Effetto Cassandra

L’Università di fronte alla crisi delle risorse: un intervista con il candidato rettore dell’Ateneo di Firenze, Luigi Dei

Si svolgeranno a breve le elezioni per il nuovo rettore dell’università di Firenze. Chiunque sia eletto troverà una situazione difficile: l’università di Firenze, come tutte le università italiane, soffre della crisi sistemica forse più di tutto il resto del paese e si trova stretta in un’endemica mancanza di fondi, oltre a essere strangolata da una burocrazia totalmente senza senso. 

Se il problema è sistemico, come io credo che sia, non c’è che affrontarlo in modo sistemico, riflettendo su quale possa essere oggi lo scopo e la logica di un “istruzione superiore” in un mondo così tartassato e malmesso. Mi sono permesso, allora, di porre alcune domande a entrambe i candidati a rettore dell’università di Firenze, domande che riflettono la posizione del blog “Effetto Risorse” sulle ragioni profonde della crisi. Qui di seguito, riporto le risposte del prof. Luigi Dei. Metterò on line anche quelle della prof. Elisabetta Cerbai non appena le ricevo. (UB)

Effetto Risorse: La tesi di fondo del blog “Effetto Risorse” è che siamo di fronte a una crisi sistemica correlata al graduale esaurimento delle risorse naturali non rinnovabili. Questa crisi si riflette su tutti i settori della società e, ovviamente, anche sull’università. Ci potrebbe per favore dare un suo parere su questa nostra interpretazione?

Luigi Dei. Non v’è dubbio che il tema di una seria riflessione sul graduale esaurimento delle risorse naturali non rinnovabili sia da considerare non solo con grande attenzione, ma direi come un obbligo etico e civico da parte dell’Università, che ha il dovere di studiare il passato per comprendere il presente e progettare il futuro. Ormai la messe di letteratura scientifica sul tema in oggetto è tale e di siffatta rilevanza che pensare di togliersi di dosso la questione con una scrollata di spalle, o peggio additando coloro che pongono evidenze scientifcihe come catastrofisti, appare esiziale per lo sviluppo del progresso e il benessere dell’umanità intera.

ER. Se siamo di fronte a una crisi sistemica, come può l’università del futuro preparare una risposta per mezzo delle sue funzioni principali: ricerca e formazione? Quali prospettive, secondo lei, per i giovani che escono dall’università e come può l’università prepararli meglio per quello che li aspetta?

LD L’Università, come sede della ricerca avanzata in tutti i campi e della conseguente formazione di alto livello, deve promuovere studi, ricerche, diffusione dei risultati sul tema in oggetto ad un grande pubblico. I cittadini devono conoscere dati scientifici, proiezioni, esito di ricerche di assoluto rilievo e quant’altro possa orientarli verso le buone pratiche di rispetto e tutela dell’ambiente. Potremmo dire: chi meglio dell’Università può assumersi questo onere? Le competenze che nel futuro potranno aiutare a risolvere i problemi energetici devono essere seminate oggi per poter germinare efficacemente domani: l’Università è un importantissimo e fondamentale campo in cui dobbiamo arare e seminare oggi per la costruzione di un futuro sostenibile. E potremmo aggiungere: se non ora quando? Quando sarà troppo tardi?

ER E’ possibile pensare a un “Università sostenibile”?

Come ho scritto nelle mie linee programmatiche, vorrei creare un portale per la sostenibilità e il rispetto dell’ambiente (Università sostenibile) in cui si raccolgano buone pratiche, progetti, materiale bibliografico, si promuovano iniziative sul tema in oggetto con un coordinamento che veda insieme docenti, personale tecnico, amministrativo e dei collaboratori ed esperti linguistici, studenti, dottorandi ed assegnisti. Mi ispiro a quanto già realizzato dall’Università di Ferrara http://sostenibile.unife.it/ grazie all’incessante lavoro di un altro Collega, Francesco Dondi, che lavora insieme a me nell’unità italiana, coordinata dal professor Luigi Campanella, del Working Party on Ethics in Chemistry della European Association for Chemical and Molecular Sciences http://www.euchems.eu/divisions/ethics-in-chemistry.html. La mia convinzione è che le Università debbano impegnarsi a promuovere con forza il principio della “sostenibilità”; esso deve permeare tutte le attività di ricerca, di formazione, di terza missione e di gestione dell’Università, al fine di costituire un vero e proprio motore d’innovazione per le società del terzo millennio che dovranno essere caratterizzate dallo sviluppo sostenibile.

ER. Come vede, lei, il futuro della ricerca Italiana (e non solo italiana) in questo momento di crisi?
 
LD. La ricerca italiana è ai primissimi posti delle graduatorie internazionali, se si normalizzano i risultati conseguiti rispetto alle risorse pubbliche investite. Siamo secondi solo alla Germania per ERC Grants (46 verso 48) con investimenti pubblici per ricerca e alta formazione pari allo 0,42 del PIL contro lo 0,93 di Germania e lo 0,99 di Francia, che non va oltre 25 ERC Grants. Io vedo il futuro della ricerca come un enorme, fantastico potenziale di risorse umane che attende solo di essere espresso e messo al servizio del Paese: basta semplicemente investire con vigore e continuità nel tempo affinché l’Università pubblica possa poi trainare il Paese nella auspicabile crescita. Per partire, si vari un piano straordinario per giovani ricercatori, da programmare secondo il percorso previsto dalla Legge 240 in un percorso di stabilizzazione, fra tre e sei anni, nel ruolo dei professori associati: sarebbe un segnale importante che arresterebbe la fuga dei cervelli e farebbe sì che di quei 46 Grants attualmente “spesi” all’estero (28) alcuni potrebbero finalmente rientrare nel Paese che si è reso cura di formarli fino al raggiungimento dell’eccellenza.

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Il collasso del petrolio: sta per succedere qualcosa di sinistro

DaResource Crisis”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi


Il recente collasso del prezzo del petrolio segnala la fine imminente dell’industria del petrolio e del gas come grande produttrice mondiale di energia. Dovrebbe essere una cosa buona, in linea di principio, ma dal processo potrebbe ancora emergere qualcosa di sinistro (nell’originale “something wicked this way comes” dal “Macbeth” di Shakespeare).

Con il collasso dei prezzi del petrolio in corso, possiamo dire che la festa è finita per l’industria del petrolio e del gas, in particolare per la produzione di petrolio e gas “tight” (o “di scisto”). I prezzi potrebbero anche tornare a livelli ragionevolmente alti, in futuro, ma l’industria non sarà mai più in grado di riguadagnare lo slancio che ha fatto dichiarare ai suoi sostenitori statunitensi “l’indipendenza energetica” e “secoli di abbondanza”. La bolla potrebbe non scoppiare all’improvviso, ma di sicuro si sgonfierà.

Quindi cosa succederà ora? La situazione è, a dir poco, “fluida”. E’ in atto una grande corsa per convincere gli investitori a mettere i loro soldi dove c’è ancora qualche possibilità di fare un profitto. Penso che possiamo identificare almeno tre diverse strategie per il futuro: 1) di più del solito (petrolio e gas) 2) una spinta verso il nucleare e 3) una spinta verso le rinnovabili. Cerchiamo di esaminare quale futuro potrebbe essere in serbo per noi.

1) Una spinta per più gas e petrolio. Sembra chiaro che l’industria del petrolio e del gas non ha ancora ammesso la sconfitta; al contrario, sogna ancora di secoli di abbondanza (vedete per esempio questo articolo su Forbes). Sembra impensabile che gli investitori vogliano ancora finanziare imprese incerte come quella di strizzare più petrolio dai giacimenti esausti o, peggio ancora, da tecnologie difficili e costose come la liquefazione del carbone. Ma non si dovrebbe mai sottovalutare il potere del BAU. Se le persone pensano di avere assolutamente bisogno di combustibili liquidi saranno disposte a fare qualsiasi cosa per ottenere combustibili liquidi.

Il problema principale di questa idea non è tanto la fattibilità tecnica. Impiegando tutte le risorse a portata di mano nell’impresa (e mettendo sul lastrico l’intera economia facendolo) non sarebbe impossibile allontanare il picco del petrolio ancora di qualche anno. Il problema è un altro: il tempo sta per scadere col cambiamento climatico. Se continuiamo a bruciare idrocarburi, non ce la possiamo fare. Vale a dire, non possiamo salvare la civiltà dal collasso causato dal clima. Ciò vale se continuiamo a bruciare al “tasso naturale”, cioè secondo la curva a campana. Immaginate se invece continuassimo a crescere con la produzione (come secondo tutti i politici del mondo dovremmo fare).

Tutto ciò sta diventando noto e, di conseguenza, una spinta verso la produzione di idrocarburi (o, Dio ce ne scampi, più carbone) sarà possibile solo se accompagnata da una forte campagna propagandistica destinata a zittire la scienza del clima e l’attivismo climatico. Alcuni sintomi del fatto che ci sia qualcosa del genere in lavorazione sono abbastanza evidenti da essere inquietanti. Considerate che nessuno dei candidati Repubblicani alle elezioni statunitensi del 2016 sostiene la necessità di azione per il cambiamento climatico, che in Florida agli impiegati governativi non è permesso usare il temine “cambiamento climatico” o “riscaldamento globale”, che la NASA ha subito una riduzione dei fondi su qualsiasi cosa abbia a che fare col cambiamento climatico, ed altro. Quindi comincia ad apparire una certa logica: “metti la museruola alla scienza e continua a bruciare”. Sta per succedere qualcosa di molto strano…

2) Una nuova spinta verso il nucleare. Questa opzione non sarebbe male quanto la prima, più idrocarburi. Perlomeno le centrali nucleari non generano gas serra direttamente e sappiamo che è una tecnologia che può produrre energia. Ciononostante, gli ostacoli associati alla sua espansione sono giganteschi. Il primo e principale problema è che la produzione di uranio minerale non è sufficiente per incrementare l’energia nucleare da una piccola percentuale dell’energia primaria mondiale ad una grande – essere in grado di farlo richiederebbe investimenti così grandi da essere sbalorditivi. Per non dire niente della necessità di minerali rari nelle centrali nucleari: berillio, niobio, afnio, zirconio, terre rare ed altro; tutte presenti in quantità limitate. Inoltre ci sono problemi da incubo nello smaltimento dei rifiuti, nella sicurezza e nel controllo strategico.

Ciononostante, se fosse possibile convincere gli investitori a riversare soldi nell’energia nucleare, sarebbe possibile vedere un tentativo di farla ripartire, nonostante i vari problemi e i disastri che hanno dato una fama negativa al nucleare. Un tentativo di fare proprio questo sembra che si stia articolando. Si dice che il presidente Obama stia prendendo in considerazione un ritorno massiccio al nucleare e agli investitori viene detto di prepararsi per un’enorme impennata dei prezzi dell’uranio. Funzionerà? Improbabile, ma non impossibile. Sta per succedere qualcosa di sinistro…

3) Una grande spinta per le rinnovabili. Sorprendentemente, l’industria delle rinnovabili potrebbe avere delle serie possibilità di avere il sopravvento su una senescente industria petrolifera, lasciando l’industria nucleare al palo e ansimante a guardare. Il progresso della tecnologia rinnovabile, specialmente nelle celle fotovoltaiche, è stata semplicemente fantastica nell’ultimo decennio (vedete per esempio il recente rapporto del MIT). Oggi abbiamo una serie di metodi per produrre energia elettrica che possono competere con le fonti tradizionali, watt per watt, dollaro per dollaro. Considerate che le più efficienti di queste tecnologie non hanno bisogno di materiali particolarmente rari e che nessuna ha il problema strategico e di sicurezza del nucleare. Infine, considerate che è stato dimostrato (Sgouridis, Bardi e Csala) che l’attuale tecnologia rinnovabile potrebbe prevalere sulle attuali fonti abbastanza velocemente da evitare grandi danni da parte del cambiamento climatico.

Sembra che abbiamo un vincitore, giusto? Infatti, l’atmosfera intorno alle rinnovabili è di palpabile ottimismo. Se l’energia rinnovabile prende abbastanza slancio, non ci sarà niente in grado di fermarla finché non ci ha tutti catapultati, volenti o nolenti, in un nuovo mondo (più pulito): Però c’è un problema. L’industria rinnovabile è ancora piccola in confronto all’industria nucleare e lo è in modo particolare in confronto a quella del petrolio e del gas. E sappiamo che chi è più grosso di solito riesce a menare chi ha ragione. Il puro e semplice potere finanziario della tradizionale industria energetica potrebbe essere sufficiente a far abortire il cambiamento prima che diventi inarrestabile. Sta per succedere qualcosa di sinistro…

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Quando e’ cominciata la crisi? Molto prima di quanto non si creda.

Di Iacopo Simonetta

Molti, a dire il vero, si chiedono quando finirà la crisi e su questo i pareri, sostanzialmente,  fanno capo a duescuole di pensiero.  La prima dice che finirà fra 6 mesi, anzi, sta già finendo.  La seconda sostiene che se ne riparlerà nel XXII° secolo. Vedremo, ma certo è una domanda molto difficile. Vorrei quindi cimentarmi con un’altra domanda, apparentemente più facile: quando è cominciata?

Nel 2008”.   Risposta scontata, ma ne siamo sicuri?

Per cominciare, l’unico dato disponibile in serie temporali lunghe è il famigerato PIL che, dovremmo saperlo oramai bene, tutto è tranne che un indicatore affidabile dello stato di salute di un economia.   Ancor meno della qualità della vita.   Del resto, in ecologia, è rarissimo che si possa disporre di serie di dati statistici affidabili su periodi abbastanza lunghi.   Si cerca quindi di ovviare mediante degli indicatori.   Cioè di dati che non descrivono il sistema, ma che sono rappresentativi del suo stato e/o  delle sue tendenze.    Per fare un esempio, in assenza di dati sul numero di cervi in un parco, è possibile farsi un’idea della loro densità dal numero di tracce rilevabili sulla neve.    Oppure, indipendentemente da quanti siano, si può capire se sono troppi o pochi osservando i segni sugli alberi.   Analogamente, in assenza di dati sul reddito dei cittadini, è possibile farsi un’idea dal numero e dal tipo di scarpe vendute (tenuto conto della moda).

Per determinare lo stato di salute di un’economia i dati relativi all’occupazione sono particolarmente interessanti, ma estrarre delle tendenze concrete dalle tabelle ISTAT non è così semplice come potrebbe sembrare.   Il tasso di occupazione dice infatti quale percentuale di cittadini ha un lavoro, ma non che tipo di lavoro.

Molto più interessante, a mio avviso, è uno studio dell’Università Bicocca di Milano, pubblicata “in tempi non sospetti”, vale a dire nel2001.   Lo studio riguardava il decennio precedente ed era focalizzato sul ricambio generazionale.   In pratica: i figli facevano lavori migliori, peggiori od uguali a quelli dei loro genitori?    Ebbene, il risultato era già allora impietoso.  
I ricercatori avevano diviso i lavoratori in quattro grandi categorie:   In vetta gli imprenditori, isuper-dirigenti ed i grandi professionisti.    Seguivano funzionari e liberi professionisti; infine operai ed impiegati.   Per ogni categoria, si era tenuto conto del lavoro svolto dai genitori e di quello svolto dai figli.   Ebbene, anche se negli anni ’90 un certo numero di figli riuscivano a scalare posizioni migliori di quelle dei propri genitori, era nettamente superiore il numero di figli appartenenti ad una classe sociale inferiore a quella paterna. 

Ad esempio, ben il 46% dei figli di imprenditori e super-dirigenti era finito come funzionario ed un altro 22% come impiegato od operaio.   Contro un 15 % di figli di funzionari ed un 5 % di figli di impiegati od operai che erano riusciti a scalare la vetta.
 In complesso, la classe dei lavori molto ben pagati e quella dei liberi professionisti avevano subito una consistente perdita nel cambio generazionale, con una massa considerevole di rampolli che si erano trovati rigettati in una classe sociale subalterna quella in cui erano nati.   Esattamente il contrario di quanto si era verificato a cavallo degli anni ’60.      
Insomma, negli anni ’90 la disoccupazione non era un problema drammatico come oggi, ma l’ascensore sociale era già in avaria e quello che funzionava a pieno regime era piuttosto un efficace discensore sociale.  
Un dato che, da solo, non dimostra alcunché, ma che è un indicatore molto, molto forte del fatto che, già venti anni fa, la crescita economica fosse finita, mentre la popolazione continuava a crescere.
“Una rondine non fa primavera” si diceva un tempo ed è corretto.   Un solo indicatore, per di più puntuale, non significa niente.   Può però diventare significativo se possiamo inserirlo in un contesto coerente.    Le analisi in questo senso sono oramai perfino troppe, mi limito quindi a rimandare ai numerosi articoli di  Antonio Turiel e Richard Heinberg che, fra i molti, hanno forse meglio di altri sintetizzato i punti chiave della questione.
Qui mi limiterò a riprendere alcuni dati che ho già utilizzato in un precedente post.     Sono dati resi disponibili da alcuni ricercatori della Massaciussets university che si sono presi la briga di rifare i calcoli del PIL USA al netto dell’inflazione, utilizzando per tutti gli anni gli stessi parametri di calcolo.   Diversamente dal governo che via via li cambia.  
Ebbene, non troppo sorprendentemente, la crescita vera pare essersi fermata agli inizi degli anni ’70 (forse non per caso in corrispondenza del picco del greggio domestico).   Poi il PIL ha continuato a salire fra alterne vicende, ma solo grazie alla contemporanea esplosione del debito e della borsa, mentre l’economia reale cominciava ad arrancare a la qualità della vita pure.    Fino alla fine della guerra fredda il gioco ha funzionato, poi vediamo che neppure la crescita esponenziale del debito e l’esplosione della “new economy”  sono più riuscite a sostenere una crescita dell’economia reale, mentre la qualità della vita declinava.  Con il 2.000, malgrado tutti gli sforzi,  l’economia americana è entrata decisamente in contrazione e la qualità della vita del cittadino medio in picchiata.   Nel frattempo, gli indici di borsa entravano un una fase di estrema volatilità da cui non sono più usciti.
Per l’Italia non disponiamo di dati sul PIL indipendenti dagli enti di governo, ma li abbiamo sul debito pubblico che indicano un’esplosione a partire dalla metà degli anni ’60, con una fase di stasi negli anni ’90, prima di ripartire fuori controllo.   Questo potrebbe suggerire che da noi la crescita avesse cominciato a rallentare prima che in USA, il che è coerente con il fatto che eravamo, e tuttora siamo, un paese periferico dell’impero USA.  
Altri paesi hanno seguito parabole analoghe, anche se spostate nel tempo.   Ad esempio, Cina ha avuto la sua fase di crescita economica reale più convulsa nei venti anni approssimativamente compresi fra il 1985 ed IL 2005 grazie ai massicci investimenti esteri ed al non meno massiccio trasferimento di impianti e tecnologie occidentali.   In pratica, assieme ad altri, ha saputo sfruttare l’onda di mania suicida che ha colto le “economie avanzate”  con la storica vittoria delle potenze capitaliste su quelle socialiste.   Ma sia pure con modi e tempi diversi rispetto agli altri paesi, anche in Cina il rallentamento dell’economia traspare oramai anche attraverso l’intensa manipolazione dei dati ufficiali, così come dal rilancio di forme di propaganda e di repressione che molti credevano oramai consegnati alla storia.
Dunque: “Quando è cominciata la crisi?”  
Una risposta definitiva non sono in grado di darla, ma possiamo perlomeno distinguere fra diversi livelli.    Considerando le  economie “G7”, la stagnazione è probabilmente iniziata negli anni ’70.   Venti anni dopo, negli anni ’90, la contrazione dell’economia reale ha subito una brusca accelerazione in conseguenza della vittoria militare e, soprattutto, politica sull’URSS.   Un apparente paradosso, facilmente spiegabile con un fatto molto semplice: l’economia industriale è un gioco in cui ci sono necessariamente vincitori e sconfitti.   Quelli che hanno le manifatture vincono, quelli che hanno le cave e le discariche (wells and sinks) perdono.   Fra gli altri, lo aveva intuito Mohandras  Gandhi e lo aveva spiegato Nicholas Georgescu-Roegen.    Ma ancora non lo hanno capito i governanti occidentali che hanno incoraggiato e finanziato, a spese del contribuente, il trasferimento delle principali attività industriali in paesi esteri, solo perché praticamente privi di sindacati e di norme ambientali.   Ne hanno usufruito altri stati, primo fra tutti la Cina, finquando  i “Limiti della crescita” non hanno cominciato a fermare anche loro.  
Invece, il picco dell’economia globale è probabilmente stato, effettivamente, fra il 2005 ed il 2010.   Probabilmente non a caso in corrispondenza con il picco globale della disponibilità di greggio, ma anche preoccupantemente in linea con i tempi dello scenario base dei “Limiti dello Sviluppo”.   
Molti contesteranno questa idea con dovizia di dati, ma ritengo che, quando è scoppiato il bubbone nel 2008, la crisi fosse già consolidata da molti anni nel cuore stesso delle economie occidentali.  Se la maggior parte di noi non ci aveva fatto caso è stato probabilmente per un insieme di fattori fra cui l’abitudine, il martellamento mediatico ed il fatto che, ancora, non erano stati toccati i patrimoni piccoli e grandi accumulati nella fase precedente.   Man mano che i risparmi vengono erosi, le proprietà divengono un peso ed i vecchi dotati di buone pensioni muoiono, diviene semplicemente evidente una malattia  che abbiamo oramai da molto tempo.  Un po’ come quando ci si rende conto di avere l’AIDS, magari dopo venti o trent’anni che abbiamo contratto l’HIV.

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Le lacrime dell’Artico

DaThe Oil Crash”. Traduzione di MR

Vento sulla superficie isobarica di 250 hectoPascal (approssimativamente 10 km, l’altitudine del Jet Stream), il 27 marzo del 2015 alle 15:00

di Antonio Turiel

Ho letto svogliatamente del programma di lavoro del biennio 2016-2017 dell’area del programma-quadro Orizzonte 2020 che comprende le attività marine. Il documento, ancora confidenziale (visto che ancora potrebbero verificarsi alcuni cambiamenti nel suo contenuto) contiene le linee di ricerca che la Commissione Europea vuole stimolare nei prossimi anni e che pertanto finanzierà. Il finanziamento della ricerca europea funziona così: un ampio gruppo di esperti ed alcune lobby molto potenti decidono quali sono i temi che sui quali bisogna fare ricerca, si elaborano questi programmi di lavoro e finalmente escono le convocazioni per le proposte di progetti di ricerca, che dovranno attenersi a qualcuna delle linee proposte. Il piano di lavoro è molto dettagliato e vengono fuori letteralmente centinaia di linee diverse, ma con un po’ di esperienza si sa come andare direttamente a cercare quelle che interessano. Idealmente, se si hanno delle buone relazioni e si è capaci di muoversi in questi ambienti, è possibile ottenere che le proprie idee vengano riconosciute direttamente in una delle linee e così è più facile (anche se non garantito)ottenere uno di quei progetti. Io, che ho pretese e capacità più modeste, leggo semplicemente tutte le linee della bozza, cercando quelle che corrispondono al lavoro che so e che voglio fare, filtrando da queste linee che so già essere fortemente sponsorizzate e che quindi non meritano che ci perda tempo perché non ne tirerò fuori niente.

Continuo a cercare soldi per mantenere il gruppo di ricerca. Abbiamo fatto un buon lavoro negli ultimi anni e la nostra progressione ora è molto buona, ma proprio nel nostro momento migliore non raccolgo altro che fallimenti. Potrò ancora guadagnare un anno, forse due, ma l’orologio va avanti e, come dice un amico, “non bisogna aspettare di avere sete per fare un pozzo”. Quindi seguo le convocazioni e sto pensando a nuovi progetti.

Stavo facendo questo quando all’improvviso sono giunto ad una sezione che mi interessava. “Rafforzare la capacità europea di osservazione, raccolta di dati e monitoraggio dell’oceano”. Bene, questa è la mia, mi sono detto, ed ho cominciato a leggere.

La metà delle linee di ricerca proposte dall’Unione Europea nel 2016-2017 in quest’area si riferiscono all’Artico (l’altra metà al Mediterraneo e alle piccole imprese). E li si diceva chiaramente: il Cambiamento Climatico è particolarmente intenso nell’Artico, le gravi alterazioni nell’Artico stanno portando a cambiamenti degli schemi meteorologici nell’Emisfero Nord, bisogna migliorare la previsione meteorologica e climatica tenendo conto di quei cambiamenti, bisogna incorporare questi cambiamenti per gestire meglio i rischi associati (cita esplicitamente inondazioni, siccità eventi estremi…).

Mentre un piccolo gruppetto di troll a pagamento continuano ad aggirarsi intorno a questo blog, come intorno ad altri, aspettando di lanciarsi in picchiata su qualsiasi post che odori di cambiamento climatico, cercando di discreditare gli argomenti che si propongono con argomenti parziali, tergiversazioni maleducatissime ed un buon numero di ad hominem, la Commissione Europea ha già chiaro che si stanno verificando grandi cambiamenti nell’Artico e che questi cambiamenti stanno destabilizzando il clima dell’Emisfero Nord con gravi conseguenze. Non solo questo, ma gli stanno dando un’attenzione preferenziale fra le linee sulle quali vogliono che si faccia ricerca.

Non dobbiamo confonderci sul ruolo della Unione Europea e della Commissione Europea a questo proposito. Gli interessi incrociati e gli intrallazzi (lobby) sono intensi in queste discussioni, così come l’ipocrisia e la doppia morale. Tuttavia, il problema Artico (come si comincia già ad accorgersi) comincia ad essere talmente evidente che risulta sempre più difficile non tanto dissimularlo, ma persino non cominciare ad intervenire sulla questione in quanto i danni già causati e quelli prevedibili possono trasformarsi in un conto difficile da gestire. E nonostante questo, la pressione politica su questi temi è estrema. Così, le risoluzioni che sta prendendo la Commissione Europea in relazione al Cambiamento Climatico (e che sono sempre di più) sono filtrate con tanta intensità che dietro alla sordina mediatica si sente appena un rumore, sempre che si arrivi a sentire qualcosa.

Il problema Artico. Cos’è il problema Artico? Essenzialmente, che gli effetti del cambiamento climatico stanno avendo un’ampiezza molto maggiore nell’Artico che in altre zone del pianeta, per ragioni che sono ben conosciute da tempo. Anno dopo anno si accumulano i dati che ci mostrano il problema Artico in tutta la sua crudezza, mentre la maggior parte dei media guardano dall’altra parte e i pochi che parlano di questo non contestualizzano il problema e non gli danno la rilevanza che ha, e allo stesso tempo pubblicano editoriali infetti scritti da tipi il cui unico merito rilevante sono i colori con cui si presentano i costumi della loro religione.

Quest’anno abbiamo avuto vari segnali preoccupanti del problema Artico. Per esempio, all’inizio di marzo si sono registrati valori anomali di temperatura nell’Artico, che hanno superato di 20°C la temperatura media degli ultimi decenni, un’anomalia di una grandezza enorme. Questo tipo di anomalie mostruose erano inedite qualche decennio fa ma, disgraziatamente, si stanno facendo sempre più frequenti.

Tenendo conto dell’evoluzione del volume del ghiaccio nell’Artico negli ultimi anni e di queste forti anomalie di temperatura, non sorprende che quest’anno il momento di copertura di ghiaccio massima annuale (proprio nel giorno in cui comincia la primavera settentrionale, il 21 marzo, e in cui esce il Sole al Polo), l’area coperta dal ghiaccio era inferiore a quella di qualsiasi anno precedente. C’è sempre meno ghiaccio, sempre più sottile, e se ne riforma di meno durante la stagione fredda.

Alcuni lavori scientifici mostrano che c’è un collegamento fra il disgelo artico e l’indebolimento della corrente a getto polare (Jet Stream). Questo indebolimento (del quale abbiamo parlato qui) sarebbe il responsabile del comportamento meteorologico sempre più strano su entrambe le sponde dell’Atlantico. Così, sulla costa est degli Stati uniti ci sono temperature di 10°C inferiori alle medie storiche, mentre sulla costa Ovest le temperature sono di quasi 10°C superiori:

Estratto proveniente dal Centro Dati Nazionale sul Clima del NOAA, http://www.ncdc.noaa.gov/ 

(il tipico argomento negazionista per aggirare questo fatto sarebbe quello di fare la media delle temperature in tutto il paese e cominciare ad argomentare che la temperatura media degli Stati Uniti non presenta alcuna anomalia). La siccità in California imperversa e l’agognato  El Niño – che porterebbe forti piogge in questi luoghi – alla fine non è arrivato, mettendo in pericolo un terzo della produzione di verdure ed ortaggi degli Stati Uniti. Nell’Atlantico Meridionale, una combinazione di scarse precipitazioni e cattiva gestione ha lasciato la megalopoli di Sao Paolo in una situazione di crisi idrica senza precedenti. In Europa, gli schemi di piogge e temporali rientrano ancora in una relativa normalità in quanto alla loro frequenza marginale, ma sempre meno se si tiene conto di una scala sinottica, e il pericolo latente di un anno senza estate persiste. Il 2015 sarà un anno senza estate in Europa? Sicuramente no se prendiamo l’Europa complessivamente, ma in determinate zone dell’Europa potrebbe essere così.

E nonostante le prove che si accumulano, continuiamo a discutere se è zuppa o pan bagnato.

Dopo questo post, gli stessi di sempre torneranno nel forum di questo blog a tirar fuori gli stessi argomenti di sempre in discussioni che saranno identiche a quelle precedenti. Sbandiereranno l’inopportunità o l’esagerazione delle mie affermazioni e se un numero sufficiente di commentatori gli darà contro, diranno che se ne andranno per sempre ma poi torneranno, difendendo la loro posizione, che è come dire difendendo il loro padrone. Ma quando usciranno in strada, sul loro volto come sul mio, cadranno le lacrime dell’Artico.

Antonio Turiel
Marzo 2015.

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Guida rapida per i cosiddetti esperti petroliferi

DaThe Oil Crash”. Traduzione di MR

Cari lettori,

vorrei dedicare il post della settimana ai cosiddetti “esperti di energia”. Non sto parlando di una persona che più o meno se ne intende della materia, né dei giornalisti o accademici che dedicano una buona parte del loro tempo professionale ad informare degnamente sui fatti, nonostante la sordina mediatica. No. Il tipico “esperto di energia” al quale farò riferimento oggi è un personaggio veste sempre l’abito della sua religione (lui: vestito con gilè opzionale, camicia perfettamente stirata, cravatta perfettamente annodata; lei: vestito di colore discreto o che colpisce, a seconda di quello che vuol dimostrare, scarpe coi tacchi, giacca; in entrambi i casi il prezzo dei loro indumenti equivale a diversi mesi del mio stipendio).

Queste persone frequentano gli alti templi del loro credo (Parlamento Europeo, ministeri, segreterie di Stato, consigli regionali, think tank, …) e sono di casa alle cerimonie rituali che sono loro proprie (ricevimenti ufficiali, vini spagnoli, banchetti di gala, conferenze stampa…) Per il loro modo di parlare, di comportarsi e persino di muoversi, ci si rende conto che si tratta di una specie diversa di homo sapiens comune, sono persone abituate al fatto che tutti pendono dalle loro labbra, a troncare le discussioni con una frase, a sollazzarsi ascoltando la propria voce. Sono persone che si sono strusciate col primo ministro, hanno condiviso un desco con uno sceicco arabo, che hanno pisciato di fianco all’Economista Capo della IEA o che è andata in bagno con Hillary Clinton dopo l’obbligatorio “Se ci volete scusare…”. Sono persone che sanno di energia perché hanno sentito parlare a lungo altri che sanno di energia in riunioni dove tutte queste persone si riuniscono periodicamente e prendono decisioni che riguardano tutti noi, senza avere fondamentalmente nessuna idea comprovata dai fatti di quello di cui stanno parlando.

E’ a questi esperti che voglio dedicare il post di oggi. (E non (solo) con l’animo di deriderli ancora di più con questo piccolo post, ma per offrir loro sinceramente alcune linee guida sulla materia che trattano e maltrattano. Si tratta di offrire loro dati comprovati e fonti affidabili perché, anche se non li usano nella loro prossima discussione liturgica, perlomeno vedano che forse c’è un approccio alternativo.

Ho organizzato questa guida intorno ad alcuni argomenti che, in maniera non sempre verificata, questi esperti sono soliti usare. Ecco l’elenco.

– Smettete di parlare di riserve: Nel 1956 Marion King Hubert ha mostrato che il problema del petrolio non era quello che rimaneva ancora da estrarre (riserve), ma a che ritmo si poteva estrarre). A quel tempo c’era una fiducia cieca sul fatto che non ci sarebbero stati problemi purché le scorte si mantenessero costanti o che addirittura aumentassero. Marion King Hubbert  ha mostrato che non è questo il problema, ma che per ragioni geologiche e fisiche il petrolio non può essere prodotto a ritmo che ci pare: abbiamo sfruttato prima quello più facile, costa uno sforzo sempre maggiore estrarlo (o sintetizzarlo da altre fonti) e alla fine il ritmo di produzione rallenta e diminuisce. Non è questione di investire più soldi: i soldi sono una rappresentazione della ricchezza, non la ricchezza – la chiave è il guadagno di energia, non di soldi ed questa che è in pericolo proprio in questo momento. Smettete di dire cavolate come “30 anni fa c’era petrolio per 30 anni e ora lo stesso”. Il petrolio non esce ad un ritmo costante, ma una volta giunto al suo massimo flusso comincia a diminuire ed esce sempre più lentamente. In quel modo non si esaurirà in 30 anni, rimane petrolio per secoli. Il problema è che ne avremo una quantità sempre minore ogni mese. La situazione è analoga a quella del giovane erede il cui unico mezzo di sussistenza è l’eredità lasciatagli dalla dalla ricca zia: cento milioni di euro in un conto corrente. Ma, ahi ahi, la vecchia arpia ha specificato nel testamento che all’inizio gli avrebbe permesso di prelevare solo 2.000 euro al mese e man mano che passa il tempo gli ha lasciato sempre meno da prelevare: passa un anno e può già prelevare solo 1.800 euro al mese, ma quello successivo sono già solo 1.500, nel giro di altri due anni solo 1.000 euro al mese, in altri 5 anni 500 euro al mese… spalmando così i sui risparmi su un periodo lunghissimo, quasi eterno. Questo tipo può pensare di essere ricco (perché ha molti soldi in banca), ma in realtà è povero (poiché ha pochi soldi nel portafogli). Perché è questa l’illusione in cui vivono,molti dei nostri esperti da prima pagina. E risulta abbastanza ridicolo, per non dire grottesco, che quasi 60 anni dopo che Hubbert lo aveva chiarito ci sia ancora chi si avvalga dell’argomentazione stupida di presunte riserve molto grandi.

– Non tutto è petrolio e men che meno greggio: La IEA usa la denominazione “All liquids”, la cui traduzione più verosimile a mio modo di vedere sarebbe “tutti gli idrocarburi liquidi”. Questo vuol dire che adesso quando ci raccontano che la produzione di petrolio è arrivata a 93 milioni di barili al giorno (Mb/g) di petrolio non stanno dicendo un piccola bugia, ma una menzogna enorme. Il petrolio greggio convenzionale e i condensati rappresentano attualmente circa 68 Mb/g (la quantità oscilla un po’ di mese in mese) e la loro produzione è già al di sotto del massimo storico di 70 Mb/g del 2005. Il resto, fino ai 93 o 94 Mb/g (a seconda del mese) sono altre cose che non sono petrolio greggio, in realtà: sono i cosiddetti idrocarburi liquidi non convenzionali, o per abuso del termine, petroli non convenzionali. La cosa più vicina al petrolio greggio è il Petrolio Leggero di Roccia Compatta (Light Thigt Oil, LTO) che si estrae direttamente dalla roccia madre, non porosa, con la tecnica del fracking (al momento solo negli Stati uniti e in Argentina). A parte che il metodo di estrazione è costoso (ed ha originato una bolla finanziaria che ormai sta scoppiando), il liquido estratto ha una percentuale di idrocarburi a catena corta abbastanza più elevata del greggio medio (da qui il nome di Petrolio Leggero). Come ha commentato Kjell Aleklett a Barbastro, il fatto che il LTO sia il tipo di idrocarburo la cui produzione cresce di più fa sì che il picco del diesel sia più pronunciato. Il resto dei “petroli non convenzionali” sono fondamentalmente di tre tipi: greggio sintetico ottenuto da petroli extra pesanti, biocombustibili e liquidi del gas naturale. Il primo tipo si ottiene combinando il bitume estratto dalle sabbie bituminose del Canada con grande distruzione ambientale e dalla Cintura dell’Orinoco, in Venezuela. Sono richieste grandi quantità di acqua e di gas naturale per la sua sintesi, è molto costoso, ambientalmente molto dannoso, ha un EROEI basso e richiede molti adattamenti nelle raffinerie. Inoltre, è già al suo massimo di produzione, nonostante che le sue riserve siano enormi. In quanto ai biocombustibili, sono una fogna energetica e fonti di molti altri problemi e non ha mai avuto senso economico né tanto meno energetico produrli. Per finire, i liquidi del gas naturale sono in maggioranza (90%) idrocarburi a catena corta, utili nella sintesi di plastiche, e la loro inclusione in questa categoria introduce solo confusione (e inoltre sono la categoria maggioritaria fra i non convenzionali). Tutti questi idrocarburi liquidi non sono completamente equivalenti (non sono fungibili, usando il termine tecnico). Per esempio, il LTO e i liquidi del gas naturale non si possono usare per produrre gasolio, il biodiesel non si può usare da solo ma mescolato col gasolio fossile e il bitume canadese e venezuelano ha bisogno o di grandi quantità di gas naturale o di essere combinato col petrolio leggero perché la sua raffinazione sia possibile e non si può raffinare che in poche raffinerie. Inoltre, molti di questi petroli hanno un contenuto energetico in volume sensibilmente minore del petrolio medio e sono tutti più energeticamente cari da produrre (hanno un rendimento minore, vale a dire, un EROEI minore). Il ciclo di vita delle estrazioni di idrocarburi non convenzionali è a sua volta diverso da quello del petrolio convenzionale: così i biocombustibili sono esposti alle venalità climatiche; le sabbie bituminose dipendono da una grande infrastruttura di estrazione e di disporre di molta acqua e il LTO, oltre alle difficoltà tecniche della frattura idraulica (necessità di disporre di acqua per la frattura e di disfarsi delle acque reflue, che tutto il trasporto si fa su gomma, dato che la breve vita di queste estrazioni non permette di costruire oleodotti, il rapido deterioramento di queste strade di campagna per il transito di tanti veicoli pesanti, eccetera), negli Stati Uniti ci sono molte particolarità legali (concessioni in regime di “Lease or leave” (“Sfrutta o vattene”). Queste differenze possono portare, in certi momenti, a sfruttare quelle risorse senza beneficio e persino in perdita. Aver aggregato cose così diverse, non sempre equivalenti, con prezzi diversi e con mercati più frammentati di quello del petrolio convenzionale, porta ai nostri apprezzati esperti un’incomprensione di come sta funzionando proprio in questo momento il mercato del petrolio, in particolare a paradossi come quelli che si sono visti fra il 2011 e il 2013, quando nonostante che la domanda crescesse di meno dell’offerta il prezzo si manteneva comunque elevato. La chiave è che la domanda di ogni parte di questo congiunto che chiamiamo “tutti gli idrocarburi liquidi” non è la stessa e mettendo tutto insieme non vediamo ciò che è realmente la domanda. Uso un’immagine semplice per spiegare questo: immaginate che venga un esperto da prima pagina e vi dica: “L’anno scorso la Spagna ha prodotto 60 milioni di gioghi e ghigliottine, un record storico. La domanda di gioghi e ghigliottine è diminuita del 1% nonostante questo e, contrariamente all’intuizione, il prezzo delle ghigliottine ha continuato a salire con forza”. E qui il nostro caro amico si avventura in un sacco di spiegazioni, che sono meno verisimili nel momento in cui le si analizza un po’; spiegazioni d’altra parte molto diverse da quelle che ci offriva un altro esperto con credenziali e capacità di analisi simili. Il nostro esperto in articoli per il collo è confuso perché osserva che l’offerta (gioghi e ghigliottine) sale, la domanda scende e, nonostante questo, il prezzo sale in continuazione. La chiave è in cosa sono collegati i due mercati, il mercato dei gioghi che langue con il mercato in espansione delle ghigliottine, così ovviamente non c’è qualcuno che capisca qualcosa. E’ chiaro che se vengono separati i due mercati forse si vedrebbe che in realtà la produzione di ghigliottine scende per mancanza di alcune materie prime necessarie, nonostante sia un prodotto del massimo interesse. Allo stesso modo, trattare i liquidi del gas naturale o i biocombustibili come se fossero la stessa cosa del greggio quando la loro domanda e mercato non sono esattamente gli stessi porta, fondamentalmente, al fatto che il comportamento del mercato di “tutti i liquidi” sia inintelligibile.

– Il picco del petrolio è qui: Forse non lo avete saputo, ma persino la IEA ha riconosciuto nel 2010 che il massimo della produzione di petrolio greggio convenzionale è avvenuta nel 2005. Di fatto, se prendiamo la produzione congiunta dei principali produttori che hanno già superato il proprio picco del petrolio la situazione è, come minimo, piuttosto preoccupante.

Dalla figura è chiaro che il futuro della produzione di petrolio dipende dal fatto che sempre meno paesi non arrivino ai loro rispettivi picchi del petrolio, momento che peraltro sappiamo che è inesorabile. Smettete pertanto di dire che il picco del petrolio è una teoria, perché ci sono diverse decine di paesi per i quali questa “teoria” è un’amara realtà. Ed io al vostro posto smetterei di essere tanto sicuri che la produzione di questa illusione contabile di “tutti i liquidi” continui a crescere di volume (sappiamo già che, in quanto ad energia, questa sta in realtà in discesa dal 2010), perché se la debacle del fracking continua al ritmo attuale, quest’anno potrebbe essere quello del picco volumetrico di tutti i liquidi e quindi dovranno trovare un bel mucchio di scuse per giustificarlo (immagino che la più banale sarà quella del fallace picco della domanda; vediamo se le persone credono che consumiamo meno petrolio perché ora siamo più efficienti e non perché abbiamo una crisi economica pazzesca).

– Gli Stati Uniti non sono energeticamente indipendenti…: Abbiamo già spiegato, analizzando il rapporto della IEA del 2012, che nella conferenza stampa di presentazione, l’economista capo della IEA ha tirato fuori un argomento abbastanza azzardato: che verso il 2020 gli Stati Uniti sarebbero stati il primo produttore mondiale di idrocarburi liquidi e che verso il 20135 sarebbero stati autosufficienti energeticamente “in modo netto”. A partire da quel momento, la stampa ha gonfiato la frottola al punto da dire, prima, che nel 2020 gli Stati Uniti sarebbero stati il primo produttore mondiale di petrolio ed ora che gli Stati Uniti sono sul punto di essere autosufficienti energeticamente, o persino che già lo sono. Dimostrare che gli Stati Uniti non sono autosufficienti energeticamente in questo momento richiede solo pochi minuti. Per esempio, semplicemente consultando i dati di produzione e consumo di idrocarburi liquidi negli Stati Uniti fino al 2013 (il 2014 è molto simile) derivati dall’ultimo annuario statistico della BP:

Produzione (linea nera) e consumo (curva obreggiata grigia) di idrocarburi liquidi negli Stati Uniti. Grafico estratto dal sito web Flujos de Energía, http://mazamascience.com/OilExport/index_es.html

Dati alla mano ci si rende conto che gli Stati Uniti producevano, alla fine del 2013, poco più di 10 Mb/g di idrocarburi liquidi, dei quali grosso modo solo 5 Mb/g sono di greggio convenzionale, 3 Mb/g sono di LTO e 2 Mb/g sono biocombustibili (il cui EROEI è virtualmente di 1, per cui in realtà contribuiscono solo a contare due volte la stessa energia). Purtroppo, proprio in quello momento gli Stati Uniti consumavano 18 Mb/g. Il bilancio è, pertanto, che la loro produzione interna in volume copre solo il 56% del loro consumo e che, pertanto, devono importare niente meno che il 44% degli idrocarburi liquidi che da quelle parti chiamiamo petrolio (tutto ciò alla fine del 2014; tra poco vedremo cosa sta succedendo adesso). Pertanto, è chiaro che gli Stati Uniti non sono autosufficienti per quanto riguarda gli idrocarburi liquidi. Ma, chiaramente, l’argomento della IEA includeva il gas naturale, che stava vivendo una grande ascesa grazie alle estrazioni col fracking. In quel modo, l’idea che aveva la IEA nel suo rapporto del 2012 era che le eccedenze di gas naturale compensassero la mancanza di idrocarburi liquidi (come se fossero cose equivalenti, oltre il loro ruolo) verso il 2035 e così gli Stati Uniti erano autosufficienti “in modo netto” (il diavolo si trova nei dettagli). Gli Stati Uniti in questo momento producono più gas naturale di quello che consumano? La risposta è no: nonostante i grandi aumenti di produzione dovuti al fracking, devono ancora importare, in modo netto, circa un 8% di ciò che consumano.

Produzione (linea nera) e consumo (curva ombreggiata grigia) di gas naturale negli Stati Uniti. Grafico estratto dal sito web Flujos de Energía, http://mazamascience.com/OilExport/index_es.html
L’unica materia prima energetica che gli stati Uniti esportano in maniera netta è il carbone, e sempre in quantità relativamente piccole. Pertanto, di autosufficienza energetica in questo momento non se ne parla. L’altro giorno ho sentito di questi esperti che si ponevano la seguente domanda a voce alta: “perché diminuisce il prezzo del petrolio se gli Stati Uniti sono autosufficienti”? La verità è che non ho capito che sembrava loro strano questo sillogismo. Hanno fatto un ragionamento per me incomprensibile su cosa implicasse per il mercato il fatto che gli Stati Uniti fossero indipendenti e giungevano alla conclusione paradossale che l’autosufficienza energetica degli Stati Uniti implicava prezzi alti (suppongo perché i costi produttivi del fracking sono elevati). In ogni caso, c’era un errore fondamentale di fondo nel loro sillogismo: la premessa è falsa, gli stati Uniti non sono autosufficienti energeticamente…
– … né lo saranno mai: In questo momento conviene andare alla radice della famosa frottola dell’indipendenza energetica degli Stati Uniti. Tutta la storia si basa sulle proiezioni che la IEA ha fatto nel suo rapporto del 2012, il WEO 2012, e la grossolana esagerazione si sintetizza in un unico grafico: 
Abbiamo commentato questo grafico già varie volte su questo blog, ma è chiaro che l’assunto non è stato percepito dai nostri esperti. Vediamo. Ciò che mostra questo grafico è la proiezione (che, ricordiamo, la IEA ha fatto poco più di due anni fa) su come si sarebbero evolute le importazioni di petrolio degli Stati Uniti dal 2012 al 2035. Il primo dettaglio che non dovrebbe sfuggire ad un esperto: nel grafico si vede che nel 2035 gli Stati Uniti importerebbero ancora qualcosa di più di 3 Mb/g. Dov’è quindi la tanto decantata indipendenza energetica? Nel fatto che la IEA assume che gli Stati Uniti produrranno un’eccedenza tale di gas naturale, soprattutto grazie all’impulso del fracking, che nel 2035 questa eccedenza energetica di gas naturale sarà equivalente al deficit di petrolio. Una strana contabilità, in cui per una volta la IEA usa eccezionalmente il valore energetico di ogni combustibile per confrontarli, nonostante che il petrolio sia tre volte più caro del gas. Pensate inoltre che la IEA fissa come orizzonte per raggiungere questo traguardo il 2035, non a caso l’ultimo anno coperto dalle loro previsioni, che è come dire nel lasso di tempo più lungo che si possa concepire. Il fatto è, alla fine dei conti, chi ricorderà nel 2035, con tutto quello che succederà da adesso in poi, delle previsioni che ha fatto la IEA nel 2012? Poiché per loro sfortuna, una parte della stampa che cerca disperatamente buone notizie in tema di energia e gli esperti ai quali è diretto questo articolo, continuano a pensare a questo scenario di abbondanza nordamericana, senza valutare le ipotesi né verificare se sono ancora valide. In particolare, sembra che non siano consapevoli che nei rapporti seguenti, quello del 2013 e quello del 2014, la IEA ha corretto al ribasso le sue previsioni sulla produzione di gas da fracking, per cui “cade” la famosa indipendenza energetica “netta”. 
In realtà, e quando si cominciano a vedere i dettagli, emergono nuvoloni nuovi ed inquietanti. Senza spingersi oltre, nel grafico che sostiene l’errore della presunta futura indipendenza energetica netta degli Stati Uniti, troviamo che ci sono altri 3 Mb/g di diminuzione delle importazioni di idrocarburi liquidi che si integrano con difficoltà: “efficienza dal lato della domanda”. Forza, che l’introduzione di miglioramenti nell’efficienza porteranno ad una diminuzione del consumo di niente meno che 3 Mb/g (sui quasi 19 Mb/g che gli Stati Uniti consumano in questo momento, questo rappresenta il 16% del loro consumo attuale). Che i miglioramenti dell’efficienza portino ad una diminuzione del consumo è una cosa straordinaria, tanto straordinaria che di fatto non si è mai verificato nel nostro sistema economico se non nel mezzo di una grave crisi economica, per ragioni che Lord Jevons potrebbe spiegare ai nostri esperti, se le volessero ascoltare. Naturalmente se gli stati Uniti entrassero in una gravissima crisi economica possono giungere ad essere autosufficienti e più in particolare se la loro economia si trovasse in ginocchio e consumasse molto meno di adesso: sì, potrebbero persino arrivare ad esportare! Si da il caso, tuttavia, che questo scenario non è il paradiso idilliaco in cui sembrano credere i nostri esperti.  
Ci sono altre questioni inquietanti all’orizzonte: come abbiamo commentato analizzando il WEO 2014, la IEA sta già parlando chiaramente di una stagnazione del consumo totale di energia in Europa, Giappone, Russia e Stati Uniti per i prossimi decenni. Non stiamo parlando soltanto di petrolio, ma di tutta l’energia. Come si possa ottenere crescita economica senza aumentare il consumo di energia è una cosa che deve essere ancora dimostrata, a parte alcuni trucchi di contabilità nazionale che vanno poco lontano. Prendendo questa previsione con le serietà che merita, quello che la IEA ci sta dicendo è che la recessione sarà permanente, il che è logico se si considera che, proprio per la scarsità di petrolio, questa crisi non finirà mai, come continuiamo a dire da 5 anni in questo blog. Che un tema tanto cruciale sia trasparente per i nostri esperti mostra che, ovviamente, non leggono i rapporti della IEA e dicono anche pochissimo sulle fonti da cui attingono, molte delle quali sono la stessa notizia elaborata e rielaborata da altri esperti della stessa risma, in un curioso ecosistema informativo nel quale gli scarti di uno finiscono per essere il nutrimento di un altro. 
Ma ciò che finisce per proiettare un’ombra minacciosissima sul futuro energetico degli Stati Uniti, e quindi di tutto il pianeta, è il fallimento del fracking. I nostri esperti ora sono ossessionati dalla recente discesa dei prezzi del barile di petrolio (della quale parleremo più avanti), offrendo argomenti fra i più variopinti, senza essere in grado di vedere che il dramma era in gestazione da vari anni, fondamentalmente gli stessi da quando il fracking ha preso il volo. Gia nel novembre 2013, la IEA lanciava un avvertimento profetico ai naviganti col grafico seguente, che abbiamo già commentato a suo tempo:
In esso la IEA ci anticipava come si sarebbe evoluta la produzione di idrocarburi liquidi (esclusi i liquidi del gas naturale, forse per non non ingarbugliare falsamente di più la discussione) se non si fosse prodotto un maggiore investimento (in realtà, l’investimento sufficiente). Come si può apprezzare, la caduta della produzione è raccapricciante, arrivando ad essere un quarto di quella attuale (anche se questo in volume; in energia sarebbe molto di meno, in linea con l’orizzonte 1515). Con questo grafico, inserito in mezzo al rapporto annuale, la IEA inviava un messaggio di un certo allarme a chi doveva riceverlo (ovviamente, non le fanfare mediatiche, ubriache di sogni bagnati di fracking). La reazione dell’industria di fronte ad un tale avvertimento è stata esattamente l’opposto di ciò che veniva chiesto: un’ondata di annunci di disinvestimento, che già a marzo del 2014 ci faceva prevedere che l’industria degli idrocarburi perde soldi a piene mani: più di 100.000 milioni di dollari all’anno, con debito accumulato di più di mezzo miliardo di dollari. E ricordate che tutto questo succedeva col prezzo del petrolio ancora sui 100 dollari. In seguito, e solo in seguito, è cominciata l’attuale discesa dei prezzi, che non è ancora finita, per cui tutti i problemi descritti stanno peggiorando. In questo contesto, il numero di imprese dedite all’estrazione di idrocarburi mediante fracking ed altri idrocarburi non convenzionali che stanno fallendo ci indica che la bolla finanziaria creata intorno al fracking sta scoppiando. A seconda se il collasso di questa industria sia più rapido o più lento, i tempi si accorceranno o allungheranno, ma le conseguenze finali saranno ugualmente funeste. 
– “Il fracking è venuto per restare”: Questa è una delle frasi che ho dovuto sentire ultimamente in una omelia di un esperto. La frase corrisponde al genere pensiero magico, variante solo leggermente più adulta di quella strategia di negazione che hanno i bambini di ripetere a voce alta “Non è vero, non ti ascolto”, mentre si tappano le orecchie quando non vogliono che si dia loro una cattiva notizia. Se il fracking, come dicono questi signori, è venuto per restare, dovrebbero poter fornire dati chiari al riguardo, perché tutte le previsioni che ho visto (compresa la più ottimista di Goldman Sachs che si trova più in basso su queste righe) parlavano di un raggiungimento del massimo produttivo molto vicino – pochi anni da adesso – e a partire da lì di un declino più u meno rapido. 
La cosa negativa di queste previsioni del picco del LTO prossimo e del rapido declino ulteriore è che sono state fatte in un ambiente molto diverso da quello attuale, con prezzi del petrolio molto più alti. Se anche con i prezzi precedenti, le imprese perdevano soldi, con i prezzi attuali stanno sprofondando nella più assoluta delle miserie. Continuare a parlare della “abbondanza del fracking”, o che “il fracking può resistere all’attuale situazione dei prezzi”, quando il numero dei pozzi attivi negli Stati uniti è crollato di più del 40% dal suo massimo dello scorso anno, risulta o del tutto ignorante o deliberatamente manipolatorio.
Alcuni esperti, vedendo che è sempre più difficile negare la debacle delle prospezioni americane e che l’ipotesi giunge già alle prime pagine dall’altro lato dell’Atlantico, si aggrappano agli ultimi fili d’erba in fiamme, evidenziando il fatto che nonostante il numero di pozzi attivi crolli rapidamente, la produzione si mantiene entro le statistiche ufficiali della statunitense EIA. Attribuiscono il fatto ai miglioramenti nell’efficienza di produzione, frutto di una adeguata ristrutturazione del settore, che finirà per sanare la crisi. Il loro grado di esperti, evidentemente, non li ha portati a sapere che, per colpa dei tagli fatti in questo dipartimento qualche anno fa, i dati di produzione hanno uno sfasamento reale di 3-6 mesi, durante i quali quello che si fa è estrapolare le tendenza precedente. Di fatto, ora che cominciano ad arrivare dati dell’inizio della crollo dei prezzi, si cominciano a vedere le prime differenze significative fra quello che si prevedeva e la cruda realtà. 
Nel caso tutto questo fosse poco, da queste parti si gioca molto a parlare di fracking, che è la tecnica di estrazione, ma senza spiegare quale idrocarburo si vuole estrarre, se petrolio o gas naturale. Perché, come abbiamo già spiegato, il LTO è marginalmente redditizio, o lo è stato per alcune estrazioni, ma il gas naturale non lo è e non lo è mai stato (un meme comune fra gli esperti è che il prezzo del gas negli Stati uniti sia un terzo che in Europa “grazie al fracking”, senza spiegare che ciò è stato possibile attraverso l’indebitamento e con un consumo locale piuttosto stagnante). La differenza è importante, tenendo conto che, per esempio, in Europa (e in Spagna in particolare) sono state identificate solo risorse di gas naturale estraibili col fracking, mai di petrolio. Perché c’è tanta insistenza su numerosi forum europei sul fatto che l’Europa dovrebbe scommettere su un combustibile molto meno versatile del petrolio e con un mercato molto più limitato, con un EROEI ancora più basso e pertanto economicamente rovinoso, con delle prospettive di produzione molto limitate nonostante le grandi riserve e con un grande impatto ambientale è per me un mistero, che a dire di qualcuno si chiarisce alla luce di certe presunte e consistenti commissioni. Alla fine, è possibile che la frase “Il fracking è venuto per restare” sia vera, anche se non nel senso che intendono i nostri esperti. L’impatto ambientale del fracking può lasciare un’impronta duratura. 
– I sauditi stanno tentando di far sprofondare l’Iran, l’Russia, il fracking negli Stati Uniti e/o i dolcetti di mia nonna:  Questo tema è stato trattato con molta profondità su questo blog che non ho voglia di ripetermi di nuovo qui. Per capire l’attuale processo di sprofondamento dei prezzi (e verso dove ci porta) potete leggervi “La Spirale” e per comprendere che non c’è nessuna cospirazione ma ci si strugge per lei, “L’illusione del controllo”. 
– Il costo dell’estrazione di un barile di petrolio in Arabia Saudita non è di 2 dollari: Molti esperti si impegnano a dire che estrarre petrolio in Arabia saudita sia un regalo, che estrarre ogni barile costi solo un paio di dollari. Si vede che questi signori e signore vivono ancorati alla loro adolescenza o alla loro gioventù, visto che credono che nei 40-50 anni che sono passati da quando questo era così non sono niente. Poco importa che persino il giacimento supergigante di Ghawar sia già molto maturo e che richieda l’iniezione di grandi quantità di acqua per mantenere la sua produzione, poco importa che si siano dovuti mettere in produzione giacimenti di così scarsa qualità come quello di Manifa, mescolando la sua produzione col resto del greggio saudita per evitare che la produzione decada. Al nostro esperto non importa nemmeno, insomma, che ai sauditi non rimane nient’altro, nessun altro giacimento in riserva, per evitare la caduta della produzione in pochi anni. 
Produzione di petrolio dell’Arabia Saudita. Adattato da http://peakoilbarrel.com/opec-crude-plus-more-on-eia-estimates/
E’ uguale: se nei 60 anni del secolo passato produrre petrolio in Arabia Saudita costava 2 dollari, oggi costa lo stesso. In realtà, il costo di produzione si situa piuttosto intorno ai 20 dollari per l’Arabia Saudita e oltre i 25 dollari al barile come media dell’OPEC (peggio ancora: se si tiene conto dell’inflazione, il costo di produzione non è mai stato di 2 dollari del 2015, che è è la cosa implicita nell’assurda estrapolazione dei nostri esperti). Ma, come abbiamo spiegato circa due anni fa, i paesi produttori hanno le loro necessità, che vanno oltre la mera copertura dei costi logistici per produrre petrolio perché noi lo bruciamo allegramente in un fuoristrada per andare a comprare il pane. Risulta che questi paesi abbiano bisogno di un prezzo al barile abbastanza alto perché gli introiti fiscali permettano di mantenere qualcosa di più dei privilegi della élite: un sistema di redistribuzione minima della rendita, basato su un sistema di aiuti sociali, che hanno come obbiettivi di impedire che comincino le rivolte in quei paesi e tutto vada in malora. Quei costi fiscali sono pertanto strutturali, forse più di quelli di mettere in funzione la trivella o trasportare il greggio. E quei costi non sono per niente bassi: in media, si situano al di sopra degli 80 dollari al barile. 
Pertanto, pensare che c’è un margine per l’abbassamento dei prezzi del petrolio o per mantenerli bassi per maggior gloria del consumatore occidentale è di una ciecità assoluta, completamente impropria per un autoproclamato esperto. 
– Il risparmio e l’efficienza non cambiano nulla di per sé: Anche questo tema è stato trattato in diverse occasioni qui (compreso in chiave “for dummies”). Pare che un nobile inglese che è vissuto alla fine del XIX secolo, Lord William Jevons, ha osservato che nella misura in cui veniva migliorata l’efficienza delle macchine a vapore, il consumo di carbone dell’Inghilterra aumentava anziché diminuire: è il famoso Paradosso di Jevons. A cosa è dovuto? Al fatto che in un sistema economico orientato alla crescita infinita ed alla produzione, l’energia che rimane libera perché qualcuno non la usa (mediante risparmio diretto o indirettamente all’aumentare dell’efficienza) la userà qualcun altro per produrre beni e servizi e guadagnare così più soldi. Come diceva Javier Pérez nel suo post per profani: “La ragazza che non hai baciato non si è fatta suora: si è spostata con un altro”. Anche questo principio semplice, ben conosciuto da più di un secolo e mezzo, non è riuscito a permeare il comprendonio di tanti esperti che scorrazzano su questo mondo di Dio e quindi abbiamo una fastidiosa insistenza sul fatto che bisogna fomentare il risparmio e l’efficienza energetica, come se questo risolvesse qualcosa. Quello che sta succedendo è che l’energia che risparmiano i consumatori finisce per consumarla l’industria, i prezzi dell’energia non diminuiscono e, soprattutto, per aggiungere danno alla beffa, al consumatore aumentano altri costi indiretti di modo che continua a pagare lo stesso di prima o di più. Per esempio in Spagna, nella bolletta elettrica è diminuito il prezzo della parte che si riferisce al consumo realmente realizzato, ma è aumentato il prezzo delle spese fisse (che va riferito alla potenza contrattata), per cui il consumatore finisce per pagare di più anche se consuma meno. 
Contrariamente a quello che pensano alcuni picchisti più radicali, non è che non ci sia soluzione al paradosso di Jevons: sì che c’è. Inoltre, risparmio ed efficienza saranno molto utili in futuro. Ma il primo passo è cambiare l’origine del paradosso e di molte altre contraddizioni: un sistema economico basato sulla crescita continua. E quei vediamo il vero volto di molti esperti: in nostro sistema economico, il capitalismo, è semplicemente intoccabile e si può parlare di tutto tranne di cambiare questo sistema. Sono convinto che molte delle affermazioni assurde ed infondate fatte da molti esperti hanno origine nel fatto che non hanno il coraggio di mettere in discussione l’indiscutibile, non osano smettere di affrontare la questione di fondo in punta di piedi e tirar fuori il rospo e dire tutto. Invece cercano una soluzione provando a giocare con tutte le variabili tranne quella ovvia: una cosa simile a quella dell’uomo che cercava le proprie chiavi smarrite sotto il lampione e non qualche metro più in là, dove in realtà gli erano cadute, perché sotto il lampione c’era più luce. 
– Non c’è nessun mistero sul perché non si installano più pannelli solari in Spagna: La Spagna riceve molto più irraggiamento dei paesi del Nord Europa che hanno installato in proporzione molti più pannelli fotovoltaici, soprattutto negli ultimi anni. Un argomento ricorrente di un certo tipo di esperti di energia, del sottoinsieme “con coscienza ecologica”, è quello di chiedersi perché in Spagna, che per qualche anno a condotto l’implementazione di sistemi di generazione di energia rinnovabile, siamo messi ancora così male. Si indica il Governo (i Governi, in realtà) che hanno smantellato il settore e c’è una parte innegabile di ragione in questo. Tuttavia, il problema delle rinnovabili è molto più profondo e non è circoscritto soltanto alla Spagna, come abbiamo spiegato trattando la relazione fra rinnovabili e capitalismo: i sistemi di energia rinnovabile hanno un rendimento economico insufficiente per mantenere il sistema capitalista tale e quale a come è strutturato in questo momento. Per questo non vengono incentivati. E il problema, come dicevo, non è circoscritto alla Spagna; lo stop dell’investimento in Europa è evidente: 
Persino in Germania stanno tagliando gli incentivi all’energia rinnovabile (di recente è uscito un rapporto devastante per il settore rinnovabile del Regno Unito). La chiave è che il basso EROEI di questi sistemi li rende inadeguati per mantenere il capitalismo così come lo intendiamo. La soluzione qui sembra passare per l’abbandonare il capitalismo o abbandonare le rinnovabili, ma siccome il primo proposito è inaccettabile per la maggior parte degli esperti, in modo aperto o subdolo, scelgono la seconda. E coloro che non possono accettare nemmeno la seconda per il proprio profilo “ecologicamente consapevole” di dedicano a fare rigiri dialettici e a porsi la domanda retorica: “Come mai che avendo tanto Sole in Spagna non si investe di più in fotovoltaico?”, mentre non cambia assolutamente niente. 
– Non è l’elettricità ciò di cui abbiamo bisogno: Sembra una bugia tornare ad insistere in continuazione sullo stesso semplice fatto: nel 2011 l’elettricità in Spagna ha costituito soltanto il 21% del nostro consumo di energia finale. Se questa percentuale è aumentata al 23% nel 2014 non è a causa del fatto che si sono trovati più usi e migliori dell’elettricità qui, ma perché il consumo di petrolio è crollato del 25% dal suo massimo del 2008. Di fatto, il consumo di energia primaria in Spagna in questo momento è paragonabile a quello dell’inizio di questo secolo.
Elettrificare gli usi attualmente non elettrici dell’energia non è un compito facile. Abbiamo già esposto qui in dettaglio per quali motivi l’auto elettrica è solo una chimera, ma che abbiamo bisogno di molti macchinari che non sono auto (camion, trattori, escavatrici, navi, aerei) la cui elettrificazione come veicoli autonomi non si discute a causa della dimensione sproporzionata che dovrebbero avere le batterie. Non è che non si può elettrificare la società, ma è il caso di fare una pianificazione molto oculata, tenendo conto inoltre dei limiti dei materiali necessari. Qualche anno fa abbiamo fatto questa analisi e la soluzione esiste, anche se i cambiamenti che implica per il nostro sistema economico sono radicali. Di fatto, è necessario il superamento del capitalismo per poter fare questa transizione.
– Smettete di far fretta all’innovazione: I progressi tecnologici non avverranno perché coincidono col fatto che abbiamo la fortuna di trovare una nuova fonte di energia o di un sistema per sfruttare meglio l’esistente (senza che Jevons ci guasti la festa). E non è una questione di più investimento, come sembrano pensare gli economisti tradizionali. L’innovazione nell’energia è molto più lenta o forse limitata che in altre aree, probabilmente perché i limiti della Termodinamica sono piuttosto rigidi. Non ci sono stati grandi cambiamenti nel meccanismo centrale per produrre elettricità per più di un secolo: continua a consistere nel fare girare delle spire all’interno di un campo magnetico e la maggioranza delle centrali elettriche consistono nel far bollire acqua perché il vapore muova un rotore che faccia girare quella bobina. Sono stati migliorati i progetti ed i materiali, certo, ed in alcune caldaie si riutilizza parte di quel vapore, ma alla fine c’è una grande parte dell’energia, quasi sempre più del 50%, che va semplicemente perduta. E’ da decenni che non stiamo introducendo nuove fonti di energia: il carbone, che si sfrutta da tempi immemorabili, il petrolio e il gas (su scala industriale) da circa un secolo e mezzo, l’uranio da 70 anni, l’energia idroelettrica da un secolo, le prime celle fotovoltaiche hanno quasi 60 anni e i primi aerogeneratori poco meno. Ci sono, naturalmente, alcune idee nuove (le più promettenti, le centrali termosolari, si basano su principi conosciuti dagli antichi greci e già implementati in modo rudimentale per produrre elettricità alla fine del XIX secolo) ma non ci sono cambiamenti rivoluzionari ne rotture di paradigma. I problemi con le fonti di energia si conoscono da circa mezzo secolo, quando c’è stato il primo spavento col petrolio e in tutto questo tempo non è stato possibile giungere a qualcosa di realmente competitivo che permettesse di mantenere il nostro attuale sistema. Alcuni interpretano questa assenza come una fatua dimostrazione dell’esistenza di una grande cospirazione, senza comprendere che il nostro sistema economico e produttivo integra tutto ciò che ha un rendimento adeguato. Guardando le cose spassionatamente, sembra più che i progressi in materia di fonti energetiche o non sono possibili e hanno un orizzonte abbastanza scarso. Ma anche se si ha una certa fiducia nel fatto che alla fine si verificherà un avanzamento tecnologico rivoluzionario (e forse dopotutto non tanto desiderabile), è ovvio che non reagire ai gravi problemi che già abbiamo, aspettando che si verifichi il miracolo opportuno, è un modo negligente di gestire la situazione attuale, completamente temeraria e impropria da parte di chi ha questa responsabilità. Per questo è sorprendente che i nostri esperti, alcuni dei quali sono consiglieri dei nostri Governi, sostengano questa fede irrazionale nel miracolo salvifico, in una manifestazione di tecno ottimismo imprudente
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Un venerdì come tanti, alcuni di questi santoni ed io ci troveremo nella stessa sala, a pochi metri di distanza, quasi guardandoci in faccia, loro che parlavano ed io che ascoltavo. La posizione è simile, quasi simmetrica in realtà. E forse condividendo gli interessi (anche se non gli atteggiamenti) e trovandosi nello stesso spazio, in qualche modo questa simmetria persiste, imperfetta, per un po’ di tempo: il sabato seguente questa persona tornerà alle sue funzioni (oficios):
ed io alle mie buche (orificios).
Saluti.
AMT

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Siamo programmati per ignorare il problema?

Da “Do the Math“. Traduzione di FDN

Di Tom Murphy

Ho iniziato “Do the Math” nel 2011 come un modo per raggiungere un pubblico più vasto di una manciata di studenti ogni anno o due in un corso di energia a UCSD (University of California, San Diego). Avevo (e ho ancora) profonde preoccupazioni per i presupposti che assumiamo come società basata, dal secolo scorso o giù di lì, sulla corsa all’utilizzo dei combustibili fossili. Cercare di dirigere la politica dall’alto sembra una proposta perdente: i politici incapaci si adeguano ai desideri dei loro elettori attraverso un meccanismo che chiamiamo democrazia, quindi perché non cercare di convincere le persone direttamente?

Non ho mai immaginato di creare un blog con milioni di visite, e questo è ben lungi dall’avere un impatto su grande scala. Ma ho pensato che lo dovevo a me stesso di raggiungere il maggior numero di persone possibile. Quello che ho scoperto è che pochi “eletti” sembrano condividere le mie preoccupazioni. E alcuni commentatori del blog sono decisamente in disaccordo sul fatto che bisogna preoccuparsi (perché allora fare lo sforzo apparentemente sprecato di rispondere – dal loro punto di vista- a un eccentrico catastrofista, se in realtà non abbiamo bisogno di essere preoccupati?). Ma la maggior parte delle persone semplicemente non si preoccupa abbastanza per entrare in sintonia con questi temi. Forse hanno imparato a ignorare qualsiasi tipo di previsione. Ultimamente, a causa di un aumento della produzione mondiale di petrolio (guidato quasi interamente dallo shale oil degli Stati Uniti) e di un’economia in ripresa, ancor meno persone prendono in considerazione il concetto di limiti delle risorse.

Ma penso che stia succedendo qualcosa di più fondamentale. Credo che abbiamo a che fare con i tratti di personalità insiti nella natura umana. Siamo capaci di attenuare una potenziale e lontana calamità attraverso energici sforzi decenni prima di una presunta crisi? In questo post, userò alcuni dati di un sondaggio che suggeriscono che possiamo essere nei guai.

La prova di un problema

Circa un anno fa un amico ha condiviso un grafico da un sondaggio informale sul sito Peak Prosperity, il sito di Chris Martenson, che ospita un “corso intensivo“che consiste di 4,6 ore di contenuti video di qualità che descrivono perché dovremmo preoccuparci che il domani possa non essere più grande dell’oggi, e perché la fase di crescita potrebbe essere proprio questo, una fase. Per inciso, nel 2012 ho rilasciato una intervista per il sito di Chris Martenson.

I visitatori del sito Peak Prosperity probabilmente hanno molto in comune con i lettori di Do the Math: la preoccupazione fondamentale è la stessa. Si tratta di persone che, nel complesso, non si accontentano di desumere, estrapolare il futuro dal “qui ed ora”. Pensiamo che ci saranno cambiamenti fondamentali nel modo in cui funziona l’intero pianeta Terra rispetto ai nostri primi giorni di sfruttamento delle risorse in una Terra vergine. In molti casi ci sono calcoli convincenti che giustificano una preoccupazione. Piuttosto che cercare di prevedere un futuro terribile, il mio obiettivo in “Do the Math” è stato quello di sviluppare una spiegazione plausibile del fatto che le cose stano andando fuori controllo, nella disperata speranza che il riconoscimento di questa possibilità possa stimolare immediatamente l’azione per evitare questa potenziale insidia (e così sbaglio, ma felicemente). Si sta cercando di mostrare un punto cieco, un drago addormentato.

Ma questo punto cieco può essere insito nella natura umana. Ed eccoci al sondaggio:
Il sondaggio chiedeva alla gente di indicare il loro tipo di personalità secondo la classificazione dell’indicatore di Myers-Briggs. Tenete a mente che si tratta di persone che visitano il forum di Peak Prosperity. Definiamo queste persone “ricettive al messaggio di allarme”. O almeno interessate a questo argomento, siano essi sostenitori o detrattori.

Il risultato del sondaggio

Definirò subito i tipi di personalità, ma prima diamo un’occhiata ai dati del sondaggio di Peak Prosperity.

 Figura 1 – Peak Prosperity poll: 114 respondents; INXX-heavy
Vediamo un enorme picco per il tipo INTJ. Indovinate che tipo sono io?

Il risultato è stato abbastanza sorprendente. Delle 114 risposte, i visitatori del sito sono dominati dal tipo INTJ (43 persone, 38%), anche se questo gruppo costituisce circa il 2-3% della popolazione. Il sito sembra essere altamente selettivo. E ‘come se si organizzasse un incontro a San Diego per parlare delle punte da trapano e quasi la metà dei partecipanti fossero persone coi capelli rossi. Se questo dato è corretto l’implicazione è che meno del 8% di tutta la popolazione umana è presumibilmente ricettiva al messaggio di allarme di Peak Prosperity (e, per estensione, di Do the Math, le cui visite suggeriscono un numero ancora più piccolo). Questa è una piccola parte della popolazione, e probabilmente ben al di sotto di una “massa critica” per un’azione preventiva. Quindi la crisi potrebbe essere inevitabile.

Motivato da questo scioccante risultato, mi sono rivolto ai lettori di Do the Math per ottenere un altro sondaggio della stessa natura, ma questa volta con una maggiore grado di controllo e di conoscenza sui metodi. Ho ottenuto quasi 1000 risposte uniche, e il risultato è sorprendentemente simile, se non ancora più squilibrato. Ve lo mostrerò in seguito; prima farò una digressione per spiegare l’indicatore Myers-Briggs, e poi analizzerò alcuni interessanti risultati che emergono dai nuovi dati.

I Tipi di personalità secondo Myers Briggs

Non aggiungo nulla a ciò che è stato detto a proposito dei tipi MB, e per il contesto raccomando la pagina di Wikipedia. Tuttavia darò una breve spiegazione in modo che non ci sia bisogno di cercare altrove, almeno per padroneggiare il gergo specifico.

L’indicatore MB dispone di quattro campi/caratteristiche, ciascuna delle quali ha a sua volta due possibili lettere/caratteristiche . Così ci sono 16 possibili combinazioni/tipi, il che porterebbe a circa il 6% per tipo se uniformemente distribuiti ( ovviamente non è così). Ogni persona ha in parte entrambe le caratteristiche opposte, e alcuni individui saranno più o meno nel mezzo (nè convintamente da una parte né dall’altra).

Introvert/Extravert: introversione/estroversione

Il primo campo è rappresentato da una I o una E a seconda se una persona tende a sentirsi impoverita o stimolata dall’interazione sociale.

Sensing/iNtuiting: sensitività/intuizione

Il secondo campo è S o N. Le informazioni di una persona si basano in gran parte su input sensoriali diretti, o provengono più da una lettura astratta, intuitiva, di sintesi di un più ampio insieme di input? Pensate a questo come ad una tendenza alla concretezza piuttosto che all’astrazione. Qualcuno che tiene una palla di neve davanti al Congresso per negare il concetto di cambiamento climatico è un tipo S puro. La dicotomia S/N è forse l’attributo più importante per stabilire se un individuo prenderà in considerazione il punto di vista di Do the Math.

Thinking/Feeling: ragionamento/sentimento

La dicotomia T/F è abbastanza auto-esplicativa. Una persona punta più sulla fredda logica e sulla deduzione, o sulla considerazione delle esigenze e dei sentimenti degli altri? Spock o Kirk?

Judging/Perceiving: giudizio/percezione

Per me la designazione J/P è la più difficile da descrivere. Giudizio non significa essere moralista. Tecnicamente, quando si tratta di elaborare delle informazioni dal mondo, i tipi J si basano più pesantemente sulla loro struttura T/F mentre i tipi P contano più sulla struttura S/N. Come proprietà emergente unisci un tipo T con un J (come me) ed avrai un pianificatore puntuale.

“Comporre” le personalità

Mettete questi quattro tratti insieme e otterrete le diverse personalità. Ci sono un sacco di pagine e libri che descrivono gli attributi dei tipi MB. Il test ufficiale Myers-Briggs è a pagamento. Ma nel web si trovano un sacco di imitazioni del test (come qui – bisogna essere consapevoli che ottenere il 56% in una categoria significa il 56% della strada da neutrale a hard-over (ossia totalmente di un tipo), o qui , o qui ). Se volete vedere una descrizione abbastanza precisa del tipo INTJ, per esempio, guardate questo link (modificate le ultime quattro lettere dell’indirizzo URL per vedere gli altri tipi).

Può essere interessante leggere le caratteristiche dei vari tipi. Leggendo le caratteristiche del tipo INTJ mi ritrovo a dire: “Sì, mi hanno capito – come hanno fatto a sapere addirittura questo su di me?” E non è come l’oroscopo in cui trovi un sacco di generalizzazioni, a tal punto che chiunque può identificarsi con porzioni significative di qualsiasi descrizione. Quando ho letto le descrizioni degli altri tipi di Myers-Briggs ho trovato molte meno sovrapposizioni. E a differenza dell’astrologia, che lega ridicolmente tratti di personalità alla data di nascita, il tipo MB si basa sulle vostre personali (e presumibilmente oneste) risposte a una serie di domande: il risultato è auto-diretto così da essere una personale riflessione rilevante ed accurata del tuo modo di essere.

Soffermiamoci a riflettere: pensate che un campione di lettori di Peak Prosperity o di Do the Math mostrerebbe una correlazione od un forte orientamento per il segno zodiacale o il mese di nascita? Quando un qualsiasi sistema di classificazione produce risultati così netti come si vede sopra, ci deve essere qualcosa di “reale” per il sistema, anche se non si capisce di cosa si tratta. Il fatto che così tanti scienziati sono INTJ non è un caso. E’ una questione del tipo di personalità, e spesso si manifesta molto presto nella vita.

Diffusione nella popolazione

La pagina (inglese) di Wikipedia ha alcune statistiche sulla diffusione dei 16 tipi nella popolazione degli Stati Uniti, così come alcune etichette sul tipo di carattere. Altri siti assegnano altre etichette; la tabella sottostante fornisce alcune sintesi.

 
Per essere precisi ho modificato la fascia alta delle gamme ISTJ e ISFJ dell’1% in modo che la somma dei valori medi sia il 100%. Nella colonna “diffusione adottata”, ho messo due numeri: il primo è la media del range indicato nella seconda colonna, e l’altro viene dal sito Truity (che ha anche una ripartizione di genere).

I risultati di Do the Math

Così ho lanciato un sondaggio su Do the Math per vedere se il risultato di Peak Prosperity veniva confermato. Volevo fare il sondaggio super-semplice (una domanda con 16 scelte a scorrimento), ma un giorno e centinaia di risposte più tardi mi è venuto in mente che avrei voluto chiedere un altro paio di domande (conoscevi già il tuo tipo MB? – sottoscrivi il messaggio di allarme?). Così ho fatto un altro appello e ho raccolto 230 integrazioni al primo sondaggio oltre a circa 500 nuovi partecipanti, per un totale di 958 (in totale 725 persone hanno risposto al secondo sondaggio con le domande supplementari).

Il confronto tra le due serie di risposte non ha rilevato problemi statistici, quindi presento i dati combinati.

Ecco il risultato, tracciato sopra i dati di diffusione della popolazione (secondo Wikipedia in rosso, secondo Truity in blu, la sovrapposizione in viola).

 Figura 2 – Do the Math respondents (958): looks nothing like the overall population!

Praticamente la stessa storia del sondaggio originale di Peak Prosperity. La differenza principale è che Do the Math ha circa la metà di INFJ in percentuale rispetto a Peak Prosperity. Forse la propensione ad un approccio analitico di Do the Math seleziona un po ‘più persone T rispetto alle F. Ma in ogni caso si noti che la distribuzione delle personalità in Do the Math e la distribuzione della popolazione in generale non sembrano per niente simili! Guarda tutti quei capelli rossi tra il pubblico! Chi si immaginava che le punte da trapano catturassero esclusivamente l’interesse di un tale pubblico?

La popolazione ricettiva

Ok, ora che conosciamo alcuni dei principi fondamentali sui tipi di personalità e sulla loro distribuzione, e abbiamo visto i dati di Do the Math, cerchiamo di valutare il significato dei risultati.

INTJ rappresenta il 44% degli intervistati, ma solo il 2-3% della popolazione. E questo, molto semplicemente, è ciò che rende questo sondaggio così notevole. Ancora non riesco a crederci.

Per “contrastare” questo squilibrio estremo (della rappresentatività del tipo INTJ nel sondaggio e nella popolazione), assumiamo che il 100% dei tipi INTJ ascoltino il messaggio di Do the Math e lo prendano sul serio (o siano persuasibili). Questo gruppo ha già dimostrato una predilezione: portiamola all’estremo. Certo, questo può essere eccessivamente ottimistico, ma vedremo che anche questa generosa ipotesi ci porterà comunque ad un risultato modesto. Possiamo quindi calcolare il livello di interesse in altri gruppi.

Il grafico che segue aiuta ad illustrare l’approccio scelto.

Figura 3 – Saturating INTJ, we capture only 6.8% of the total population!

In questo grafico ho tracciato in rosa la distribuzione dei tipi nella popolazione presa da Wikipedia, la cui somma totale è il 100%. Sopra vi ho tracciato i dati del sondaggio di Do the Math in modo tale che la linea blu non supera la popolazione di ciascun tipo. In altre parole le risposte ottenute per ogni tipo non possono essere maggiori di quelle che esistono nella società secondo i dati di Wikipedia. Non sorprende che il tipo INTJ, fortemente sovra rappresentato, imposta il limite superiore di saturazione. Imporre che le due distribuzioni siano uguali per INTJ equivale ad affermare che il 100% delle persone INTJ sono tutti potenziali sostenitori di Do the Math (che sarebbero tutti naturali sostenitori/ascoltatori del messaggio di allarme). Ancora una volta, questo è probabilmente un’esagerazione.

Ma qui ci sono due aspetti interessanti: In primo luogo se sommiamo su questa scala le percentuali di tutti i sostenitori di Do the Math per ogni tipo otteniamo solo il 6,8% della popolazione, un po’ meno di quanto si ottiene facendo la stessa cosa con i risultati di Peak Prosperity ( 8%). Se si usa la distribuzione del sito Truity il 6,8% diventa 4,5%, quindi siamo in un range del 5-6%.

La seconda cosa interessante è che possiamo determinare il livello di interesse degli altri tipi (normalizzate all’ipotesi del 100% per INTJ: se questa ipotesi non si considera accurata si possono scalare tutte le percentuali). Guardando la linea rossa del grafico (distribuzione di Wikipedia) possiamo vedere che il livello di interesse del tipo INTP è di circa il 40%, per INFJ è forse del 25%, e tutti gli altri sono molto inferiori. Così abbiamo un grafico del livello dedotto di interesse per i due insiemi di dati di distribuzione della popolazione (stesso schema di colori di prima).

Figura 4 – Interest level in DtM as function of type, if INTJs are 100% interested, for two prevalence models

Dove sono andate a finire le persone Esxx (10°, 11° e 12° colonna) e le ISFx (4° e 5° colonna)?

Ricordate, questo grafico è normalizzato secondo l’ipotesi che il 100% delle INTJ potrebbe aderire al messaggio di allarme. Nella misura in cui questo non è vero il numero nella popolazione totale scende.

Il risultato è notevole. Anche se fuori di un fattore due a causa di qualche problema sistematico (esaminato sotto), probabilmente non abbiamo una frazione abbastanza elevata di persone con la disposizione a prendere il messaggio di allarme sul serio e in anticipo rispetto a delle crisi evidenti. Se il 5% è una percentuale troppo bassa per essere una massa critica (ed ho il sospetto che sia proprio così), allora questo potrebbe segnare il nostro tragico destino: la natura umana non è all’altezza della sfida.

Cassandra – anche se alla fine aveva ragione – rappresenta il simbolo di allarmismi ingiustificati. Gridare al lupo al lupo è un modo di dire per indicare falsi allarmi, anche se alla fine della storia il lupo arriva davvero. La lezione da imparare da queste storie non viene forse fraintesa? Invece di concludere che si devono sempre esaminare gli avvertimenti (le conseguenze sono nefaste), creiamo delle etichette per criticare coloro che lanciano un allarme.

Se il messaggio di allarme è fuori strada, allora forse è per questo che gli aderenti non raggiungono la massa critica, anche se non sono sicuro di quale danno deriverebbe da una campagna aggressiva per ridurre l’esaurimento dei combustibili fossili e di altre risorse, diversi da quelli di un rallentamento/inversione economica. Naturalmente credere nel sogno utopico è considerato abbastanza criminale, visto che innumerevoli persone perderebbero comfort e vita agiata.

Questa si può chiamare Scienza?

Beh, no, quello che sto facendo qui non si può chiamare “scienza”. E’ uno studio, un’analisi basata su due sondaggi. È interessante. Ha una possibilità significativa di essere nel giusto, e ne parlerò usando un po’ di intuito. Come minimo sembra essere qualcosa a cui dovremmo prestare attenzione, e se non altro provare a fare uno studio scientifico più controllato. Penso che sia importante. Se gli esseri umani nel loro complesso non sono programmati per pianificare a lungo termine evenienze mai viste prima, allora dovremmo saperlo ed accettarlo, e riconoscere una vulnerabilità di base (si potrebbe anche dire: difetto, limite, ostacolo, punto cieco).

Potrebbe esserci qualcosa di sbagliato nei dati?

La mia prima esposizione di questo straordinario squilibrio riguarda il sondaggio di Peak Prosperity per il quale non avevo conoscenza personale della fonte e dei metodi impiegati: c’era un link per fare un test di tipo MB nel caso in cui i partecipanti non conoscessero già il proprio tipo? I risultati ottenuti riguardavano solo chi conosceva già il proprio tipo, e le persone INTx apprezzano davvero questo genere di cose? Le persone INTx amano fare sondaggi (io non molto)? Il risultato è stato così impressionante che ho anche contemplato la possibilità che fosse stato falsificato per dimostrare una tesi forte. Non che ci abbia creduto davvero, ma non ne ero sicuro.

Questo è il motivo per cui io stesso ho rifatto il sondaggio. Così conosco l’audience (lettori di Do the Math che apprezzano il sito così tanto che hanno impostato la notifica di nuovi post, o controllano periodicamente in cerca di post sempre più speciali). So anche che ho fornito un link ad un test MB nel caso in cui le persone non conoscano già il proprio tipo.

Il grafico che è venuto fuori è praticamente uguale (stessa distribuzione, anche se con una notevole riduzione di INFJ), ma avevo ancora dei dubbi. Stavano partecipando solo persone che già conoscevano il proprio tipo? Così un paio di giorni dopo ho inserito un nuovo sondaggio in sostituzione dell’originale, aggiungendo due domande: prima di partecipare al sondaggio conoscevate già il vostro tipo MB?; e, fondamentale: Sottoscrivi il messaggio di allarme di Do the Math?

Ho avuto 463 risposte al primo sondaggio. Grazie al secondo sondaggio (725 risposte), ho scoperto che circa il 35% delle persone conosceva già il proprio tipo di personalità MB, ma non c’era nessuna evidenza che questo sia la causa dello squilibrio di risposte a favore del tipo INTJ. Le sole deviazioni statisticamente significative rispetto alla media sono che il tipo INTP tende a sapere chi è, e INFJ no. Nessuna delle altre deviazioni (vedi sotto) hanno i numeri per essere distinguibili da una distribuzione casuale.

Figura 5 – Previous familiarity with MB type; number of respondents of each type are indicated across the bottom

L’altra cosa che ho scoperto è che il 76% degli intervistati è d’accordo con l’affermazione: “Ho paura che, se non riconosciamo i limiti delle risorse e della crescita, rischiamo il fallimento sistemico” Appena il 6% ha optato per la dichiarazione: “l’innovazione umana e il mercato economico scongiureranno qualsiasi scenario di collasso”. Il 18% ha dichiarato di non essere d’accordo con nessuna delle due affermazioni. Non ho visto prove convincenti che il campo degli ottimisti tenda verso qualche tipo MB (tranne una leggera prevalenza degli ISTJ). Si noti, tuttavia, che la maggior parte dei tipi non sono ben rappresentati in questo sondaggio: tra i visitatori di Do the Math i non INTx sono una stravagante anomalia, quindi è rischioso trarre conclusioni sull’atteggiamento di gente non INTx rispetto al messaggio di allarme.

Le sole anomalie statisticamente significative sono che INTP è meno propenso ad essere messo alle corde (il 26% respinge entrambe le dichiarazioni), mentre il 17% del tipo ISTJ ha aderito alla risposta ottimista.

Effetti di selezione

Vari effetti selettivi potrebbero essere la causa dello squilibrio così marcato dei risultati dei sondaggi di Peak Prosperity e Do the Math. Forse gli INTJ, essendo persone analitiche, sono più propensi a conoscere il proprio tipo di personalità Myers-Briggs, ma il risultato sopra descritto non avvalora questa possibilità. O forse sono più propensi a riconoscere l’importanza del sondaggio. Forse gli INTJ sono più interessati a partecipare a forum online di qualsiasi tipo, o forse il modo in cui i messaggi e le informazioni si diffondono sui forum online comporta effetti di selezione dell’audience tra persone in cui esistono correlazioni, come tra colleghi di lavoro (io, per esempio, ho molte persone INTJ tra i miei colleghi di lavoro). Forse tutti questi fattori insieme giocano un ruolo.

Sono sicuro che alcuni di questi effetti distorcono i risultati. Ma di un fattore due, o addirittura di un fattore tre? Anche in questa ipotesi avremmo comunque meno del 20% delle persone che aderiscono al messaggio di allarme (di nuovo sotto l’ipotesi improbabile che tutte le persone INTJ aderiscano). La mia sensazione è che, comunque la si giri, non si raggiunge la massa critica per un’azione su larga scala in una democrazia sana.

iNtuizione

Essendo un INTJ, mi baso più sull’intuizione e l’astrazione che sull’esperienza diretta e immediata della vita quotidiana. Gli scienziati devono farlo se vogliono sviluppare modelli teorici. Apprezzo veramente la concretezza (lo sperimentatore che è in me), ma propendo comunque all’astrazione. Ho notato che tendo a generalizzare le situazioni cercando una chiave di lettura universale. Mi piace sintetizzare. E ‘il distillato finale che mi rimane nella memoria a lungo termine. Tendo a fare una dichiarazione sulla base di una vasta gamma di input ricevuti nel corso degli anni, ma quando mi viene chiesto di fare esempi specifici faccio fatica: li ho già buttati via, dimenticati in favore del principio generale.

La divisione sensitività/intuizione è la componente della personalità decisiva in questo contesto, anche se la dimensione ragionamento/sentimento è comunque molto importante. Proiettare la società attuale nel futuro e riconoscere un pericolo che non sembra molto simile a quelli che le generazioni passate hanno conosciuto richiede capacità di astrazione (e di ragionamento), piuttosto che percepire il mondo nell’immediato. Così i tipi N hanno più probabilità di prestare attenzione al messaggio di allarme. Lo si vede chiaramente se guardate di nuovo il grafico del “livello dedotto di interesse”. Non credo che sia un caso.

Secondo i dati di distribuzione i tipi S costituiscono il 69-73% delle persone. E’ moltissimo! E guardate come sono totalmente assenti nel grafico del “livello dedotto di interesse”. Ci manca la maggior parte delle persone. Questo fa parte del motivo per cui è così difficile convincere le persone a “stare dalla nostra parte” tramite messaggi di allarme sul riscaldamento globale. I pensatori (tipi T) sono più comuni, anche se ancora in minoranza, al 40-47%. Quindi il collo di bottiglia è proprio la caratteristica S/N.

Anche se l’indagine fosse profondamente difettosa e assumessimo che in realtà il 20% degli S-tipi (rispetto al 1% dei risultati) e, in media, ben il 50% degli N-tipi (il doppio dei risultati ottenuti) siano sensibili al messaggio di allarme, saremo comunque sotto il 30%. E così facendo abbiamo introdotto una distorsione sistematica del sondaggio abbastanza seria. Se sono ricettivi il 100% del tipo N e lo 0% del tipo S siamo ancora al 30%. E ‘difficile immaginare degli effetti di selezione accettabili che siano così totalmente sbilanciati verso INTJ. E se così fosse, saremmo costretti a dare ancora più credito all’utilità/significatività dei tipi di personalità MB.

In sintesi, se la vostra visione del mondo si basa sulla concretezza, su fatti “dimostrabili” e visibili chiaramente, allora avrete poco a che spartire con estrapolazioni e riflessioni sul futuro. Più la previsione si discosta radicalmente dal “normale”, meno è probabile che possa essere presa sul serio. Queste sono caratteristiche solide e positive per gli esseri umani, e possiamo immaginare il loro ruolo positivo in senso evolutivo. Le cose di solito sono come sono, e come sono state sempre e dovunque a memoria d’uomo. Tranne quando non lo sono.

Coinvolgiamo gli estroversi!

Val la pena di esaminare un altro aspetto: e se, per esempio, gli ENTJ avessero le stesse probabilità degli INTJ di farsi convincere a prestare attenzione al messaggio di allarme, se non fosse che spendono il loro tempo socializzando (di persona o virtualmente) piuttosto che stare appartati da soli a leggere siti spaventosi? E se potessero essere coinvolti? In effetti, il livello di interesse tra i tipi ENxx in qualche modo rispecchia la scala decrescente vista nel grafico del livello di interesse per il gruppo INxx. E se incrementiamo gli estroversi (di un fattore 13) in modo che il 100% degli ENTJ sia ricettivo?

Il risultato è nella figura sotto con gli Estroversi modificati, utilizzando la distribuzione della popolazione, più generosa, ottenuta da Wikipedia.

Figura 6 . The Party’s Over: getting the extraverts’ attention still results in a small total yield

Benvenuti a bordo, persone mondane e festaiole! Ora siamo l’11-18% della popolazione, a seconda della distribuzione usata, e solo il 4,5-6,8% quando siete occupati a socializzare. Hmm, non è ancora uno scenario impressionante. Anche se questa distorsione che incrementa gli estroversi fosse giustificata siamo comunque sotto la massa critica.

Rassegnazione rafforzata

Come ho detto all’inizio la mia spinta durante tutto il lavoro di Do the Math è stata quella di tracciare le basi, quantitative e razionali, del perchè non dovremmo dare per scontato la nostra futura crescita/benessere/felicità. Potremmo davvero far saltare questa possibilità. La nostra migliore speranza, secondo me, è quella di convincere la gente a riconoscere e accettare la minaccia e quindi sforzarsi di scongiurarla. Come per qualsiasi “programma dei 12 passi” (riferimento al programma dell’Anonima Alcolisti, NdT), ammettere che c’è un problema è il primo passo.

Non riconoscere quello che per me è un insieme del tutto plausibile delle principali preoccupazioni, innesca una forte reazione da parte mia. Come possiamo attenuare e limitare un problema che non riconosciamo? La mia idea è che il mancato riconoscimento del rischio porta solo a consolidare la probabilità del rischio stesso. Paradossalmente dichiarare che sono completamente in errore probabilmente mi rende più nel giusto. E mi considero già soddisfatto se mi si dice che potrei sbagliarmi, o anche che probabilmente sono in errore, pur ammettendo qualche possibilità di aver centrato il bersaglio e riconoscendone l’enorme importanza se fosse vero.

Questa analisi delle personalità mi aiuta a capire la portata della sfida. E’ servita soprattutto a rafforzare la mia preoccupazione. Sembra che abbiamo un ostacolo strutturale alla mitigazione preventiva delle crisi senza precedenti. In qualche modo mi fa solo sentire rassegnato: nessuna speranza nei politici, e ora nessuna speranza nella natura umana.

Ma essendo un tipo cerebrale, avere un’idea di come e perché potremmo fallire mi dà una certa soddisfazione. Se il mondo cadrà a pezzi prima che io muoia, almeno avrò una vaga idea di ciò che sta succedendo, e non sarò psicologicamente frantumato dalla vicenda. Ma ho paura che sarò in compagnia di un numero di persone pateticamente piccolo.

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Arabia Saudita: il grande gioco del petrolio

Da “Resource Crisis”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi


L’Arabia Saudita ha appena aumentato la produzione petrolifera a un livello record, mai raggiunto nella storia. Lo stanno facendo in un momento di prezzi del petrolio da record negativo. Cosa hanno in mente? (Immagine da Arthur Berman). 

Quando è cominciato il collasso dei prezzi del petrolio, nell’estate 2014, tutti hanno notato che l’Arabia Saudita non stava giocando il suo ruolo tradizionale di “produttrice tampone”, cioè di variare la propria produzione in modo tale da mantenere prezzi ragionevolmente costanti. Di fronte ad un crollo della domanda, dovrebbe ridurre la produzione, ma non lo ha fatto, almeno non abbastanza.

Inizialmente, ho pensato che i sauditi fossero stati presi semplicemente di sorpresa e che fossero lenti a reagire. Ma ora, col recente aumento della produzione saudita, è chiaro che hanno qualcosa in mente. Forse non hanno progettato il collasso del mercato, ma in qualche modo lo stanno cavalcando.

In questa pazzia, c’è del metodo. Ma quale metodo potrebbe esserci nell’aumentare la produzione proprio mentre i prezzi sono i più bassi? Qualsiasi testo di economia vi dirà che il mercato si deve adattare ai cambiamenti della domanda e dell’offerta in modi esattamente opposti: di fronte ad una riduzione della domanda, la produzione deve scendere a sua volta.

Naturalmente, come sappiamo tutti, ciò che si legge nei libri di testo di economia ha poco a che fare col mondo reale. E nel mondo reale c’è una strategia di mercato ben conosciuta che consiste nel far fallire i tuoi concorrenti vendendo sotto costo. L’idea è di creare un monopolio e ricuperare dopo ciò che il vincitore della lotta ha perso all’inizio. Naturalmente, è illegale, ma il fatto stesso che ci siano leggi per impedirlo significa che si fa.

Tuttavia, c’è un piccolo problema nell’applicazione di questa strategia al mercato del petrolio. Ha a che fare col fatto che il petrolio è una risorsa finita. Quindi, se i produttori riescono ad ottenere un monopolio, ciò significa che finiranno la risorsa prima degli altri. Immaginate di essere dei mercanti d’arte: vendereste i vostri Picasso a basso costo per tagliare fuori gli altri mercanti d’arte e ottenere un monopolio? Naturalmente no, ciò che otterreste è semplicemente di finire in fretta i vostri preziosi quadri di Picasso e poi di lasciare il mercato completamente aperto ad altri.

Per cui, cosa stanno facendo esattamente i sauditi? Art Berman suggerisce che stiano combattendo contro le banche che hanno reso possibile la bolla del tight oil. Dopo l’eliminazione della bolla, il mercato potrebbe ritornare a prezzi relativamente alti e massimizzare gli introiti della saudita Aramco.

L’interpretazione di Berman è certamente possibile ma, come in tutti questi casi, stiamo guardando i governi come se fossero delle “scatole nere” intenti a capire i meccanismi interni che li fanno muovere. Questo è molto rischioso: proprio come vediamo nelle nuvole delle facce che non esistono, potremmo vedere in un atto di governo un’intelligenza che non c’è. I sauditi stanno realmente pianificando un profitto a lungo termine? O stanno semplicemente valutando male l’estensione delle loro risorse?

Dopotutto, abbiamo diversi esempi di risorse non rinnovabili che sono state gestite come se fossero infinite. Considerate solo a come le risorse petrolifere del Mare del Nord sono state estratte al tasso più alto possibile quando il mercato petrolifero stava sperimentando prezzi bassi storici. Ciò ha lasciato i produttori con campi petroliferi in declino quando i prezzi di mercato hanno cominciato ad aumentare. Non è stata una strategia molto intelligente, a dir poco.

Nel caso del Mare del Nord, non c’è stata pianificazione a lungo termine, è stato solo che il problema dell’esaurimento a lungo termine non è stato capito. I sauditi sono quindi ciechi al concetto stesso di “esaurimento”? (*) E’ impossibile dirlo al momento. Il solo fatto certo è che l’era dei combustibili fossili a buon mercato è finita, anche se qualche oscillazione selvaggia potrebbe farci credere che sono tornati i bei tempi – ma solo per un attimo.

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(*) Sul fatto di essere incapaci di percepire che una risorsa minerale è finita, un caso particolarmente tragico è quello dello Yemen. Per alcuni anni, ho seguito lo “Yemen Times” e, in tutto quel tempo, non sono stato in grado di leggere nessuna dichiarazione che indicasse che il problema dell’esaurimento del petrolio fosse stato capito. Ogni qualvolta veniva menzionato il declino della produzione, veniva attribuito al terrorismo, ai disordini sociali e ad altri problemi temporanei. Da ciò che ho potuto leggere, mi pare che la società yemenita fosse (ed è ancora) completamente e totalmente cieca rispetto al fatto che hanno gradualmente finito il petrolio e che l’esaurimento del petrolio è la causa principale di tutti i guai che hanno avuto e che stanno avendo ora (grafico da “our finite world”)

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La grande catastrofe in arrivo: l’esplosione del metano artico

DaArctic News”. Traduzione di MR 

Di Sam Carana

Il grande dispiegamento del modo in cui la catastrofe climatica si sta manifestando sulla terraferma e negli oceani, nell’atmosfera e nella criosfera, sta diventando sempre più chiaro di mese in mese. Le temperature di marzo 2015 sono state le più alte a marzo nel periodo di 136 anni di registrazioni. L’analisi del NOAA mostra che la temperatura media di tutte le temperature di superficie insieme di terraferma e oceano di marzo 2015 è stata 0,85°C più alta della media del XX secolo di 12,7°C. Le anomalie della temperatura dell’oceano dell’Emisfero Nord di marzo 2015 sono state le più alte mai registrate. Per diversi aspetti, la situazione sembra destinata a peggiorare. Nel periodo di 12 mesi da aprile a marzo, i dati dal 1880 contengono una linea di tendenza che punta ad un aumento di 2°C per il 2032, come illustrato dall’immagine sotto.

L’aumento delle temperature dell’oceano nell’Emisfero Nord è stato particolarmente forte a settembre ed ottobre 2014, quando il metano ha cominciato ad eruttare dal fondo dell’Oceano Artico in quantità enormi. L’immagine sotto mostra una linea di tendenza polinominale di una anomalia della temperatura della superficie del mare in ottobre di 2°C per il 2030 nell’Emisfero Nord e un aumento di più di 5°C, in confronto alla media del XX secolo, proveniente da un post precedente.

Le immagini sotto danno un’idea delle attuali anomalie della temperatura della superficie del mare intorno al Nord America.

L’11 aprile del 2015, una temperatura della superficie del mare di 22,2°C è stata registrata al largo della costa Americana Settentrionale (cerchio verde in basso), un’anomalia di 12,6°C (cerchio verde in alto).

Il calore dell’oceano viene trasportato dalla Corrente del Golfo dal Nord Atlantico nell’Oceano Artico. L’immagine combinata sotto illustra la minaccia. Una temperatura della superficie del mare di 8°C (cerchio verde a sinistra) è stata registrata vicino a Svalbard il 17 aprile 2015, un’anomalia di 6,2°C (cerchio verde a destra).

Un aumento continuo delle temperature dell’oceano dell’Emisfero Nord minaccia di scatenare enormi eruzioni di metano dal fondo dell’Oceano Artico, accelerando ulteriormente l’aumento della temperatura nell’Artico. Malcolm Light commenta: “Il riscaldamento del Pacifico dev’essere causato dalla diffusione verso sud del velo del riscaldamento globale metano Artico che è in grado di penetrare attraverso un gigantesco buco negli strati di idrossile ed ozono alle estreme longitudini orientali e si muove verso est”. Gli attuali livelli di metano rimangono estremamente alti (vedete questo post recente), sulla buona strada per infrangere il livello medio record di 1839 ppml (parti per miliardo) raggiunto a settembre 2014.

L’immagine sopra mostra che il livelli medi di metano più alti sono andati da 1815 ppml il 30 marzo 2015 a 1828 ppml il 17 aprile 2015. Il più alto livello di picco durante questo periodo è stato di 2483 ppml, raggiunto il 15 aprile 2015.

I livelli di metano estremamente alti contribuiscono indubitabilmente alle alte temperature raggiunte a marzo, specialmente alle latitudini più alte, oltre al drammatico aumento globale dei gas serra in generale, come illustrato dal contributo qui sopra di Peter Carter.

A marzo 2015 sono state registrate anomalie della temperatura di 10,2°C sull’Isola di  Kolguyev, nel mare di Barents. Un aumento delle temperature dell’oceano nell’Emisfero Nord di 2°C da ottobre 2030 sembra andare a braccetto con un aumento di 6°C delle temperature nell’Artico sempre dal 2030, alimentando il riscaldamento globale fuori controllo, come illustrato dall’immagine sotto, proveniente da un altro post precedente. Senza azione, aumenti della temperatura analoghi sono destinati a colpire il globo nel suo complesso una dozzina di anni dopo, accompagnati da enormi sbalzi di temperatura che minacciano di causare l’esaurimento delle forniture di cibo e di acqua potabile.

In conclusione, la situazione è terribile e richiede un’azione complessiva ed efficace, come discusso sul blog Climate Plan.

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Cambiamento climatico:l’effetto Seneca può salvarci?

Da “Resource Crisis”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi


Il “Dirupo di Seneca” (o “Collasso di Seneca”). L’antico filosofo Romano disse che “La strada dell’ascesa è lenta, ma quella della rovina è rapida”. Un Collasso di Seneca” dell’economia mondiale ridurrebbe sicuramente le possibilità di un disastro climatico, ma sarebbe un grande disastro in sé e potrebbe anche non essere sufficiente. 

Niente di ciò che facciamo (o cerchiamo di fare) sembra essere in grado di fermare l’accumulo di biossido di carbonio in atmosfera. E, di conseguenza, niente sembra essere in grado di fermare il cambiamento climatico. Con la situazione che peggiora in continuazione (guardate qui, per esempio), siamo a sperare che un qualche tipo di accordo internazionale per limitare le emissioni possa essere raggiunto. Ma, dopo molti tentativi e molti fallimenti, possiamo davvero aspettarci che la prossima volta, miracolosamente, possiamo avere successo?

Un’altra linea di pensiero, invece, sostiene che l’esaurimento ci salverà. Dopotutto, se finiamo il petrolio (e i combustibili fossili in generale) dovremo smettere di emettere gas serra. Questo non risolverà il problema? In linea di principio sì, ma succederà?

Il nocciolo del dibattito sull’esaurimento dei combustibili fossili è che, nonostante le risorse teoricamente abbondanti, il tasso di produzione è fortemente condizionato da fattori economici. Questi fattori costringono normalmente la curva di produzione a seguire una forma “a campana”, o “di Hubbert”, che raggiunge il picco e comincia a declinare molto prima che le risorse finiscano in senso fisico. In pratica, gran parte degli studi che tengono conto del fenomeno del “picco” giungono alla conclusione che gli scenari del IPCC spesso sovrastimano la quantità di carbonio fossile che si può bruciare (vedete questa recente rassegna di Hook et al.). Da questo, alcuni sono giunti alla conclusione ottimistica che il picco del petrolio ci salverà dal cambiamento climatico (vedete questo mio post). Ma questo è troppo semplicistico.

Il problema del cambiamento climatico non è che le temperature continueranno a crescere dolcemente da adesso alla fine del secolo. Il problema è che ci troveremo in grossi guai molto prima se lasciamo aumentare le temperature oltre un certo limite. Aumento del livello del mare, acidificazione dell’oceano e desertificazione sono soltanto alcuni dei problemi, ma uno peggiore potrebbe rivelarsi il “punto di non ritorno climatico”. Cioè che, oltre un certo punto, l’aumento delle temperature comincia ad essere alimentato da una serie di effetti di retroazione interni all’ecosistema e il cambiamento climatico diventerebbe inarrestabile.          

Non sappiamo dove possa essere situato il punto di non ritorno climatico, ma c’è un consenso sul fatto che dobbiamo impedire che le temperature aumentino oltre un certo limite. Spesso il livello di 2°C è considerato il limite per evitare la catastrofe. Grazie al saggio del 2009 di Meinshausen et al. possiamo stimare che, da ora in avanti, non dobbiamo rilasciare più di circa 1x10+12 t di CO2 nell’atmosfera. Considerando che finora abbiamo rilasciato circa 1,3x10+12 t di CO2 (fonte: global carbon project), il totale non deve essere più di circa 2,3x10+12 t di CO2.

Cosa possiamo aspettarci quindi in termini di emissioni totali considerando uno scenario di “picco”? Lasciate che vi mostri alcuni dati di Jean Laherrere, che è stato fra i primi a proporre il concetto di “picco del petrolio”.

In questa figura, fatta nel 2012, Laherrere elenca le quantità di combustibili bruciate, con una “U” (“ultimate”), misurate in Tboe (Terabarrels of oil equivalent, vedete più in fondo i fattori di conversione usati). Come prima approssimazione, se tutte le emissioni fossero da petrolio greggio, emetteremmo 4,5×10+12 t di CO2. Le cose cambiano un po’ se separiamo i contributi dei tre combustibili fossili. Il petrolio greggio, da solo, produrrebbe 1,3x10+12 t di CO2. Il carbone produrrebbe 2,8x10+12 t e il gas naturale 0,95x10+12 t. Il risultato finale è quasi esattamente  5x10+12 t di CO2.

In breve, anche se seguiremo una traiettoria di “picco” nella produzione di combustibili fossili, emetteremo circa due volte il biossido di carbonio di quello che al momento è considerato essere il limite “di sicurezza”.

Naturalmente, ci sono moltissime incertezze in questi calcoli e il punto di non ritorno potrebbe essere più lontano di quanto stimato. Ma potrebbe anche essere più vicino. A dobbiamo tenere conto del problema dell’aumento delle emissioni di CO2 per unità di energia man mano che progressivamente passiamo a combustibili più sporchi e meno efficienti. Così, stiamo davvero giocando col disastro, con una buona possibilità di correre dritti in una catastrofe climatica.

Ciononostante, potrebbe anche essere che Laherrere fosse ottimista nella sua stima. Infatti, la curva quasi simmetrica “a campana” o “di Hubbert” è il risultato dell’ipotesi che l’estrazione venga eseguita in un’economia pienamente funzionante. Ma, una volta che il sistema economico comincia a disfarsi, una serie di retroazioni distruttive accelerano il declino. Si tratta del “Collasso di Seneca” che genera una curva di produzione asimmetrica “il “Dirupo di Seneca”).

Il dirupo di Seneca ci può salvare? Perlomeno ridurrebbe considerevolmente la quantità di carbonio fossile bruciato. A titolo di prova, se il collasso dovesse cominciare entro i prossimi 10 anni e dovesse tagliare più della metà della produzione potenziale di carbone, allora potremmo rimanere entro il limite di sicurezza. Laddove Hubbert non può salvare l’ecosistema, Seneca potrebbe (forse).

Ma, anche se ciò dovesse avvenire, un collasso di Seneca è un grande disastro in sé per l’umanità, quindi c’è poco di cui rallegrarsi al pensiero che potrebbe salvarci dal cambiamento climatico fuori controllo. In pratica, la sola speranza di evitare il disastro sta nell’assumere un ruolo più attivo nel sostituire i fossili con le rinnovabili. In questo modo, possiamo costringere la produzione di combustibili fossili a diminuire più rapidamente, ma senza perdere la fornitura energetica di cui abbiamo bisogno. E’ possibile – è un grande sforzo, ma possiamo farlo se siamo disposti a provarci (vedete questo saggio di Sgouridis, Bardi e Csala per una stima quantitativa dello sforzo necessario).
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Unità di conversione

Un Boe di petrolio greggio = 0,43 t CO2 (http://www.epa.gov/cleanenergy/energy-resources/refs.html)

Un Boe di carbone = 0,53 t CO2 (calcolo da https://www.unitjuggler.com/convert-energy-from-Btu-to-boe.html?val=1000000 e da http://www.epa.gov/cpd/pdf/brochure.pdf)

Un Boe di gas naturale: 0,31 t CO2 (calcolo da https://www.unitjuggler.com/convert-energy-from-Btu-to-boe.html?val=1000000 e da http://www.epa.gov/cpd/pdf/brochure.pdf)

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Perché la democrazia non funziona (e come sistemarla)

Da “Resource Crisis”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi



“Non sono un truffatore” Non è stato uno scambio di armi per ostaggi” “Non ho fatto sesso con quella donna” (fonte dell’immagine)

Questo post non è una proposta di riforma della democrazia. Ogni vera riforma sembra essere impossibile in un mondo in cui la regola principale (e forse la sola) sembra essere “non pensarci nemmeno di cambiare qualcosa di importante”. Detto questo, ho notato un recente articolo di Dean Burnett su “The Guardian” che ha cercato di rispondere alla domanda del perché le persone continuano ad eleggere degli idioti. Questo ha messo in moto la mia mente e mi sono uscite fuori alcune considerazioni sulla base dell’effetto delle “pubbliche relazioni” (PR) sul processo democratico. Non dico di essere un esperto in PR ma, se avete a che fare col cambiamento climatico, come spesso faccio io, è impossibile perdersi il ruolo delle PR in un dibattito che è stato basato su bugie ed esagerazioni volte a demonizzare la scienza e gli scienziati. Così, questo post è più che altro una riflessione mia sull’importanza della PR nel nostro mondo. 

Sembra che non ci sia categoria peggio vilipesa e disprezzata di quella dei politici. Eppure, in teoria gli elettori possono votare per chi vogliono. Perché continuano ad eleggere persone che disprezzano? (Somiglia alla vecchia barzelletta: ‘un masochista è uno a cui piacciono le cose che gli fanno schifo’). La maggioranza degli elettori è masochista o cosa?

Penso che ci sia una spiegazione a questo comportamento apparentemente bizzarro degli elettori. Ha a che fare coi metodi di PR usati nelle campagne elettorali e, in particolare, con la pubblicità negativa che ha generato un vilipendio auto-inflitto generale su tutti i politici. Lasciate che vi spieghi.

Nelle pubbliche relazioni ci sono due approcci fondamentali per promuovere le idee o i prodotti di qualcuno: uno negativo ed uno positivo. L’approccio negativo (demonizzare l’avversario) di solito è molto più potente di quello positivo (idolatrare l’amico) Devono esserci ragioni psicologiche profonde per questo, ma è così che vanno le cose (*).

Il problema della pubblicità negativa è lo stesso che si ha con le armi chimiche: fa miracoli, ma può ritorcersi contro chi la usa. Questa è una cosa che gli eserciti della prima guerra mondiale hanno imparato quando il vento riportava indietro su di loro il gas che avevano diretto contro i loro nemici.

Infatti, la pubblicità negativa è così potente – e così pericolosa – che non viene quasi mai usata nella pubblicità commerciale (**). Pensate cosa accadrebbe se, diciamo, la Pepsi dovesse mettere in piedi una campagna basata sull’accusa che la Coca fa venire il cancro. Ed immaginate che la Coca Cola dovesse ribattere dicendo che la Pepsi causa attacchi di cuore. Un’idea non buona, ovviamente: ci sarebbe qualcuno che berrebbe ancora una bibita gassata? E’ un principio ben conosciuto: se la butti sul ventilatore, si diffonde dappertutto.

Ma in politica? Non si applicano gli stessi limiti. In politica, la dimensione del mercato è fissa: è una poltrona in parlamento (o nel comune, o dove sia). Non importa quante persone si presentano ai seggi elettorali, qualcuno avrà lo stesso la poltrona. Per cui, per un politico, le PR negative non comportano un rischio di contrazione del mercato. Di conseguenza, le PR sono uno strumento fondamentale per venire eletti. E’ risaputo: vilipendere il proprio avversario fa miracoli (***). Ma, naturalmente, se tutti se ne avvalgono il risultato è la demonizzazione generalizzata di tutti i politici. Ancora una volta, si vede l’effetto di buttarla sul ventilatore; si diffonde dappertutto.

Così, è probabile che la sfiducia diffusa rispetto ai politici sia il risultato di una lunga serie di campagne di demonizzazione politica che hanno portato il pubblico a concludere che tutti i politici siano ladri, bugiardi, psicopatici, maniaci sessuali, idioti, inetti e cose simili. Forse alcuni di loro meritano di essere definiti così, ma il problema è che le campagne di vilipendio tengono lontane le persone oneste dalla corsa. E questo è il problema della democrazia, in poche parole.

Possiamo fare qualcosa per migliorare? In linea di principio, sì. Dopotutto, gran parte dei governi hanno promulgato leggi pensate per proteggere i consumatori dalla pubblicità ingannevole. Spesso, la pubblicità dispregiativa verso il prodotto di un concorrente è proibita e persino la pubblicità comparativa è strettamente regolamentata. Ma nessuna di queste regole si applica alla politica, dove tutto è lecito ed arrivare a regole simili sembra essere semplicemente impensabile.

Possiamo usare una tattica diversa? Possiamo rendere le campagne negative una cattiva idea per coloro che usano questo metodo? Possiamo, per esempio, rendere il “mercato” politico più simile al mercato commerciale nel senso che il numero totale di poltrone in parlamento sia come la dimensione del mercato di un prodotto. Cioè, che il numero di poltrone in parlamento possa essere proporzionale al numero delle persone che votano realmente. Così, se si presenta solo metà degli elettori, vengono assegnate metà delle poltrone. Quelle che restano rimangono vuote, o forse riassegnate da una lotteria nazionale. In questo modo, i politici diffiderebbero dell’uso di tattiche che rischiano di ridurre la dimensione del mercato (per esempio il numero di poltrone assegnate).

Potremmo quindi pensare modi di sistemare la democrazia. Ma il problema non è che ci sia qualcosa di sbagliato nella democrazia. Il problema è con le PR – e con le PR negative in particolare. Non andiamo da nessuna parte in nessun campo finché non capiamo il potere straordinario delle PR negative nella nostra percezione del mondo. E’ davvero un’arma di distruzione della mente, come testimonia quanto siano state efficaci le PR nell’attaccare la scienza del clima e gli scienziati del clima e nel convincere un gran numero di persone che il cambiamento climatico sia una truffa.

C’è solo un’arma buona contro questo tipo di PR: è ricordare che, come ha detto Baudelaire, “Il miglior inganno del diavolo è persuaderti che non esiste”.

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(*) Sul maggior potere del negativo, vedete per esempio “Il cattivo è più forte del buono”.
Baumeister, Roy F.; Bratslavsky, Ellen; Finkenauer, Catrin; Vohs, Kathleen D.
Review of General Psychology, Vol 5(4), Dec 2001, 323-370 http://psycnet.apa.org/index.cfm?fa=search.displayRecord&uid=2001-11965-001 

(**) Un caso famoso di pubblicità commerciale negativa potrebbe essere la campagna “dov’è la ciccia?” (“where’s the beef?”) usata da Wendy’s nel 1984 per denigrare i sandwiches venduti dai loro concorrenti, McDonald’s e Burger King. Notate, tuttavia, che non era realmente una pubblicità negativa; era una pubblicità comparativa (‘i nostri hamburger sono più grandi dei loro’). Ciononostante era abbastanza aggressiva che è stata copiata da Walter Mondale che ha usato con successo lo stesso slogan contro il suo avversario nelle primarie di quell’anno.  

(***) Circa le campagne negative in politica, c’è un sacco di documentazione sul Web. Potete cominciare, per esempio, da questo articolo su Wikipedia.

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