Effetto Cassandra

Il 2015 sarà più caldo del 2014?

Non si può ancora dire, ma non comincia bene…..

h/t Greg Laden Nota: il grafico non riporta temperature assolute sull’asse delle Y, ma “anomalie”; ovvero differenze di temperatura rispetto a una media. In questo caso, la media è l’intero database del GISS (Goddard Institute for Space Studies) della NASA. La media è lo “zero” del grafico e le anomalie sono in centesimi di grado centigrado. Ovvero, l’anomalia di “84” per il Marzo 2015 vuol dire la temperatura globale media è stata più alta da di 0,84 oC rispetto alla media di tutte le misure disponibili fino ad oggi. 

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Come costruire un’economia “lagomista”

DaThe Guardian”. Traduzione di MR

di Robert Costanza

Il termine svedese “lagom” è perfetto per descrivere un sistema economico in cui viene prodotto e consumato solo quello che serve. Ma è un obbiettivo raggiungibile? 

Un nuovo modello economico deve raggiungere un’alta qualità della vita per noi stessi e i nostri figli sostenibile ed equa. Foto:  Dio Liveson/Glogster

L’attuale sistema economico capitalista è in continua crisi. Come ha detto Thomas Friedman in un editoriale del New York Times: “E se la crisi del 2008 rappresenta qualcosa di molto più fondamentale di una semplice recessione? E se ci sta dicendo che l’intero modello di crescita che abbiamo creato negli ultimi 50 anni è semplicemente insostenibile economicamente ed ecologicamente e che il 2008 è stato il momento in cui ci siamo scontrato col muro, quando madre natura e il mercato hanno entrambi detto ‘basta’”? Nel XXI secolo ci serve un nuovo modello economico per ottenere un’alta qualità della vita per noi stessi e i nostri figli sostenibile ed equa. Questo modello deve superare gli “ismi” convenzionali (comunismo e capitalismo) del XX secolo, tutti concentrati sulla “crescita ad ogni costo”. Ottenere un giusto equilibrio fra privato, bene comune e proprietà di stato è cruciale in questo nuovo modello. Il Comunismo (più che altro povertà comune) e il capitalismo (più che altro proprietà privata) hanno entrambi fallito nell’ottenere il giusto equilibrio. La crisi economica ed ambientale globale in atto presenta l’opportunità di trovare un nuovo equilibrio.

Trovare una strada alla prosperità sostenibile ha bisogno che noi raggiungiamo quell’equilibrio. Abbiamo bisogno anche di un nuovo termine per descrivere questo modello. Ci serve un termine che implichi un miglior equilibrio fra beni costruiti, umani, sociali e naturali. Ci serve un termine che implichi un passaggio dal modello economico della “crescita a tutti i costi” ad uno concentrato sul benessere umano sostenibile – basato sulla misura, l’equità e la sostenibilità. Gli svedesi hanno un termine che connota molte delle qualità di un’economia del genere. Il termine è “lagom”, che significa “solo la quantità giusta”. L’origine del termine è nelle antiche storie vichinghe sul far girare l’idromele in un corno nell’accampamento dove tutti ne prendono solo la quantità giusta, di modo che ne rimanesse ancora un po’ per l’ultima persona del cerchio.

Il termine ‘lagom’ ha origine in antiche storie vichinghe. Foto: Alh1 /Flickr
Un’economia “lagomista” sarebbe un’economia che sarebbe “proprio della giusta dimensione o scala”. Non è un’economia di scarsità e sacrificio. E’ un’economia dove viene prodotto e consumato solo quello che serve – né più, né meno. Un’economia che avrebbe raggiunto la “scala ottimale”. Sarebbe anche un’economia in cui i benefici sarebbero equamente distribuiti, non solo fra l’attuale generazione di esseri umani, ma anche con le generazioni future e con le altre specie. Sarebbe un’economia in cui i beni e i servizi sarebbero valorizzati ed assegnati in modo efficiente, compresi i servizi del capitale naturale e sociale. Questi servizi sono attualmente esterni al sistema di assegnazione di mercato e fanno parte dei beni comuni di libero accesso. Un nuovo pacchetto sui diritti di proprietà e responsabilità più sfumato che dia il peso adeguato ai beni comuni farebbe a sua volta parte di un’economia lagomista. I beni pubblici come l’atmosfera e i servizi ecosistemici che attualmente sono di libero accesso hanno bisogno di diritti di proprietà assegnati loro per proteggerli adeguatamente.

Tuttavia, non possiamo (e non dobbiamo) assegnare diritti di proprietà privata a questi beni intrinsecamente comuni. Ci servono nuove istituzioni globali che possano assegnare e far rispettare i diritti di proprietà per conto della comunità globale. Un’istituzione del genere potrebbe efficientemente richiedere pagamenti per l’emissione di gas serra e usare quei fondi per premiare attività che rimuovono carbonio dall’atmosfera o riducono le emissioni. Un’istituzione del genere, che è stata proposta, è un “trust dell’atmosfera terrestre”, solo un esempio dell’implementazione della dottrina della fiducia pubblica per gestire i nostri beni comuni. Un gran numero crescente di individui e gruppi nel mondo stanno discutendo in che modo deve essere questa nuova economia. Questi comprendono la Coalizione per la Nuova Economia, la Società Internazionale per l’Economia Ecologica, l’ONU, l’Iniziativa per la Terra Futura, il Post Carbon Institute, l’Alleanza per la Sostenibilità e la Prosperità e molti altri. Si sta formando un ampio consenso intorno alle caratteristiche fondamentali menzionate sopra. Ma ognuno ha un diverso nome questa economia: ecologica, verde, rigenerativa, circolare, ecc. Ciò dà l’impressione che il consenso sia debole. Non lo è. E’ forte. Ma non si cristallizzerà finché non avremo un consenso su un termine comune per descriverla e sintetizzarla. Propongo il termine lagom. A proposito, può anche essere usato come saluto, come affermazione della bellezza e come brindisi.
Lagom!

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“La terra secca bruciava come erba” . La via siberiana all’inferno di ‘Permafuoco’

Darobertscribbler”. Traduzione di MR (via Maurizio Tron)


(I residenti della regione russa di Trans Baikal scappano attraverso un furioso incendio del permafrost il 13 aprile del 2015. Fonte del video: La strada per l’inferno Registrato da: Vladislav Igorevich). 

Il copione è come una scena di film post-apocalittico. La glaciale Siberia inizia uno scongelamento epico – uno scongelamento scatenato da uno scarico inarrestabile di gas che intrappolano calore nell’atmosfera dall’industria umana dei combustibili fossili. Alla fine, dopo anni di riscaldamento, la stessa terra che si scongela diventa combustibile per gli incendi. Uno spesso strato di materiale organico simile alla torba che funge da accensione per gli alberi seccati dal caldo e le erbe che ci sono sopra.

Le immense fiammate si sono accese ad aprile – 100 giorni pieni prima della normale stagione degli incendi alla fine di luglio. Gli incendi esplodono fino a dimensioni enormi, raddoppiando l’area in meno di un giorno, coprendo superfici di centinaia di miglia quadrate. I residenti scappano o si trovano faccia a faccia con muri di fiamme furiose con secchi e manichette dei pompieri. Le unità militari discendono sulle regioni colpite per combattere le fiammate ed evitare i saccheggi. Gli incendi sono inusitati e partono dal nulla nel giro di un attimo. I testimoni oculari della scena di un incendio descrivono la situazione surreale dicendo. “… la terra secca bruciava come erba”.

(Un muro di fuoco aspetta questa settimana i residenti di Chita, in Russia, mentre gli abitanti del posto sono pronti a difendere le loro case e i loro mezzi di sussistenza dall’inferno. Fonte dell’immagine: The Siberian Times).

Ma per due regioni della Russia, è esattamente quello che è successo questa settimana.

A Khakassia, una regione della Siberia meridionale che confina col Kazakistan e la Mongolia, fiammate enormi hanno imperversato attraverso una ampia zona di scongelamento del permafrost, colpendo 39 villaggi, uccidendo 29 persone e lasciando migliaia di senzatetto. Da giovedì, molti di questi enormi incendi sono stati finalmente spenti – lasciando ferite lunghe miglia su una terra fumante e annerita.

Centinaia di miglia lontano, a Trans Baikal, la storia è stata a sua volta infernale. Là gli incendi sono spuntati dalla zona di permafrost che si scongela – fagocitando foreste, bruciando la terra secca, distruggendo centinaia di case in più di 9 villaggi e uccidendo quattro persone. Un incendio da solo è arrivato a circa 400 miglia quadrate in dimensione ed ha minacciato numerosi insediamenti vicino alla città di Chita. Lì, i locali stanno ancora combattendo le fiamme in un tentativo disperato di salvare vita e proprietà.

(Immagine satellitare degli incendi e dei grandi segni da bruciatura a Chita, Russia, il 17 aprile 2015. Come riferimento, il bordo in basso dell’immagine è di 120 miglia. Notate che alcuni dei segni da bruciatura nell’immagine satellitare si allungano per 20 miglia nel loro punto più largo. Fonte dell’immagine: LANCE MODIS).

In totale, ora sono stati colpiti quasi 50 villaggi e città, sono state perse 33 vite, altre quattro sono disperse, quasi 7.000 persone sono senzatetto e più di 6.000 animali domestici sono andati perduti negli incendi. Queste sono le prime vittime in una stagione degli incendi alimentata dal cambiamento climatico che divamperanno e si spegneranno almeno per i prossimi cinque mesi. Una stagione degli incendi che probabilmente vedrà immensi pennacchi di fumo che coprono ampie sezioni dell’Emisfero Settentrionale, comprese le zone di permafrost canadese e dell’Alaska e vedrà incendi bruciare attraverso la Siberia fino alle coste dell’Oceano Artico.

E così siamo solo all’inizio di una lunga strada che attraversa un’altra infernale stagione degli incendi nell’Artico, una stagione attivata e resa di gran lunga peggiore dall’attuale tasso molto rapido di riscaldamento indotto dagli esseri umani.

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La maledizione delle miniere. Da Nauru alle Apuane

 Di Jacopo Simonetta  


Il film Rapa Nui ed i libri di Jared Diamond hanno reso celebre la triste storia dell’Isola di Pasqua, spesso citata come un modello di quello che potrebbe accadere, su di una diversa scala temporale, all’intero pianeta Terra.

Certo, la possibilità di verificare su casi reali le dinamiche evolutive dei sistemi socio-economico-ambientali è vitale per capire cosa sta succedendo oggi nel mondo.

In fondo, sistemi piccoli e grandi sono soggetti alle medesime leggi fisiche ed ecologiche, ma occorre prudenza nell’estrapolazione dei risultati.   Sistemi più grandi sono, infatti, anche più complessi e dispongono di maggiori riserve, per cui non si comportano mai esattamente come i sistemi relativamente più semplici che possiamo studiare in dettaglio.   Una parte importante dell’evoluzione dei sistemi dipende dal loro livello di complessità, ancor più che dalla loro natura.

Tuttavia, la disponibilità di “casi di studio” relativamente semplici rimane una delle maggiori risorse per capire dinamiche specifiche ed è per questo che vorrei qui proporre un altro esempio, assai meno famoso, eppure ancor più istruttivo di quello dell’Isola di Pasqua. Si tratta infatti di una storia contemporanea che riguarda uno stato riconosciuto ed organizzato come gli altri: con bandiera, governo, parlamento, banca centrale e tutto il resto, compreso un seggio all’ONU.   Però in scala: la superficie dello stato è di circa 21 Kmq e la popolazione circa 14.000 persone. Stiamo parlando dell’isola di Nauru. Una storia che trovo particolarmente interessante perché emblematica di molte dinamiche economiche, sociali ed ecologiche correlate con l’industria mineraria in tutte le parti dal mondo.

Scoperta nel 1798 dagli inglesi, fu battezzata nientemeno che “Pleasant Island”.   All’epoca c’erano forse un migliaio di persone, organizzate in dodici clan che riconoscevano l’autorità di un unico capo. Le attività principali erano coltivare una terra particolarmente fertile e pescare sulla barriera corallina, che circonda interamente l’isola. Nel corso del secolo seguente, Nauru passò rapidamente di mano fra varie potenze coloniali che non sapevano che farsene, ma non senza conseguenze.  La disponibilità di armi moderne, avute in scambio dai navigatori che vi facevano scalo, fu infatti all’origine della guerra civile che, nel 1870, spazzò via buona parte della popolazione.

Nel 1900 le cose cambiarono. Il geologo Albert Ellis scoprì che l’isola era ricchissima di fosfati, un minerale strategico sia per l’agricoltura che per l’industria chimica. Certo, l’escavazione ed il trasporto erano molto problematici, ma lo sfruttamento minerario dell’isola comunque iniziò e proseguì sempre, anche durante l’occupazione giapponese. L’isola fu quindi coinvolta nella seconda guerra mondiale, cui sopravvissero meno di 1000 isolani.

Terminate le ostilità, Nauru divenne un protettorato dell’Australia che, forte dei mezzi tecnici e delle fonti energetiche postbelliche, riorganizzò in modo assai più efficiente lo sfruttamento economico dei fosfati.

Nel 1968 scadeva il mandato dell’ONU e l’isola divenne uno stato indipendente, formalmente riconosciuto, malgrado le minuscole dimensioni.   E la prima cosa che fece il nuovo governo fu di contrarre un grosso prestito internazionale per comprare i diritti di sfruttamento dalle compagnie minerarie australiane, neozelandesi ed inglesi che li detenevano.

In effetti, questo passaggio avvenne proprio in concomitanza con il picco di estrazione, ma noncuranti di ciò i nauruani non esitarono a contrarre dei debiti per potenziare la loro industria estrattiva e rilanciare la produzione.   Per una quindicina d’anni funzionò e questo isolotto divenne il secondo paese più ricco del mondo, ai punti con l’Arabia Saudita.   Per fare un solo esempio, una popolazione di poche migliaia di persone si permise il lusso, fra l’altro, di una compagnia aerea nazionale con ben sei Boeing 737 che portavano gli isolani a fare shopping in giro per il Pacifico, dalle Hawaii a Melbourne, da Hong Kong a S. Francisco.

Altre centinaia di milioni di dollari furono investite all’estero, dove il governo mise insieme un enorme patrimonio; ivi compreso un intero grattacielo, in centro ad Honolulu, per sistemarvi gli uffici che gestivano questa immensa ricchezza.

Ma alla fine degli anni ’80 la produzione tracollò e nel 2005 l’ultima miniera venne abbandonata.   E con la crisi delle miniere emerse anche il bubbone delle innumerevoli truffe che gli amministratori e la gente di Nauru si erano fatti rifilare negli anni della grande sbornia collettiva.

Incapaci di mantenere il tenore di vita e gli impegni finanziari assunti, i nauruani cominciarono ad arrampicarsi sugli specchi, finendo invischiati fra mafia russa, debiti, tribunali e sanzioni internazionali. Il patrimonio mobiliare ed immobiliare, i diritti minerari, gli aerei e perfino i diritti di pesca sulle acque territoriali, tutto o quasi è finito nel buco.

Oggi Nauru è uno dei paesi più poveri del mondo e sopravvive sostanzialmente di elemosina internazionale.   Le sue entrate principali derivano dalla vendita del loro voto all’ONU e dalla gestione, per conto dell’Australia, di un campo di concentramento per stranieri indesiderati.

Ma non è questa la parte più triste ed istruttiva della storia.

I giacimenti di fosfato di Nauru erano formati da depositi intrappolati fra pinnacoli di roccia calcarea molto dura, coperti da una sessantina di centimetri di suolo straordinariamente fertile.   Il clima era tipicamente tropicale-umido.

Lo sfruttamento minerario ha comportato la completa asportazione della vegetazione e del suolo,
quindi lo scavo dei sedimenti ricchi in fosfati, grattando tra i pinnacoli calcarei.  
Nei decenni, questo ha trasformato l’intera isola in una plaga impraticabile.  

Ma non basta: la vegetazione attuale di Nauru è composta principalmente da una rada sterpaglia che è riuscita ad insediarsi negli anfratti tra le rocce delle miniere chiuse da più tempo. In quelle abbandonate più di recente non c’è praticamente niente.  Di conseguenza, il sole surriscalda la superficie dell’isola, creando una colonna d’aria calda che allontana le piogge. Oggi, un isolotto tropicale in mezzo all’oceano, soffre di siccità cronica e l’acqua dolce proviene da un dissalatore che funziona nella misura in cui altri paesi hanno la condiscendenza di recapitare, via nave, carburante e pezzi di ricambio.

I diritti sulla pesca oceanica sono stati venduti ad altri per pagare parte dei debiti, e comunque i nauruani non sarebbero in grado di farla.   Rimangono le acque costiere la cui fauna è stata oramai ridotta ai minimi termini dalla pesca eccessiva e dall’acidificazione del mare che sta danneggiando questa, come le altre barriere coralline.   Il tentativo di lanciare i turismo in un posto così triste è ovviamente fallito.
Rimane abitabile solo una piccola zona intorno ad un laghetto ed una fascia di un paio di centinaia di metri lungo la costa. Una fascia quasi completamente edificata, che l’innalzamento del livello oceanico finirà con l’inghiottire almeno in buona parte.

Nel frattempo, dall’indipendenza ad oggi, la popolazione è raddoppiata.   Per circa il 30% è costituita da immigrati che vennero per lavorare nelle miniere; per poi restare qui, non avendo i mezzi per tornare in patria.

Ma questa storia non è ancora finita.  Malgrado lo stato di salute precario ed i servizi sanitari in rapida diminuzione, la popolazione continua a crescere vigorosamente, grazie all’elevata natalità. Il cibo viene quasi tutto importato ed è abbondante, anche se di pessima qualità. Una combinazione che ha dato alla gente di Nauru il dubbio primato di popolazione con la massima incidenza di obesità e di diabete del mondo.

Ma il governo non demorde e, proprio in questo momento, sta tentando di rilanciare l’estrazione dei fosfati. Si, perché il fosfato non è finito.  Come normalmente succede, quelli che sono esauriti sono i giacimenti migliori; quelli che davano un buon rendimento con poco lavoro. Ma sedimenti più poveri e più profondi ci sono ancora e per sfruttarli sono stati fatti accordi con delle compagnie minerarie internazionali. Naturalmente ciò spazzerà via anche la rada sterpaglia che è ricresciuta in alcune zone e abbasserà ulteriormente l’isola, rispetto ad un oceano sempre più minaccioso. In compenso, è possibile che ci siano dei proventi, specialmente in vista del prossimo picco dei fosfati sahariani e dei deliranti progetti di sviluppo agricolo dell’Australia settentrionale. Ma anche se gli affari andassero bene per qualche tempo, saranno le compagnie a trarne profitto, non certo per gli isolani che hanno ceduto i diritti e non hanno ancora finito di pagare i debiti.

Se ora allarghiamo lo sguardo alle principali aree estrattive del Pianeta, troviamo che la storia di Nauru è una parabola di validità quasi universale.   E’ vero che all’interno di paesi di taglia normale o grande le dinamiche molto più complesse comportano conseguenze meno rapide e devastanti, ma se scendiamo al livello locale, troviamo che la somiglianza è molto forte.   In Canada, Cina, Stati uniti e molti altri paesi ancora, intere regioni stanno diventando dei veri inferni di voragini e cumuli di detrito, spesso irreparabilmente contaminate da sostanze tossiche e/o radioattive.

Anche nel nostro piccolo italiano troviamo, in scala, dinamiche analoghe. Personalmente, conosco bene l’industria lapidea apuana che sta arricchendo alcune decine di persone, con il sostegno incondizionato delle amministrazioni ed il disinteresse della maggior parte delle persone. Ma quando avranno finito, la gente si accorgerà che l’eredità lasciatagli saranno finanze ed infrastrutture pubbliche irreparabilmente dissestate, uno stato di calamità idrogeologica semi-permanente ed un immenso buco.

Ciò che apparentemente nessuno che conti qualcosa è in grado di capire è che l’industria è oggi un “gioco” a somma negativa in cui chi ha le manifatture vince, a spese di chi ha le miniere e le discariche. Ci sono ragioni termodinamiche e sistemiche precise perché non possa essere che così. Varie volte ne è stato trattato su questo stesso blog e da autori importanti, ma non sembra che, collettivamente, siamo in grado di fermarci.

Nel frattempo, la storia di Nauru procede.   Non è ancora finita, ma lo sarà presumibilmente tra breve. Quali opzioni rimangono possibili per questo popolo che, come tanti altri, ha saputo trasformare la propria fortuna in una maledizione?

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La terza ganascia dell’insostenibilità.

di Jacopo Simonetta

Per questo articolo sono completamente debitore alla breve conferenza “Limiti alla crescita di un sistema a complessità crescente” che il professor Angelo Tartaglia ha tenuto a Firenze, in occasione della presentazione pubblica del rapporto al Club di Roma, “Extacted”, del prof. Ugo Bardi.    Una di quelle rare occasioni in cui, ascoltando una persona, provi la piacevolissima sensazione di sentire le finestre del cervello che si aprono cigolando.

In effetti, anche nell’ambito delle ristretta cerchia di persone che si preoccupano dell’insostenibilità del nostro sistema di vita e della nostra popolazione, l’attenzione principale va al deterioramento quali/quantitativo delle risorse.   Un attenzione notevole, ma minore, viene data all’accumulo di rifiuti solidi, liquidi e gassosi nell’atmosfera, le acque ed i suoli.   Ma non sono due le ganasce che stringono il nostro sistema, bensì tre.   E chiunque abbia mai maneggiato un trapano sa che un oggetto stretto da tre parti contemporaneamente non ha alcun margine di libertà.
Il terzo elemento in questione è il livello di complessità raggiunto dalla nostra economia e dalla nostra società.    Un argomento non certo nuovo per i lettori abituali di questo blog, ma al quale viene raramente data la visibilità che merita.

  Per chi volesse approfondire, consiglio subito tre testi di natura molto diversa, ma che trattano vari aspetti di questo complesso argomento:, The Collapse of Complex Societies (J. Tainter 1988), Bottleneck: Humanity’s Impending Impasse (W. Catton 2009), Thermodymnamique de l’évolution ( F. Roddier 2012). Giusto per richiamare l’attenzione sull’argomento, vorrei qui riprendere alcuni passaggi della conferenza del prof. Tartaglia per giungere, però, a conclusioni assai diverse dalle sue.

Se prendiamo due punti, questi sono collegati da una sola relazione.   Tre punti da tre relazioni, quattro punti da sei, cinque punti da 10 relazioni e così via.     In una rete, il numero di relazioni potenziali cresce molto più rapidamente di quello dei nodi.

In un sistema reale, i nodi possono essere singole persone, ma anche organizzazioni, imprese, interi paesi.   Dunque generalmente abbiamo a che fare con nodi che, a loro volta, sono composti da reti o, più spesso, da un sistema di reti articolate su più livelli organizzativi.   Tutto ciò moltiplica ulteriormente la complessità del sistema.

Lungo ognuna delle connessioni può transitare una certa quantità di materia, energia e/o informazione.     Se il flusso aumenta, la connessione comincia a dare dei problemi che possono arrivare al blocco completo del flusso, come accade in autostrada la sera di Pasquetta.    Dunque, se i flussi aumentano, occorre aumentare le connessioni ed i nodi, ma questo rende sempre più difficile un controllo ed una gestione coordinata della rete.   Anche perché il controllo della rete comporta una moltiplicazione dei nodi e delle relazioni.    Ad esempio, ci vorranno reti di telecamere per controllare la rete stradale; e poi una rete di controllo e manutenzione delle telecamere e così via. Insomma, il punto cruciale è che il funzionamento di una rete può essere migliorato aumentandone la complessità, ma fino a quando?


A titolo di esempio, citerò il caso estremamente semplice di una singola lampadina.    Una vecchia lampadina ad incandescenza funziona sulla base dello schema “A” ed è assai poco efficiente.   Le lampadine a led hanno rendimenti enormemente superiori in fase di uso, ma funzionano sulla base dello schema “B”.

 Non c’è bisogno di essere elettricisti per capire che l’aumento dell’efficienza è avvenuto a costo di un aumento proporzionalmente molto maggiore di complessità.
E la complessità costa sia in termini economici, sia in termini di energia grigia incorporata nell’oggetto; ma anche in termini di consumo di materiali rari non riciclabili ed in termini di guasti.   In effetti, è vero che il singolo led ha una vita operativa lunghissima, ma le lampadine no perché spesso si rompe qualcuno dei numerosi componenti a monte del led.

Tornando ai sistemi su cui funziona la nostra società, osserviamo che ogni relazione è costituita da qualcosa (strade, cavi, processori, rotte, bande di frequenza, tubi,  eccetera) che per essere mantenuto in efficienza abbisognano di manutenzione e controllo.   Man mano che la rete cresce e diviene più complessa, aumenta il rischio di guasti, incidenti, ingorghi ecc.     Si rende allora necessario investire per migliorare l’efficienza e la a sicurezza di nodi e connessioni, il che significa migliorare le tecnologie, le procedure, i regolamenti, i comportamenti, la vigilanza, la manutenzione, ecc.    Tutte cose soggette all’implacabile legge dei “ritorni decrescenti”.   Ciò significa che , man mano che si migliora, ogni ulteriore miglioramento comporta un costo sempre maggiore a fronte di un risultato sempre minore.    In pratica, avvicinandosi al massimo teoricamente possibile di efficienza e sicurezza, il costo dei miglioramenti tende ad infinito.

Riassumendo, nell’economia reale l’incremento delle reti comporta quindi un aumento dei vantaggi connessi con l’interscambio di materia, energia ed informazione.    Vantaggi che generalmente prendono la forma di un qualche tipo di ricchezza (non necessariamente monetaria).   Ma il costo per mantenere efficiente una rete viepiù complessa aumenta più rapidamente dei vantaggi che questa porta.   Dunque una frazione crescente della ricchezza prodotta grazie alla rete deve essere reinvestita nella medesima.    Finché, teoricamente, l’intera ricchezza viene riassorbita dalla rete ed il sistema collassa secondo una tipica “curva di Seneca”, probabilmente prima di raggiungere i limiti imposti dall’esaurimento delle risorse che alimentano la rete.

Molto altro è stato detto dal prof  Tartaglia, ma questo mi pare già sufficiente per  trarre la conclusione che la sostenibilità non dipende solo da un prelievo delle risorse proporzionato al loro rinnovamento ed una produzione di rifiuti che non ecceda la capacità di assorbimento da parte degli ecosistemi.   Altrettanto dipende da un livello di complessità del sistema socio-economico che sia efficacemente gestibile con una quota modesta delle risorse complessivamente disponibili.

A questo punto, le mie opinioni divergono però da quelle del professor Tartaglia, che spero legga queste note e mi contesti.   Nella sua conferenza, egli concludeva infatti sostenendo che è ancora possibile realizzare una società sostenibile a condizione che si facciano urgentemente tre cose:

  • Ridistribuire la ricchezza anziché far crescere le disuguaglianze, inseguendo il mito di una ricchezza globale sempre crescente.
  • Passare dalla competizione alla cooperazione.
  • Cambiare società, cultura e morale in modo degno di un essere razionale, rispetto alla società degli scimpanzé tecnologici in cui viviamo ora.

Personalmente concordo pienamente con questi tre punti, ma non penso che siano realizzabili, neppure qualora ve ne fosse la volontà (che non c’è).   E neppure che sarebbero sufficienti, nell’improbabile caso che si realizzassero.

In primo luogo, se non risulterà molto sbagliato il rapporto “limiti della crescita” (e non sembra proprio che questo sia probabile), il collasso del sistema economico globale comincerà ad essere evidente fra 5 – 15 anni da ora.   Possiamo pensare che dei paesi e delle classi dirigenti in crescente affanno, sempre più concentrate sull’emergenza del momento, riescano a coordinare uno smantellamento programmato del sistema amministrativo ed economico?

In secondo luogo, sappiamo che l’aumento della complessità è solo uno dei tre insiemi di fattori che stanno stritolando la nostra civiltà.   Pensiamo davvero di poter trovare una scappatoia a tutte e tre contemporaneamente?   Soprattutto tenendo conto dell’aggrovigliata matassa di sinergie e retroazioni che lega tutti questi diversi fattori?

Per citare un solo esempio: l’inquinamento delle acque aggrava la penuria della medesima.   La risposta è pozzi più profondi, dissalatori ecc. che comportano maggiori consumi di energia.  Dunque sistemi più complessi che dissipano più energia, che richiedono filiere più lunghe e reti commerciali più interconnesse.   Queste aumentano l’inquinamento globale ed il depauperamento delle risorse. Fra l’altro, ciò aggrava l’effetto serra che, in molte aree del pianeta, si manifesta con temperature più altre e minori piogge, il che aggrava i problemi di inquinamento delle acque.   Per citare solo una piccola parte dei fattori coinvolti in questa sola retroazione.

In terzo luogo, i sistemi aumentano la propria complessità aumentando la quantità di energia che dissipano.   Così facendo, accumulano informazione al loro interno.   Maggiore è la dissipazione di energia, maggiore è la complessità del sistema che, così, riesce a dissipare più energia e così via.   Una retroazione che può svilupparsi solo finché c’è abbondanza di energia ed è possibile scaricare disordine fuori dal sistema (o dal sotto-sistema) in crescita.     Nell’economia globalizzata attuale, entrambe le cose stanno rapidamente diventando difficili.

La prima per il peggioramento quali/quantitativo delle risorse energetiche e per varie retroazioni nocive che hanno cominciato (o cominceranno a breve) a ridurre l’energia netta disponibile.   In termini assoluti ed ancor più pro-capite.
La seconda, perché ogni sotto-sistema, mentre scarica la propria entropia all’esterno, “si becca” l’incremento di entropia prodotto dagli altri.   Il caso del clima è forse il più evidente, ma non meno distruttiva per l’economia è la corsa all’esternalizzazione.   Cioè al fatto che ogni nodo della rete economica scarica sugli altri la maggior parte possibile dei suoi costi, assumendosi però quota parte di quelli di tutti gli altri.

Certamente potremmo ancora aumentare la quantità di energia che assorbiamo, ad esempio coltivando ogni metro di terra emersa e perfino di mare; oppure sfruttando i giacimenti di idrocarburi artici.  Ma con costi economici ed energetici molto rapidamente crescenti.   E’ quanto meno molto probabile che, globalmente, abbiamo da già superato il limite della “crescita antieconomica”.   Come accennato, forse l’energia netta disponibile ha già cominciato a diminuire ed, in ogni caso, lo farà tra breve.   Nel frattempo la popolazione cresce, il che significa che cresce la complessità.

Semplificare il proprio sotto-sistema per ridurne i consumi e gli impatti sarebbe una strategia attraente.   Ma, come fatto presente dal Tartaglia, sarebbe possibile esclusivamente in un quadro di cooperazione.   In un quadro di competizione, infatti, chi dissipa di più vince, necessariamente.   Finché riesce ad accaparrarsi risorse e scaricare rifiuti, naturalmente; poi muore.

Ma anche in un contesto utopico di cooperazione fra le potenze principali del pianeta, non dimentichiamoci che l’incremento della complessità e della dissipazione di energia è stata esattamente la strategia grazie alla quale oggi su questo pianeta vivono oltre 7 miliardi di persone.   Una struttura meno complessa e dissipativa potrebbe sostenere un numero molto minore di persone.

Non dimentichiamoci che ognuno di noi è uno di quei “punti” di cui abbiamo parlato all’inizio.

In parole povere, io la vedo in questi termini:   Allo stato attuale delle cose, ci sono moltissime cose che potremmo e dovremmo fare, per esempio quelle indicate da Tartaglia.   Ma nessuna che ci possa risparmiare un prezzo molto alto in termini di difficoltà, sofferenze e morti.   Ovviamente, in un meta-sistema della mole e della complessità dell’intero Pianeta, ci sono ampi margini di incertezza e sicuramente ci saranno soggetti che se la caveranno a buon mercato, o perfino meglio di come se la passino adesso.   Ma il trend generale peggiorerà necessariamente di anno in anno, per un lungo periodo.

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Una tavola periodica degli elementi in via di esaurimento

Dafastcoexist”. Traduzione di MR (via Jacopo Simonetta)

Questa è una lezione che l’industria della tecnologia deve capire bene.

di Jessica Leber

Potreste non rendervene conto, ma quasi ovunque intorno a voi ci sono metalli rari provenienti dalla terra. Nel vostro telefono, computer o in qualsiasi altro schermo LCD, per esempio, troverete un po’ di indio, un metallo morbido e malleabile che è disponibile in quantità ridotte sulla crosta terrestre. Il gallio, che può emettere luce da un impulso elettrico, viene usato in semiconduttori, LED, laser e nell’industria solare. Il renio, uno degli elementi più rari della crosta terrestre, serve comunemente nei motori dei jet. In altre parole, nelle nostre vite quotidiane dipendiamo da molti metalli che sono o poco comuni, o ambientalmente dannosi o che si trovano soltanto in luoghi come Cina, Bolivia o nella Repubblica Democratica del Congo dilaniata dalla guerra (non nazioni con le quali gli Stati Uniti si trovano in buoni rapporti). Qual è il rischio che un giorno non saremo in grado di dipendere da nessuno di questi elementi? E’ questa la domanda posta dai ricercatori dell’Università di Yale, che ora hanno catalogato quanto siamo in pericolo di mettere tutte le nostre uova nello stesso cestino.

La concentrazione degli elementi in un circuito stampato.

Guardando ciascuno dei 62 metalli che usiamo oggi, compresa la scarsità di ogni elemento, la concentrazione in ciascuna nazione e la difficoltà di trovare sostituti adatti, lo studio crea una tavola periodica del rischio (o, come lo chiamano i ricercatori, “criticità”). I metalli come zinco, rame ed alluminio – quelli più comunemente usati nelle industrie manifatturiere da molto prima della rivoluzione dei computer – pongono un piccolo rischio, pertanto hanno punteggi di “criticità” relativamente bassi. Tuttavia, a differenza dei metalli che erano comuni nelle ere passate, quelli usati nelle tecnologie più nuove ed emergenti, compresi smartphone, batterie, celle solari avanzate e varie applicazioni mediche, non sono altrettanto facili da ottenere in modo affidabile, mostra la valutazione. Alcuni degli elementi, come l’arsenico e il selenio, non possono essere estratti singolarmente; di solito sono un sottoprodotto di altri processi minerari.


Elementi con il maggiore rischio di disponibilità. (nota: questa figura è stata corretta durante la traduzione – l’articolo di Leber mostrava un dettaglio da una figura dall’articolo originale di Graedel, ma interpretato in modo sbagliato. Questa qui sopra è la figura completa.)

Lo studio, pubblicato fra gli Atti dell’Accademia Nazionale delle Scienze, ha scoperto che i limiti di disponibilità sono più importanti per i metalli usati nell’elettronica, come il gallio e il selenio. Per le implicazioni ambientali, i metalli come oro e mercurio hanno dimostrato i rischi maggiori. Restrizioni di disponibilità imposte potrebbero alterare la disponibilità di metalli come il cromo e il niobio, che contribuiscono alla formazione di importanti leghe di acciaio, tungsteno e molibdeno, che vengono usati per leghe ad alta temperatura. Il punto più importante per gli autori dello studio è quello di sottolineare la necessità di un programma di maggiore riciclaggio dell’elettronica così come di un cambiamento nel modo di pensare la progettazione. Più si rimettono in circolazione questi metalli, meno diventa la domanda di materiale fresco di miniera, osserva l’autore principale, l’ecologo industriale Thomas Graedel, che dice,  “Penso che questi risultati dovrebbero mandare un messaggio ai progettisti dei prodotti: passare più tempo a pensare a cosa succede dopo che i loro prodotti non vengono più usati.”

Link all’articolo originale di Graedel et al.  (N.B. link aggiunto dai traduttori, come al solito, questi giornalisti cialtroni non si preoccupano di aiutare il lettore a rintracciare la fonte originale del loro pezzo)

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Principio di produzione massima di entropia

Dalla pagina FB di Bodhi Paul Chefurka. Traduzione di MR

Come sanno molti di voi che hanno seguito ciò che ho scritto, sono un grande sostenitore della teoria secondo cui i sistemi complessi adattivi sotto un flusso di energia (come la civiltà umana o la vita stessa) si organizzano in modo tale in modo da massimizzare la creazione di entropia. In alcuni circoli scientifici è conosciuto come Principio di Produzione Massima di Entropia (MEP, dalle iniziali in inglese).

Quella teoria ha attirato la mia attenzione in modo molto forte un paio di anni fa. E’ supportata da un corpus di opere, comprese quelle di Dorion Sagan, Eric Schneider, James J. Kay, Stanley N. Salthe, L. M. Martyushev, Jeremy England, Eric Chaisson ed altri.

Sono stato fissato con questa teoria per un bel po’. L’ho usata per sostenere la mia intuizione secondo cui il comportamento umano rispetto all’uso di energia e alla crescita – specialmente la tendenza delle società umane a crescere oltre il proprio supporto vitale – sia deterministica.

Anche se la mia posizione si è addolcita un po’ di recente, sono ancora convinto che la termodinamica del non equilibrio (TNE) definisca i “limiti del possibile” del nostro comportamento. E’ probabilmente questa la ragione per cui le specie crescono sempre se è possibile e dipendono da circostanze esterne per definire i propri limiti – la TNE fornisce l’acceleratore, mentre le circostanze forniscono il freno.

Il motivo per cui la mia posizione si è addolcita è che ora accetto che i fattori dell’ambiente fisico e sociale giocano ruoli chiave in come si esprime quell’impulso fisico sottostante. Mi sono reso conto stamattina che un’analogia perfetta a questa situazione sono i principi biologici della genetica e dell’epigenetica.

Per gli esseri viventi, la genetica definisce l’involucro della possibilità, mentre l’epigenetica (vagamente, l’influenza dell’ambiente sull’espressione del gene) aiuta a determinare quale di quelle possibilità vengono manifestate e come si esprimono. Gli organismi non possono ancora operare al di fuori dei loro involucri genetici, ma il loro ambiente gioca un ruolo cruciale nel modo in cui si sviluppano all’interno di quell’involucro.

In questa analogia, la vita in tutta la sua miracolosa dissipatezza non può funzionare al di fuori della

Principio di Produzione Massima
di Entropia in Fisica, Chimica e Biologia
 

gamma di comportamenti stabiliti dalla TNE. Ma entro questi limiti, il nostro ambiente e storia permettono una gamma di espressione molto ampia. Tutti i tratti distintivi della vita, dal mangiare ed espellere allo scrivere sinfonie e creare sistemi politici ed economici complessi vengono indirizzati dalla TNE e la loro forma dalle influenze epigenetiche dei nostri dintorni.

h/t a Laurent Aillet per aver innescato questa linea di pensiero

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I limiti alla combustione: un calcolo di ordine di grandezza

DaResource Crisis”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi


Quantità totale di carbonio fossile sulla Terra, da Vanderbroucke e Largeau (1)

Negli ultimi anni, lo sviluppo del “gas di scisto” e del “petrolio di scisto” negli Stati Uniti ha generato un’ondata di ottimismo che si è ampiamente diffusa nella mediasfera. Era comune sentir parlare di “un secolo di abbondanza”, persino di “secoli”, forniti da queste nuove fonti. Tuttavia, col recente collasso del mercato del petrolio, queste affermazioni sembrano aver fatto la stessa fine di quelle degli avvistamenti del mostro di Loch Ness. Ma rimane un punto da fare: qual è esattamente il limite di ciò che possiamo bruciare? Potremmo davvero continuare a bruciare per secoli? O, forse, persino per millenni o ancora di più?

Vediamo se possiamo fare un calcolo, almeno in termini di ordine di grandezze. La prima domanda è quanti combustibili fossili abbiamo su questo pianeta. Viene riferito che il totale sia circa 1,5×10+16 t (tonnellate), Principalmente sotto forma di cherogene, un prodotto della decomposizione della materia organica che è un precursore della formazione di combustibili fossili (gas, petrolio e carbone) (2).

Sembra tanto carbonio, specialmente se confrontiamo questo numero con la quantità che stiamo consumando oggigiorno. I dati riportati dal CDIAC (Carbon Dioxide Information Analysis Center) dicono 9,2×10+9 t di carbonio trasformato in CO2 come risultato della combustione di combustibili fossili (gas + petrolio + carbone) nel 2013. Come stima di ordine di grandezza,a questo tasso, potremmo continuare a bruciare per più di un milione di anni prima di finire realmente il carbonio fossile.

Ma ovviamente, questo non è possibile. Semplicemente, non c’è abbastanza ossigeno nell’atmosfera per bruciare tutto il carbonio fossile esistente. La quantità totale di ossigeno libero è stimata essere circa 1,2×10+15 t or 3,7×10+19 mol O2 (una “mole” è un’unità usata in chimica per confrontare la quantità di reagenti nelle reazioni chimiche). Un mole di ossigeno molecolare reagirà esattamente con un mole di carbonio per formare biossido di carbonio e, visto che 1,5×10+16 t di carbonio corrispondono a 1,25×10+21 mol, ne consegue che non possiamo bruciare più di circa l1% del carbonio fossile esistente. Siamo scesi a 10.000 anni anziché milioni di anni.

Naturalmente, tuttavia, bruciare quel 1% di carbonio significherebbe esaurire l’ossigeno dell’atmosfera e questo sarebbe leggermente negativo per noi, a prescindere da quanto ci servano i combustibili fossili. In pratica, non possiamo esaurire più di una piccola percentuale dell’ossigeno atmosferico, altrimenti l’effetto sulla salute umana e sull’intera ecosfera sarebbe probabilmente disastroso. Diciamo che potremmo essere disposti a scommettere che una perdita del 5% è ancora entro limit ragionevoli, anche se nessuno può esserne sicuro. Significa che abbiamo solo 500 anni circa per continuare a bruciare prima di cominciare a percepire sintomi di soffocamento. Ma la storia non finisce qui.

Finora, abbiamo ragionato in termini di quantità totale di combustibili fossili, come se fossero tutti bruciabili, ma è così? Il kerogene, la componente principale di questo carbonio, può essere combinato con l’ossigeno producendo una certa quantità di calore (3) ma difficilmente può essere considerato un combustibile, perché sarebbe molto costoso da estrarre e il rendimento di energia netta sarebbe modesto o persino negativo. Nel 1997 Rogner (4) ha portato a termine una ricerca estesa delle risorse di carbonio potenzialmente utilizzabili come combustibili. A pagina 149 di questo link possiamo trovare una stima aggregata di 9,8×10+11 t di carbonio come “riserve” e fino a 5,5×10+12 t di “risorse”, le seconde definite come non economicamente estraibili con i prezzi attuali. “Ulteriori risorse” vengono riportate ad una quantità possibile di 1,5×10+13 t di carbonio, ma è una stima piuttosto azzardata. Se ci limitiamo alle riserve provate vediamo che all’attuale tasso di circa 1×10+10 t/anno ci resterebbe ancora circa un secolo.

Non abbiamo ancora finito. Ora dobbiamo considerare quanto carbonio possiamo combinare con l’ossigeno prima che l’aumento dell’effetto serra causato dal risultante biossido di carbonio generi cambiamenti irreversibili nel clima terrestre. Il “punto di non ritorno” della catastrofe climatica viene spesso stimato come quello corrispondente ad un amento di temperatura di 2°C e, per non superarla, non dovremmo rilasciare più di circa 10+12 t di CO2 in atmosfera. Ciò corrisponde a 3,7×10+11 t di carbonio (5). E’ circa un terzo della stima globale di Rogner delle riserve. Quindi, a questo punto, non abbiamo più un secolo, ma solo 2 o 3 decenni circa (e osservate che la stima di quello che possiamo bruciare evitando la catastrofe potrebbe essere ottimistica. Vedete anche qui per una stima più dettagliata che tiene conto dei diversi tipi di combustibile).

Vedete quanto possa essere fuorviante elencare le risorse di carbonio come se fossero soldati allineati per la battaglia. Non tutto ciò che esiste all’interno della crosta terrestre può essere estratto e bruciato e non possiamo permetterci di estrarre e bruciare tutto ciò che potrebbe essere estratto senza distruggere l’atmosfera. Tenendo conto dei vari fattori coinvolti, siamo scesi da più di un milione di anni a pochi decenni di disponibilità.

Ma, naturalmente, calcolando il numero di anni rimanenti a tassi di produzione costante è a sua volta fuorviante. In pratica, i tassi di produzione del combustibile non sono mai stati costanti nella storia, la produzione tende piuttosto a seguire una curva “a campana” che raggiunge un picco e poi declina. Oggi potremmo essere vicini al picco (vedete ad esempio qui). Il declino imminente ci salverà dal cambiamento climatico catastrofico? Al momento, non possiamo dirlo, sono troppe le incertezze coinvolte in queste stime. Ciò che possiamo dire è che non siamo di fronte a secoli di abbondanza, ma a un declino che potrebbe anche essere molto rapido, considerando la possibilità di un “collasso di Seneca”.

In breve, l’era dei combustibili fossili sta finendo. E’ il momento di prenderne nota e passare ad altro.

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(1) M. Vandenbroucke, C. Largeau, Cherogene: origine, evoluzione e struttura, Organic Geochemistry, Volume 38, Numero 5, maggio 2007, Pagine 719-833, ISSN 0146-6380, http://dx.doi.org/10.1016/j.orggeochem.2007.01.001.

(2) Falkowski, P., R.J. Scholes, E. Boyle, J. Canadell, D. Canfield, J. Elser, N. Gruber, et al. 2000. “Il ciclo globale del carbonio: un test sulla nostra conoscenza della Terra come sistema”.  Science 290 (5490) (13 ottobre): 291–296. doi:10.1126/science.290.5490.291. http://www.sciencemag.org/content/290/5490/291.abstract.

(3) Muehlbauer, Michael J. e Alan K. Burnham. 1984. “Calore della combustione del petrolio di scisto di Green River”. Industrial & Engineering Chemistry Process Design and Development 23 (2) (aprile): 234–236. doi:10.1021/i200025a007. http://dx.doi.org/10.1021/i200025a007.

(4) Rogner, H-H. 1997. “Valutazione delle risorse di idrocarburi mondiali”.
Annual Review of Energy and the Environment 22 (1) (28 novembre): 217–262. doi:10.1146/annurev.energy.22.1.217. http://www.annualreviews.org/doi/abs/10.1146/annurev.energy.22.1.217?journalCode=energy.2.

(5) IPCC. Cambiamento climatico 2013: la base fisica scientifica.  (Cambridge University Press, 2014).

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Declino energetico e cambiamento di modello culturale

DaThe Oil Crash”. Traduzione di MR

di Antonio Turiel

Cari lettori,

una delle questioni che sono state trattate in modo frammentario in questi cinque anni di post è la necessità di un cambiamento culturale profondo per fare in modo che la nostra società possa far fronte alla decrescita energetica. La maggior parte delle discussioni che ho sviluppato nel blog hanno avuto a che fare con diversi aspetti del cambio di modello economico e finanziario. Qualche giorno fa abbiamo discusso su queste stesse pagine alcuni aspetti chiave dei cambiamenti necessari nel nostro modello di assegnazione delle risorse, che alla fine è una discussione sulla struttura di fondo che deve avere un modello economico che possa funzionare quando l’energia sia meno abbondante.

Gli aspetti che ho analizzato in quel post, e ancora di più le ricette che ho proposto per ottenere strutture che possano resistere ad un processo tanto acuto come la decrescita energetica, non erano meramente economiche: alla fine dei conti, un sistema feudale in cui la maggioranza vive sulla soglia della sussistenza potrebbe ottenere facilmente gli obbiettivi di sostenibilità e resilienza per garantire la sua continuità nel tempo. Tuttavia, nella mente di tutti c’è l’interesse di preservare alcuni aspetti che abitualmente sono considerati desiderabili del modello sociale attuale (le pari opportunità, l’uguaglianza di fronte alla legge, la democrazia, l’educazione e la sanità universali, …), ben oltre il tutt’altro che ideale – a volte persino grottesco – livello in cui si trovano oggigiorno queste conquiste sociali.

Molta gente che conosce la problematica della crisi energetica da per scontato che queste strutture di carattere ugualitario siano esclusivamente frutto dell’abbondanza energetica e che senza di essa non potranno essere mantenute. Tuttavia, la grande diversità di sistemi di organizzazione sociale che si possono trovare nella Storia dell’Umanità, soprattutto se ci si allontana dalla visione prevenuta che è la norma nel mondo occidentale, indica che non è del tutto evidente che i nostri unici punti di arrivo della nostra società siano l’autoritarismo o l’estinzione.

Discutere di questi aspetti in profondità e adeguatamente richiederebbe un approccio da parte di Antropologia, Storia e Sociologia che prendessero in considerazione allo stesso tempo le crude realtà della Fisica, della Geologia e dell’Ecologia. Poche persone hanno questa capacità di sintesi. In generale sono i filosofi, come Jorge Riechmann, quelli che fanno questo sforzo di comprensione – nel senso di includere – tutto questo problema poliedrico. Ma non mi risulta che gente proveniente dalle ultime tre discipline che elencavo sopra facciano lo sforzo di avvicinarsi alle prime tre (forse fra i pochi che potrebbero farlo c’è il mio collega Antonio García-Olivares). Naturalmente io non ho le conoscenze, né il bagaglio culturale, né la capacità necessari ad affrontare con qualche garanzia questa discussione. Ma non per questo il dibattito dev’essere ignorato e capisco che nel contesto di questo blog, che pretende essere soltanto uno strumento divulgativo, sicuramente questa discussione non può essere ulteriormente posticipata.

Pertanto, enuncerò alcuni aspetti di questi valori culturali, oggi accettati comunemente in questa parte del mondo che siamo soliti chiamare occidentale, che a mio modesto modo di vedere dovranno essere rivisti in un contesto di decrescita energetica. Non potrò, per non conoscerle, proporre grandi ricette per questo cambiamento, solo qualche idea che mi sembra più o meno sensata. L’obbiettivo di questo post, pertanto, non è quello di dare una visione chiusa della questione, ma in primo luogo di mostrare un punto di vista abbastanza diverso da quello della sopravvivenza e del nichilismo in cui alcune persone, consapevoli dei gravi cambiamenti che si avvicinano, potrebbero cadere per puro sconforto e rassegnazione. E in secondo luogo aprire la discussione.

– Individualismo: Uno dei valori più fondamentali per il corretto funzionamento della nostra società attuale è l’individualismo. L’individualismo consiste nel fatto che ogni individuo cerca di ottenere i propri obbiettivi per sé stesso senza affidarsi agli altri, sì, ma è molto più di questo: è l’obbligo di ottenere quello che ci si propone, senza l’aiuto di nessuno. L’individualismo è fondamentale per il sistema economico perché l’individuo è più propenso a comprare beni per conseguire i propri fini, visto che cooperare con altri individui potrebbe richiedere di prendere in prestito ciò di cui ha bisogno o farlo congiuntamente, evitando la spesa e quindi il guadagno della fabbrica che produce ciò che gli serve. Nella cultura popolare, soprattutto attraverso la televisione e il cinema, si esaltano le qualità del capo che individualmente è capace di ottenere tutto ciò che si propone, per il suo impegno e la sua tenacia (con conseguenze non sempre positive, come abbiamo già commentato). Il lato oscuro dell’individualismo è la competizione con tutti gli altri. La cosa importante quanto il fatto che le persone contino solo sulle proprie forze (o su quelle che possono comprare) per coprire le proprie necessità, è di non ricorrere agli altri e il modo migliore di tagliare la strada della cooperazione è la competizione.

Esaltare la competizione nella cultura popolare è più difficile, poiché competere coi nostri simili, per esempio, per una pagnotta di pane ha, logicamente, un pessimo ascendente (poiché l’essere umano è, contrariamente a quanto a volte si dice, un animale eminentemente sociale). Il veicolo giusto per l’esaltazione della competitività è lo sport. Si parla di “sono spirito competitivo” e si da un’importanza smisurata allo sport (nel mio paese al calcio – così come nel mio, ndt) come veicolo culturale centrale. Una volta insegnato che avere un contesto nel quale competere è una cosa giusta, risulta più facile estendere questo argomento di competitività ad altri contesti nei quali non risulterebbe tanto ovvio. Per esempio, nelle imprese: oggigiorno danno tutti danno per scontato che le imprese “debbano essere competitive”, il che in fondo significa che competano per una nicchia nel mercato a spese di altre imprese alle quali andrà peggio e che alla fine chiuderanno. Questo è normale, ci dicono gli economisti, visto che la competitività permette di migliorare l’offerta ai consumatori e in questo modo questi usufruiscono di prodotti migliori, prodotti che, in realtà, servono ad esasperare il loro individualismo, comprando ciò che in realtà non servirebbe se chiedessero aiuto. E qui sopraggiunge un’altra delle caratteristiche culturalmente indesiderabili dell’individualismo, ma che è a sua volta necessaria, e tanto, perché il nostro sistema economico vada liscio come l’olio: l’isolamento.

Un individuo isolato si sente vuoto, incompleto, si rende conto che manca qualcosa. Non c’è niente di peggio e di più doloroso della solitudine per un animale sociale come l’uomo. Per questo l’individuo isolato, scollegato da tutto ciò che in realtà ha senso per lei/lui, anche se lei/lui non lo sa, cerca di supplire a queste carenze comprando cose coi cui riempirle. L’esasperazione di vita che genera la solitudine porta ad avere individui che consumano in modo compulsivo. Persino in molte relazioni di coppia è facile osservare che si comportano molto più spesso come singoli individui che come coppia (per esempio, se le loro attività preferite escludono l’altra/o, come darsi al calcio o andare a comprare scarpe, mentre aumentano i consumi). Per aumentare la solitudine e il consumo compulsivo, è importante incentivare la sfiducia negli altri, compresa la paura dell’altro, che porti a chiudersi, con la propria casa sempre più piena di cose è più vuota di vita. La ricetta giusta per combattere l’individualismo è cooperare con gli altri e prima ancora di fidarsi degli altri. Considerando da dove veniamo, questo non è facile, poiché nessuno si fida degli altri, addirittura ne abbiamo paura. Pensiamo che se apriamo le porte della nostra casa ad un estraneo, questo ci deruberà. Non si tratta di essere ingenui e fiduciosi, ma di credere che le cose andranno meglio se lavoriamo tutti insieme e se comprendiamo che tutti siamo utili per conseguire una transizione praticabile. Cercare colpevoli e vittime, anche se ci sono, non migliora la nostra situazione. Per costruire una relazione di fiducia, il primo passo è dare di più di ciò che ha dato l’altra/o per dimostrare la nostra buona volontà. Forse cominciare sorridendo è un passo nella giusta direzione e anche di abbassare il nostro livello di reattività e insistere un po’ fino a vedere se l’altra/o vuole a sua volta collaborare oppure no.

– Rottura del contratto intergenerazionale: I valori tradizionali che hanno sostenuto tutte le società umane di cui siamo a conoscenza si sono basati su un principio molto semplice: i padri dettavano sempre ciò che era meglio per i propri figli. In un certo senso, la vita dei padri è soggetta al benessere futuro dei suoi figli e i padri accettavano in modo naturale qualsiasi sacrificio e privazione se con questo i loro figlio avrebbero potuto stare in una posizione migliore.

Logicamente, questi padri educavano i propri figli agli stessi principi, per cui si sperava che nel momento in cui arrivavano alla loro età da matrimonio, i figli, ora padri, si comportassero nello stesso modo. Questo valore culturale, praticamente costante in tutte le società umane, ha un valore ecologico molto importante e in fondo imprime ad ogni generazione dominante una norma di autolimitazione. E’ sempre stato visto di cattivo occhio, per esempio, che un padre incosciente dilapidasse il patrimonio famigliare, o che sfruttasse i terreni che erano stati della famiglia per generazioni in modo tale che rimanessero poveri e incolti. Ad ogni generazione venivano assegnate le risorse se questa fosse semplicemente il prestanome di quella successiva, in questo modo si evitava un ritmo di consumo eccessivo che portasse all’insostenibilità: ricordiamo che la definizione più semplice e comune di sostenibilità è “gestire le risorse e produrre residui oggi in modo che i nostri figli possano fare la stessa cosa domani”. Questo modo di intendere la gestione delle risorse, questa fiducia che passa di padre in figlio, è un contratto intergenerazionale implicito molto forte o più di un contratto legale mercantile. Tuttavia, con l’irruzione del capitalismo finanziario questo contratto è saltato in aria. Visto che una delle caratteristiche del capitalismo è la necessità della crescita esponenziale, è importante rimuovere tutti gli ostacoli al consumo che evitino che si cresca al tasso esponenziale desiderato, finché è possibile, e il contratto intergenerazionale è un freno molto forte. Pertanto, è fondamentale che ogni generazione pensi a breve termine e solo a soddisfare i propri desideri ed è importante che non si senta in colpa per questo. Come sublimazione dell’individualismo spiegato nel punto precedente, il padri competono coi propri figli e sperano che la loro discendenza sia in grado di risolvere i loro problemi da soli, anche se questi hanno dimensioni ciclopiche proprio per mancanza di freno avuta dai padri. Espressioni come “tanto io questo non lo vedrò” e persino “bah’, saranno i miei figli o i miei nipoti che se ne dovranno occupare”, abituali quando si comincia a discutere di questioni ambientali o collegate alla scarsità di risorse, mostrano un atteggiamento che dal punto di vista della mentalità di solo un secolo fa sarebbe socialmente riprovevole. La ricetta giusta per combattere la rottura del contratto intergenerazionale è recuperare l’idea che il bene dei figli è la cosa più importante, che noi siamo solo di passaggio nel gestire ciò di cui godranno coloro che ci seguiranno, e recuperare il sentimento di autolimitazione che deve scaturire naturalmente quando vediamo che ciò che siamo spinti a fare contraddice gli interessi dei nostri discendenti. E’ una lotta ardua, poiché contraddice in maniera diretta molti dei messaggi pubblicitari, orientati al consumo qui ed ora.

– Perdita della percezione di un bene comune e trascendente. Molte società precedenti alla nostra sentivano di avere un fine specifico, collettivo e personale, anche se molto diverso di cultura in cultura. Poteva essere la custodia di una reliquia venerata da molte società prossime (La Mecca) o la responsabilità di dovere avere cura dal corso di un fiume (Alto Nilo) o di fare da muro di contenzione contro un nemico esterno umano (Polonia) o naturale (Paesi Bassi). A volte questo obbiettivo trascendente era piuttosto assurdo, tuttavia otteneva sempre che i membri di quella società tenessero ben presente l’obbiettivo comune e che fossero disposti a collaborare nei momenti di crisi, durante i quali l’oggetto della sua aspirazione collettiva fosse particolarmente in pericolo. A volte questo bene comune era semplicemente una scusa per mantenere unita la comunità in un obbiettivo comune, a volte la sua finalità era molto più profonda. In ogni caso, fissando un obbiettivo comune gli individui imparavano a collaborare e a cedere una parte del proprio tempo di lavoro a favore della comunità (per esempio, nello sfruttamento di terreni comuni o nella costruzione e manutenzione delle muraglie). L’esistenza di un bene comune serviva anche per razionalizzare l’altruismo, per questo non è raro trovare molti esempi nei quali si stabilisce il come, il quando e il cosa dare agli altri. Molte società hanno funzionato in questo modo per secoli, con un’evoluzione a volte curiosa degli obbiettivi considerati comuni, a volte con cambiamenti radicali. Il vantaggio di avere un bene comune identificabile è che le società pianificano il loro futuro, imponendo norme severe sulla gestione dei loro prodotti, a volte in modo molto efficiente. E l’esistenza di questo bene comune e trascendente fa sì che tutti i loro membri accettino le assegnazioni che vengono fatte. Ma col trionfo dell’individualismo, ogni senso di bene comune si perde: la società non è più una rete di mutue cooperazioni ma un insieme di individui che cercano di massimizzare la soddisfazione delle proprie necessità, anche se fosse a discapito degli altri. Qualsiasi concetto di organizzazione comune scompare, ed è importante che scompaia, perché l’homo individualis consumi sempre di più in modo che la produzione possa continuare ad aumentare esponenzialmente. Lo Stato deve intervenire il meno possibile e solo in aiuto ad una migliore espansione imprenditoriale (alla fine dei conti, come già argomentato, lo Stato è più una sublimazione dell’ideale di controllo capitalistico che uno strumento di amministrazione egualitario). La ricetta giusta per combattere la perdita del senso di bene comune è fissare alcuni obbiettivi che abbiano senso da un punto di vista razionale e moderno, al di là di motivazioni astratte o di carattere religioso. Questi obbiettivi possono essere di sostenibilità, nel senso profondo e non prostituito della parola, o quello di costruire una società resiliente in grado di adattarsi alle sfide del XX secolo o qualsiasi altro obbiettivo abbia senso per la comunità dove viene adottato. Un aspetto chiave è che questo obbiettivo comune non si aggressivo o irrispettoso dei diritti di altre comunità. Disgraziatamente, gli ideali di bene comune e trascendente che prosperano maggiormente oggigiorno hanno più a che vedere con la guerra, santa o no, che col rispetto e l’aiuto degli altri.

– Alienazione della propria responsabilità nella gestione pubblica. Il rischio fa parte della vita, c’è sempre un certo margine di incertezza sui risultati delle nostre azioni e a volte si verificano degli esiti fatali. In generale c’è la percezione che nella nostra società attuale ci sia una maggiore consapevolezza dei rischi, soprattutto per la vita, di quella che c’era per esempio un secolo fa: le misure di sicurezza sul lavoro sono incomparabilmente maggiori e molto più dettagliate, si prevedono necessità nel caso di eventi speciali e molteplici, si pianificano misure per evitare situazioni avverse, ecc. Tuttavia, nella misura in cui è aumentato il dispiegamento tecnologico, si è andata riducendo la percezione personale del rischio, fino praticamente a cancellare la responsabilità personale nella gestione del rischio personale o altrui. Oltre alla tecnologia, con la centralizzazione delle decisioni negli Stati, allontanando il centro decisionale dal luogo in cui si applicano quelle decisioni, i cittadini perdono la consapevolezza del fatto di avere qualcosa da dire sulla gestione delle cose che li toccano da vicino, fino al punto estremo di pensare che non si può fare niente per cambiare le cose. Non saliremmo mai in un autobus in cui il conduttore fosse del tutto ubriaco o mostrasse altri segni di non essere in condizioni di guidare in sicurezza, tuttavia continuiamo a delegare le decisioni fondamentali sulla nostra quotidianità a persone che non conosciamo, che vivono a centinaia di chilometri di distanza da noi e che prendono ripetutamente decisioni dannose per i nostri interessi e a favore dei grandi interessi economici. Per decenni si è accettato passivamente questo stato di cose (qualche anno fa in Spagna era diffusa una frase idiota, nel senso greco del termine: “Non me ne intendo di politica), il che semplicemente ha ingrandito i problemi coi quali ci confrontiamo ora. Anche in questo momento in cui monta una marea critica, in Spagna e in altri paesi, nei confronti del modo di procedere dei nostri responsabili politici che sembra corrotto, le alternative che si configurano aspirano alla stessa struttura di potere centrale, il centro decisionale e gestionale lontano, prevedibilmente con gli stessi problemi e risultati di quelli che ci sono ora. Le conseguenze disastrose di questo sistema di gestione così impersonale, così alienato, non si limitano alla disattenzione verso le questioni sociali, ma finiscono per mettere in pericolo la nostra stessa sopravvivenza: non può essere che consideriamo le attuali esternalità ambientali associate alla “normale attività economica” come giuste se questo porta a mettere a grave rischio la nostra stessa continuità sul pianeta (se volete vedere qualche esempio di quello che dico, leggete il post relativo). La ricetta giusta per combattere l’alienazione della propria responsabilità nella gestione pubblica è la rilocalizzazione, cosa non solo necessaria a livello di produzione ed assegnazione delle risorse, ma anche nel prendere le decisioni: i centri decisionali devono essere vicini al cittadino e questi deve impegnarsi personalmente nelle questioni che lo riguardano.

Scelta dell’obbiettivo sbagliato nella vita. Qual è l’oggetto della nostra esistenza? Dato che resteremo per un breve lasso di tempo su questo pianeta, è importante sapere prima possibile ciò che possiamo aspettarci e quale sia l’uso migliore che possiamo fare di questo tempo stimato che abbiamo. Questa è una della grandi domande dell’Umanità dalla notte dei tempi ed ogni civiltà e società ha tentato di darle una risposta diversa, senza che si possa dire in senso stretto e nella maggior parte dei casi che gli obbiettivi che si sono posti alcune società siano chiaramente superiori a quelli di altre. La chiave è che le persone si sentano felici, realizzate nel proprio progetto di vita, per assurdo o ridicolo che questo ci possa apparire. Nella società attuale la gente è felice? E’ piuttosto discutibile. L’individualismo alienante porta ad avere un’insoddisfazione di vita che l’individuo colpito non sa da dove venga. Pensiamo, inoltre, che per ottenere la massima produttività degli individui, è stato introdotto, anche attraverso elementi culturali, una strana misura della realizzazione personale: avere successo nel lavoro. Avere successo nel lavoro significa lavorare di più, salire di grado nell’azienda, ricevere pacche sulle spalle dai capi, guadagnare più soldi e avere sempre meno ore libere. Insomma, trasformarsi sempre di più in automi (precisamente in bautomata) la cui unica funzione nella vita è produrre e consumare. E’ questo che oggigiorno viene considerato come avere successo in modo socialmente accettabile. E’ realmente ciò che vogliamo per noi stessi? E’ davvero quello che vogliamo per i nostri figli? La ricetta giusta per scegliere correttamente l’obbiettivo delle nostre vite non esiste, o perlomeno non è unica: ogni persona dovrebbe cercare la propria. La chiave è guardare dentro noi stessi e cercare di scoprire ciò che ci rende intimamente felici, quello che ci piace fare e con cosa ci piace occupare il nostro tempo. Girare completamente l’obbiettivo delle nostre vite e invece di accettare un obbiettivo unico ed uniforme per ognuno di noi, che è quello di vivere per lavorare (quelli che hanno la fortuna di avere lavoro, un bene sempre più scarso), dobbiamo invece lavorare per vivere e il tempo durante il quale non lavoriamo semplicemente vivere, facendo quello che ad ognuno di noi piace fare e che è diverso per ognuno di noi.

– L’obbiettivo delle nostre imprese. All’interno dello stesso ideale di produttività che cresce all’infinito e oltre, le nostre imprese si comportano, su una scala maggiore, come ci comportiamo noi: sono entità dirette a produrre sempre di più e a guadagnare più soldi. Ma siccome sono entità incorporee e senza mente, si comportano in un modo più automatico e più crudele. Si potrebbe dire che, se fossero esseri umani, le grandi imprese avrebbero tratti psicopatici: per conseguire i propri fini sono capaci di ingannare, corromper, estorce e persino torturare ed uccidere. Questo comportamento moralmente riprovevole è del tutto logico, alla fine dei conti, visto che un’impresa non ha i condizionamenti morali dell’essere umano: un’impresa non è un essere morale, non ha la concezione del bene e del male, solo del profitto, che è il suo fine ultimo. E’ questo ciò che vogliamo veramente? Un’impresa si deve astrarre dalla società nella quale è inscritta, essere insensibile agli effetti negativi che può causare e causa alla propria società? La ricetta giusta per scegliere correttamente l’obbiettivo delle nostre vite consiste nel delimitare chiaramente la responsabilità sociale delle imprese, cosa che si ottiene non solo con le leggi adeguate (probabilmente le leggi attuali sono già sufficienti nella maggior parte dei paesi occidentali), ma con cambiamenti più profondi. Uno, educando alle direttive: si deve fare pedagogia coi quadri direttivi delle imprese di modo che rifiutino di intraprendere misure che alla lunga danneggeranno la società di cui fanno parte e di mettere in pericolo il proprio mercato. E due, educando gli azionisti: non può essere il fine ultimo delle imprese quello di generare profitto senza sosta, sempre in crescita, cosa che prima o poi si deve rivelare impossibile in un pianeta finito e molto prima si deve rivelare dannosa per la società che non solo da loro sostentamento, ma dà senso alla loro esistenza. Investire finanziariamente in una impresa non dev’essere un mezzo per il proprio arricchimento e potrebbe anche essere che in un determinato momento potrebbe non produrre un guadagno economico, ma anche così potrebbe essere interessante se produce un beneficio sociale. Queste idee sono talmente rivoluzionarie (anche se per nulla moderne) che mi sembrano completamente impossibili da mettere in pratica, in buona misura perché si scontrano direttamente contro le basi del capitalismo, come vediamo quando analizziamo i cambiamenti del modello di assegnazione delle risorse durante la decrescita energetica.

– La nostra relazione con la Natura. Non molto tempo per gli uomini era chiaro il fatto che dipendevano dalla Natura per vivere. Anche coloro che non lavoravano la terra con le proprie mani sapevano perfettamente non solo da dove provenivano gli alimenti, ma capivano molti aspetti del delicato equilibrio che permette che la terra, l’allevamento e la pesca siano produttivi. E senza dubbio lo capivano molto meglio di molte persone al giorno d’oggi, nonostante gli anni di scolarizzazione obbligatoria, perché nessuno arrivava agli estremi di alienazione dalla Natura che si possono raggiungere in alcune città moderne. L’uomo moderno dell’urbe moderna non ha freddo, né caldo, né fame; non gli fa male la schiena per doversi chinare a raccogliere patate, né gli fanno male le braccia per manovrare una zappa; non teme per il prossimo raccolto e se vuole mangia uva in primavera ed arance in estate, anche se preferisce degustare altre delizie portate da luoghi lontani migliaia di chilometri. Non ha paura di prendersi la febbre né di morire di diarrea, quando si sente male prende la giusta pasticca e va dal medico perché gli risolva il problema che eventualmente gli si presenta, come quello che va dal meccanico a riparare la macchina. E se i problemi ambientali cominciano ad accumularsi, fino all’estremo di minacciare il suo modo di vivere, l’uomo moderno dell’urbe moderna confida che la tecnologia lo salverà, che investendo abbastanza risorgerà, perché deve essere così, invenzioni adeguate che senza effetti secondari gli forniranno ciò che desidera e lo libereranno di ciò che lo infastidisce. Tutti questi atteggiamenti sono quelli che due secoli di energia abbondante hanno forgiato nel nostro inconscio collettivo: alle spalle di una grandiosa quantità di energia ci crediamo dei giganti, ubriachi ed euforici per la straordinaria montagna di combustibili fossili su cui ci appoggiavamo. Ma man mano che il gigante dai piedi d’argilla che ci ha conquistato si scioglie, la sua forza vinta dalla Geologia e dalla termodinamica, all’improvviso ci scontriamo coi nostri limiti e non li vogliamo accettare, viziati come siamo. Uno di questi limiti è che, alla fine, anche se non lo capiamo e non lo accettiamo, noi esseri umani siamo animali come qualsiasi altro. E come tutti gli animali dipendiamo da un habitat per la nostra sussistenza, solo che nel nostro caso si tratta di un habitat molto deteriorato che mantiene un’alta funzionalità grazie all’enorme e continua iniezione di energia fossile che ora comincia a declinare. Come produrremo alimenti in modo massiccio senza trattori, mietitrici, pesticidi e fertilizzanti? Non solo: l’inquinamento dell’acqua, dell’aria, del suolo, del mare… ci disturba e deteriora la nostra salute. E per ultimo il cambiamento climatico, una pericolosa spada di Damocle che è sempre più prossima a cadere. Le persone più consapevoli del problema sono scese in strada per rivendicare che dobbiamo prendere misure positive per “salvare il pianeta”, ma anche in queste persone si vede la nostra cecità riguardo a ciò che è la Natura: se ci estinguiamo come esseri umani, il pianeta continuerà ad esistere e continuerà anche ad esserci vita, che si adatterà alle nuove condizioni: tutte queste campagne benintenzionate si sbagliano su una questione fondamentale: non dobbiamo salvare il pianeta, che non è in pericolo. Ciò che è a rischio è il nostro habitat, il sostegno della nostra vita – è l’essere umano che non potrebbe sopravvivere se la temperatura media del pianeta sale di 6°C, il mare sale di 50 metri e i fenomeni estremi si acutizzano e si moltiplicano. Un vecchio amico, alludendo a queste questioni, diceva che un giorno gli piacerebbe sintetizzare tutte queste idee in un libro che intitolerebbe “Ambientalisti per i coglioni”; lo sfogo del titolo servirebbe fondamentalmente per chiarire che l’unica opzione che ci permette di mantenere la vita umana è adottare un atteggiamento ecologista radicale. La ricetta per recuperare una relazione sana con la Natura passa, in larga misura, per l’avvicinamento ad essa, con tranquillità e con umiltà, senza paura né arroganza. Non è una questione mistica, ma molto più prosaica: coltivare un orto, cercare funghi e asparagi selvatici in un bosco, raccogliere erbe medicinali, riconoscere i segni del cambiamento del tempo. Cose che in in determinato momento possono inoltre esserci di grande utilità. E naturalmente non maltrattarla, non alterarla al di là di quanto strettamente necessario.

– Il mito del progresso. Dall’Illustrazione, il programma del progresso è stati impiantato ed è stato spinto con decisione con la Rivoluzione Industriale. Oggigiorno, l’idea che l’unica cosa desiderabile sia il progresso e che di fatto il progresso dell’Umanità sia inevitabile, inteso come un accumulo senza fine di conoscenze e capacità tecniche che migliorano sempre la qualità di vita degli esseri umani. Tuttavia, l’osservazione dettagliata delle realtà proietta alcune ombre su questa visione così ottimista. L’umanità cammina davvero verso un paradiso terrestre? Davvero ci sono sempre più esseri umani che vivono meglio o negli ultimi anni si è constatata una contraccolpo crescente nell’opulento occidente che fino a poco tempo fa sognava questa nuova Icaria? Sono sempre convenienti i cambiamenti considerati “progressisti” oppure ci allontanano sempre di più dal vivere in un mondo migliore? Non tutti i cambiamenti implicano un miglioramento di per sé e l’idea di progresso si è prostituita a favore del progresso dell’accumulo del capitale, in una dinamica semplicemente autodistruttiva, ma il meme del progresso è culturalmente così forte che opporvisi è semplicemente un suicidio culturale. Neanche i partiti di sinistra osano dire che non sono a favore del progresso. Questo condiziona moltissimo il tipo di soluzioni che si possono immaginare per i gravi problemi energetici che ci vengono addosso, così la gente più o meno intelligente e ben collocata nelle sfere decisionali crede ciecamente che ci troviamo agli albori di una rivoluzione rinnovabile che seguirà dei percorsi piuttosto convenzionali: è solo questione di mettere più pannelli solari, più aerogeneratori, più smart grid, ecc, quando in realtà, se tale rivoluzione è possibile, non è un semplice accumulo aleatorio di sistemi ma qualcosa di molto più pianificato che implicherebbe un grande sforzo e cooperazione per poi cadere in un’economia stazionaria che implicherebbe in un modo o nell’altro il superamento del capitalismo. Il mito del progresso è così forte che nessuno osa contraddirlo e la fede cieca in esso può essere enormemente distruttiva. La ricetta giusta per superare il mito del progresso è adottare una visione molto più umile delle cose, accettando che qualsiasi soluzione proposta implica anche una serie di problemi che le sono propri e che a volte per avanzare bisogna retrocedere, specialmente in quelle cose in cui siamo andati troppo lontano. E anche che le cose non andranno necessariamente meglio da sole, ma che senza la dovuta attenzione potrebbero andare peggio, di fatto molto peggio.

Ipermercificazione. Uno dei valori che si sono radicati nella società durante questi due secoli è che i soldi possono comprare tutto e che di fatto qualsiasi bene ha un prezzo. Inoltre, che se qualcuno vuole comprare qualcosa è giusto che qualcuno lo possa vendere. I soldi sono la misura di tutto, non solo delle relazioni umane ma che può quantificare tutto. Alla fine, tutto è in qualche modo “capitale” e quindi si parla di “capitale umano” per riferirsi ai lavoratori, di “capitale naturale” per descrivere le risorse e e di quello che gli economisti classici chiamavano “fattore terra”, Mercificare tutto ha il vantaggio che non c’è problema che non si possa risolvere portandolo nel mercato, dove avrà un compratore e un venditore. Tutte queste idee sono profondamente fasulle, come abbiamo già detto parlando della religione neoliberale, ma sono profondamente radicate, soprattutto fra la maggior parte degli economisti, che è impossibile metterle in discussione. La ricetta giusta per smetterla con l’ipermercificazione è negare che determinati beni di interesse generale, oltre a quelli collegati all’intimità delle persone, vengano mercificati, il che significa che non gli si può dare un prezzo e che pertanto si dovranno regolamentare in altro modo. Questo a molti economisti suonerà aberrante ed osceno, ma dio fatto è il modo in cui si è condotta l’Umanità per 10.000 anni di Storia e non gli è andata nemmeno troppo male (per questo è usanza che in alcuni think tank neoliberali si riscriva la Storia perché quadri con la propria narrazione, nonostante l’evidenza del contrario).

Bisogno di valori. Una carenza della società moderna è di avere uno schema di valori morali strutturato che possano accettare tutti. Tutti percepiscono che abbiamo bisogno di nuovi valori e più universali. Da dove devono emergere? Si tratta di un anelito, come dice qualcuno, il germe di una spiritualità non cartesiana che deve superare l’eccesso di scientismo che ha caratterizzato il XX secolo? Non vado così lontano, ma credo che sia necessario approfondire la ricerca di questi valori comuni condivisi, che probabilmente non saranno esattamente gli stessi, a seconda della comunità a cui fanno riferimento, anche se probabilmente tutti condividono i punti chiave, come il rispetto per la vita umana, per i diritti degli altri e per la Natura.

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Non per caso, tutte le questioni che ho affrontato sono più che altro questioni etiche e non semplicemente culturali. Tuttavia, è attraverso la cultura che in numerose occasioni si implementano pratiche di contenuto etico. Se il costume dice che quando muore un uomo i vicini dovranno consegnare una parte di ciò che raccolgono alla vedova fino a che il figlio maggiore non raggiunga la maggiore età, in questo costume c’è un principio di solidarietà che emana dall’ideale etico, quello della solidarietà universale. Tuttavia, questo ideale etico risponde molte volte ad un principio più prosaico che ha le sue radici in principi fisici o ecologici: una comunità in cui i suoi membri hanno cura gli uni degli altri è più resiliente, pertanto più in grado di non estinguersi in epoche di grande necessità. Il costume e i valori culturali agiscono così come un veicolo semplice per implementare le misure necessarie a garantire la continuità della comunità, tutti li imparano sin da molto piccoli e la maggioranza li accetta acriticamente perché “é costume”, “si è sempre fatto così”. Trasformare in valori culturali e in costume abitudini che migliorano la resilienza di una comunità è un modo più pratico e più efficace per far sì che si implementino realmente che non cominciare un’ardua discussione intellettuale, valutando pro e contro e discutendo tutte le alternative e le scappatoie possibili. Portati all’estremo, questi costumi potrebbero diventare sacri al punto  da trasformarsi in una vera religione (come per esempio mostrava Carlos de Castro nel suo “Oracolo di Gaia”). E proprio per questo non è nemmeno una casualità che il pensiero economico attualmente dominante abbia i tratti della religione totalitaria.

Il rischio di trasformare i valori di resilienza in meme culturali o persino in dogmi religiosi è che l’ambiente variabile con cui avremo a che fare nei prossimi decenni, caratterizzati da una rapida (in termini storici) decrescita energetica e da un profondo cambiamento climatico, le ricette che funzionano oggi potrebbero essere drammaticamente sbagliate in soli pochi decenni di differenza. In questo senso, sembra preferibile provare a fare una valutazione continua della situazione, in un consiglio aperto di tutti i cittadini e con un’ampia consulenza di esperti, per avere in ogni momento la migliore strategia che vada, per una volta, a favore del bene comune. Trovare il punto di equilibrio tra pensare idee utili ed efficaci e mantenere uno spirito critico ed adattabile a cambiamenti che sono molto rapidi su scale storiche ma relativamente lenti per la psiche degli individui non sarà un compito facile e quindi non so come si possa raggiungere questo equilibrio esattamente. Alla fine di conti, non ho detto di avere la soluzione. Ciò che è chiaro è che dobbiamo approfondire queste questioni, visto quello che c’è in gioco.

Saluti.
AMT

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Le piattaforme glaciali antartiche fondono sempre più in fretta

Da “scienceblog.com/gregladen”. Traduzione di MR

Di Greg Laden

L’Antartide è praticamente coperta di ghiacciai. I ghiacciai sono entità dinamiche che, a meno che non si trovino in piena fusione, tendono a crescere nei pressi delle loro parti più spesse (ecco perché quelle sono le parti più spesse) e si sciolgono all’esterno verso i bordi, dove le aree liminali o fondono (di solito stagionalmente) sul posto oppure cadono in mare.

I ghiacciai dell’Antartide sono circondati da diverse piattaforme glaciali. La piattaforme glaciali in realtà estensioni distali dei ghiaccia in movimento che galleggiano sull’oceano. Questo è uno dei luoghi, al momento probabilmente il luogo, in cui si verifica la fusione accelerata dall’inquinamento di gas serra di origine umana. Le piattaforme glaciali sono ancorate sul posto lungo i margini (di solito ricoprono valli lineari come fiordi) e in un punto di terra al di sotto della piattaforma a qualche distanza dal margine del ghiaccio al di sotto del livello del mare.

Il collasso o la disintegrazione di una piattaforma glaciale si pensa che porti al movimento più rapido della massa glaciale corrispondente verso il mare e ad un aumento della velocità fusione. E’ questo il grande problema in questo momento nello stimare il tasso di fusione glaciale nell’Antartide. Non si tratta un processo continuo e regolare, e allo stesso tempo è anche possibile una rapida disintegrazione di una piattaforma glaciale. Molto probabilmente, la fusione glaciale dell’Antartide nei prossimi decenni comporterà l’occasionale collasso catastrofico di una piattaforma glaciale seguito a quel punto da una più rapida fusione glaciale.

Sfortunatamente, la piattaforme glaciali di solito diventano più vulnerabili a questo tipo di processo, come mostra un nuovo studio appena uscito su Science. Dall’abstract:

Le piattaforme glaciali galleggianti che circondano la Calotta Glaciale dell’Antartide limitano il flusso del ghiaccio di terra. L’assottigliamento di una piattaforma glaciale riduce questo effetto, portando ad un aumento dello scarico di ghiaccio verso l’oceano. Usando le osservazioni di 18 anni di altimetri dei satelliti radar, abbiamo calcolato i cambiamenti su scala decennale dello spessore delle piattaforme glaciali intorno al continente antartico. Complessivamente, il cambiamento del volume medio delle piattaforme glaciali ha accelerato da una perdita trascurabile di 25 ± 64 km3 all’anno per il 1994-2003 ad una rapida perdita di 310 ± 74 km3 all’anno per il 2003-2012. Le perdite dell’Antartide Occidentale sono aumentate del 70% nell’ultimo decennio e il precedente aumento di volume delle calotte glaciali dell’Antartide Orientale è cessato. Nelle regioni di Amundsen e Bellingshausen, alcune piattaforme glaciali hanno perso fino al 18% del loro spessore in meno di due decenni.

Questa è una delle molte ragioni per cui anche la più estrema delle stime di perdita di ghiaccio del IPCC (in generale) e il suo contributo all’aumento del livello del mare sono state viste come un limite minimo. Questo è un cambiamento sostanziale ed è molto recente. Non è solo che le piattaforme glaciali siano diventate più sottili, ma anche che il tasso di fusione in quei margini sta aumentando.

Didascalia alla Figura 1. 18 anni di cambiamento dello spessore e del volume delle piattaforme glaciali dell’Antartide. I tassi di cambiamento dello spessore (m/decennio) sono colorati da -25 (in assottigliamento) a +10 (in ispessimento) I cerchi rappresentano la percentuale di spessore persa (rosso) o guadagnata (blu) in 18 anni. Sono stati inseriti nel grafico solo valori significativi al 95% di livello di certezza (vedi Tavola S1). L’angolo in basso a sinistra mostra la serie temporale e l’adattamento polinominale del cambiamento del volume medio (km3) dal 1994 al 2012 delle piattaforme glaciali dell’Antartide Occidentale (in rosso) ed Orientale (in blu). La curva nera è l’adattamento polinominale di tutte le piattaforme glaciali di tutta l’Antartide. Abbiamo diviso l’Antartide in 8 regioni (Figura 3), che sono contrassegnate e delimitate dai segmenti di linea. I perimetri delle piattaforme glaciali sono mostrati con una linea nera sottile. Il cerchio centrale demarca l’area non indagata dai satelliti (a sud del 85° S). I dati originali sono stati interpolati per mappare gli scopo (vedete la Tavola S1 per la percentuale di area di ogni piattaforma glaciale ispezionata) lo sfondo è il Landsat Image Mosaic of Antarctica (LIMA).

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