Effetto Cassandra

Bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto?

“Scegli di pensare positivo! Sollevati con pensieri esaltanti
 e la tua vita sarà piena di colore e luminosa!”

I social media pullulano di citazioni e frasi ad effetto che invitano a salvaguardare e perseguire i propri sogni, quali che siano le difficoltà incontrate nel realizzarli.   Esortano a mantenere la capacità di immaginare un fulgido avvenire, anche quando tutto vi crolla addosso.   A mantenere aperta la finestra sul futuro, anche durante la tempesta.   Eccetera.

Un atteggiamento tipico del nostro tempo che pare un paradosso.   Proprio la nostra cultura che, più di ogni altra, si fa un vanto di essere eminentemente materialista e pratica, invita ad essere sognatori.   E, paradosso nel paradosso, proprio la nostra società positiva e propositiva,  è composta da una quantità senza precedenti di  depressi ed altri malati mentali  (circa il 25% della popolazione europea, (che non è quella messa peggio del Pianeta) cui si devono aggiungere una miriade di persone affette da malattie psicosomatiche croniche come bulimia, anoressia, obesità ecc.  
Certo, dietro l’andamento epidemico di queste ed altre patologie si trovano sistemi complessi di concause; ma rimane il fatto che, perlomeno in occidente, un sacco di gente si fa un dovere di pensare positivo, mentre è in qualche misura depressa.

E per mantenere ben salda la propria visione del bicchiere mezzo pieno, si raccomanda di evitare come la peste “quelli che hanno un problema per ogni soluzione”, amichevolmente etichettati corvi, cassandre o gufi.   Spesso si raccomanda anche di limitare l’accesso a cattive notizie ed alle analisi delle medesime, per concentrarsi sulle buone nuove, o sulle analisi che danno una visione almeno parzialmente positiva delle situazione.   Soprattutto, bisogna sempre porre i evidenza  i possibili sviluppi positivi anche delle peggiori situazioni o, quantomeno, indicare una strada per “uscire dal tunnel”.

Una vera industria  da molti miliardi  fatturato annuo si è sviluppata su questa filiera, sfornando libri, dischi, musica, video ed oggetti di ogni genere.   Oppure servizi variamente specializzati che vanno dalle conferenze pubbliche, fino ai “personal coach” cui fanno sempre più spesso ricorso proprio i vertici della società, come gli amministratori delle grandi compagnie.   Passando per ogni sorta di ausilio chimico, legale e non.   Organizzazioni di cospicue dimensioni si sono sviluppate intorno al soggetto ed il “messaggio” ha ormai influenzato l’intera nostra cultura.

Alla fine ogni difficoltà è anche un’opportunità.   O no?

Certamente essere depressi e deprimenti, piangersi addosso e lagnarsi di ogni cosa che accade  non aiuta.   Ma al di là di questo, siamo certi che “essere positivi” sia poi così positivo?

Prendiamo in esame i capisaldi principali di questa filosofia nata, a quel che ne so, in USA alla fine del XIX secolo con l’etichetta di “New Thought “ (nuovo pensiero) come reazione alla mortale tetraggine dell’epoca, in particolare nelle comunità calviniste.   Ne nacque “Chistian Science”, prima di trovare la sua strada per diventare un’industria di successo, passando per la “controcultura” degli anni ’70.

“Una vita positiva è una pratica di principi.
Pescane uno o più:
1 leggi qualcosa di positivo
2 ascolta qualcosa di positivo
3 condividi qualcosa di positivo

Un prima pretesa è che avere un atteggiamento ottimista favorisca la buona salute.   Questo è probabilmente vero finché si tratta di ridurre l’incidenza di patologie di natura schiettamente psico-somatica.    Viceversa, la diffusa pretesa che “pensare positivo” possa aiutare a prevenire e combattere malattie come cancri, infezioni, crisi cardiovascolari ecc. non ha, che io sappia, il benché minimo supporto scientifico.

Semmai il contrario, in quanto un eccessivo ottimismo porta a sottovalutare sintomi e rischi.   Casomai, può aiutare i malati a sopportare meglio le sofferenze, ma può anche portare a reazioni come disperazione e suicidio,  a seconda di come l’evolvere degli eventi reali interagisce con la mente del malato.   Di solito, quando si abbandona un atteggiamento eccessivamente orientato in una direzione,  finiamo con l’abbracciare l’eccesso opposto.

Una seconda grande pretesa del “Pensiero positivo” è che possa avere importanti effetti sull’economia.   Questo è certamente vero per le finanze private di coloro che sanno sfruttare commercialmente il filone, ma economisti e politici pretendono spesso che avrebbe effetti positivi a livello di PIL nazionale e globale.   Di qui gli appelli sempre più disperati all’ottimismo, trascurando il fatto che proprio un eccesso di ottimismo è da sempre una delle principali componenti di quelle bolle speculative che, sempre più spesso, stanno devastando la finanza e l’economia.

“La più grande scoperta di tutti i tempi
è che una persona può cambiare il suo
futuro semplicemente cambiando il
suo atteggiamento.”

La terza grande scoperta del “pensiero positivo” è che questo pare abbia il magico potere di realizzare i desideri.   Questo intendeva Berlusconi con la sa celebre frase “i poveri sono gente diseducata al benessere”.

Di qui l’invito ad essere dei tenaci ed ispirati sognatori.  Una vera mistica si è col tempo sviluppata intorno a quest’idea che, in casi estremi tutt’altro che rari, porta a considerare l’universo come una specie di self-service in cui ognuno può trovare ciò che cerca.   Con o senza rituali specifici, il segreto sta tutto nel rimanere concentrati sui propri desideri e credere fermamente, intimamente che si realizzeranno.   Il desiderio avrebbe infatti la forza di produrre gli eventi necessari grazie alla “legge di attrazione”.    Una specie di gravitazione universale in cui però qualcosa di immateriale, il pensiero, riuscirebbe a influenzare il comportamento di oggetti materiali, come i bussolotti della lotteria.

Anche in questo caso qualcosa di vero sicuramente c’è, senza ricorrere a ipotetiche nuove leggi della Natura.   E’ evidente che, se desideriamo fermamente qualcosa, tutte le nostre azioni e decisioni saranno coerenti con il nostro scopo e questo non può che aumentare la probabilità di raggiungerlo.  

Ma solo nella misura in cui ciò è reso possibile dalle circostanze e non contrasta con desideri altrui altrettanto ben supportati.   Ad esempio, ricevere in regalo un maglione viola è possibile, mentre non lo è ricevere una Ferrari, a meno che non siate già miliardari.   Viceversa, può essere possibile un avanzamento in carriera, a condizione che la ditta per cui si lavora se lo possa permettere e si riescano ad impressionare positivamente i propri superiori.   Ma se la ditta ristruttura o fallisce, tutta o buona parte dei suoi dipendenti saranno licenziati, quali che ne siano i desideri e l’atteggiamento.

Proprio questo punto, non a caso, è divenuto una leva importante per l’industria del pensiero positivo. Soprattutto in USA ed in Asia, non solo i vertici aziendali sono spesso dei convinti assertori della “legge di attrazione”, ma anche, e più prosaicamente, si sono resi conto che diffondere un certo atteggiamento nei dipendenti li induce a lavorare di più, tollerando condizioni peggiori.   E quando tutto va male, accettano più facilmente il licenziamento.   Di qui consistenti investimenti per distribuire materiali e servizi finalizzati a “motivare” il personale.

Nella peggiore delle ipotesi, il fallimento non sarà una responsabilità del CEO che ha investito miliardi in titoli spazzatura o ha fatto debiti impagabili; bensì dei dipendenti che non hanno un atteggiamento sufficientemente positivo.

Insomma, come esiste una scuola di pensiero secondo cui la responsabilità di ciò che va male non è mai delle persone, bensì interamente della società iniqua, è ben radicata la scuola opposta, secondo cui se ti cade un vaso in testa è colpa tua.   Addirittura può anche darsi che, inconsciamente, tu desiderarsi di fratturarti il cranio.   Anzi, il restare invalido a vita è un dono della sorte perché, se ne sarai capace, sarà proprio ciò che ti permetterà di realizzarti.

Quasi tutti, oggi, hanno un grande sogno nel cassetto.   Abbiamo detto all’inizio che questo è considerato un fatto socialmente molto positivo.   Tuttavia, vorrei ricordare che tutti gli uomini più nocivi della storia avevano un grande sogno ed erano profondamente convinti che realizzarlo avrebbe portato grandi vantaggi per tutti (i sopravvissuti).    Ma anche senza scomodare gli spettri di Hitler o di Pol Pot, quali conseguenze sta avendo ed avrà l’incapacità degli umani a mettere una pietra sopra al sogno di un benessere crescente per un numero indefinito di persone su di un piccolo pianeta sospeso nel vuoto cosmico?   E’ molto probabile che alcuni miliardi di persone moriranno nel corso dei prossimi decenni  in omaggio a questa incrollabile fede.   Il più grande sacrificio umano della storia.

Pensa positivo
e cose positive accadranno.

Per molti anni, gli scettici hanno avuto buon gioco chiedendo quali sarebbero le basi scientifiche circa questa fondamentale “legge di attrazione”, ottenendo imbarazzati silenzi o pasticciati sermoni.   Da alcuni anni però la creatività dei guru del settore ha scoperto la fisica quantistica.   O, meglio, hanno scoperto che una vulgata del  “gatto di  Schrödinger”, era esattamente quello che ci voleva per dare un abito apparentemente scientifico a tutta la costruzione.
In estrema sintesi, l’idea è che poiché il campo quantico è totipotente e collassa in qualcosa di definito interagendo con l’osservatore, ne consegue che ognuno di noi è il demiurgo della propria realtà.    Il gatto è contemporaneamente vivo e morto, sono io che, aprendo la scatola, inconsciamente decido quale realtà desidero.   Quindi, se acquisisco la capacità di controllare il mio inconscio, posso decidere cosa troverò prima di aprire.   Se il flusso di energia può influenzare la materia ed il pensiero è una forma di energia, risulta assodato che il pensiero può modificare la materia.

Che il principio di indeterminatezza sancisca che non sia possibile conoscere contemporaneamente tutte le proprietà di una particella, ad es. un elettrone,  e non il fatto che  sia possibile spostarlo con il pensiero rimane ovviamente un fatto trascurabile.   Come la questione che l’osservazione influenza le particelle semplicemente perché la trasmissione di informazione comporta comunque un flusso di energia/materia (ad es. un fotone) l’impatto col quale ovviamente altera lo stato di particelle abbastanza piccole da essere influenzate da 6,62×10 -34  Js.

Ciò significa che un elettrone ha, si, ampi margini di libertà, ma la sua carica elettrica non cambia; mentre protoni e neutroni sono abbastanza grossi da essere influenzati molto marginalmente da quantità di energia così piccole.
Ho il sospetto che Hawking si sia ridotto così leggendo certa letteratura “motivazionale”.

“Io sono mezzo pieno” “Io sono mezzo vuoto”
“Io penso che questo è piscio”

Insomma, per tornare al titolo, il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto?

Io penso che faremmo bene a porci la questione in altra maniera.  Per esempio vorrei sapere: a) cosa contiene? b) sta aumentando o diminuendo? c) le sue caratteristiche chimico-fisiche sono costanti o stanno cambiando? d) cosa c’è intorno al bicchiere? e) chi ha messo quel liquido nel bicchiere? f) Perché lo ha fatto?  Eccetera.

Questo non è pensiero né positivo, né negativo. E’ pensiero sistemico.   Ma il pensiero sistemico è un viatico al successo personale?   Penso proprio di no.   Personalmente, conosco parecchie persone che vanno forte in questo campo e che, al meglio, riescono a campare mediamente.   Qualcuno invece si sta vendendo la casa perché non ce la fa più a pagarci le tasse.

Contemporaneamente molti guru del “pensiero positivo” sono diventati milionari.   Vuoi vedere che, alla fine, hanno ragione loro?   O no?

more

Anche se tutti vivessero in un ‘ecovillaggio’, il mondo sarebbe comunque nei guai

Da “The conversation”. Traduzione di MR (via Skeptical Science)

Siamo abituati a sentire che se tutti vivessero allo stesso modo dei nord americani o degli australiani ci servirebbero quattro o cinque pianeti Terra per sostenerci. Questo tipo di analisi è conosciuta come “impronta ecologica” e mostra che persino le cosiddette nazione europee “verdi”, coi loro approcci progressisti all’energia rinnovabile, all’efficienza energetica e al trasporto pubblico, richiederebbero più di tre pianeti. Come possiamo vivere secondo i mezzi del nostro pianeta? Se scaviamo seriamente in questa domanda diviene chiaro che quasi tutta la letteratura ambientale sottostima grossolanamente ciò che serve perché la nostra civiltà diventi sostenibile.

Solo le persone coraggiose dovrebbero continuare a leggere.

L’analisi della “impronta ecologica”

Per analizzare la domanda di come sarebbe “vivere di un pianeta”, rivolgiamoci a quello che probabilmente è il sistema di misurazione più di rilievo per il calcolo ambientale – l’analisi dell’impronta ecologica. Questo è stata sviluppato da Mathis Wackernagel e William Rees, poi all’Università della Columbia Britannica, ed ora è istituzionalizzato dal corpo scientifico, il Global Footprint Network, di cui Wackernagel è presidente. Questo metodo di calcolo ambientale cerca di misurare la quantità di terra produttiva e di acqua che una data popolazione ha a disposizione e poi valuta la domanda che la popolazione impone su quegli ecosistemi. Una società sostenibile è una che opera entro la capacità di carico degli ecosistemi da cui dipende.

Mentre questo modo di calcolare non è scevro da critiche – non è certo una scienza esatta – la cosa preoccupante è che molti dei suoi critici in realtà affermano che questo sottostimi l’impatto ambientale dell’umanità. Persino Wackernagel, co-creatore del concetto, è convinto che i numeri siano sottostimati. Secondo i dati più recenti del Global Footprint Network, l’umanità nel suo complesso è attualmente in overshoot (superamento), richiedendo una volta e mezzo la biocapacità del pianeta Terra. Man mano che la popolazione globale continua nella sua tendenza verso gli 11 miliardi di persone e mentre il feticcio della crescita continua a plasmare l’economia globale, la portate dell’overshoot aumenterà soltanto. Per ogni anno in cui questo stato di peggioramento dell’overshoot ecologico persiste, i fondamenti della nostra esistenza e di quella di altre specie, sono minacciati.

L’impronta di un ecovillaggio

Come ho osservato, i contorni fondamentali del degrado ambientale sono relativamente ben conosciuti. Quello che è molto meno conosciuto, tuttavia, è che anche gli ecovillaggi più di successo e che durano da più tempo del mondo devono ancora raggiungere una impronta ecologica “fair share” (giusta quota). Prendete l’Ecovillaggio di Findhorn in Scozia, per esempio, probabilmente l’ecovillaggio più famoso del mondo. Un ecovillaggio può essere ampiamente inteso come una “comunità intenzionale” che si forma con l’obbiettivo esplicito di vivere in modo più leggero sul pianeta. Fra le altre cose, la comunità di Findhorn ha adottato una dieta quasi esclusivamente vegetariana, produce energia rinnovabile e costruisce molte delle proprie case in fango e materiali riciclati.

Ecovillaggio di Findhorn in Scozia. Irenicrhonda/Flickr, CC BY-NC-ND

E’ stata intrapresa un’analisi dell’impronta ecologica di questa comunità. E’ stato scoperto che anche gli sforzi più impegnati di questo ecovillaggio lasciano ugualmente la comunità di Findhorn consumare risorse e produrre rifiuti ben al di là di quello che potrebbe essere sostenuto se tutti vivessero in questo modo. (Parte del problema è che la comunità tende a volare tanto spesso quanto un normale occidentale, aumentando la loro impronta altrimenti piccola). Messa diversamente, sulla base dei miei calcoli, se tutto il mondo diventasse come uno dei nostri ecovillaggi più famosi, ci servirebbe ancora una volta e mezzo la biocapacità del pianeta Terra.

Soffermatevi su questo per un momento.

Non condivido questa conclusione per provocare disperazione, anche se ammetto che comunica la dimensione del nostro dilemma ambientale con disarmante chiarezza. Né la condivido per criticare gli sforzi nobili e necessari del movimento degli ecovillaggi, che sta chiaramente facendo molto di più degli altri per spingere le frontiere della pratica ambientale. Piuttosto, la condivido nella speranza di scuotere e svegliare il movimento ambientalista e l’opinione pubblica generale. Con gli occhi aperti, cominciamo dal riconoscere che armeggiare ai margini del capitalismo consumista è totalmente inadeguato. In un mondo pieno di sette miliardi di persone in aumento, una impronta ecologica “fair share” significa ridurre ad una piccola frazione di quelle che sono oggi. Un tale cambiamento fondamentale ai nostri stili di vita è incompatibile con una società orientata alla crescita. Alcuni potrebbero trovare questa posizione troppo “radicale” da digerire, ma sosterrei che questa posizione è meramente plasmata da un’onesta panoramica delle prove.

Come sarebbe lo stile di vita da “un pianeta”?

Anche dopo cinque o sei decenni di movimento ambientalista moderno, sembra che non abbiamo ancora un esempio di come prosperare entro la capacità di carico sostenibile del pianeta. Ciononostante, Proprio come i problemi fondamentali possono essere sufficientemente compresi, la natura di una risposta appropriata è a sua volta sufficientemente chiara, anche se la verità a volte è dura. Dobbiamo rapidamente transitare a sistemi di energia rinnovabile, riconoscendo che la fattibilità e l’accessibilità di questa transizione richiederà che consumiamo significativamente meno energia di quella alla quale siamo abituati nelle nazioni sviluppate. Meno energia significa meno produzione e meno consumo.

Dobbiamo coltivare biologicamente e localmente il nostro cibo e mangiare considerevolmente meno (o niente) carne. Dobbiamo andare più spesso in bicicletta e volare di meno, rammendare i nostri vestiti, ridurre radicalmente i nostri flussi di rifiuti e “riqualificare le periferie” creativamente per trasformare le nostre case e comunità in luoghi di produzione sostenibile, non di consumo insostenibile. Per fare questo, dobbiamo sfidare noi stessi ad andare oltre il movimento degli ecovillaggi ed analizzare una tonalità di verde della sostenibilità ancora più profonda. Fra le altre cose, questo significa vivere vite frugali, moderazione e sufficienza materiale. Pensiero impopolare, bisogna dirlo, dobbiamo anche avere meno figli, altrimenti la nostra specie crescerà verso una catastrofe. Ma l’azione personale non è sufficiente. Dobbiamo ristrutturare le nostre società per sostenere e promuovere questi stili di vita “più semplici”. Una tecnologia adeguata ci deva anche assistere nella transizione verso lo stile di vita di un solo pianeta. Alcuni contestano che la tecnologia ci permetterà di continuare a vivere allo stesso modo riducendo allo stesso tempo fortemente la nostra impronta.

Tuttavia, la portata della “dematerializzazione” richiesta per rendere i nostri stili di vita sostenibili è semplicemente troppo ampia. Così come migliorare l’efficienza, dobbiamo anche vivere in modo più semplice in senso materiale e ri-immaginare la buona vita al di là della cultura dei consumi. Innanzitutto, ciò che serve per vivere in di un pianeta è che le nazioni più ricche, compresa l’Australia, inizino un processo di “decrescita” di contrazione economica pianificata. Non sostengo che sia probabile o che io ho un progetto dettagliato di come questa debba accadere. Sostengo solo che, sulla base dell’analisi dell’impronta ecologica, la decrescita è il quadro di riferimento più logico per capire le implicazioni radicali di sostenibilità. La discesa dal consumismo e dalla crescita può essere prosperosa? Possiamo trasformare le nostre crisi sovrapposte in opportunità?

Sono queste le domande che definiscono il nostro tempo.

more

Il Principio di Massima Potenza

Dalla pagina FB di Bodhi Paul Chefurka. Traduzione di MR

Il Principio di Massima Potenza rivisitato

Il Principio di Massima Potenza (PMP), descritto per la prima volta da Alfred Lotka e in seguito approfondito da H. T. Odum, sostiene che “Durante l’auto-organizzazione i progetti di sistemi la progettazione di sistemi sviluppa e fa prevalere quelli che massimizzano l’assunzione di potenza, la trasformazione di energia e quegli usi che rinforzano”. Ciò è stato formulato da osservazioni ecologiche. Questo saggio, per esempio, riferisce su un esperimento di PMP che coinvolge diverse specie di protozoi. Il risultato conferma chiaramente il ruolo del PMP nella competizione fra specie a quel livello di vita.

Tuttavia, Howard Odum ha considerato che il PMP sia un principio generale di auto-organizzazione e di evoluzione nei sistemi aperti, un principio che è completamente agnostico al tipo di sistema su cui opera. Sono d’accordo con quel punto di vista, che è il motivo per cui dico che questo principio termodinamico sta alla base di tutta l’auto-organizzazione dei sistemi aperti, dai protozoi alla politica.

Il corso e la forma finale dell’auto-organizzazione, naturalmente, sarà diverso quanto i sistemi stessi. Dipende tutto da quale forma operativa produca la maggior parte della potenza nelle condizioni che ottiene per il sistema. E’ questa la ragione per cui la maggior parte dei sistemi biologici (compresi i loro derivati umani) non massimizzano necessariamente la loro efficienza dell’uso di energia, eccetto come percorso per produrre la potenza massima.

Uno degli elementi di confusione delle argomentazioni passate sullo sviluppo della termodinamica è stato il mio concentrarmi sull’entropia piuttosto che sull’exergia e la potenza. Il Principio di Produzione Massimo di Entropia (PPME) che ho invece enfatizzato potrebbe essere tecnicamente valido, ma finora è troppo astratto e necessità di troppe qualificazioni per permettere al profano di accettarlo senza avere dibattiti tangenziali che rendano il problema nebuloso.

Concentrarsi invece sul PMP potrebbe rendere la mia argomentazione più facile da chiarire. Questo approccio richiede che il lettore capisca ed accetti solo tre cose piuttosto ovvie: che tutta la vita è alimentata dall’uso di energia; che la vita si sviluppa attraverso un processo di competizione fra gruppi per risorse comuni (vedi selezione naturale), con cooperazione all’interno dei gruppi che agisce a servizio del successo del gruppo stesso e che questo comportamento è vero sia che il gruppo in questione sia una colonia di batteri, un branco di lupi, una specie, una nazione o una multinazionale.

Anche se gli individui potrebbero agire contro il PMP e ridurre deliberatamente il loro uso di potenza, sembra essere estremamente difficile – forse persino impossibile – che i gruppi contravvengano a ciò che a tutti gli effetti è una legge corazzata del mondo naturale – dato che l’obbiettivo #1 di tutta la vita è la sopravvivenza del gruppo. Più grande è il gruppo, più ferro c’è nella corazza.

Ciò è vero in particolare per i gruppi di alta potenza come la civiltà umana, con le nostre attività collegate di politica ed economia. Ogni cosa che facciamo porta il marchio del Principio di massima Potenza e sostiene il suo funzionamento direttamente (per esempio attraverso le società energetiche) o indirettamente attraverso attività come i nostri sistemi politico e legale. Ogni società che non segue (o non può seguire) questa legge a lungo termine verrà spazzata via dai suoi vicini che lo fanno. Ciò è, di fatto, il meccanismo col quale i potenti imperi riescono a piegare quelli meno potenti – come le vele degli spagnoli hanno ceduto il passo al carbone britannico, che ha a sua volta ceduto al petrolio e al nucleare americano.

Alla fine quello che conta è la capacità di mobilitazione, tutto il resto è di facciata. A 18 Terawatt di produzione totale di energia e in aumento, direi che l’Homo Colossus sta facendo bene nei concorsi a premi di PMP del mondo. Con quella produzione di energia non meraviglia che le specie selvatiche del mondo non hanno possibilità contro di noi.

—————

Chiarimento sul funzionamento del PMP (Principio di Massima Potenza) nei sistemi adattivi

Sono appena stato sfidato sul blog Nature Bats Last sul mio uso di questa frase nel mio articolo sul mio articolo sul “PMP rivisitato”:

sembra essere estremamente difficile – forse persino impossibile – che i gruppi contravvengano a ciò che a tutti gli effetti è una legge corazzata del mondo naturale – dato che l’obbiettivo #1 di tutta la vita è la sopravvivenza del gruppo. Più grande è il gruppo, più ferro c’è nella corazza.

L’obbiezione è stata duplice. Una è stata che il linguaggio era troppo forte (un mio errore comune) e l’altra è stata che ci sono un sacco di esempi di società che hanno contravvenuto al PMP e in diversi modi. Gli esempi presentati sono stati l’Antico Egitto e l’Impero Romano (avevo appena scritto un’interpretazione basata sul PMP delle otto ragioni più comunemente presentate riguardo alla caduta di Roma).

Come tutte le sfide, questa mi ha spinto a rivedere il mio pensiero con più attenzione. Ecco la mia risposta.

Non intendo dire che una nazione non possa essere spinta da un percorso di massima potenza da forse esterne o dal collasso interno. Ovviamente può. Penso sia d’aiuto guardarla in termini di ciclo adattivo nella teoria della resilienza (cosa che ho appena fatto). Quanto segue proviene da una pagina web sull’argomento:

Un ciclo adattivo che si alterna fra lunghi periodi di aggregazione e trasformazione di risorse e periodi più brevi che creano opportunità per l’innovazione, viene proposto come unità fondamentale per capire i sistemi complessi dalle cellule, agli ecosistemi, alle società.
Per le dinamiche di sistema dell’ecosistema e del sistema social-ecologico che possono essere rappresentate da un ciclo adattivo, sono state identificate quattro fasi distinte:
1. crescita o sfruttamento (r)
2. conservazione (K)
3. collasso o rilascio (omega)
4. riorganizzazione (alfa)
Il ciclo adattivo mostra due grandi fasi (o transizioni). La prima, spesso chiamata anello anteriore, da r a K, è la fase lenta ed incrementale di crescita ed accumulo. La seconda, chiamata anello posteriore, da Omega ad Alfa, è la rapida fase di riorganizzazione che porta al rinnovamento.  

Mi pare come se in ogni dato sistema il PMP opera nelle prime due di queste quattro fasi, crescita e conservazione. E’ più attivo nella fase di crescita, o fase r, in cui il sistema compete con altri per le risorse di cui ha bisogno. Funziona ancora, anche se con meno intensità, durante la fase di conservazione. L’intensità è minore perché servono meno risorse per mantenersi di quelle che servono per la crescita, quindi la competizione serve di meno. La principale competizione in questa fase è rivolta ad impedire ad altri sistemi di invadere quella piccola riserva di risorse necessarie.

Alla fine altre forze si intromettono. O il sistema perde la competizione per una risorsa fondamentale, o subisce un incidente o comincia a mostrare senescenza. Non riesce più a conservare la propria integrità, quindi iniziano la decomposizione e la dissoluzione.

Per esperienza sembra evidente che i sistemi adattivi continueranno a crescere fino a che un limiti interno o esterno viene raggiunto. Nel caso delle società umane siamo riusciti a rimuovere limite dopo limite. Abbiamo spostato i limiti sempre più in avanti, permettendo a questa iterazione di società globalizzata di realizzare di gran lunga più crescita di quella che qualsiasi altro sistema adattivo sia mai stata capace di gestire. Più saliamo su per quella collina della crescita, più il funzionamento del PMP diventa intenso. Questa è la fase in cui ci troviamo ora.

Alla fine, inevitabilmente, entreremo nell’anello posteriore. Il nostro periodo di conservazione – il plateau della nostra crescita – è probabile che sia molto breve, sempre che ne possiamo identificare uno col senno di poi. Tuttavia, il punto importante è che anche durante il collasso il PMP rimarrà in azione ma su scala minore, mentre i sottosistemi (paesi, regioni, villaggi e famiglie) lottano per assicurarsi le risorse di cui avranno bisogno per la sopravvivenza e la ricostruzione.

Il PMP sembra essere un principio operativo fondamentale che sta dietro al comportamento dei sitemi adattivi che sono in cmpetizione fra di loro. Per esprimerlo in maniera più definita, “il PMP è il principio fisico fondamentale della competizione per le risorse”.

Il collasso cambia il sistema, ma anche quando questo si frantuma, ognuno dei pezzi risultanti – ora sistemi a sé stanti – competeranno ancora fra di loro per lo stesso principio.

Se un sistema, a prescindere da quanto grande o piccolo, “vuole” vincere una competizione per una risorsa, deve fare attenzione ai dettami del PMP. Se non lo fa, che sia deliberatamente o per forza di cose, probabilmente perderà quella competizione e dovrà accettare qualsiasi conseguenza che quella sconfitta comporta. Niente è certo, ma alcune cose sono molto probabili.

E’ questo che intendo per “corazzato”.

Commenti (e sfide) sono benvenuti!

more

Caldo: preparatevi al peggio

Entro certi limiti è normale che a Luglio faccia caldo ma, nella situazione odierna, siamo di fronte a un’ondata di calore eccezionale che comincia a ricordare quella storica del 2003. 
Ne discute Sam Carana nel suo blog, facendo notare come tutto sia correlato all’indebolimento della corrente a getto, causato a sua volta del riscaldamento globale. Lo vedete in questa immagine (sempre dal blog di Carana)
Ci ritroviamo dunque in una bolla di calore che si estende su tutta l’Europa centrale. Non si può prevedere quanto durerà, però preparatevi al peggio: non è una cosa che va a esaurirsi in pochi giorni. 

more

Naomi Klein: come la scienza ci dice di ribellarci

DaNew Statesman”. Traduzione di MR

La nostra inesorabile ricerca della crescita economica sta uccidendo il pianeta? Gli scienziati del clima hanno visto i dati e sono giunti a conclusioni incendiarie.

Terra desolata: l’irrigazione su larga scala toglie nutrienti dal suolo, sfregia il territorio e potrebbe alterare le condizioni climatiche al di là della capacità di ripristino. Immagine, Edward Burtynsky, per gentile concessione della Nicholas Metivier Gallery, Toronto/ Flowers, London, Pivot Irrigation #11 High Plai

Di Naomi Klein

Nel dicembre del 2012, un ricercatore dei sistemi complessi dai capelli rosa di nome Brad Werner si è fatto notare fra la folla di 24.000 scienziati della terra e dello spazio all’Incontro Autunnale dell’Unione Geofisica Americana, che si tiene annualmente a San Francisco. La conferenza di quell’anno ha visto la partecipazione di grandi nomi, da Ed Stone del progetto Voyager della NASA, che spiegava una nuova pietra miliare sulla strada verso lo spazio interstellare, al regista James Cameron, che parlava delle sue avventure nei sommergibili di grande profondità.

Ma è stata la sessione di Werner che ha attratto gran parte dell’attenzione. Era intitolata “La Terra è fottuta?” (titolo completo: “La Terra è fottuta? Futilità dinamica della gestione globale dell’ambiente e possibilità di sostenibilità attraverso l’attivismo di azioni dirette”). Di fronte alla sala conferenze, il geofisico dell’Università della California di San Diego ha spiegato alla folla il modello computerizzato avanzato che stava usando per rispondere a quella domanda. Ha parlato di limiti di sistema, perturbazioni, dissipazione, attrattori, biforcazioni e di una gran quantità di altre cose in gran parte incomprensibili a coloro fra noi che non sono iniziati alla teoria dei sistemi complessi. Ma la linea di fondo era abbastanza chiara: il capitalismo globale ha reso l’esaurimento delle risorse così rapido, conveniente e senza barriere che “i sistemi umani terrestri” stanno diventando, in risposta, pericolosamente instabili. Incalzato da un giornalista per una risposta chiara alla domanda “siamo fottuti?”, Werner ha messo da parte il gergo ed ha replicato, “più o meno”.

C’era una dinamica nel modello, tuttavia, che forniva qualche speranza. Werner l’ha denominata “resistenza” – movimenti di “persone o gruppi di persone” che “adottano una determinata serie di dinamiche che non si adatta alla cultura capitalista”. Secondo l’abstract per la sua presentazione, questo include “azione ambientale diretta, resistenza presa al di fuori della cultura dominante, come in proteste, blocchi e sabotaggi da parte di popoli indigeni, lavoratori, anarchici ed altri gruppi di attivisti”. Gli incontri scientifici seri di solito non sono caratterizzati da appelli alla resistenza politica di massa, molto meno all’azione diretta e al sabotaggio. Ma, di nuovo, Werner non ha proprio fatto appello a quelle cose. Stava semplicemente osservando che le rivolte di massa delle persone – insieme alle linee del movimento per l’abolizione, i diritti civili o Occupy Wall Street – rappresentano la fonte più probabile di “attrito” per rallentare una macchina economica che sta scivolando fuori controllo. Sappiamo che i movimenti sociali del passato hanno “avuto una incredibile influenza su … come si è evoluta la cultura dominante”, ha sottolineato. Quindi è ovvio che “se stiamo pensando al futuro della Terra, e al futuro della nostra unione con l’ambiente, dobbiamo includere la resistenza come parte di quelle dinamiche”. E questo, ha sostenuto Werner, non è una questione di opinione, ma “in realtà un problema di geofisica”.

Molti scienziati sono stati spinti dalle loro scoperte fatte nella ricerca a scendere in strada. Fisici, astronomi, medici e biologi sono stati l’avanguardia dei movimenti contro le armi nucleari, l’energia nucleare, la guerra, la contaminazione chimica e il creazionismo. E nel novembre 2012 Nature ha pubblicato un commento del filantropo della finanza e dell’ambiente Jeremy Grantham che esorta gli scienziati ad unirsi a questa tradizione e a “farsi arrestare se necessario”, perché il cambiamento climatico “non è l’unica crisi delle nostre vite, è anche la crisi dell’esistenza della nostra specie”. Alcuni scienziati non hanno bisogno di essere convinti. Il padre della moderna scienza del clima, James Hansen, è un attivista formidabile, essendo stato arrestato circa mezza dozzina di volte per la sua resistenza all’estrazione di carbone tramite “mountaintop removal” e agli oleodotti per le sabbie bituminose (ha persino lasciato il suo lavoro alla NASA quest’anno, in parte per avere più tempo per l’attivismo). Due anni fa, quando sono stata arrestata fuori dalla Casa Bianca ad un’azione di massa contro l’oleodotto per le sabbie bituminose Keystone XL, ona delle 166 persone in manette quel giorno era un glaciologo di nome Jason Box, un noto esperto mondiale della fusione della calotta glaciale della Groenlandia. “Non avrei potuto conservare la mia autostima se non fossi andato”, ha detto Box allora, aggiungendo che “solo votare non sembra essere sufficiente in questo coso. Devo anche essere un cittadino”.

Ciò è lodevole, ma ciò che sta facendo Werner con la sua modellazione è diverso. Lui non sta dicendo che la sua ricerca lo ha portato ad agire per fermare una particolare politica, sta dicendo che la sua ricerca mostra che tutto il nostro paradigma economico è una minaccia alla stabilità ecologica. E infatti sfidare quel paradigma economico – attraverso movimenti di massa che spingono in senso contrario – è la migliore possibilità per l’umanità di evitare la catastrofe. Roba pesante. Ma non è solo. Werner fa parte di un gruppo piccolo ma sempre più influente di scienziati la cui ricerca sulla destabilizzazione dei sistemi naturali – in particolare del sistema climatico – li sta portando a conclusioni analogamente trasformative e rivoluzionarie. E per ogni rivoluzionario stretto che abbia mai sognato di rovesciare l’ordine economico attuale a favore di uno che sia meno probabile che spinga i pensionati italiani ad impiccarsi in casa, questo lavoro dovrebbe interessare in modo particolare. Perché rende l’abbandono quel sistema crudele in favore di qualcosa di nuovo (e forse, con molto lavoro, migliore) non più una questione di mera preferenza ideologica, ma piuttosto di una necessità esistenziale di tutta la specie.

A condurre il gruppo di questi nuovi rivoluzionari scientifici è uno dei maggiori esperti di clima della Gran Bretagna, Kevin Anderson, il vice direttore del Cetro Tyndall per la Ricerca sul Cambiamento Climatico, che si è rapidamente affermato come una delle pricipali istituzioni nel Regno Unito per la ricerca climatica. Di fronte a tutti, dal Dipartimento per lo Sviluppo Internazionale al Comune di Manchester, Anderson ha passato più di un decennio a tradurre pazientemente le implicazioni della scienza del clima più aggiornata a politici, economisti e attivisti. In un linguaggio chiaro e comprensibile, delinea una rigorosa road map per la riduzione delle emissioni, una che fornisce una possibilità decente per mantenere le temperature al di sotto dei 2°C, un obbiettivo che la maggioranza dei governi ha determinato che allontanerebbe la catastrofe. Ma negli ultimi anni i saggi e le presentazioni di Anderson sono diventate più allarmanti. Con titoli come “Cambiamento climatico: andare oltre il pericoloso… Numeri brutali e tenue speranza”, sottolinea che le possibilità di rimanere entro un qualche livello di temperatura sicuro stanno rapidamente diminuendo. Con la sua collega Alice Bows, un’esperta di mitigazione del clima al Centro Tyndall, Anderson evidenzia che abbiamo perso così tanto tempo in stallo politico e politiche climatiche deboli – tutti mentre il consumo globale (e le emissioni) sono cresciuti a dismisura – che ora siamo di fronte a tagli così drastici che sfidano la logica di base del dare la priorità alla crescita del PIL su tutto il resto.

Anderson e Bow ci informano che lo spesso citato obbiettivo di mitigazione a lungo termine – un 80% di taglio di emissioni al di sotto dei livelli del 1990 entro il 2050 – è stato scelto puramente per ragioni di opportunità politica e “non ha basi scientifiche”. Questo perché gli impatti climatici non vengono solo da ciò che emettiamo oggi e domani, ma dalle emissioni complessive che si accumulano in atmosfera nel tempo. E avvertono che concentrandosi su obbiettivi di tre decenni e mezzo nel futuro – piuttosto che su ciò che possiamo fare per tagliare nettamente e immediatamente il carbonio – c’è un rischio serio che permetteremo alle nostre emissioni di continuare ad aumentare negli anni a venire, buttando quindi troppo del nostro “bilancio di carbonio” per i 2°C e mettendoci in una posizione impossibile più avanti durante questo secolo. Che è il motivo per cui Anderson e Bow sostengono che, se i governi dei paesi sviluppati sono seri riguardo al volere raggiungere l’obbiettivo concordato a livello internazionale di mantenere il riscaldamento al di sotto dei 2°C e se le riduzioni devono rispettare un qualche principio di equità (fondamentalmente che i paesi che che hanno emesso carbonio per quasi due secoli devono tagliare prima dei paesi in cui più di un miliardo di persone non ha ancora l’elettricità), quindi le riduzioni devono molto più profonde e devono arrivare molto prima.

Per avere una possibilità del 50% di raggiungere l’obbiettivo dei 2°C (che, i due scienziati e molti altri avvertono, comporta comunque il dover affrontare una serie di impatti climatici enormemente dannosi), i paesi industrializzati devono cominciare a tagliare le loro emissioni di gas serra di qualcosa come il 10%all’anno – e devono cominciare ora. Ma Anderson e Bow vanno oltre, sottolineando che questo obbiettivo non può essere raggiunto con la serie di modeste tassazioni del carbonio o le soluzioni green-tech normalmente sostenute dai grandi gruppi verdi. Queste misure aiuteranno certamente, per essere sicuri, ma non sono semplicemente sufficienti: un 10% di diminuzione delle emissioni, anno dopo anno, è virtualmente senza precedenti da quando abbiamo iniziato a potenziare le nostre economie col carbone. Di fatto, tagli al di sopra del 1% all’anno “sono stati storicamente associati solo con la recessione economica o la sommossa”, come ha detto l’economista Nicholas Stern nel suo rapporto del 2006 per il governo britannico.

Anche dopo che l’Unione Sovietica è collassata, riduzioni di questa durata e profondità non si sono verificate (i paesi dell’ex Unione Sovietica hanno visto riduzioni medie annue di circa il 5% su un periodo di 10 anni). Non si sono verificate dopo il crollo di Wall Street nel 2008 (i paesi ricchi hanno visto circa un 7% di diminuzione delle emissioni fra il 2008 e il 2009, ma le loro emissioni di CO2 si sono rifatte alla grande nel 2010 e le emissioni di Cina ed India hanno continuato ad aumentare). Solo subito dopo il grande crollo del mercato nel 1929 gli Stati Uniti, per esempio, hanno visto le emissioni diminuire per diversi anni consecutivi di più del 10% all’anno, secondo i dati storici del Centro di Analisi delle Informazioni su Biossido di Carbonio. Ma quella è stata la peggiore crisi economica dei tempi moderni. Se vogliamo evitare quel tipo di carneficina mentre raggiungiamo i nostri obbiettivi di emissione basati sulla scienza, la riduzione di carbonio dev’essere gestita con attenzione attraverso ciò che Anderson e Bows  descrivono come “radicali ed immediate strategie di decrescita negli Stati Uniti, nell’Unione Europea e in altri paesi ricchi”. Che va bene, eccetto per il fatto che si da il caso che abbiamo un sistema economico che idolatra la crescita del PIL su tutto il resto, a prescindere dalle conseguenze umane o ecologiche e in cui la classe politica neoliberista ha completamente abdicato alla sua responsabilità di gestire qualsiasi cosa (visto che il mercato è il genio invisibile al quale tutto deve essere affidato).

Quindi ciò che Anderson e Bows stanno in realtà dicendo è che c’è ancora tempo per evitare il riscaldamento catastrofico, ma non all’interno delle regole del capitalismo per come sono costruite ora. Il che potrebbe essere il migliore argomento che abbiamo mai avuto per cambiare quelle regole. In un saggio del 2012 apparso sull’influente rivista scientifica Nature Climate Change, Anderson e Bows hanno lanciato una specie di guanto di sfida, accusando molti dei loro compagni scienziati di non fare chiarezza sul tipo di cambiamenti che richiede il cambiamento climatico all’umanità. Su questo vale la pena citare per esteso la coppia:

. . . sviluppando gli scenari di emissione gli scienziati hanno ripetutamente e gravemente sottostimato le implicazioni delle loro analisi. Quando si tratta di evitare un aumento di 2°C, “impossibile” viene tradotto in “difficile ma fattibile”, mentre “urgente e radicale” emerge come “impegnativo” – tutto ciò placa il dio dell’economia (o, più precisamente, della finanza). Per esempio, per evitare di superare il tasso massimo di riduzione di emissioni dettato dagli economisti, vengono assunti picchi precedenti di emissioni “impossibili”, insieme alle nozioni ingenue sulla “grande” ingegneria e i tassi di dispiegamento delle infrastrutture a basso tenore di carbonio. Ancora più preoccupante, man mano che i bilanci delle emissioni diminuiscono,  il fatto che la geoingegneria venga proposta sempre di più per assicurare che il diktat degli economisti rimanga indiscusso.

In altre parole, per sembrare ragionevoli all’interno dei circoli economici neoliberisti, gli scienziati hanno drammaticamente ammorbidito le implicazioni della loro ricerca. Dall’agosto 2013, Anderson è stato disposto ad essere ancora più franco, scrivendo che abbiamo perso il treno del cambiamento graduale. “Forse al tempo dell’Earth Summit del 1992, o anche al cambio di millennio, i livelli di mitigazione di 2°C potevano essere raggiunti attraverso cambiamenti evolutivi significativi all’interno dell’egemonia politica ed economica. Ma il cambiamento climatico è un problema cumulativo! Ora, nel 2013, noi che ci troviamo in nazioni (post)industriali che emettono molto abbiamo di fronte una prospettiva molto diversa. La nostro attuale e collettiva dissolutezza in fatto di carbonio ha sperperato qualsiasi opportunità di “cambiamento evolutivo” che poteva permettersi dal nostro bilancio precedente (e maggiore) di carbonio per i 2°C. Oggi, dopo due decenni di bluff e bugie, il bilancio rimanente per i 2°C richiede un cambiamento rivoluzionario della egemonia politica ed economica” (grassetto suo). Probabilmente non ci dovremmo sorprendere del fatto che alcuni scienziati del clima sono un po’ impauriti dalle implicazioni radicali anche della loro stessa ricerca. La maggior parte di loro stava silenziosamente facendo il suo lavoro misurando carote di ghiaccio, provando modelli climatici globali e studiando l’acidificazione dell’oceano solo per scoprire, come dice l’esperto climatico e scrittore australiano Clive Hamilton. “stavano involontariamente destabilizzando l’ordine politico e sociale”.

Ma ci sono molte persone che sono ben consapevoli della natura rivoluzionaria della scienza del clima. E’ per questo che alcuni dei governi che hanno deciso di buttare i loro impegni climatici in favore dell’estrazione di più carbonio hanno dovuto trovare modi sempre più delinquenziali di mettere a tacere e intimidire gli scienziati delle loro nazioni. In Gran Bretagna, questa strategia sta diventando più evidente, con Ian Boyd, il consigliere scientifico capo del Dipartimento per l’Ambiente, il Cibo e gli Affari Rurali, che scrive di recente che gli scienziati dovrebbero evitare “di suggerire che le politiche siano giuste o sbagliate” e dovrebbero esprimere i loro punti di vista “lavorando coi consiglieri integrati (come me) e essendo la voce della ragione, piuttosto che del dissenso, nell’arena pubblica”. Se volete sapere dove porta questo, guardate cosa succede in Canada, dove vivo. Il governo conservatore di Stephen Harper ha reso efficace il bavaglio agli scienziati ed ha chiuso progetti di ricerca cruciali che, nel luglio del 2012, un paio di migliaia di scienziati e sostenitori hanno tenuto un funerale ironico a Paliament Hill ad Ottawa, piangendo la “morte delle prove”. I loro cartelli dicevano: “Niente scienza, niente prove, niente verità”.

Ma la verità viene fuori comunque. Il fatto che la ricerca dei profitti e della crescita BAU stia destabilizzando la vita sulla Terra non è più una cosa di cui dobbiamo leggere sulle riviste scientifiche. I primi segni si stanno svelando davanti ai nostri occhi. E un numero sempre maggiore di noi sta rispondendo di conseguenza: bloccando l’attività del fracking a Balcombe, interferendo con le preparazioni delle trivellazioni nell’Artico in acque russe (a costi personali tremendi), portando a giudizio gli operatori delle sabbie bituminose per aver violato la sovranità degli indigeni e innumerevoli altre azioni di resistenza grandi e piccoli. Nel modello computerizzato di Brad Werner, questo è “l’attrito” necessario per rallentare le forze della destabilizzazione. Il grande attivista Bill McKibben li chiama “anticorpi” che emergono per combattere la “febbre alta” del pianeta. Non è una rivoluzione, ma è un inizio. E ci potrebbe far guadagnare giusto il tempo sufficiente per immaginare un modo di vivere su questo pianeta che sia nettamente meno fottuto.

more

Le ragioni nascoste dietro alla crescita economica lenta: EROI in declino, energia netta vincolata

Da “Resource Insights”. Traduzione di MR (via Post Carbon Institute)

Dovrebbe apparire ovvio che ci vuole energia per avere energia. E quando ci vuole più energia per avere l’energia che vogliamo, di solito questo implica prezzi più alti dal momento che l’energia usata in ingresso costa di più. In tali circostanze rimane meno energia da usare per il resto della società, cioè, per le parti che non raccolgono energia – i consumi industriali, commerciali e residenziali di energia – di come sarebbe in caso contrario. Non dovrebbe sorprendere quindi che mentre i combustibili fossili, che forniscono più del 80% dell’energia usata dalla società moderna, diventino più energeticamente impegnativi da estrarre e raffinare; c’è una resistenza crescente all’attività economica man mano che sempre più risorse dell’economia vengono dedicate semplicemente ad ottenere l’energia che vogliamo. Un modo più formale di parlare di questo è l’EROI (o EROEI – Energy Returno on Energy Investment). Il “ritorno energetico” è l’energia che otteniamo da un particolare “investimento” di una unità di energia. Più è alto l’EROI di una fonte energetica, più economica questa sarà sia in termini energetici sia finanziari – e più sarà l’energia che resta ad uso del resto della società. Ma abbiamo assistito ad un declino permanente dell’EROI del petrolio e del gas naturale degli Stati Uniti nell’ultimo secolo, una tendenza che è probabile che si rifletta anche altrove nel mondo. Ecco un riassunto dall’abstract di uno studio del 2011:

Abbiamo scoperto due schemi nella relazione nei guadagni energetici in confronto ai costi energetici: una diminuzione graduale secolare dell’EROI ed una relazione inversa agli sforzi di trivellazione. L’EROI per trovare petrolio e gas è diminuito esponenzialmente da 1200:1 nel 1919 a 5:1 nel 2007. L’EROI della produzione dell’industria del petrolio e del gas era di circa 20:1 dal 1919 al 1972, è declinato a circa 8:1 nel 1982, quando si è verificato il picco delle trivellazioni, ha recuperato a 17:1 dal 1986 al 2002 ed è declinato nettamente a circa 11:1 dalla metà alla fine degli anni 2000. La tendenza secolare lentamente in declino è stata in parte mascherata cambiando lo sforzo: più bassa è l’intensità delle trivellazioni, più alto è l’EROI in confronto alla tendenza secolare. Il consumo di combustibile all’interno dell’industria del petrolio e del gas è cresciuto costantemente dal 1919 fino ai primi anni 80, è diminuito a metà degli anni 90 ed è aumentato di recente, non a caso, collegato all’aumento del costo di trovare ed estrarre petrolio. 

Pensiamo di rado all’energia che serve per ottenere l’energia di cui abbiamo bisogno, perché i processi sono per la maggior parte di noi nascosti. Per esempio, quando trivelliamo per il petrolio, si spende energia per costruire le piattaforme, fare le tubazioni, spostarle e consegnarle, trivellare il pozzo, completare il pozzo e pompare il petrolio. Le persone coinvolte hanno tutte bisogno di energia sotto forma di cibo per vivere, attrezzi e trasporto al loro lavoro. Il petrolio viene quindi trasportato da oleodotti o su autobotti alle raffinerie che usano ancora altra energia per fare i prodotti finali come il gasolio e la benzina che usiamo. Questi prodotti vengono trasportati alle aziende distributrici ed alla fine alle stazioni di servizio o a grandi utilizzatori finali. Quest’elenco in realtà è sommario, ma illustra la portata delle attività coinvolte. Una serie simile di spese potrebbe essere fornita per quanto riguarda il gas naturale, il carbone, l’uranio, i biocombustibili, l’energia solare, eolica e, di fatto, di qualsiasi fonte energetica disponibile al nostro uso. I metodi per valutare l’energia consumata per ottenere energia non sono universalmente coerenti. Ma a prescindere dai metodi usati, tutti indicano un fatto: l’EROI dei combustibili fossili, compreso il carbone, è declinato. Ciò è del tutto coerente con l’osservazione del fatto che abbiamo estratto le risorse facili da ottenere prima ed ora stiamo inseguendo i depositi di petrolio e gas naturale che sono progressivamente più difficili da estrarre – in depositi profondi di scisto che richiedono una estesa fratturazione idraulica o fracking, in acque oceaniche profonde e nell’Artico. In quanto al carbone, ciò si riflette nel valore termico in declino dell’unità di carbone che viene estratto oggi.

Quindi, se l’EROI è stato generalmente in declino per decenni, perché l’economia è cresciuta consistentemente? La risposta proviene da un altro pezzo del puzzle: l’energia netta. L’energia netta è l’energia che rimane al resto della società dopo aver speso l’energia necessaria per estrarla, raffinarla e consegnarla. Questo sembra l’EROI, ma è un numero assoluto, non un rapporto. Risulta che abbiamo fortemente allargato la quantità lorda di energia che stiamo estraendo da tutte le fonti nel secolo scorso. Questo grande incremento dell’estrazione lorda di energia ha mascherato il crollo dell’EROI dandoci consistentemente più energia per la società. Tuttavia, la crescita dell’energia netta sembra aver rallentato, mentre l’EROI dei combustibili fossili continua a crollare. Ciò ha portato ad una maggiore competizione per l’energia netta disponibile ed un aumento generale dei prezzi dei combustibili fossili dal 2000 in poi. Ci sono state fluttuazioni, a volte violente, legate alla cosiddetta Grande Recessione del 2008 e 2009 e all’indebolimento dell’economia mondiale dello scorso anno, che ha portato a diminuzioni nette dei prezzi del petrolio (cosa che potrebbe dirci che è in vista un’altra recessione). Se la composizione delle nostre risorse energetiche non fosse così inclinata verso i combustibili fossili finiti che forniscono più del 80% di tutta l’energia alla società umana, allora la questione dell’energia netta potrebbe essere meno importante. La grande quantità di energia solare disponibile sulla superficie della Terra potrebbe essere disponibile per noi ad un EROI relativamente basso, ma la grande quantità disponibile è di diversi ordini di grandezza maggiore di quella che stiamo usando oggi. Man mano che il solare diventa una parte sempre più grande della produzione mondiale di energia e man mano che la tecnologia diventa più efficiente nella conversione di luce solare in energia utilizzabile, potremmo veder risalire l’EROI del nostro mix energetico. Ma è dubbio che il solare ed altre alternative rinnovabili possano compensare il grande contributo energetico dei combustibili fossili a breve. Ciò significa che potremmo essere di fronte ad un rallentamento secolare della crescita energetica o persino una stagnazione ed un declino dell’energia netta disponibile per la società. Visto che la nostra maggiore fonte di energia, i combustibili fossili, continuano nella loro traiettoria di EROI in discesa, sta diventando sempre più difficile per l’estrazione lorda compensare. Ciò suggerisce che l’energia netta disponibile per la società potrebbe in realtà raggiungere il picco e declinare anche se l’estrazione lorda continuasse ad aumentare. Non c’è dubbio che molti esperti citeranno la tendenza al rialzo come motivo per non preoccuparsi delle forniture energetiche – anche se, su base netta, l’energia disponibile per la società potrebbe in realtà essere in contrazione.

more

La senilità delle élite: l’estrazione di carbone deve continuare, a prescindere dai costi umani

DaResource Crisis” e “Chimeras”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi


La miniera di carbone di Bihar, India. Foto: Nitin Kirloskar 

Questo post è stato ispirato da un recente articolo sull’estrazione di carbone in India di David Rose su The Guardian. In India la gente sta morendo per strada a causa del calore eccessivo causato dal riscaldamento globale, ma Rose ci informa che “… per un’ampia gamma di politici di Dehli c’è unanimità. Semplicemente non c’è, dicono, la possibilità che in questa fase del suo sviluppo l’India acconsenta a qualsiasi forma di limitazione delle emissioni e di tagli nemmeno a parlarne.” In altre parole, l’estrazione di carbone deve continuare in nome della crescita economica, a prescindere dai costi umani.

Penso che sia difficile vedere un esempio più evidente della senilità delle élite mondiali. Sfortunatamente non si tratta di una cosa che riguarda solo l’India. Le élite di tutto il mondo sembrano quasi completamente cieche rispetto alla situazione disperata in cui ci troviamo tutti.

Su questo argomento ho scritto un post sul blog “Chimeras” (che segue) che descrive come la cecità delle élite non è solo tipica dei nostri tempi, ma era la stessa al tempo dell’Impero Romano: E’ una discussione su come un membro della élite Romana, Rutilio Namaziano, avesse completamente frainteso la situazione degli ultimi anni dell’Impero. E la nostra caratteristica di esseri umani quella di non capire il collasso, nemmeno quando lo viviamo.

_______________________________________________

Del suo ritorno: un patrizio Romano ci racconta come ha vissuto il collasso dell’impero. 

Il V secolo ha ha visto gli ultimi sussulti dell’Impero Romano d’Occidente. Di quei tempi difficili abbiamo solo pochi documenti ed immagini. Sopra, potete vedere uno dei pochi ritratti sopravvissuti di qualcuno che è vissuto a quel tempo: l’Imperatore Onorio, capo di ciò che restava dell’Impero Romano d’Occidente dal 395 al 423. La sua espressione sembra essere di sorpresa, come se avesse cominciato a vedere i disastri che avevano luogo durante il suo regno. 

Ad un certo punto durante i primi decenni del V secolo DC, probabilmente nel 416, Rutilio Namaziano, un patrizio Romano, ha lasciato Roma – a quel punto l’ombra della gloriosa Roma di prima – per rifugiarsi nei suoi possedimenti nel sud della Francia. Ci ha lasciato una relazione del suo viaggio intitolata “De Reditu suo”, che significa “del suo ritorno”, che possiamo leggere ancora oggi, quasi completo.

Quindici secoli dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, in questo documento di Namaziano abbiamo una fonte preziosa di informazioni su un mondo che stava per scomparire e che ci ha lasciato pochissimo. E’ una relazione che ci può solo far chiedere coma poteva essere che Namaziano non avesse capito veramente niente di quanto stava accadendo a lui ed all’Impero Romano. E che ci racconta molto sul fatto che le nostre élite capiscono così poco di quello che ci sta succedendo.

Per capire il “De Reditu” dobbiamo capire il tempi in cui è stato scritto. Molto probabilmente, Namaziano raggiunse la maggiore età a Roma durante gli ultimi decenni del IV secolo, durante il regno di Teodosio I (347-395 DC), l’ultimo imperatore che ha governato insieme sia la metà Orientale come quella Occidentale dell’Impero. Quando Teodosio è morto, nel 395 DC, sono cominciate le ultime convulsioni dell’Impero Romano d’Occidente, che avrebbero portato alla sua fine formale nel 476 DC. Ma, ai tempi di Namaziano, c’erano ancora Imperatori Romani, c’era ancora un Senato Romano, c’era ancora la città di Roma, forse ancora la più grande città dell’Europa occidentale. E c’erano ancora eserciti Romani incaricati di difendere l’Impero dagli invasori. Tutto questo stava per scomparire rapidamente, molto più rapidamente di quanto chiunque avrebbe potuto immaginare a quel tempo.

Namaziano deve essere stato già un importante patrizio di Roma quando Stilicone guidò ciò che Gibbon chiama “l’ultimo esercito della Repubblica” a fermare i Goti che scendevano verso Roma in una battaglia che ha avuto luogo nel 406 DC. Poi c’è stata la caduta di Stilicone, giustiziato per tradimento sotto l’Imperatore Onorio. Poi è venuta l’invasione da parte dei Goti sotto Alarico e la presa di Roma nel 410 DC. Nel complesso, Namaziano vide la caduta di sei pretendenti al trono Occidentale, diverse grandi battaglie, il sacco di Roma e molto altro.

Quei tempi difficili hanno visto anche diverse figure che ricordiamo ancora oggi. Di coloro che erano contemporanei di Namaziano, abbiamo Galla Placidia, l’ultima (ed unica) imperatrice dell’Impero Romano d’Occidente ed è probabile che Namaziano l’avesse conosciuta personalmente quando era una giovane principessa. Namaziano deve aver saputo anche della storia di Ipazia, la filosofa pagana assassinata dai Cristiani in Egitto nel 415 DC. Probabilmente conosceva anche di fama Agostino (354-430), vescovo della città Romana di Hippo Regius, in Africa. Ci sono altre figure storiche contemporanee di Namaziano, anche se è improbabile che ne avesse mai sentito parlare. Una era un giovane guerriero che vagabondava sulle pianure orientali dell’Europa, il cui nome era Attila. Un altro (forse) era un signore della guerra della regione chiamata Britannia, che noi ricordiamo come “Artù”. Infine, Namaziano non avrà probabilmente mai sentito parlare di un giovane patrizio Romano di nome “Patricious” (in seguito conosciuto come “Patrick”), che avrebbe viaggiato fino alla lontana isola di “Hybernia” (oggi conosciuta come Irlanda) circa 20 anni dopo che Namaziano ha iniziato il suo viaggio verso la Gallia.

Ma chi era Namaziano? Gran parte di ciò che sappiamo di lui proviene dal suo stesso libro, De Reditu, ma ci è sufficiente per mettere insieme qualcosa su di lui e sulla sua carriera. Così, sappiamo che era venuto da una famiglia ricca e potente della Gallia, la moderna Francia. A Roma ha ottenuto incarichi prestigiosi: prima è stato “magister officiorum”, qualcosa di simile ad un Segretario di Stato, poi “praefectus urbi”, il Governatore di Roma.

Durante quei tempi difficili, gli Imperatori avevano lasciato Roma per un rifugio più sicuro nella città di Ravenna, sulla costa orientale italiana. Quindi, per qualche tempo, Namaziano deve essere stato la persona più potente in città. E’ stato probabilmente incaricato di difendere Roma dagli invasori Goti, ma non è riuscito ed evitare che prendessero la città e la saccheggiassero nel 410. Forse ha anche cercato – senza successo – di evitare il rapimento da parte dei Goti della figlia dell’Imperatore Teodosio, Galla Placidia, che in seguito è diventata imperatrice. Deve anche essere stato coinvolto in qualche modo nei drammatici eventi che hanno visto il Senato Romano accusare la vedova di Stilicone, Serena, di tradimento e di averla fatta giustiziare per strangolamento (sono stati anni proprio pieni di eventi).

Non sappiamo se qualcuno o tutti quegli eventi possano essere considerati collegati alla decisione di Namaziano di lasciare Roma (forse persino scappare da Roma). Forse c’erano altre ragioni, forse ha semplicemente rifiutato l’idea di restare in una città mezzo distrutta e pericolosa. Ma, per quello che ci interessa qui, possiamo dire che se c’era una persona che poteva avere una chiara visione della situazione dell’Impero, questa era proprio Namaziano. Come prefetto di Roma, doveva avere delle relazioni che gli arrivavano da tutte le regioni ancora in mano all’Impero. Deve aver saputo dei movimenti degli eserciti Barbari, del tumulto nei territori Romani, delle rivolte, dei banditi degli usurpatori e degli Imperatori. Inoltre, era un uomo di cultura, abbastanza da scrivere in seguito un lungo poema, il suo “De Reditu”. Certamente conosceva bene la storia Romana, in quanto doveva avere buona famigliarità coi lavori degli storici Romani, Tacito, Livio e Sallustio, fra gli altri.

Ma Namaziano poteva capire che l’Impero Romano d’Occidente stava collassando? Forse, sorprendentemente, non poteva. E’ chiaro dalla sua relazione di viaggio verso la Gallia via mare. Leggete questo estratto dal “De Reditu”:

“Ho scelto il mare, visto che le strade via terra, se sono al loro livello, sono allagate dai fiumi, mentre se sono sulle alture, sono tempestate di pietre. Visto che la Toscana e la via Aurelia, dopo avere subito gli oltraggi col fuoco e la spada da parte dei Goti, non possono non possono più controllare le foreste con fattorie o i fiumi coi ponti, è meglio affidare le mie vele all’imprevedibile”. 

Vi pare possibile? Se c’era una cosa di cui i Romani sono sempre stati orgogliosi erano le loro strade. Queste strade avevano uno scopo militare, naturalmente, ma tutti potevano usarle. Un Impero Romano senza strade non è l’Impero Romano, e una cosa del tutto diversa. Pensate a Los Angeles senza autostrade. Namaziano ci racconta anche di porti insabbiati, città deserte, un paesaggio di rovine che vede mentre procede verso nord lungo la costa italiana.

Ma Namaziano, in realtà, non capisce nulla di quello che sta succedendo. Può solo interpretarlo come un contrattempo momentaneo. Roma ha visto tempi difficili in precedenza, sembra pensare, ma i Romani hanno sempre trionfato sui loro nemici. E’ sempre stato così e sarà sempre così, Roma tornerà di nuovo ricca e potente. Namaziano non è mai diretto nelle sue accuse, ma è chiaro che vede la situazione come il risultato del fatto che i Romani hanno perduto le loro antiche virtù. Secondo lui, è tutta colpa di quei Cristiani, quella setta perniciosa. Sarà sufficiente tornare ai vecchi modi e ai vecchi Dei e tutto sarà di nuovo a posto.

Quest è ancora più agghiacciante della relazione sulla decadenza delle città e delle fortificazioni. Come poteva Namaziano essere così miope? Com’è possibile che non vedesse che c’era molto di più nella caduta di Roma che non la perdita delle virtù dei patriarchi dell’antichità? E, tuttavia, non è solo un problema di Namaziano. I Romani non hanno mai realmente capito cosa stesse succedendo al loro Impero, eccetto in termini di problemi militari che hanno sempre visto come temporanei. Sembra che abbiano sempre pensato che questi problemi potevano essere affrontati aumentando le dimensioni dell’esercito o costruendo più fortificazioni. E sono stati trascinati in una spirale mortale in cui più risorse spendevano in eserciti e fortificazioni, più l’Impero diventava povero. E più l’Impero diventava povero, più era difficile tenerlo insieme. Alla fine, a metà del V secolo, c’erano ancora persone a Ravenna che pretendevano di essere “Imperatori Romani”, ma nessuno più prestava loro attenzione.

Così, Namaziano ci fornisce uno scorcio prezioso di com’è vivere un collasso “dall’interno”. Gran parte delle persone semplicemente non si accorgono che sta succedendo – è come essere un pesce: non vedi l’acqua. Quindi, pensiamo ai nostri tempi. Capite il problema?

Il “De Reditu” ci è giunto incompleto e non sappiamo quale fosse la conclusione del viaggio via mare di Namaziano. Di certo, dev’essere arrivato da qualche parte, perché ha potuto completare la sua relazione. Molto probabilmente ha raggiunto la sua proprietà in Gallia e, forse, è vissuto lì fino a tarda età. Ma possiamo anche immaginare un destino più difficile per lui se facciamo riferimento ad un documento contemporaneo, l’“Eucharisticos”, scritto da Paolino di Pella, un altro ricco patrizio Romano. Paolino combatté duramente per conservare le sue grandi proprietà in Francia, nonostante le invasioni barbariche e il collasso sociale, ma scopri che i titoli terrieri hanno poco valore se non c’è un governo che li possa far valere. In tarda età, fu costretto a ritirarsi in una piccola proprietà a Marsiglia, raccontando che, perlomeno, era felice di essere sopravvissuto. Forse a Namaziano è accaduto qualcosa di simile. Anche coloro che non capiscono il collasso sono condannati a viverlo. 

more

Il discorso di Matteo Renzi: un monito forte sulla necessità di agire contro il cambiamento climatico…… o forse no?

Tradotto e adattato daResource Crisis

Qualche giorno fa, Matteo Renzi  è intervenuto in un incontro dedicato alla situazione del clima. Il suo discorso in questa occasione potrebbe essere preso come un invito ad agire contro il cambiamento climatico ma, in realtà, è un buon esempio di come un astuto politico riesce sempre a dire tante cose, senza però dire niente. E’ uno stile di politica che non è tipico soltanto della situazione italiana, ma ormai universale.

Così, mi sono preso la libertà di riprendere le frasi principali del discorso di Renzi, come riportate daLa Repubblica” e espanderle con il loro vero significato (Grassetto: le parole di Renzi)

Io non credo alla cultura della negatività e del pessimismo: sono ottimista, ma occorre assumersi della responsabilità e il tempo delle scelte è oggi – Comincio con una bella banalità, ma non pensate che sia la sola!

Dire che per noi il clima è una priorità, è restituire un senso di identità al nostro paese” Il che è, ovviamente, un’altra bella banalità, ma ha uno scopo. Notate che ho detto “una” priorità e non ho detto quali sono le altre priorità. Così, come vi potete immaginare, ci saranno sempre delle priorità più prioritarie del clima (e ora vi dirò quali sono).

Oggi, il nostro nemico è il carbone“, e questo lo posso dire dato che in Italia non usiamo molto carbone; così posso prenderlo come lo spauracchio del momento senza offendere le lobby dei combustibili fossili che mi finanziano. Inoltre, mi da la scusa di dire che altri combustibili fossili sono puliti in confronto.

Fra 40-50 anni avremo bisogno di andare ben oltre la lotta a questo combustibile” Notate che sto dicendo che tutta la lotta al cambiamento climatico si riduce alla lotta a un combustibile che in in Italia praticamente non si usa – non è una bella cosa?  Questo vuol dire che non c’è bisogno di fare niente contro il cambiamento climatico per i prossimi 40-50 anni. E questo la dice lunga su come la penso in proposito.

Dobbiamo essere capaci di dire le cose come stanno, cioè che le rinnovabili da sole non bastano”  La solennità con la quale dico questa cosa banale non vuol dire che capisco qualcosa di energia rinnovabile. Vuol dire solo che rappresento un’altra lobby. 

Da qui a domani mattina non finiscono né il petrolio né il gas” E questa è un’altra bella banalità ma è per farvi capire esplicitamente, nel caso siate veramente molto tonti, quali sono le mie priorità. Non siete contenti?

more

La geopolitica dei gasdotti: Nord Stream

Image credit

Guest post di Tatiana Yugay

Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, la Russia ha cercato di ridurre il transito di gas sul territorio ucraino. Per la Russia, l’Ucraina non è piu un partner energetico affidabile; le crisi del gas tra i due paesi nel 2006 e nel 2009 hanno rafforzato questa percezione.

La  Russia prevedeva di costruire due gasdotti per bypassare i paesi di transito pericolosi per la sicurezza della fornitura di gas. Uno di questi era il cosidetto “Nord Stream” e l’altro “South Stream”. La costruzione dei gasdotti gemelli dovrebbe alleviare l’Europa dalla dipendenza pericolosa del transito del gas russo attraverso l’Ucraina, che aveva due volte bloccato la consegna dell’Unione europea.

Prima , “Gazprom” ha iniziato il progetto per costruire un gasdotto che collega direttamente la Russia e la Germania sotto il Mar Baltico.

Picture credit: http://rus.telegram.ee/wp-content/uploads/2013/07/nord-stream1.jpg

Il percorso è stato definito attraverso le zone economiche esclusive di cinque paesi — la Germania e la Russia, così come la Finlandia, la Svezia e la Danimarca. Nonostante le critiche dei paesi scandinavi e la forte resistenza di Polonia e Ucraina, tutti i documenti e permessi necessari erano stati finalmente ottenuti.

Ciononostante, la Polonia, la Bielorussia e i paesi baltici hanno lanciato una campagna rumorosa contro la pipeline. Nel 2006, il Ministro della Difesa  polacco Radek Sikorski ha chiamato il Gasdotto nordeuropeo il ” Nuovo Patto Molotov-Ribbentrop”, cosa che ha suscitato l’indignazione della Russia e della Germania. La Polonia insisteva sul fatto che la costruzione di un gasdotto terrestre attraverso il suo territorio, sarà più economica e non permetterà l’aumento della quota del gas russo in importazioni di gas totali in Europa. Quando  il governo polacco non era riuscito a portate la pipeline in Polonia, voleva cancellare il progetto, insistendo sul suoi diritti alle acque territoriali a sud dell’isola Bornholm, per questo in seguito era stato scelto il giro dell’isola da nord.

Il 9 Novembre 2009 il “Wall Sreet Journal” pubblicava un articolo intitolato  “The Molotov-Ribbentrop Pipeline”. Alexandros Petersen, il direttore associato del Energy Center Eurasia presso il Consiglio Atlantico, scriveva che “Il messaggio geopolitico della Russia è chiaro: Essa non si fida dei nuovi Stati membri dell’Ue, come i paesi di transito o anche come i consumatori di energia ed è disposto a sostenere i costi enormi per aggirarli. L’altro messaggio o l’implicita minaccia è che il Nord Stream permetterà il Cremlino di tagliare le forniture di gas verso l’Europa orientale attraverso le condutture attuali senza ridurre le forniture di energia in Germania”

Anche Greenpeace e altre organizzazioni ambientaliste erano state contro il progetto: a loro parere, la costruzione del gasdotto disturberebbe le armi chimiche nel fondo del Mar Baltico e le mine navali, e potrebbe portare a un disastro ambientale. I rappresentanti di Nord Stream hanno sostenuto che la costruzione del gasdotto terrà conto delle norme ambientali più severe, e il percorso del gasdotto non influenzerà i siti dove erano scaricati i munizioni.

Alla fine, il consorzio Nord Stream è riuscito a dimostrare che la costruzione del gasdotto non causerà danni significativi per l’ecosistema del Mar Baltico.
Un esperto di sviluppo regionale nel’ex Unione Sovietica, Sergey Artemenko, ha detto già nel 2008: «E ‘chiaro che con la sua posizione di transito, l’Ucraina sta cercando di creare un banale ricatto. Nel caso della costruzione del gasdotto onshore dalla Russia alla Germania attraverso i paesi di transito, come richiedono Estonia, Lituania, Lettonia e Polonia – ci saranno altri ricattatori. “

Ogni  paese cercherà di ottenere i prezzi più favorevoli di gas a seconda di dove transita. Tutti i discorsi circa la convenienza di un gasdotto terrestre possono risultare sbagliati e il gasdotto può eventualmente generare perdite, sia per la Russia e per i consumatori europei di gas, perché sara necessario di soddisfare primo di tutto gli appetiti per gas dei paesi di transito, e solo dopo di loro dei consumatori finali.

“Con questo gasdotto proveniente dalla Russia” spiega Marzio Galeotti, economista dell’Università di Milano “si raggiunge l’obiettivo di bypassare tutta una serie di Paesi, e in particolare la Polonia, ai quali innanzitutto sarebbero dovuti dei diritti di transito. Inoltre si neutralizza qualsiasi pretesa di veto o ancora peggio di blocco delle forniture, come accadde qualche anno fa con l’Ucraina per un altro gasdotto”.

Nonostante la forte resistenza dei paesi di transito e non-transito, Gazprom ha iniziato la realizzione del progetto. Il progetto è partito nel 1997 quando Gazprom e Neste, compagnia petrolifera finlandese, hanno creato il North Transgas Oy per la costruzione del gasdotto dalla Russia alla Germania del Nord attraverso il Mar Baltico. In  seguito, gli  azionisti del Nord Stream AG erano stati il Gazprom (51%), Ruhrgas (15,5%), Wintershall (15,5%), N.V. Nederlandse Gasunie (9%) e Gaz de France-Suez (9%).

Il Nord Stream ha goduto fin dal 2000 dello status di progetto prioritario europeo nel quadro delle Reti Trans-Europee dell’Energia (TEN-E dall’acronimo inglese), cioè è fra i progetti che l’Unione europea ritiene di fondamentale importanza per la sicurezza dell’approvvigionamento e il completamento del mercato interno.

La posa della prima conduttura era terminata il 4 maggio 2011, mentre i lavori sotto il livello del mare sono terminati il mese dopo. Il 6 settembre 2011 veniva immesso il gas per la prima volta nella prima conduttura. Il condotto veniva ufficialmente inaugurato dalla Cancelliera tedesca Angela Merkel, dal Presidente russo Dmitry Medvedev e dal Primo Ministro francese François Fillon l’8 novembre 2011 a Lubmin. La costruzione della seconda linea termina nell’agosto 2012 con inaugurazione l’8 ottobre.

Un ruolo fondamentale nel successo del progetto ha svolto l’alleanza personale del presidente russo Vladimir Putin e il cancelliere tedesco Gerhard Schroeder. Nell’aprile 2005, aveva avuto luogo un incontro del presidente russo Vladimir Putin e il cancelliere tedesco Gerhard Schroeder. Le parti hanno concordato la costituzione di società russo-tedesca, che avrà una quota di “Gazprom”, l’azienda chimica tedesca BASF e società del gas E.ON Ruhrgas AG – una controllata di E.ON e il più grande azionista straniero di “Gazprom”. L’accordo finale sul gasdotto è stato firmato da Putin e Schroeder nel settembre 2005. Dopo la sua dimissione dalla carica di Cancelliere della Germania nel 2006, Gerhard Schroeder ha servito come presidente del comitato degli azionisti della società.

Picture credit: http://m.cdn.blog.hu/fo/fotelkalandor/image/krimi/ns_link_i.jpg

Secondo  Günther Oettinger, l’ex commissario europeo per l’energia dell’Ue, “Nord Stream è da tempo diventata un’infrastruttura europe. Il Nord Stream è stato accettato oggi“. Tuttavia, la storia non era finita con il completamento del secondo ramo del gasdotto nel 2011. In precedenza, Nord Stream AG aveva l’intenzione di costruire due rotte in più per passare attraverso il Mar Baltico – arrivando nel Regno Unito e nei Paesi Bassi. Alla fine di ottobre 2014, l’Ue ha deciso di non estendere la sezione del gasdotto in Gran Bretagna nonostante il fatto che, secondo gli esperti, a causa della riduzione della produzione di gas nel Mare del Nord nel 2020, il paese dovrà ottenere il 70% del suo fabbisogno nel “combustibile blu” dalle importazioni. Un mese dopo, alla fine di gennaio 2015, anche il Gazprom ha abbandonato i piani per espandere Nord Stream al Regno Unito.

Aggiornamento:

Gazprom ha annunciato i piani per costruire due linee di un nuovo gasdotto con una capacità di 55 miliardi di metri cubi all’anno. Ciò potrebbe raddoppiare le forniture dirette di gas russo verso l’Europa. Il nuovo gasdotto avrà un percorso simile a Nord Stream. Il 18 giugno Gazprom, Shell, E.On e OMV hanno firmato un memorandum di intenti per creare le infrastrutture di trasporto del gas per garantire forniture dirette di gas della Russia per i consumatori europei.

Previous post:
La geopolitica dei gasdotti: Come la geopolitica entra nel gioco economico


more