stessi faremo la fine di una palla di neve all’inferno.

Insomma, gli alieni siamo noi.

* Max Strata è consulente ambientale.

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