Effetto Cassandra

Lezioni dall’ultima volta che è collassata la civiltà

Da “npr”. Traduzione di Mr (via Bodhi Paul Chefurka)

Di Adam Frank


Dai templi di Abu Simbel nel sud dell’Egitto, che rislagono al XII secolo AC. iStockphoto

Considerate questo, se volete: una rete di civiltà lontane, potenti e ad alta tecnologia, strettamente legate da scambi e ambasciate diplomatiche; una minaccia di cambiamento climatico in accelerazione e la sua pressione sulla produzione di cibo; un’ondata in aumento di popoli sfollati pronti ad imperversare e sopraffare le nazioni sviluppate. Suona familiare?


Mentre questa lista della spesa di sciagure imminenti potrebbe essere riferita alla nostra era, in realtà è una descrizione del mondo di 3.000 anni fa. E’ la prima era oscura “globale” dell’umanità così come viene descritta dall’archeologo e professore dell’Università George Washington Eric H. Cline nel suo recente libro 1177 AC: l’anno in cui la civiltà è collassata. Il 1177 AC è, secondo Cline, una pietra miliare. 1000 anni prima di Roma o Cristo o Buddha, è esistita una potente schiera di civiltà nel vicino Medio oriente che è ascesa al massimo della gloria. Poi, piuttosto improvvisamente, la grande rete di civiltà interconnesse è implosa ed è scomparsa. La domanda che tormenta Eric Cline è perché. Cosa ha portato un tale insieme complesso di società a scomparire quasi tutte allo stesso tempo? Le risposte e le loro lezioni, sostiene Cline, sono una storia che noi moderni non dovremmo ignorare. Quando gli ho chiesto dei paralleli fra il 1177 AC e il 2014, Cline ha risposto: “Il mondo della Tarda Età del Bronzo e i giorni nostri hanno più similitudini di quanto ci si possa aspettare, in particolare in termini di relazioni, sia a livello personale sia a livello statale. Così, c’erano matrimoni e divorzi, ambasciate ed embarghi e così via.

Avevano anche problemi di cambiamento climatico e di sicurezza a livello internazionale. Queste cose non erano esclusive loro o nostre, ma la combinazione di problemi simili (cambiamento climatico e siccità, terremoti, guerra, problemi economici) proprio allo stesso tempo potrebbero essere esclusive di entrambi”.

La Tarda Età del Bronzo a cui è interessato Cline va da circa il 1500 AC al 1100 AC. L’Età del Bronzo stessa, al contrario dell’Età della Pietra prima di lei, comincia ad un certo punto intorno al 3000 AC. A quel punto, le persone hanno sviluppato sofisticate tecniche metallurgiche che hanno loro permesso di mescolare rame e stagno in una lega – il bronzo – abbastanza forte per vere lame di spada ed altri beni. E’ nell’Era del Bronzo che la costruzione delle città, e la diffusione degli imperi che ha generato, comincia sul serio. L’Egitto dei Faraoni era una civiltà dell’Era del Bronzo come l’impero babilonese. E’ stato il trasporto del rame e dello stagno per il bronzo che ha contribuito a stabilire complesse reti di scambio. Il grano ed altri beni prodotti sono diventati a loro volta parte di questa rete di trasporto. Ne sono seguite alleanze fra città-stato. In questo modo Egizi, Ittiti, Cananei, Ciprioti, Minoici, Micenei, Assiri e Babilonesi sono diventati le potenze economiche del mondo antico – ciò che Cline definisce il “Gruppo degli 8”. “Insieme hanno costruito la prima versione di una cultura “globale” usando alleanze economiche e  militari a lunga distanza che richiedevano – per i loro tempi – tecnologie avanzate.

Allora cosa ha fatto crollare tutte queste culture allo stesso tempo? La storia comincia, ma non finisce, col cambiamento climatico. Le prove che un cambiamento prolungato del clima è stato un fattore nel far crollare l’Era del Bronzo del mediterraneo provengono da diversi studi, compreso uno pubblicato nel 2013, che mostrano che il raffreddamento della superficie del mare ha portato a minori precipitazioni sulle aree agricole dell’entroterra. L’analisi di Pollen dei sedimenti marini indica anche una transizione piuttosto rapida ad un clima più secco durante questo periodo che comprende il collasso della Tarda Età del Bronzo. Ciò che ne è seguito è stato siccità, scarsità e disperazione. Voci antiche, preservate nella pietra, raccontano il lato umano della storia del cambiamento climatico. Una lettera di un impiegato commerciale che viveva nella affamata città dell’entroterra di Emar prega il destinatario nella sua città natale di Ugarit, nella Siria del nord, di portare aiuto velocemente. “C’è carestia nella vostra (leggi nostra) casa, moriremo tutti di fame. Se non arrivi velocemente, noi stessi moriremo di fame. Non vedrai anima viva…”. E con la carestia sono arrivate migrazioni e guerre. Il flagello dell’epoca erano i misteriosi “popoli del Mare” che avevano imperversato nella regione. Secondo Cline, è probabile che i Popoli del Mare predatori venissero dal Mediterraneo occidentale e “fossero probabilmente scappando dalle loro isole native a causa di siccità e carestia… spostandosinel Mediterraneo sia come rifugiatiche come conquistatori”.

Le guerre hanno richiesto il loro tributo. “Stai in guardia del nemico e diventa molto forte!” proclama una lettera al re di Ugarit verso la fine. L’avvertimento sembra essere arrivato troppo tardi. Un’altra lettera racconta dell’umiliazione dell’esercito. “La città è stata saccheggiata. Il nostro cibo nelle aie è stato bruciato e le vigne sono state a loro volta distrutte. La nostra città è saccheggiata. Devisaperlo! Devi saperlo!” Per Cline, il cambiamento climatico – insieme alle carestie e alle migrazioni che ha portato – ha comportato una “tempesta perfetta” di cataclismi che hanno indebolito la grande cultura “globale” dell’Età del Bronzo. Ma la spinta finale, la ragione più profonda del collasso, potrebbe essere arrivata dall’interno stesso della struttura di quella società. Il mondo di Egizi, Assiri e Babilonesi era complesso, nel senso tecnico della parola. Era un sistema con molti agenti e molte connessioni sovrapposte. Quella complessità era sia una forza che una debolezza. Cline indica una ricerca recente nello studio dei cosiddetti sistemi complessi che mostra quanto possano essere suscettibili a interruzioni e guasti a cascata anche da parte di piccole perturbazioni. Forse, dice Cline, le società dell’Età del Bronzo hanno manifestato la proprietà chiamata “ipercoerenza”, in cui le interdipendenze sono così complesse che la stabilità diventa sempre più difficile da mantenere. Così la complessità stessa potrebbe essere stata la più grande minaccia la civiltà della Tarda Età del Bronzo, una volta che la pressione ha avuto inizio. Ed è questo fatto, più di qualsiasi altro, che parla ai pericoli che affrontiamo oggi. Come ha scritto clinesull’Huffington Post:

“Viviamo in un mondo che ha più analogie con la Tarda Età del Bronzo di quanto si sospetti, compresa, come ha detto l’archeologa britannica Susan Sherratt, una ‘economia e una cultura sempre più omogenea eppure incontrollabile’ in cui ‘le incertezze politiche da una parte del mondo possono drasticamente condizionare le economie di regioni a migliaia di miglia di distanza’”.

Quindi, qual è esattamente la lezione che Cline pensa dovremmo trarre dal 1177 AC? In una email indirizzata a me, Cline ha scritto:

“Dobbiamo essere consapevoli che nessuna società è invulnerabile che ogni società della storia del mondo alla fine è collassata. Dobbiamo anche essere grati del fatto che siamo sufficientemente progrediti da comprendere quello che sta succedendo”. 

Ma siamo abbastanza progrediti da farne qualcosa della nostra comprensione?

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La rete e l’utopia rivoluzionaria.

Di Jacopo Simonetta

La rivoluzione non è una cosa rara nella storia.   Solitamente, quando una società si trova impantanata in difficoltà crescenti e con una classe dirigente screditata, un numero crescente di persone comincia a credere che sia possibile risolvere i problemi rovesciando il potere.  

Qualche volta è andata così, perlomeno in una certa misura; assai più spesso no.

Solitamente, una rivoluzione è uno scoppio di violenza diffuso, quindi un modo per dissipare moto rapidamente una gran quantità di energia, distruggendo nel contempo parte del capitale accumulato in precedenza.   Morti e fuggiaschi, edifici ed infrastrutture danneggiate, denaro ed oggetti d’arte perduti, biblioteche, strutture sociali ed amministrative distrutte, conoscenze e tradizioni dimenticate, eccetera: sono molte le forme sotto cui si palesa un brusco aumento di entropia.

Di conseguenza, al termine di una rivoluzione, la collettività è sempre più povera di quanto fosse all’inizio.   Di solito, il processo è quindi un evento che accelera la decadenza di una società in crisi.   La successione delle dinastie cinesi è emblematica da questo punto di vista.

In qualche caso invece, il ridimensionamento del capitale e della popolazione, nonché il drastico cambio di classe dirigente e di organizzazione, possono effettivamente invertire la tendenza “catabolica” della società.   Ma solo a condizione che sia possibile attingere a nuove risorse e scaricare ad altri l’entropia derivante dalla propria crescita.   Uno dei pochi esempi di questo genere è stata, credo, la “rivoluzione Meiji”.

Questa premessa per dire che non c’è niente di strano se le rivolte aumentano di frequenza ed intensità nelle società contemporanee.   I modi di ribellarsi sono però molto diversi a seconda del contesto.   Ad esempio, abbiamo visto scoppiare numerose rivolte in paesi arabi caratterizzati da un “bubbone giovanile”  particolarmente accentuato, regimi dispotici, risorse in rapido calo e clima in rapido peggioramento.

Nel mondo occidentale il contesto è diverso e l’utopia rivoluzionaria si concentra perlopiù intorno al web.   Molti vedono infatti internet come una tecnologia in grado di affrancare definitivamente i popoli oppressi dal giogo delle grandi multinazionali e dei loro lacchè politici.
Su questo tema la letteratura è immensa, ma mi permetto di segnalare questo articolo perché assai meglio argomentato del solito (le figure sono tratte da esso).

In estrema sintesi, vi si sostiene che, grazie ad internet, si sta sviluppando un’economia fatta principalmente di idee e conoscenze: qualcosa che sfugge ai canoni del capitalismo in seno a cui è nato il web.   L’economia capitalista è infatti basata sulla proprietà privata non solo di materia ed energia, ma anche di idee e conoscenze.   Ciò la rende vulnerabile alla nuova economia in rete che, viceversa, è basata sulla condivisione gratuita di idee e persino di tecnologie e “know how”.   In una prospettiva relativamente prossima, si sostiene, la nuova “economia della conoscenza” avrà relegato il vecchio capitalismo a settori di nicchia, realizzando la più grande e pacifica rivoluzione mai avvenuta nella storia umana.

Sul fatto che internet stia contribuendo a scalzare il capitalismo mondiale direi che l’analisi è sostanzialmente condivisibile.   Viceversa, ho molti dubbi circa la possibilità di sviluppo di una nuova economia in grado di assicurare un avvenire migliore all’umanità.

“Una volta che hai capito in questo senso la transizione, non hai più bisogno di un Piano Quinquennale super-computerizzato.   Bensì di un progetto che abbia lo scopo di espandere quelle tecnologie, modelli di business e comportamenti che dissolvono le forze del mercato, socializzano le conoscenze, eradicano il bisogno di lavorare e spingono l’economia verso l’abbondanza.   Io chiamo questo Progetto Zero perché si propone di raggiungere un sistema energetico con zero carbonio; la produzione di macchine, prodotti e servizi con zero costi marginali e la riduzione del tempo necessario al lavoro il più possibile vicino a zero.”

Un quadro decisamente utopico che vale la pena di commentare.   Ci sono diversi problemi ognuno dei quali richiederebbe un post dedicato; non potendolo fare, mi limiterò a menzionare le questioni che mi paiono principali.

Energia priva di carbonio.   Non viene spiegata la tecnologia, ma probabilmente l’idea si basa sul fatto che spostare tramite la rete idee e conoscenze comporta consumi risibili rispetto a quelli necessari per spostare persone e merci.   Di qui una drastica riduzione dei consumi globali e, quindi, la possibilità di farvi fronte con le sole fonti rinnovabili.   Lo sostengono in molti, trascurando però che la funzionalità del web dipende dall’efficienza di una rete di reti coordinate fra loro: rete telefonica, rete elettrica, reti commerciali, flusso di ricambi ed di energia e molto altro ancora.   Tutte cose che dipendono interamente dal sistema industriale e finanziario che si intende sgominare.

Se è vero che il software può diventare largamente indipendente dalle grandi imprese, non altrettanto vale per lo hardware su cui le informazioni circolano e si conservano.   In pratica, se è vero che internet presenta un’eccezionale resilienza ad alcuni tipi di minacce, è altrettanto vero che risulta estremamente vulnerabile ad altri tipi di stress.   In particolare a tutto ciò che può rendere instabili le reti ed i flussi energetici.   Cioè proprio quella parte della nostra infrastruttura che si sta rivelando più vulnerabile alla crisi energetica in arrivo.    E ricordiamoci pure che l’accesso illimitato, imparziale e quasi gratuito ad internet dipende sia dalla volontà dei governi che delle imprese che gestiscono la rete.   E’ vero che già diversi tentativi di modificare lo status quo sono naufragati, ma niente garantisce che ciò continui a verificarsi in futuro.

Inoltre, ciò che la gente utilizza per vivere è in gran parte molto materiale e non può essere condiviso in rete.    Ma se anche il flusso di informazioni condivise potesse effettivamente sostituire in gran parte il flusso di merci vendute, è molto improbabile che i consumi energetici globali diminuirebbero.

Dall’inizio della rivoluzione industriale ad oggi, l’efficienza dei processi produttivi e di trasporto è aumentata in continuazione, mentre in parallelo aumentavano i consumi globali.   In altre parole, l’esperienza dimostra che man mano che si riducono i consumi unitari, aumentano quelli complessivi (paradosso di Jevons).   Ipotizzare qualcosa di diverso richiederebbe di spiegare come si dovrebbe realizzare una così totale inversione di tendenza rispetto ad una tendenza consolidata nei secoli.

Produzione con zero costi marginali.   Non è molto chiaro cosa voglia dire, ma probabilmente intende l’azzeramento dei costi sociali ed ambientali che, indirettamente, ricadono sulla collettività (esternalità).   In effetti, questo è un punto assolutamente strategico su cui tutti i pochissimi economisti preoccupati dal suicidio collettivo in corso si sono spesi.   Ma è uno scopo perseguibile solo operando contemporaneamente sui due fronti: quello della riduzione dei costi materiali di produzione (sostanzialmente consumi di energia e materia) e su quello dell’aumento dei prezzi al consumo.   Quest’ultimo realizzato tramite una politica fiscale modulata in base agli impatti generati dai processi e dai prodotti.   Insomma qualcosa che sarebbe fattibile solamente da parte degli stati.

Riduzione degli orari di lavoro.   Non è assolutamente chiaro come questo potrebbe verificarsi senza contemporaneamente ridurre il potere d’acquisto dei lavoratori.   Certo, l’articolo ipotizza un’economia strutturata in maniera completamente diversa da quella attuale e quindi, giustamente, sottratta agli attuali meccanismi di mercato.   Ma non spiega quali meccanismi dovrebbero sostituirli. La “condivisione gratuita dell’informazione” è certo un punto importante, ma come questo si potrebbe tradurre in un aumento del benessere a fronte di un minore impegno lavorativo rimane per me misterioso.   Di fatto, i miei conoscenti che lavorano per internet hanno orari molto più massacranti degli operai in fabbrica e degli impiegati al catasto.

Concludendo, l’articolo è interessante e ne consiglio senz’altro la lettura, proprio perché esprime bene opinioni molto diverse dalle mie.   Personalmente, penso che effettivamente internet stia giocando e giocherà un ruolo importante nella decadenza della civiltà industriale attuale.   Rimango invece estremamente scettico circa la sua possibilità di diventare il pilastro di una più florida e democratica civiltà futura.

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Economia per un mondo pieno

Da “Great Transition Initiative”. Traduzione di MR

Di Herman Daly Giugno 2015

Questo saggio è stato adattato da un discorso fatto in occasione del premio Pianeta Blu, nel novembre 2014. 

A causa della crescita economica esponenziale dalla Seconda Guerra Mondiale, ora viviamo in un mondo pieno, ma ci comportiamo ancora come se fosse vuoto, con ampi spazi e risorse per un futuro indefinito. Gli assunti di fondo dell’economia neoclassica, sviluppata nel mondo vuoto, non valgono più, in quanto l’onere cumulativo della specie umana sta raggiungendo – o, in alcuni casi, superando – i limiti della natura a livello locale, regionale e planetario. L’ossessione prevalente per la crescita economica ci mette sulla strada del collasso ecologico, sacrificando il sostegno stesso del nostro benessere e della nostra sopravvivenza. Per invertire questa traiettoria sinistra, dobbiamo transitare verso un’economia di stato stazionario concentrata sullo sviluppo qualitativo, anziché sulla crescita quantitativa, e sull’interdipendenza di economia umana e ecosfera globale. Sviluppare politiche ed istituzioni per un’economia di stato stazionario ci richiederà di rivisitare la questione dello scopo e dei fini dell’economia.

L’economia come sottosistema dell’ecosfera

Quando lavoravo alla Banca Mondiale, spesso sentivo l’affermazione “Non c’è conflitto fra l’economia e l’ecologia. Possiamo e dobbiamo far crescere l’economia e proteggere l’ambiente allo stesso tempo”. Lo sento ancora dire molto oggi.

Anche se si tratta di un’idea confortante, è al massimo vera a metà. La parte “vera” nasce da una confusione fra redistribuzione e crescita aggregata. Quasi sempre esistono possibilità di una migliore assegnazione – più di qualcosa di desiderato in cambio di una riduzione di qualcosa di meno desiderato. Tuttavia, la crescita aggregata, ciò che intendono i macro economisti col termine “crescita” (ed anche il significato in questo saggio), è che il valore totale del mercato di tutti i beni ed i servizi finali (PIL) si espande.

L’economia, come mostrato nella Figura 1, è un sottosistema aperto della più vasta ecosfera, che è finita, non in crescita e materialmente chiusa, anche se aperta aperta ad un volume continuo e non crescente di energia solare. Quando l’economia cresce in dimensioni fisiche, incorpora materia ed energia dal resto dell’ecosistema in sé stessa. Deve, per la legge di conservazione della materia e dell’energia (Prima Legge della termodinamica), invadere l’ecosistema, dirottando materia da usi precedentemente naturali. Più economia umana (più persone e beni) significa meno ecosistema naturale. In questo senso, l’affermazione che “non c’è conflitto” è falsa. C’è un conflitto fisico ovvio fra la crescita dell’economia e la preservazione dell’ambiente.

Che l’economia sia un sottosistema dell’ecosfera sembra forse troppo ovvio da enfatizzare. Eppure la visione opposta è comune ai piani alti. Per esempio, un recente studio del Comitato sul Capitale naturale del governo britannico ha asserito che “l’ambiente è parte dell’economia e dev’essere integrato adeguatamente in essa così che le opportunità di crescita non vadano perdute”. Al contrario, è l’economia che è la parte e deve essere integrata nel complesso dell’ecosfera finita di modo che il limiti della crescita non vengano superati. (1)

Ma questo conflitto fisico è economicamente importante? Alcuni credono di vivere ancora in un mondo “vuoto”. Nel mondo vuoto, l’economia era piccola in rapporto all’ecosistema che la conteneva, le nostre tecnologie di estrazione e di raccolta non erano così potenti ed eravamo presenti in numero ridotto. I pesci di riproducevano più rapidamente di quanto fossimo in grado di pescarli, gli alberi crescevano più rapidamente di quanto potessimo tagliarli e i minerali nella crosta terrestre erano abbondanti. In altre parole, le risorse naturali non erano proprio scarse. Nel mondo vuoto, aveva senso economicamente dire che non c’era conflitto fra crescita economica ed ecosistema, anche se non era propriamente vero in senso fisico.

Figura 1: Welfare in un mondo pieno e vuoto

La teoria economica neoclassica si è sviluppata durante quest’epoca e ne incorpora ancora molti assunti. Ma il mondo vuoto si è rapidamente trasformato in mondo “pieno” grazie alla crescita, grazie all’obbiettivo principale di ogni paese – capitalista, comunista o a metà strada. Dalla metà del XX secolo, la popolazione mondiale è più che triplicata – da due miliardi a oltre sette miliardi. Le popolazioni di bovini, polli, maiali e piante di soia e mais hanno fatto altrettanto. La popolazione non vivente di automobili, edifici, frigoriferi e cellulari è cresciuta anche più rapidamente. Tutte queste popolazioni, viventi e non viventi, sono quello che i fisici chiamano “strutture dissipative” – vale a dire, il loro mantenimento e riproduzione richiede un flusso metabolico, un volume che comincia con l’esaurimento delle risorse a bassa entropia provenienti dall’ecosfera e finisce col ritorno di rifiuti inquinanti ad alta entropia nell’ecosfera. Questo distrugge l’ecosfera da entrambi i lati, un costo inevitabile necessario per la produzione, la manutenzione e la riproduzione della riserva di persone e di ricchezza. Fino a poco tempo fa, la teoria economica standard ignorava il concetto di rendimento metabolico e, ancora adesso, la sua importanza è grandemente sottovalutata. (2)

Il concetto di flusso metabolico in economia porta con sé le leggi della termodinamica, che sono scomode per l’ideologia della crescita. La prima Legge, come osservato sopra, impone uno scambio quantitativo di materia/energia fra l’ambiente e l’economia. La Seconda legge, che l’entropia (o disordine) dell’universo aumenta sempre, impone un degrado qualitativo dell’ambiente – estraendo risorse a bassa entropia e dando indietro rifiuti ad alta entropia. La Seconda Legge della Termodinamica impone quindi un conflitto aggiuntivo fra l’espansione dell’economia e la preservazione dell’ambiente, cioè che l’ordine e la struttura dell’economia è pagata imponendo disordine nell’ecosfera che la sostiene. Inoltre questo disordine, esportato dall’economia, distrugge le complesse interdipendenze ecologiche del nostro ecosistema di supporto vitale.

Coloro che negano il conflitto fra crescita ed ambiente spesso affermano che siccome il PIL viene misurato in unità di valore, non necessariamente ha un impatto fisico sull’ambiente. Ma si deve ricordare che un dollaro di benzina è una quantità fisica – recentemente circa un quarto di gallone negli Stati Uniti. Il PIL è un aggregato di tutte le quantità di questo genere “del valore di un dollaro” comprate per l’uso finale e di conseguenza è un indice di valore ponderato di quantità fisiche. Il PIL certamente non è perfettamente correlato col flusso di risorse. Ciononostante, le probabilità di “disaccoppiamento” assoluto del flusso di risorse dal PIL sono piuttosto limitate, anche se se ne parla molto e sono e desiderate. (3)

I limiti sono resi visibili considerando una matrice ingresso-uscita di un’economia. Quasi ogni settore richiede ingressi da (e fornisce uscite per) quasi ogni altro settore. E questi ingressi richiedono un ulteriore giro di ingressi per la loro produzione, ecc. L’economia cresce come un insieme integrato, non come un misto di settori separati. Anche i settori dell’informazione e dei servizi richiedono ingressi di risorse fisiche sostanziali. In aggiunta al limite dal lato dell’offerta riflesso nell’interdipendenza ingresso-uscita dei settori di produzione, c’è il limite del lato della domanda di ciò che è stato chiamato “ordinamento lessicografico dei desideri” – a meno che prima non abbiamo cibo a sufficienza nel piatto, non siamo interessati all’informazione contenuta in mille ricette su Internet. E, naturalmente, il Paradosso di Jevons – l’idea che, man mano che la tecnologia avanza, l’aumento di efficienza col quale viene usata una risorsa tende ad aumentare il tasso di consumo di quella risorsa – nega gran parte dei benefici di tale progresso. Ciò non nega le reali possibilità del miglioramento dell’efficienza tecnica nell’uso delle risorse, o il miglioramento etico nell’ordinamento delle nostre priorità. Ma questi rappresentano uno sviluppo qualitativo e di frequente non vengono colte nel PIL, che riflette principalmente la crescita quantitativa.

Siccome il PIL riflette le attività dannose sia quelle benefiche, gli economisti ecologici non lo hanno considerato come desiderabile in sé. Hanno invece distinto la crescita (aumento quantitativo in dimensione per accrescimento o assimilazione di materia) dallo sviluppo (miglioramento qualitativo di progettazione, tecnologia o priorità etiche). Gli economisti ecologici sostengono lo sviluppo senza crescita – miglioramento qualitativo senza aumento quantitativo di flusso di risorse oltre una scala ecologicamente sostenibile. Data questa distinzione, si potrebbe infatti dire che non c’è necessariamente conflitto fra sviluppo qualitativo ed ambiente. Il calcolo del PIL mescola insieme crescita e sviluppo, così come costi e benefici. Esso quindi confonde anziché chiarire.

Da un mondo vuoto a un mondo pieno: il fattore limitante è cambiato

Quando il flusso entropico diventa troppo grande, sopraffa o la capacità rigenerativa delle fonti della natura o la capacità assimilativa dei pozzi della natura. Questo ci dice che non viviamo più nel mondo vuoto, ma piuttosto abitiamo in un mondo pieno. I flussi di risorse ora sono il fattore di scarsità e il lavoro e le riserve di capitale ora sono relativamente abbondanti. Questo schema di fondo di scarsità è stato invertito da un secolo di crescita.

Figura 2: Cambiamento dei fattori limitanti

Questa immagine semplice è istruttiva. In passato, la pesca era limitata dal numero di pescherecci e pescatori. Ora è limitata dal numero di pesci e dalla loro capacità di riprodursi. Più pescherecci non portano a più pesce pescato. Il fattore limitante non è più il capitale di pescherecci costruite dall’uomo, ma il capitale naturale rimasto di popolazioni di pesce e del loro habitat acquatico.
La logica economica vi direbbe di investire sul fattore limitante. La vecchia politica economica di costruire più pescherecci ora è antieconomica, quindi dobbiamo investire in capitale naturale, il nuovo fattore limitante. Come lo facciamo? Intanto, possiamo farlo riducendo la pesca per permettere alle popolazioni di pesci di tornare ai livelli precedenti e con altre misure come lasciare a maggese i terreni agricoli per ripristinare la loro fertilità. Più in generale, possiamo farlo ripristinando l’ecologia, la biodiversità, la conservazione e le pratiche d’uso sostenibili.

Si potrebbero disegnare quadri analoghi per altre risorse naturali. Cos’è che alla fine dei conti limita la produzione di legna tagliata? E’ il numero di motoseghe, di segherie e taglialegna o le foreste che rimangono e il tasso di crescita dei nuovi alberi? Cosa limita i raccolti dell’agricoltura irrigua? E’ il numero di tubi, irrigatori e pompe p le riserve d’acqua nelle falde, il loro tasso di riempimento e il flusso di acqua di superficie nei fiumi? Cosa limita il numero di barili di petrolio greggio pompato: il numero di piattaforme di trivellazione o i depositi di petrolio accessibile rimasti? Cosa limita l’uso di tutti i combustibili fossili: le nostre attrezzature minerarie e i motori a combustione o la capacità dell’atmosfera di assorbire i gas serra risultanti senza causare un drastico cambiamento climatico? In tutti i casi, è il secondo, il capitale naturale (sorgente o pozzo che sia), piuttosto che il capitale costruito dall’uomo.

Gli economisti tradizionali hanno reagito a questo cambiamento dell’identità del fattore limitante in tre modi. Il primo è che lo hanno ignorato – continuando a credere che viviamo nel mondo vuoto del passato. Il secondo è che hanno fatto finta che il PIL sia un numero etereo ed angelico piuttosto che un aggregato fisico. Il terzo è che hanno affermato che il capitale naturale non ha, di fatto, sostituito il capitale prodotto dall’uomo come fattore limitante, perché il capitale prodotto dall’uomo e il capitale naturale sono sostituti intercambiabili, almeno secondo le funzioni di produzioni neoclassiche.

Solo se i fattori di produzione sono complementi quello in numero ridotto può essere limitante. Quindi anche se il capitale naturale ora è più scarso di prima, questo non sarà un problema, dicono gli economisti neoclassici, perché il capitale prodotto dall’uomo è un sostituto “quasi perfetto” delle risorse naturali. Viene rappresentato come tale in funzioni di produzione moltiplicative come la ampiamente usata Cobb-Douglas. Ma moltiplicare i “fattori” di produzione per ottenere un “prodotto” è matematica, non economia. Nel mondo reale, ciò che chiamiamo “produzione” è di fatto trasformazione, non moltiplicazione. Le risorse naturali vengono trasformate da ingressi di capitale e di lavoro in prodotti utili e rifiuti.

Mentre le tecnologie migliorate possono certamente ridurre i rifiuti e facilitare il riciclo, gli agenti di trasformazione (capitale e lavoro) non possono essere utilizzati come sostituti diretti del materiale e dell’energia che vengono trasformati (risorse naturali). Possiamo produrre una torta di 4 chili e mezzo con solo mezzo chilo di ingredienti semplicemente usando più cuochi e forni? E, inoltre, come possiamo produrre più capitale (o lavoro) senza usare più risorse naturali? Mentre un investimento di capitale in sonar potrebbe aiutare a localizzare i pesci che rimangono, il sonar non è un buon sostituto di più pesce nel mare. E cosa succede al valore del capitale dei pescherecci, compresi i loro sonar, man mano che il pesce scompare?

Limiti alla crescita e la scala ottimale dell’economia in un mondo pieno

E’ chiaro dalla Figura 1 che la transizione da un mondo vuoto ad uno pieno comporta costi e benefici. La freccia marrone da Economia a Welfare  rappresenta i servizi economici (benefici provenienti dall’economia). E’ piccola nel mondo vuoto ma grande nel mondo pieno. Cresce ad un tasso decrescente perché, come esseri razionali, per primi soddisfiamo i desideri più importanti – La legge dell’utilità marginale decrescente. I costi della crescita sono rappresentati dai servizi ecosistemici in contrazione (freccia verde) che sono grandi nel mondo vuoto, ma piccoli nel mondo pieno. Diminuisce ad un tasso crescente man mano che l’ecosistema viene soppiantato dall’economia perché noi – in teoria – sacrifichiamo prima i servizi ecosistemici meno importanti – La legge dei costi marginali crescenti.

Possiamo riformulare ciò nei termini della Figura 3, che mostra il beneficio marginale in declino della crescita dell’economia e il costo marginale in aumento del risultante sacrificio ambientale:

Figura 3: I limiti della crescita

Dal diagramma, possiamo distinguere tre concetti di limiti della crescita:

1. Il limite della futilità si presenta quando l’utilità marginale della produzione arriva a zero. Anche senza nessun costo di produzione, c’è un limite a quanto possiamo consumare continuando a goderne. C’è un limite ai beni di cui possiamo godere in un dato periodo di tempo, così come c’è un limite dei nostri stomaci e della capacità sensoriale del nostro sistema nervoso. In un mondo con una povertà considerevole e in cui i poveri osservano quelli molto ricchi che si godono ancora la loro ricchezza in eccesso, molti vedono questo limite di futilità come molto lontano, non solo i poveri, ma tutti. Per il suo postulato di “non sazietà”, l’economia neoclassica formalmente nega il concetto di limite di futilità. Tuttavia, degli studi hanno mostrato che, oltre una “soglia di sufficienza”, sia la felicità percepita sia gli indici obbiettivi del benessere cessano di aumentare col PIL. (4)

2. La catastrofe ecologica è rappresentata da un netto aumento verticale della curva del costo marginale. Alcune attività umane, o nuova combinazione di attività, potrebbero indurre una reazione a catena, o punto di non ritorno, e far collassare la nostra nicchia ecologica. Il principale candidato per il limite catastrofico al momento è il cambiamento climatico fuori controllo indotto dai gas serra emessi nella ricerca della crescita economica. Quello che potrebbe accadere lungo l’asse orizzontale è incerto. L’assunto di un costo marginale in continuo e leggero aumento è piuttosto ottimistico. Data la nostra comprensione limitata di come funziona l’ecosistema, non possiamo essere sicuri di aver messo correttamente in sequenza i nostri sacrifici di servizi ecologici dal meno al più importante. Nel far strada alla crescita, potremmo sacrificare per ignoranza un servizio ecosistemico vitale prima di uno superficiale. Quindi la curva del costo marginale potrebbe in realtà salire e scendere in modo discontinuo, rendendo difficile definire il terzo e più importante limite, cioè il limite economico.

3. Il limite economico è definito dall’uguaglianza del costo marginale e del beneficio marginale e della corrispondente massimizzazione del beneficio netto. Il limite economico sembrerebbe essere il primo limite che incontriamo. Di sicuro si verifica prima del limite di futilità e probabilmente prima del limite di catastrofe. Nella peggiore ipotesi, il limite di catastrofe potrebbe coincidere col limite economico e determinarlo in modo discontinuo. Pertanto è molto importante stimare i rischi di catastrofe ed includerli come costi da conteggiare nella curva della disutilità prima possibile.

Dal grafico è evidente che la produzione e il consumo aggregati in aumento vengono giustamente chiamati crescita economica solo fino al limite economico. Oltre quel punto diventa crescita antieconomica perché aumenta i costi più dei benefici, rendendoci più poveri, non più ricchi. Ciononostante, continuiamo perversamente a chiamala crescita economica. Infatti, non troverete il termine “crescita antieconomica” in nessun libro di testo di macroeconomia. Ogni aumento di PIL reale viene chiamato “crescita economica” anche se aumenta i costi più rapidamente dei benefici. Che più ricco (più ricchezza netta) sia meglio di più povero è una verità lapalissiana. La domanda rilevante, però, è: la crescita ci rende più ricchi o ha cominciato a renderci più poveri aumentando il “malessere” più rapidamente del “benessere”?

Ci sono esempi di “malessere” ovunque, anche se sono ancora non misurati nei conteggi nazionali. Comprendono cose come scorie nucleari, cambiamento climatico da eccesso di carbonio in atmosfera, perdita di biodiversità, miniere esaurite, deforestazione, suolo eroso, pozzi e fiumi prosciugati e buco dell’ozono. Comprendono anche lavoro estenuante e pericoloso e il debito non saldabile derivato dal tentativo di spingere la crescita nel simbolico settore finanziario oltre ciò che è possibile nel settore reale.

Gli economisti osserveranno che la logica impiegata nella Figura 3 è famigliare in macroeconomia – la dimensione ottimale di una unità macroeconomica, che sia una ditta o una famiglia, si verifica dove il costo marginale è uguale al beneficio marginale. La logica non viene applicata alla macroeconomia, tuttavia, perché la seconda viene pensata come il Tutto piuttosto che una Parte. Quando una Parte si espande in un Tutto finito, impone un costo di opportunità sulle altre Parti che si devono restringere per farle spazio. Quando il Tutto stesso si espandesi pensa che non imponga nessun costo di opportunità perché non sostituisce niente, espandendosi presumibilmente nel nulla. Ma come visto nella Figura 1, la macroeconomia non è il Tutto. E’ anche lei una Parte, una parte della più ampia economia naturale, l’ecosfera, e la sua crescita infligge costi di opportunità sul Tutto finito che devono essere considerati. Il rifiuto di riconoscere questo dipende dal fatto che molti economisti non possono concepire la possibilità che la crescita del PIL possa mai essere antieconomica.

Gli economisti standard potrebbero accettare la Figura 3 come un quadro statico ma poi sosterrebbero che, in un mondo dinamico, la tecnologia sposterebbe la curva dei benefici marginali verso l’alto e quella dei costi marginali verso il basso, spostando la loro intersezione (limite economico) sempre verso destra di modo che la crescita continua rimane sia desiderabile si possibile. Tuttavia, gli ‘spostatori’ di curve macroeconomiche devono ricordare tre cose. La prima è che la macroeconomia che cresce fisicamente è comunque limitata dalla propria sostituzione dell’ecosfera finita e dalla natura entropica del proprio flusso di mantenimento. La seconda è che la tempistica della nuova tecnologia è incerta. La tecnologia attesa potrebbe non essere inventata o entrare in funzione fino a dopo che abbiamo superato il limite economico. Manteniamo quindi la crescita antieconomica aspettando e sperando che le curve si spostino? La terza è che le curve possono anche spostarsi nella direzione sbagliata, spostando il limite economico indietro verso sinistra. I “progressi” tecnologici del piombo tetraetile e dei clorofluorocarburi hanno spostato la curva dei costi in giù o in su? E l’energia nucleare? O il “fracking”?

Adottare un’economia di stato stazionario ad un macro livello (mentre, naturalmente, favoriamo i miglioramenti di assegnazione al micro livello) ci aiuta ad evitare di essere spinti oltre il limite economico. Potremmo prenderci il nostro tempo per valutare nuove tecnologie piuttosto che adottarle ciecamente nell’interesse della crescita aggregata che potrebbe anche essere antieconomica. E lo stato stazionario ci da una qualche assicurazione contro i rischi della catastrofe ecologica ,che invece aumentano col ‘crescismo’ e l’impazienza tecnologica.

Tre prospettive sull’integrazione di economia ed ecosistema

La nostra visione e le politiche dovrebbe basarsi su una visione integrata ed un’ecosfera non in crescita. Tre diverse concezioni hanno fondato tali tentativi sull’integrazione e tutti e tre partono dalla visione dell’economia come sottosistema dell’ecosfera e riconoscono quindi i limiti della crescita. Tuttavia differiscono nel modo in cui ognuna tratta il confine fra economia e il resto dell’ecosistema e queste differenze hanno grandi conseguenze nelle politiche di come ci adattiamo ai limiti.

Figura 4: Approcci all’integrazione di economia ed ecosistema

L’imperialismo economico cerca di espandere i confini del sottosistema economico finché non invade l’intera ecosfera. L’obbiettivo è un sistema, la macroeconomia come Tutto. Questo è ottenuto  attraverso l’internalizzazione completa di tutti i costi e benefici esterni nei prezzi. Quella miriade di aspetti della biosfera non scambiati abitualmente nei mercati vengono trattati come se fossero per imputazione di “prezzi ombra” – la miglior stima dell’economista di cosa il prezzo della funzione o cosa sarebbe se venisse scambiata in un mercato competitivo. Ogni cosa nell’ecosfera viene teoricamente resa comparabile in termini della capacità del suo prezzo di aiutare o ostacolare gli individui a soddisfare i loro desideri. Implicitamente, il fine perseguito è un livello ancora maggiore di consumo e il modo di ottenere effettivamente questo fine è la crescita del valore di scambio aggregato dei beni e dei servizi finali messi sul mercato (PIL).

L’imperialismo economico è essenzialmente l’approccio neoclassico. Le preferenze soggettive individuali, tuttavia capricciose o istruite, vengono prese come la fonte ultima di valore. Questo è un giudizio di valore perverso, non l’assenza di giudizi di valore, come la trattano di solito gli economisti. Siccome i desideri soggettivi sono pensati come infiniti nel complesso, così come la sovranità, la scala delle attività dedite alla loro soddisfazione tende ad espandersi. L’espansione è considerata come “tutti i costi sono internalizzati nei prezzi”.

Mentre i costi possono certamente essere internalizzati nei prezzi, questa non dovrebbe diventare una scusa per permettere l’eccessiva acquisizione dell’ecosfera da parte della crescita economica. Sfortunatamente, molti dei costi della crescita che abbiamo vissuto sono arrivati come sosprese. Non possiamo internalizzarli se prima non possiamo immaginarli e prevederli. Inoltre, anche dopo che alcuni costi esterni sono diventati piuttosto visibili (vedi cambiamento climatico), l’internalizzazione è stata molto lenta, parziale e con molta opposizione. Le ditte che massimizzano i profitti hanno un incentivo ad esternalizzare i costi. Finché l’idoneità evolutiva dell’ambiente di sostenere la vita non viene percepita come valore dagli economisti, è probabile che venga distrutta nella ricerca imperialistica di soggiogare ogni molecola e fotone della creazione alle regole pecuniarie dell’attuale massimizzazione del valore.

Non c’è dubbio che una volta che la scala dell’economia è cresciuta al punto che beni e servizi ambientali in precedenza gratuiti diventano scarsi è meglio se dovessero avere un prezzo positivo che riflette la loro scarsità che continuare ad avere un prezzo zero. Ma la domanda precedente rimane: stiamo meglio con la nuova scala più grande con beni che prima erano gratuiti al giusto prezzo o la vecchia scala più piccola con beni gratuiti a loro volta al giusto prezzo (a zero)? In entrambi i casi, i prezzi sono giusti. Questa domanda di macro scala ottimale non viene posta e nemmeno risposta dall’economia neoclassica e neanche da quella Keynesiana nella loro cieca ricerca della crescita.

Il riduzionismo ecologico comincia con la giusta intuizione secondo cui gli esseri umani e i mercati non sono esenti dalle leggi di natura. Ma poi procede verso la falsa illazione secondo cui l’azione umana è completamente spiegabile dalle leggi della natura e riducibile ad esse. Cerca di spiegare qualsiasi cosa accada all’interno del sottosistema economico con le stesse leggi naturali che applica al resto dell’ecosistema. Ingloba il sottosistema economico indifferentemente all’interno del sistema naturale, cancellandone i confini. Portata all’estremo, questa visione pretende di spiegare tutto con un sistema materialistico deterministico che non ha spazio per lo scopo e la volontà. Questa è una visione sensibile da cui studiare l’ecologia di una barriera corallina o di una foresta pluviale. Ma se si adotta per studiare l’economia umana, si rimane invischiati nella scomoda implicazione politica secondo cui la politica non può fare nessuna differenza.

L’ecologia ha ereditato dalla sua disciplina madre, la biologia, una misura della filosofia meccanicistica della biologia moderna. Ciò deriva da un fondamentalismo neo Darwiniano che spesso è accettato acriticamente da molti importanti biologi come una metafisica deterministica validata dalla scienza, piuttosto che come una fruttuosa ipotesi di lavoro per fare scienza. Il determinismo è completamente in contrasto con politiche intenzionali di qualsiasi tipo e di conseguenza con qualsiasi pensiero economico che punti alle politiche. Un matrimonio felice fra economia ed ecologia, come nella “economia ecologica”, deve superare questa incompatibilità latente. L’imperialismo economico riduce tutto alla volontà ed all’utilità umana, trascurando i limiti oggettivi del mondo naturale. Il riduzionismo ecologico vede solo leggi naturali deterministiche e le estende imperiosamente in  “spiegazioni” materialiste di volontà e consapevolezza umana come mere illusioni. E’ una tragica ironia che la disciplina le cui scoperte scientifiche hanno fatto molto per aprire gli occhi ai pericoli ambientali che abbiamo di fronte è anche la disciplina le cui presupposizioni metafisiche hanno fatto molto per indebolire la nostra volontà di rispondere a questi pericoli con politiche intenzionali. (5)

L’imperialismo economico e il riduzionismo ecologico sono entrambi visioni monistiche, anche se monismo opposti. La ricerca monistica di una singola entità o principio con cui spiegare tutto porta ad un eccessivo riduzionismo da entrambe le parti. Di certo, la scienza dovrebbe sforzarsi per la più ridotta o parsimoniosa spiegazione possibile senza ignorare i fatti. Ma rispetto per i fatti empirici fondamentali da un lato e scopo e volontà coscienti dall’altro ci dovrebbero portare ad un tipo di dualismo pratico. Dopo tutto, che il nostro mondo consista di due caratteristiche fondamentali non offre alcuna improbabilità intrinseca rispetto a quello che poggia solo su una. Come interagiscono queste due caratteristiche fondamentali del nostro mondo (causa materiale e causa finale) è un mistero venerabile – esattamente il mistero che i monisti di entrambi i tipi stanno cercando di evitare. Stanno meglio negando l’ordine mentale del proprio monismo che negando i fatti che indicano un dualismo disordinato.  

La prospettiva che rimane è il sottosistema di stato stazionario. Questo non tenta di eliminare il confine del sottosistema espandendolo per farlo coincidere col sistema complessivo o riducendolo a niente. Piuttosto, afferma sia l’interdipendenza sia la differenza qualitativa fra l’economia umana e l’ecosistema naturale. Il confine deve essere riconosciuto e disegnato nel posto giusto. La scala del sottosistema umano definita dal confine ha un optimum e il flusso con cui l’ecosfera mantiene fisicamente e rifonde il sottosistema economico dev’essere ecologicamente sostenibile. L’obbiettivo dell’economia è di minimizzare il consumo di bassa entropia per ottenere uno standard di vita sufficiente – vagliandolo lentamente e con cura attraverso tecnologie efficienti tese a scopi importanti. L’economia non dovrebbe essere vista come una macchina stupida dedita a massimizzare i rifiuti. Il suo scopo ultimo è mantenere e godersi la vita a lungo (non per sempre) ad un livello sufficiente di ricchezza per una buona (non lussuosa) vita.

L’idea di un’economia di stato stazionario proviene dall’economia classica ed è stata sviluppata da John Stuart Mill (1857), che la chiamava “stato stazionario”. (6) In un tale stato, la popolazione e la riserva di capitale non crescerebbero più, anche se l’arte di vivere continuerebbe a migliorare. La costanza di queste due riserve fisiche definivano la scala del sottosistema economico. I tassi di nascita sarebbero uguali ai tassi di morte e i tassi di produzione a quelli di deprezzamento. Oggi, aggiungiamo che entrambi i tassi dovrebbero essere uguali a livelli bassi piuttosto che a livelli alti, perché valutiamo la longevità delle persone e la durata dei manufatti e vogliamo minimizzare il flusso, soggetto al mantenimento di riserve sufficienti per una buona vita.

Politiche per un’economia di stato stazionario

L’economia ecologica dovrebbe cercare lo sviluppo di una visione di stato stazionario e andare oltre le strade senza uscita di imperialismo economico e riduzionismo ecologico. Dieci politiche per andare verso un’economia di stato stazionario sono presenti sotto. Molte potrebbero venire adottate indipendentemente e gradualmente, anche se hanno coesione nel senso che alcune compensano le lacune di altre. Naturalmente, la questione del livello desiderato dell’economia di stato stazionario è cruciale e i limiti locali, regionali e globali devono essere considerati nel plasmare politiche efficaci.

(1) Sviluppare sistemi di Cap-Auction-Trade per le risorse fondamentali (in particolare i combustibili fossili): mettere dei tetti per le risorse naturali secondo tre regole chiave: (1) le risorse rinnovabili non devono essere esaurite più velocemente di quanto si rigenerino, (2) le risorse non rinnovabili non devono essere esaurite più velocemente di quanto vengano sviluppati i sostituti rinnovabili e (3) i rifiuti provenienti dall’uso di tutte le risorse non devono essere riversate nell’ecosistema più rapidamente di quanto possano essere assorbite e ricostituite dai sistemi naturali. Questo approccio ottiene scala sostenibile ed efficienza di mercato, evita effetti di rimbalzo ed aumenta i ricavi d’asta per rimpiazzare le tasse regressive.

(2) Spostamento fiscale: spostare la base fiscale da “valore aggiunto” (lavoro e capitale) a ciò a cui viene aggiunto il valore, per esempio il flusso di risorse naturali, la fonte di costi sociali come l’inquinamento e gli effetti negativi sulla salute pubblica. Tali tasse incoraggeranno anche un uso efficiente delle risorse.

(3) Limitare la disuguaglianza: stabilire un limite minimo e massimo di reddito, mantenendo le differenze sufficientemente grandi da preservare gli incentivi ma sufficientemente piccole da sopprimere le tendenze plutocratiche delle economie di mercato.

(4) Riformare il settore bancario: passare dal sistema bancario dalla riserva frazionaria al 100% di obblighi di riserva sui depositi a vista. I soldi non sarebbero più prevalentemente indebitamento gravato da interessi creato dalle banche private, ma  debito non gravato da interessi emesso dal Tesoro. Ogni dollaro prestato per gli investimenti sarebbe un dollaro precedentemente risparmiato da qualcun altro, ripristinando l’equilibrio classico fra investimento ed astinenza dal consumo e ammortizzando i cicli di espansione e contrazione.

(5) Gestire il mercato per il bene pubblico: passare dal mercato libero e dalla mobilità libera del capitale ad un mercato internazionale equilibrato e regolato. Mentre l’interdipendenza delle economie nazionali è inevitabile, la loro integrazione in un’economia globale non lo è. Il libero mercato svende le politiche di internalizzazione dei costi interni, portando ad una corsa verso il basso. La mobilità libera del capitale annulla l’argomentazione del fondamentale vantaggio comparativo di libero scambio delle merci. (7)

(6) Espandere il tempo libero: ridurre il lavoro convenzionale in favore del lavoro part-time, del lavoro personale, e del tempo libero, abbracciando in tal modo il benessere come misura centrale di prosperità riducendo la spinta alla produzione illimitata.

(7) Stabilizzare la popolazione: lavorare verso un equilibrio in cui le nascite più l’immigrazione sia uguale alle morti più l’emigrazione e in cui ogni nascita sia una nascita voluta.
(8) Riformare i conti nazionali: separare il PIL in un conto dei costi e in un conto dei benefici così che il flusso di crescita possa essere fermato quando i costi marginali eguagliano quelli dei benefici marginali.

(9) Ripristinare la piena occupazione: ripristinare la Legge per la Piena occupazione del 1945 degli Stati Uniti ed il suo equivalente in altre nazioni per far tornare la piena occupazione lo scopo  e la crescita economica il mazzo temporaneo. La disoccupazione/sottoccupazione è il prezzo che paghiamo alla crescita tramite l’automazione, la delocalizzazione, il mercato deregolamentato e una politica di immigrazione di lavoro a basso costo. In condizioni di stato stazionario, i miglioramenti di produttività porterebbero ad aumentare il tempo libero piuttosto che la disoccupazione.

(10) Far progredire solo la governance globale: cercare la comunità mondiale come una federazione di di comunità nazionali, non la dissoluzione di nazioni in un solo “mondo senza confini”. La globalizzazione da parte del libero mercato, la libera mobilità del capitale e la migrazione libera dissolve la comunità nazionale, non lasciando niente da federare. Tale globalizzazione è individualismo a caratteri cubitali – un feudalesimo post nazionale aziendale all’interno di beni comuni globali. Piuttosto, rafforzare la visione originale di Bretton Woods di economie nazionali interdipendenti e resistere alla visione del WTO di una unica economia integrata globale. Rispettare il principio di sussidiarietà: anche se il cambiamento climatico e il controllo delle armi richiedono istituzioni globali, l’applicazione di leggi fondamentali e la manutenzione delle infrastrutture rimangono problemi locali. Concentriamo la nostra limitata capacità di cooperazione globale su quei bisogni e funzioni che la richiedono realmente.

Contesto etico ed ecologico delle economie più ampio

Una cosa è suggerire un profilo generale di politiche, ma è completamente un’altra cosa dire come ci assicuriamo la volontà, la forza e la chiarezza dello scopo per portare a termine quelle politiche – specialmente quando abbiamo trattato la crescita come il sommo bene durante l’ultimo secolo. Tale volontà richiederà un grande cambiamento di visione filosofica e di pratica etica, un cambiamento che viene difficilmente garantito anche alla luce di circostanze sempre più pericolose in cui si trova il pianeta.

Come modo di contemplare un tale cambiamento, considerate la “piramide fini-mezzi” della Figura 5. Le politiche consigliate sopra sono a metà, sotto “Economia Politica”. Alla base della piramide ci sono fini ultimi (bassa entropia materia-energia) di cui abbiamo bisogno per soddisfare i nostri desideri, ma che non possiamo produrre, solo consumare. Usiamo questi mezzi ultimi direttamente, guidati dalla tecnologia, per produrre mezzi intermedi (per esempio manufatti, beni, servizi) che soddisfano direttamente i nostri bisogni. Questi mezzi intermedi sono assegnati dall’economia politica per servire i nostri fini intermedi (per esempio, salute, comfort, educazione), eticamente classificati da quanto fortemente contribuiscono al Fine Ultimo nelle circostanze esistenti. Possiamo percepire il Fine Ultimo solo vagamente, ma per classificare eticamente i nostri fini intermedi, dobbiamo confrontarli a qualche criterio ultimo. Non possiamo evitare un’indagine filosofica e teologica nel Fine Ultimo solo perché è difficile. Dare priorità richiede che qualcosa vada al primo posto.

Figura 5: Una piramide fini-mezzi dell’attività umana

La posizione di mezzo dell’economia è significativa. L’economia tradizionalmente ha a che fare con l’assegnazione di dati mezzi intermedi per soddisfare una data gerarchia di fini. Serve il problema tecnologico di convertire i mezzi finali in mezzi intermedi e il problema etico di classificare i fini intermedi con riferimento ad un Fine Ultimo come risolto. Tutto ciò con cui l’economia ha a che fare, quindi, è assegnare efficientemente dati mezzi fra una data gerarchia di fini. Trascurando il Fine Ultimo e l’etica, l’economia è stata troppo materialista; trascurando i mezzi fisici finali e la tecnologia, non è stata sufficientemente materialista.

La politica economica finale (stewardship – gestione) è il problema totale dell’uso di mezzi finali per servire meglio il Fine Ultimo, non più dare per scontate la tecnologia e l’etica, ma come passi nel problema complessivo da risolvere. Il problema generale è troppo grande per essere affrontato senza ridurlo alle sue parti. Ma senza una visione del problema nel suo totale, le parti non stanno insieme.
La base scura della piramide rappresenta la conoscenza relativamente solida e consensuale di varie fonti di bassa entropia materia-energia. Il vertice chiaro della piramide rappresenta il fatto che la nostra conoscenza del Fine Ultimo è incerta e non quasi consensuale come la fisica. Il singolo vertice disturberà i pluralisti che pensano che ci sono molti “fini ultimi”. Grammaticalmente e logicamente, tuttavia, “ultimo” richiede il singolare. Eppure c’è sicuramente spazio per più di una percezione della natura del Fine Ultimo singolare e molto bisogno di tolleranza e pazienza nel ragionare insieme su di esso.

Il Fine Ultimo, qualsiasi esso sia, non può essere la crescita. Un migliore punto di partenza per ragionare insieme è l’aforisma di John Ruskin che recita: “Non c’è ricchezza, ma vita”. Come potrebbe essere riformulata questa intuizione come obbiettivo politico? Suggerirei la definizione seguente: massimizzare il numero cumulativo di vite che verranno mai vissute nel tempo ad un livello di ricchezza pro capite sufficiente per una buona vita. Ciò lascia aperta la tradizionale questione etica di cosa sia la buona vita, mentre condiziona la sua risposta alle realtà di ecologia e dell’economia della sufficienza. Come minimo, sembra un’approssimazione più ragionevole dell’attuale obbiettivo impossibile di “sempre più cose per sempre più gente per sempre”.

Note

1. Dieter Helm, Lo stato del capitale naturale: ripristinare il nostro patrimonio naturale (Londra: UK Natural Capital Committee, 2014).

2. Questo nonostante i contributi di Nicholas Georgescu-Roegen e Kenneth Boulding. Vedete Nicholas Georgescu-Roegen, La legge di entropia e il processo economico (Cambridge, MA: Harvard University Press, 1971); Kenneth Boulding, “L’economia della nave spaziale Terra in arrivo” su Qualità ambientale in un’economia in crescita, ed. H. Jarrett (Baltimora: Johns Hopkins University Press, 1966), 3-14.

3. Tim Jackson, Prosperità senza crescita: economia per un pianeta finito (Londra: Earthscan, 2009), 67–71.

4. Come indicato dal GPI (Genuine Progress Indicator) ed il suo predecessore ISEW (Index of Sustainable Economic Welfare). Per una indagine informativa, vedete Ida Kubiszewski, Robert Costanza, Carol Franco, Philip Lawn, John Talberth, Tim Jackson e Camille Aylmer, “Oltre il PIL: misurare ed ottenere il Global Genuine Progress”, Economia ecologica 93 (settembre 2013): 57-68.

5. Questa contraddizione è più evidente nel lavoro dell’acclamato naturalista ed ambientalista Edward O. Wilson, che afferma con forza sia il determinismo materialista sia l’attivismo ambientale. Riconosce la contraddizione e, incapace di risolverla, ha semplicemente scelto di conviverci. Vedete Wendell Berry, la vita è un miracolo (Un saggio contro la superstizione moderna) (Washington, DC: Counterpoint Press, 2000), 26. Vedete anche il capitolo 23 in Economia ecologica e sviluppo sostenibile di  Herman Daly, (Cheltenham, UK: Edward Elgar, 2007).

6. John Stuart Mill, Principi di economia politica IV.VII.I (Londra, 1848).

7. Ai capitalisti interessa la massimizzazione dei profitti assoluti, pertanto cercano di minimizzare i costi assoluti. Se il capitale è mobile fra le nazioni, si sposterà verso la nazione coi costi assoluti più bassi. Solo se il capitale è internazionalmente immobile i capitalisti si scomoderanno a confrontare i rapporti di costo interno dei paesi e sceglieranno di specializzarsi nei prodotti interniche hanno il costo relativo più basso in confronto alle altre nazioni e di scambiare quel bene (sul quale hanno un vantaggio comparativo) con altri beni. In altre parole, il vantaggio comparativo è una seconda migliore politica che i capitalisti seguiranno solo quando la prima migliore politica di seguire il vantaggio assoluto viene bloccata dall’immobilità del capitale internazionale. Per approfondire quato, vedete il capitolo 18 di Ecologia economica di Herman Daly e Joshua Farley (Washington, DC: Island Press, 2004).

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Chi ha ucciso i dinosauri? (Indizio: probabilmente non quello che pensavate)

Da “Resource Crisis”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi

Nel film “Fantasia” di Walt Disney (1940), i dinosauri venivano mostrati in un mondo caldo e secco di vulcani attivi. Scoperte recenti mostrano che una cosa del genere potrebbe realmente essere accaduta e che l’idea che i dinosauri siano stati uccisi dall’impatto di un asteroide sembra essere incompatibile coi dati disponibili. Sembra piuttosto che i dinosauri siano scomparsi a causa del riscaldamento globale conseguente alle emissioni di grandi quantità di gas serra da parte dei vulcani. Per molti aspetti, non è diverso da quello che sta accadendo a noi oggi.

Lo so cosa state pensando: questi stupidi scienziati; prima ci dicono che un asteroide ha ucciso i dinosauri, ora ci dicono che non è vero. Come possiamo dargli retta quando ci dicono che sono gli esseri umani a causare il riscaldamento globale?

Su questo ho una cosa da dirvi: la scienza è un enorme colosso in cerca della verità. Sì, i singoli scienziati non sono immuni da errori, pregiudizi politici e fallimenti umani ma, nel complesso, la scienza riesce a filtrare le idee sbagliate e a tenersi quelle buone. Il caso dell’estinzione dei dinosauri è un bell’esempio di quanto il meccanismo funzioni bene.

Come leggerete nell’articolo in fondo, sembra proprio che i dinosauri non volanti, non se ne siano andati col botto di un asteroide, ma col sussurro di un vulcano. Sono stati uccisi in diverse decine di migliaia di anni dal riscaldamento globale creato dalle emissioni di gas generati da gigantesche eruzioni basaltiche conosciute come i “Trappi del Deccan”, che oggi si trovano nel subcontinente indiano. La discussione è ancora ben lungi dall’essere conclusa e molti scienziati preferiscono ancora la teoria dell’impatto (vedi Peter Ward e Joe Kirschvink nel recente libro “Una nuova storia della vita”). Personalmente non sono uno specialista di questi argomenti ma, se ho fatto bene i miei compiti a casa (e penso che sia così), la mia impressione è che i dati favoriscono in modo schiacciante l’ipotesi vulcanica rispetto a quella dell’asteroide.

Nessun asteroide killer, quindi? Se fosse così, come ha potuto la scienza fare un errore del genere? La risposta è che non l’ha fatto: non c’è stato nessun “errore”. C’è stato soltanto l’accumulo graduale di dati e modelli che hanno portato ad una comprensione sempre migliore dei meccanismi delle estinzioni di massa del passato della Terra e degli eventi specifici che hanno portato alla cosiddetta estinzione di massa “K/T” che ha coinvolto la scomparsa dei dinosauri non volanti. Quindi è vero che c’è stato un grande impatto di un asteroide avvenuto circa al confine del K/T. Ma se questa sia stata la vera causa dell’estinzione di massa è sempre rimasta un’ipotesi. E’ stato solo il carattere spettacolare di questa ipotesi che lo ha reso così popolare presso l’opinione pubblica. Ma la popolarità sui media non equivale alla certezza scientifica e, dopo decenni di lavoro, la scienza è gradualmente giunta ad un consenso su questo argomento, proprio come lo ha fatto col cambiamento climatico. La scienza, a differenza della politica e della moda, non si muove in tondo, va avanti.

Segue l’articolo di Aldo Piombino sull’estinzione dei dinosauri: Le cause comuni delle estinzioni di massa: i dinosauri non si sono estinti a causa del meteorite ma per le eruzioni dei Trappi del Deccan.
 

Le cause comuni delle estinzioni di massa: i dinosauri non si sono estiniti a causa del meteorite ma per le eruzioni dei Trappi del Deccan.

Di Aldo Piombino

27 Giugno 2015


Nel 1980 un gruppo di ricercatori dell’università californiana di Berkeley propose che alla fine del Cretaceo un meteorite condritico cadde sulla Terra, rilasciando una forte anomalia dell’Iridio; le polveri derivate dall’impatto stesso e quelle degli incendi innescati dai residui incandescenti dispersi in tutto il mondo provocarono una sorta di inverno simile al teorizzato inverno nucleare, e portano all’estinzione molti animali, fra i quali i dinosauri. Nel 1991 fu accertata l’esistenza di un cratere nello Yucatan di età e dimensioni compatibili con quanto ipotizzato 10 anni prima e nel 1994 la cometa Shoemaker – Levy cadde su Giove: a questo punto il connubio meteorite – estinzione sembrava ormai certo. In realtà le cose non stanno così,ma questa nozione sta faticando molto ad uscire dal ristretto nucleo di persone che si interessano specificamente dell’argomento. Voglio quindi cercare di far capire che questo e la maggior parte delle estinzione di massa sono avvenute a causa di una particolare attività vulcanica, quella delle Large Igneous Provinces e che anche al K/T si stava mettendo in posto una serie del genere, quella dei basalti del Deccan, circa un milione di km cubi di magmi prodotti per la maggior parte in poche decine di migliaia di anni.

Per una grossa fetta di scienziati, specialmente fuori dal mondo delle Scienze della Terra, per imedia e per l’uomo comune non ci sono dubbi: l’estinzione dei dinosauri è dovuta all’impatto di un meteorite avvenuto lungo le odierne coste della penisola dello Yucatan, in Messico.Bene, questa è letteralmente una balla spaziale, per dirla come Mel Brooks. La realtà è molto diversa, ma i cosiddetti “impattisti” hanno silenziato in vari modi gli oppositori di questa ipotesi, per cui per molto tempo nessuno o quasi è stato informato dell’esistenza di una ipotesi alternativa. 

 
Non lo ero neanche io fino al dicembre 1990, quando su “Le Scienze” due articoli, scritti da dei pezzi da 90 delle ricerche in proposito, confrontavano le due ipotesi sulla estinzione della fine del Cretaceo: il primo sosteneva che la causa fosse la caduta del meteorite nello Yucatan (1), mentre l’altro focalizzava la particolare sincronia fra molte delle principali estinzioni di massa e la messa in posto di grandi espandimenti vulcanici (2).
 
Questo secondo articolo mi convinse parecchio, e 20 anni dopo, grazie ad un lavoro che ne parlava, capii che quando andai da studente universitario a Gubbio avevo ragione sul fatto che il livello scuro del K/T e un altro livello simile, il Livello Bonarelli, si erano formati per gli stessi motivi.

Nel marzo 2013 si è tenuta al Museo di Storia Naturale di Londra una conferenza che ha riunito i principali esperti sullo studio delle estinzioni di massa; dagli atti, contenuti nel volume speciale n.505 della Geological Society of America, è ampiamente dimostrato che il meteorite con l’estinzione dei dinosauri non c’entra niente. C’è anche una interessante intervista a Gertha Keller che presenta il volume.
 
In pratica siamo davanti ad un ritorno di quelle che erano le idee precedenti a quando gli Alvarez formularono l’idea del meteorite e cioè che alla radice del problema c’erano dei cambiamenti climatici, in particolare un forte riscaldamento la cui causa, come ipotizzato dagli anni ’80, sono i basalti del Deccan. Vediamo perchè.

1.il K/T è stato solo l’epilogo di tutta una serie di fenomeni che hanno provocato una lunga serie di problemi alla vita sulla Terra nel Maastrichtiano superiore. C’è una precisa relazione fra l’evoluzione climatica del Maastrichtiano superiore e del Daniano inferiore con le 3 fasi principali dell’attività nel Deccan. L’impatto invece è avvenuto quando la perturbazione climatica e quella biotica erano in corso da un bel po’ di tempo

2. le estinzioni di massa sono legate dal punto di vista temporale con l’attività delle Large Igneous Provinces (LIP): un evento di LIP consiste nella produzione di parecchie centinaia di km3 di magmi (se non milioni). In questa immagine i tassi di estinzione sono confrontati alle LIP: vediamo chiaramente il legame fra i trappi siberiani con l’estinzione di fine Permiano e fra la Provincia dell’Atlantico Centrale con l’evento di fine del Triassico. 
E anche alla fine del Cretaceo c’era una attività di Large Igneous Province simile, i Trappi del Deccan, una serie impressionante di lave che nella Penisola Indiana coprono oggi, dopo 65 milioni di anni di erosione, circa 500.000 kilometri quadrati con spessori che raggiungono i 2000 metri. È una quantità inimmaginabile, capace di coprire tutta l’Italia, isole comprese, con tre Km di lave!
Le LIP degli ultimi 300 milioni di anni (più quella della Yacuzia un pò più antica)

La più antica connessione del genere oggi accertata è quella tra l’estinzione alla fine del Cambriano inferiore e la provincia magmatica di Kalkarindji in Australia, circa 510 milioni di anni fa ma è probabile che si possa andare ancora più indietro, anche a 2 miliardi di anni fa. 
 

Le uniche eccezioni sembrano essere l’evento di metà Carbonifero e quello di fine Eocene, che condividono un’altra caratteristica: hanno preceduto l’instaurarsi di importanti cicli glaciali

3. il cratere dello Yucatan non è datato al passaggio Cretaceo / Paleocene ma lo precede di qualche decina di migliaia di anni, probabilmente tra 120 e 150 mila: lo si nota perché sopra ai prodotti dell’impatto ci sono sedimenti del Maastrichtiano terminale.
 
Questo è certificato dalla Commissione internazionale di stratigrafia geologica, secondo la quale il limite K/T viene definito dalla presenza di anche una sola di queste caratteristiche: 
 
– fase acuta dell’anomalia dell’Iridio, estinzione di tutte le specie tipicamente cretacee di foraminiferi planctonici, a parte Guembelitria cretacea (una forma resistente ad acque particolarmente acide e prive di Ossigeno)
– la presenza dei primi foraminiferi tipicamente paleocenici (ad esempio Parvuloglobigerina eugubina )
– la particolare variazione del δ13C, il rapporto fra la quantità di 12C e 13C nei sedimenti e nei gusci animali (lo stesso osservato alla fine del Triassi
co e alla fine del Permiano, per esempio). 
Non ci sono gli ejectadell’impatto perché, appunto, è avvenuto prima

l’enorme estensione dei Trappi del Deccan

4. secondo l’ipotesi dell’impatto il K/T è stato un momento freddo e buio a causa delle polveri dell’impatto e degli incendi; invece è successo l’esatto contrario: il limite si colloca durante un forte riscaldamento iniziato circa 50.000 anni prima, provocato dalle emissioni di gas – serra (soprattutto CO2) provenienti dal Deccan. È vero che tra la collisione ed il K/T c’è stato un momento un po’ più freddo, in cui è persino possibile la presenza nelle zone polari di piccole calotte glaciali (il che giustificherebbe il momentaneo abbassamento di qualche decina di metri del livello marino) (3). Ma questa fase più fresca è stata causata dai gas e dai volatili rilasciati nella stratosfera nei momenti iniziali della seconda fase dell’attività in India (quella più forte e che era in corso al K/T). È interessante notare che anche negli altri episodi di estinzione di massa la fase acuta si è avuta durante una fase di riscaldamento e aumento del livello marino che ha seguito un momentaneo abbassamento del livello marino in condizioni climatiche più fresche (4)


5. l’estinzione improvvisa dei foraminiferi planctonici è visibile se (e solo se) non viene riconosciuta l’esistenza di una lacuna di sedimentazione, cioè di un momento in cui per qualche motivo, per un certo tempo cessa la deposizione dei sedimenti. In questo caso il problema è dovuto a quella fase a basso livello marino di cui ho parlato qui sopra. Dove invece la sedimentazione è continua si nota una gradualità nelle estinzioni, Fra i casi più noti citoEl Kef in Tunisia, Nye Klov in Danimarca o il bacino del Krishna – Gadavari in India, ma ce ne sono decine di altri (5).

6. Il K/T è stato un momento di particolare acidità delle acque marine per il forte aumento del contenuto di CO2. Per gli impattisti proveniva dalla fratturazione dei calcari della piattaforma carbonatica dello Yucatan causata dall’impatto. In realtà il fenomeno è iniziato molto prima dell’evento cosmico ed è stato provocato dalle emissioni di gas legate al vulcanismo del Deccan. Si può inoltre notare che dopo la fase acuta del K/T una diminuzione dell’acidità coincide con un tentativo di recupero della biodiversità; questo tentativo è stato bloccato da un nuovo aumento dell’acidità, avvenuto in corrispondenza della terza fase parossistica dell’attività indiana. Non ci sono evidenze di un aumento dell’acidità scatenato dall’impatto

7. anche l’anomalia dell’Iridio viene dal Deccan: ho scritto un post specifico su questo argomento, che riassumo brevemente: è stata notata nei volatili prodotti da magmi alcalini intraplacca, ad esempio nella corrente eruzione del Kilauea (6) e nei vulcani antartici delle Pleiadi. E, particolare di non trascurabile importanza, la contengono anche i volatili prodotti dal Piton de la Fournaise, il vulcano che è oggi situato dove stava passando l’India nel momento in cui si producevano i Trappi del Deccan (7).
Inoltre come si vede dalla figura tratta dal lavoro del team degli Alvarez del 1980, a Gubbio l’anomalia inizia ben prima del K/T, ha una interruzione e poi riprende fino al picco della fine del Cretaceo (8). Mi spiegate come è possibile che l’anomalia sia iniziata PRIMA della caduta se viene da questa? Inoltre quella prima fase in cui l’iridio aumenta corrisponde (toh…) alla prima fase dell’attività nel Deccan.
 
Anche nello Yucatan l’anomalia ha un andamento simile a Gubbio. L’anomalo contenuto di Iridio nei volatili si forma a causa di reazioni nella fase volatile dei magmi alcalini prima che eruttino

8. le microsferule dei sedimenti del K/T non sono alterazione di tectiti (con questo termine si definiscono particelle vetrose prodotte dalla fusione improvvisa delle rocce a causa del calore prodotto dall’attrito con l’atmosfera e dalla collisione stessa e che si sono risolidificate più velocemente di quanto sarebbe stato necessario per formare dei cristalli), ma hanno una origine sedimentaria locale.

9. il K/T è un momento in cui la percentuale di argille smectitiche aumenta temporaneamente diverse volte rispetto alla normalità in cui si depositano argille illitiche. Queste smectiti hanno un forte arricchimento in Ferro, Magnesio e altri elementi metallici contenuti nelle lave del Deccan

10. Anche la presenza di fullereni non implica che siano stati prodotti dagli incendi seguiti all’impatto: ceneri e fullereni sono relativamente comuni in molti sedimenti del Cretaceo superiore a causa della grande diffusione all’epoca di incendi boschivi che era dovuta al contenuto di ossigeno nell’atmosfera, più alto di oggi. Le condizioni di maggiore aridità durante il riscaldamento del Maastrichtiano terminale ne hanno ulteriormente aumentato la frequenza. Da notare che proprio gli incendi sono una parte essenziale delle motivazioni per cui le angiosperme hanno in gran parte sostituito le conifere nella seconda metà del Cretaceo.

11. secondo gli impattisti un livello spesso fino a 3 metri lungo la costa del Golfo del Messico fra Messico settentrionale e Texas rappresenta i depositi dello tsunami provocato dall’impatto. Ora, a parte la ricostruzione molto fantasiosa degli eventi (onda di ritorno compresa…) il livello mostra 3 lunghe interruzioni della deposizione contrassegnate da paleosuoli e tracce di attività degli animali che vivevano sul (e nel) fondo marino. In realtà questo livello risale alla famosa fase a basso livello marino di cui sopra in cui ci sono state temporanee interruzioni della sedimentazione ordinaria e ripristinate le condizioni normali la sedimentazione è ritornata ad essere quella marnosa precedente

12. ci sono diverse evidenze sul fatto chel’epicentro della crisi biotica sia stato in India e non nei Caraibi

13. recenti studi sul paleomagnetismo hanno dimostrato che le lave della seconda fase dei trappi del Deccan si sono deposte in un tempo ridottissimo, poche decine di migliaia di anni (9). La concentrazione estrema delle eruzioni ha rivoluzionato i modelli climatici che invece consideravano una attività protrattasi per diverse centinaia di migliaia di anni, secondo i quali era difficile che i gas emessi dalle eruzioni potessero concentrarsi in maniera tale da provocare tutti questi danni

14. l’eruzione in Islanda del Laki nel 1783 (ne ho parlato qui) rappresenta una simulazone anche se debolissima di cosa succede durante un evento di Large Igneous Province: con “solo” 17 km3 di magma prodotti (contro le decine di migliaia di una singola colata di LIP) una nebbia secca avvolse l’Europa, provocando danni all’agricoltura e un aumento del tasso di mortalità per patologie respitatorie e – a cascata – cardiache.

15. e questa è l’ultima (e la più bella): le più recenti tracce di esistenza dei dinosauri sicuramente datate precedono il K/T di almeno 400.000 anni, anche nella mitica formazione di Hell Creek nel Montana. Di fatto non è ancora stata dimostrata la presenza di dinosauri in epoche più vicine al K/T: chiunque lo dice non porta chiare dimostrazioni: sono chiaramente fossili del Maastrichtiano superiore ma non ci sono indizi che appartengano proprio alla fase finale. E non lo dico io ma J.Davis Archibald, che è uno dei massimi esperti del settore, secondo il quale non è dato sapere ancora se i dinosauri si sono estinti improvvisamente o gradualmente, né di rpeciso quando. Si nota comunque una diminuzione della loro diversità in tempi precedenti (10).
Concludendo, i trappi del Deccan sono una causa decisamente convincente per capire le motivazioni e l’andamento dell’estinzione di massa di fine Cretaceo, mentre l’impatto dello Yucatan assolutamente non lo è.
E anche Alvarez figlio adesso si sta limitando a proporre che l’impatto abbia in qualche modo accelerato la messa in posto dei basalti della seconda fase del magmatismo indiano.
 
Ma quello che è successo nel Deccan è successo diverse altre volte, e senza un meteorite a rompere le scatole….

(1)Alvarez We Asaro (1990)Un impatto extraterrestre. Le Scienze204, 40–46
(2)Courtillot (1990) Un’eruzione vulcanica. Le Scienze268, 47–54
(3)Milleret al., (2005)Visions of ice sheets in a greenhouse world. Marine Geology217, 215–231
(4)Keller et al., (1993)Gradual mass extinction, species survivorship, and long-term environmental changes across the Cretaceous-Tertiary boundary in high latitudes. Geological Society of America Bulletin 105/8; 979 – 997
(5)Hallam eWignall (1999) Mass extinctions and sea-level changes Earth-Science Reviews48, 217–250
(6) Olmez et al., (1986), Iridium emissions from Kilauea Volcano. Journal of Geophysical Research – Solid Earth91/B1, 653–663
(7) Toutain & Meyer (1989) Iridium‐bearing sublimates at a hot‐spot volcano (Piton De La Fournaise, Indian Ocean), Geophys. Res. Lett.16(12), 1391-1394
(8) Alvarez L.et al., 1980, Extraterrestrial causes for the Cretaceous – Tertiary extinction K/T Experimental results and theoretical interpretation. Science268, 1095–1108
(9) Chenet et al., (2009) Determination of rapid Deccan eruptions across the Cretaceous-Tertiary boundary using paleomagnetic secular variation: 2. Constraints from analysis of eight new sections and synthesis for a 3500-m-thick composite section. Journal of Geophysical Research, vol 114, no. B6, B06103, pp. 1-38., 0.1029/2008JB005644
(10) Archibald J.D., (2014), What the dinosaur record says about extinction scenarios. Geological Society of America Special Papers 505, 213–224

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L’eruzione di metano si avvicina

Da “Counter Punch”. Traduzione di MR (via Sam Carana)

Di Robert Hunziker

L’IPCC, così come i governi mondiali, ignora i rischi di un Artico senza ghiaccio (Wadhams). Piuttosto, un Artico senza ghiaccio è viene ampiamente salutato dalla maggior parte del mondo come un modo positivo di procedere nella riapertura delle rotte commerciali del nord, nuove corse per i traghetti e accesso ad enorme bacino di combustibili fossili. Secondo il professor Peter Wadhams dell’Università di Cambridge, un Artico senza ghiaccio, con la relativa e concomitante eruzione potenziale di metano, viene raramente menzionato dall’IPCC nella sua valutazione. Evidentemente l’IPCC non vuole parlare della possibilità di grandi catastrofi. In realtà, un Artico senza ghiaccio libera tempestosamente eoni di metano intrappolato dall’ultima Era Glaciale. Le ramificazioni sono profonde. Quando il Vaticano recentemente ha tenuto incontri coi principali scienziati sul cambiamento climatico in preparazione dell’enciclica del Papa del giugno 2015, uni degli ospiti invitati era il professor Peter Wadhams. Assumendo che all’Accademia Pontificia delle Scienze abbiano ascoltato con attenzione le sue parole, potrebbero soffrire di attacchi di insonnia.

Lo stato del ghiaccio del Mare Artico e perché conta

Peter Wadhams, professore di Fisica dell’Oceano e Capo del Gruppo di Fisica dell’Oceano Polare, Dipartimento di Matematica Applicata de Fisica Teorica dell’Università di Cambridge, di recente si è recentemente impegnato in una intervista molto franca: “Il nostro tempo sta finendo – Il ghiaccio marino dell’Artico se ne sta andando”, del 15 maggio 2015 (tutte le citazioni seguenti provengono da quell’intervista). “Ho misurato lo spessore del ghiaccio che è sceso del 50% negli ultimi 30 anni. In estate, per esempio, di solito si vedeva il ghiaccio del pack molto pesante da rendere molto difficile il passaggio di una nave. Oggi, somiglia più ad un pianeta blu. E’ un Artico quasi senzaghiaccio. E’ un grande cambiamento”. Di conseguenza, col passare del tempo, il rischio di una grande eruzione di metano aumenta insieme alla disintegrazione del ghiaccio marino in corso. “Siamo davvero preoccupati riguardo all’Artico costiero… le piattaforme continentali della Siberia sono su acque molto basse. E fino a poco tempo fa c’era sempre ghiaccio su quelle piattaforme, persino in estate… ora, in si ritira estate e scompare già per 2-3 mesi da quelle piattaforme. Ciò favorisce il riscaldamento dell’acqua. E, quando l’acqua si riscalda, causa la fusione del permafrost subacqueo, che non si era fuso dall’ultima Era Glaciale, e questo favorisce il rilascio di metano”

Secondo il professor Wadhams, il Mare Siberiano Orientale è un mostro in agguato. Wadhams crede che l’effetto di un’eruzione di metano potrebbe essere catastrofica quanto una collisione di un asteroide con la Terra. La quantità di riscaldamento sarebbe immediata e ampia. La probabilità che questo accada: “Direi che è circa del 50%, perché stiamo assistendo alla fusione del permafrost e al fatto che il metano viene già rilasciato”. Di fatto, gli scienziati sul campo stanno già assistendo ad aumenti consistenti dei grandi pennacchi di metano in estate mentre scoprono nuove aree di rilascio di metano. Solo fino a poco tempo fa, il Mare Siberiano Orientale veniva monitorato ogni anno da una nave russa. Mentre oggi, e durante gli ultimi due anni, le navi svedesi stanno andando altrove nell’Artico e “stanno vedendo tanto metano uscire quanto quello della Siberia orientale”. “Per cui non è una probabilità bassa l’alto rischio di catastrofe. Si tratta di un rischio altamente catastrofico ed altamente probabile”. Wadhams crede che la scomparsa completa del ghiaccio a metà estate potrebbe verificarsi nei prossimi due anni. Al momento, il volume di ghiaccio a metà estate è solo un quarto di quello degli anni 80. Se questa tendenza continua, ilghiaccioestivosi ridurrà a zero molto presto.
Impatto di un Artico senza ghiaccio.

I cambiamenti nell’Artico stanno alimentando cambiamenti altrove sul pianeta. “Per esempio, la scomparsa del ghiaccio nell’Artico sta portando masse di aria più calda a spostarsi sulla Groenlandia in estate. Ciò causa la fusione più rapida della calotta glaciale della Groenlandia. E questo sta causando all’accelerazione dell’aumento del livello del mare”. Risultato, anziché un metro di aumento del livello del mare in questo secolo, come previsto dall’IPCC, la fusione della Groenlandia potrebbe causare un aumento di un paio di metri, o più. Di fatto, alcuni glaciologi parlano di 4 o 5 metri. L’impatto cataclismico finale di troppo aumento del livello del mare sarebbe che alcune aree del mondo, come Miami, dovrebbero essere completamente abbandonate, svuotate ed evacuate come a Cernobyl, molto come a Cernobyl, a causa di politiche energetiche folli. Non solo questo, il riscaldamento globale accelera come risultato in conseguenza della perdita di ghiaccio marino artico, che riduce l’albedo globale, che è il modo in cui la radiazione viene riflessa verso lo spazio esterno, ma con la perdita di uno sfondo di ghiaccio bianco riflettente, l a radiazione solare viene assorbita da uno sfondo scuro, e tutto ciò porta ad un tasso di riscaldamento del mondo molto più rapido di quanto previsto dalla scienza ufficiale, l’IPCC. “Quindi questo tentativo di fingere di poter mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2°C, che era già una finzione, è persino più ridicolo. Saranno sicuramente 4 o 5°C per la fine del secolo, il che avrà impatti piuttosto catastrofici sulla produzione agricola”.

Cosa fare?

In quanto a fermare il rilascio di metano in mare “riportando indietro il ghiaccio marino artico, alcune persone lo stanno proponendo. Il problema è che non si può realmente riportare il ghiaccio senza raffreddare il pianeta. Le temperature globali governano il ghiaccio marino, non può essere isolato o mirato. Trovare un modo di riportare indietro il ghiaccio marino artico non funzionerà, a meno che non si possa raffreddare l’intero pianeta”. La sola possibilità realistica, ironicamente, è la modifica del metodo del fracking usato nella trivellazione di petrolio e gas utilizzando piattaforme in mare l’ungo la costa Artica, una rete di trivellazioni orizzontali per la creazione di cavità per risucchiare il metano per impedirgli di uscire nell’atmosfera (Wadhams). Ma non è stata fatta nessuna ricerca su questo. E’ stato soltanto suggerito. A prescindere da come, cosa o quando, la risoluzione del problema è un’impresa enorme e travolgente: “C’è una cospirazione della compiacenza nel mondo in cui si immagina ancora che se facciamo poche cose minori, piccoli aggiustamenti e riduciamo l’emissione di biossido di carbonio, allora tutto andrà bene. Ma non sarà così perché abbiamo già troppo biossido di carbonio in atmosfera. Stiamo già andando oltre i 2°C di riscaldamento anche se non emettessimo più, a causa del biossido di carbonio già presente in atmosfera. Quindi non solo dobbiamo smettere di emetterlo o di ridurlo, riducendo le emissioni, ma trovare modi di toglierlo dall’atmosfera e questa è una tecnologia che non è stata sviluppata”. Il cambiamento climatico ha un effetto progressivo, che lavora lentamente in tutto il mondo. Ma tutta questa lentezza di sta accumulando in un grande cambiamento. Inoltre, quando i modelli meteorologici distruggono l’agricoltura, causando la fame nel mondo, sarà troppo tardi per fare qualsiasi cosa. Sfortunatamente, è l’inerzia globale il problema. “Le forze di inerzia sono così enormi.. l’uso dei combustibili fossili è molto radicato nella nostra società. Tutto nella vita proviene dai combustibili fossili”.

Tempistica del caso peggiore

Il solo modo di salvare la civiltà per com’è attualmente è di abbassare i livelli di CO2 e ciò può essere ottenuto soltanto da qualche metodo drastico per rimuovere realmente CO2 dall’atmosfera. “Non possiamo farcela scherzando con la riduzione delle nostre emissioni, non possiamo nemmeno farlo fermando le nostre emissioni, perché ci siamo spinti troppo oltre. Dobbiamo realmente toglierlo”. Il professor Wadhams afferma che la ricerca sul cambiamento climatico, in modo centrale, diventa l’obbiettivo principale di uno sforzo scientifico mondiale e dev’essere fatto urgentemente, come il Progetto Manhattan (ironicamente). La società sarà costretta ad usare qualche tecnologia, che non è stata nemmeno ancora verificata, per rimuovere il CO2 per evitare una catastrofe. Di conseguenza, non c’è tempo di giocherellare. Wadhams crede nel peggiore scenario, “in 10 anni saremo realmente già nella minestra”.

Attuali condizioni meteorologiche artiche

Secondo Arctic News, il 2 luglio, “Mentre i media danno grande importanza alle ondate di calore che hanno colpito di recente paesi popolosi come India, Pakistan, Stati Uniti, Spagna e Francia, viene data meno attenzione alle ondate di calore che colpiscono l’Artico”. Inoltre, “Le ondate di calore che hanno recentemente colpito Alaska e Russia ora sono seguite da un’ondata di calore nella Siberia Orientale… un luogo ben all’interno del Circolo Artico… il 2 luglio 2015 sono state registrate temperature di 37,1°C”. E, ancora peggio, “Con temperature di 37,1°C registrate il 2 luglio 2015, ci si può aspettare un’enorme fusione dove c’è ancora ghiaccio marino nelle acque al largo della Siberia, mentre le acque dove il ghiaccio marino non c’è già più si scalderanno rapidamente. Notate che le acque al largo della costa della Siberia sono profonde meno di 50 metri, quindi il riscaldamento si può estendere rapidamente fino al fondo del mare, che contiene enormi quantità di metano sotto forma di gas libero e di idrati”. Inoltre, il primo luglio 2015 è stata registrata una temperatura di 36°C vicino al fiume Kolyma che si getta nel Mare Siberiano Orientale.

L’Artico è più caldo di Miami!

In qualche modo, 36°C nell’Artico fa sembrare il mondo sottosopra/rovesciato, non è vero?

Robert Hunziker vive a Los Angeles e può essere contattato presso roberthunziker@icloud.com




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Grafico del giorno: terreno agricolo mondiale pro capite 1961-2012

Da “Desdemona Despair”. Traduzione di MR (via Maurizio Tron)

L’agricoltura mondiale sarà in grado di sostenere una popolazione umana di 12 miliardi di persone nel 2100? La risposta riguarda in gran parte quanto terreno c’è a disposizione per coltivare. Sfortunatamente, l’area di terreno coltivabile del mondo sta declinando ad un tasso enorme. La Convetion dell’Onu per Combattere la Desertificazione (UNCCD) stima che “ogni anno va perso terreno pari a 12 milioni di ettari, equivalente alla Bulgaria o al Benin”. (Desertificazione pdf, p. 12)


Cause delladesertificazione

Questa perdita di terreno coltivabile è causata dagli esseri umani che distruggono il suolo e provocano l’abbassamento delle falde acquifere:

Nei paesi in cui le principali risorse economiche dipendono da attività agricole, ci sono poche fonti alternative di reddito, o nessuna. Il suolo viene danneggiato dall’uso eccessivo quando gli agricoltori trascurano o riducono i periodi di maggese, che sono necessari per permettere al suolo di recuperare abbastanza da produrre abbastanza cibo per sfamare la popolazione. Ciò a sua volta causa la perdita di materia organica da parte del suolo, limitando la crescita delle piante e riducendo la copertura di vegetazione. Il suolo nudo è più vulnerabile agli effetti dell’erosione. Quattro attività umane ne sono le cause più dirette:

  • L’eccessiva coltivazioneesaurisceisuoli;
  • L’eccessivo allevamento rimuove la copertura di vegetazione che li protegge dall’erosione;
  • La deforestazione distrugge gli alberi che legano il suolo alla terra e
  • I sistemi di irrigazione drenati male rendono le terre coltivate salate.

Le industrie estrattive promuovono il degrado della terra abbassando le falde acquifere, disturbando la terra ed accelerando l’erosione del suolo. Una conoscenza inadeguata della gestione sostenibile della terra, condizioni di mercato sfavorevoli nei paesi in via di sviluppo, turismo non ecologico ed altri fattori socio-economici e politici, che intensificano gli effetti della desertificazione, creano un altro tipo di impatto, Questi fattori interagiscono con le cause sopraelencate e sono spesso i motori di fondo della desertificazione antropogenica. (Desertificazione pdf, p. 14)

Disponibilità mondiale di terreno agricolo

La Banca Mondiale ha un esteso database di informazioni economiche, compreso il terreno agricolo di tutte le nazioni. Sistemando i dati grezzi del terreno agricolo totale abbiamo questo grafico:

La caratteristica più ovvia è la discontinuità nel 1992: è stato quando le nazioni della ex Unione Sovietica (EUS) hanno iniziato a riportare le statistiche alla Banca Mondiale. L’altra caratteristica ovvia è che la crescita di terreno coltivabile è stata stagnante circa da allora: per più o meno gli ultimi 25 anni l’area di terreno coltivabile non è aumentata o diminuita significativamente.

Compensare la desertificazione

Dato che stiamo perdendo 12 milioni di ettari di terreno coltivabile all’anno, come mai l’area totale rimane costante? La risposta è la conversione di terreni selvaggi in terreni agricoli.

  • La deforestazione costituisce circa 7,3 milioni di ettari all’anno (“Deforestazione: dati, cause ed effetti”). Usando i dati della Banca Mondiale dell’area forestale, stimo un tasso di perdita di circa 7 milioni di ettari all’anno (Area forestale in kmq Banca Mondiale.xslx).
  • L’area totale di paludi e pianure alluvionali si è ridotta di quasi due terzi fra il 1997 e il 2011, da 165 milioni di ettari stimati a 60 milioni di ettari (“Cambiamenti del valore globale dei servizi ecosistemici” [pdf]), quindi ipotizzate un tasso di perdita media di circa 7,5 milioni di ettari all’anno. 
  • Sommate questi numeri e ci sono almeno 14,5 milioni di ettari all’anno di terre selvagge convertite ad usi umani, probabilmente in gran parte per l’agricoltura. 

Terrenocoltivabile per persona
Gli esseri umani stanno distruggendo il suolo ad un tasso di 12 milioni di ettari all’anno e stiamo compensando distruggendo foreste e terre umide ad un tasso paragonabile. Ma tutta questa distruzione del mondo naturale ci permette di tenere il passo diuna popolazione umana sempre crescente? Ecco i grafici di popolazione umana e terreno coltivabile mondiale. Ho messo insieme la traccia del terreno coltivabile aggiungendo il delta della EUS dal 1991 al 1992 (229.924.500 ettari) a tutti i valori precedenti il 1991, il che da una curva tollerabilmente dolce. (Facendo l’analisi coi soli dati dal 1992 in avanti il risultato non cambia di molto). 
Con questi due insiemi di dati è facile calcolare il terreno coltivabile pro capite.
Questo grafico chiarisce che il terreno coltivabile pro capite sta monotonicamente diminuendo. Il declino non è lineare; di fatto è quasi perfettamente esponenziale, con R2 = 0.996 come valore di default di Excel per la misurazione della curva. Attualmente, il mondo ha 0,2 ettari di terreno coltivabile per persona, sceso dallo 0,4 del 1962. Estrapolando la curva esponenziale, scenderemo a 0,1 circa intorno al 2050 e a 0,05 per il 2100. Quindi ogni 50 anni il terreno coltivabile pro capite declina della metà. Per il 2100, ogni persona sarà sostenuta da soli 0,05 ettari di terreno agricolo. 
Una nota sulla deforestazione
All’attuale tasso di esaurimento (7,5 milioni di ettari al giorno), le terre umide selvagge e le pianure alluvionali saranno sparite entro un decennio, quindi gran parte della conversione di terre selvagge proverrà dalle foreste. Una volta finite le terre umide, avremo bisogno di aumentare il tasso di deforestazione. Ipotizzando chele terre umide convertite abbiano lo stesso rendimento agricolo delle foreste convertite, il tasso di deforestazione sarà quasi doppio. Usando i dati della Banca Mondiale sull’area forestale, stimo che agli esseri umani serviranno circa 550-650 anni per bruciare tutte le foreste che rimangono al tasso attuale; metà tempo se il tasso al quale si brucia raddoppia quando la disponibilità di terre umide/pianure alluvionali finisce. Il declino improvviso dell’area forestale nel 2011-2012 potrebbe essere l’inizio del passaggio dalle terre umide/pianure alluvionali verso la deforestazione. 
Intensificazioneagricola
Nutrire la popolazione umana in costante crescita richiede la continua distruzione di terre umide, ma richiede anche un’intensità agricola in costante aumento: se, nel 2050, il terreno coltivabile pro capite è la metà del valore attuale, il rendimento delle colture deve raddoppiare per conservare lo status quo. Ma l’intensificazione agricola potrebbe aumentare il tasso di desertificazione e anche senza considerare il problema del degrado del suolo, ci sono dubbi seri sul fatto di aumentare i rendimenti agricoli per tenere il passo della crescita della popolazione (vedi Grafico del giorno: il gap della produttività agricola globale 2010-2050; Grafico del giorno: produzione globale di cibo prevista per l’anno 2050).
E’ possibile avere i dati e i grafici relativi qui: Terreno coltivabile (ettari) Banca Mondiale.xlsx.

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Tutto ben, madama la marchesa!

di Jacopo Simonetta

Tutto va ben madama la Marchesa” è l’incipit di una celebre canzonetta degli anni ’30 di Nunzio Filogamo.

  Invece è di pochi giorni fa un articolo di Zack Beauchamp su Vox.com che inizia con un brano che merita di essere tradotto:

“Leggendo le notizie, talvolta sembra che il mondo stia andando in pezzi; che tutto stia andando all’inferno in un cestino e che siamo sull’orlo di un collasso totale.   In affetti, considerando i dati oggettivi, stiamo vivendo il periodo migliore della storia umana.   La gente non è mai vissuta più a lungo, meglio, più sicura o ricca di adesso.  E questi 11 grafici e mappe che raccolgono centinaia di dati, con il marchio di un rapporto delle Nazioni Unite focalizzato sugli ultimi 25 anni, lo provano”.

In effetti, l’articolo in questione è un estratto dal rapporto 2015 delle Nazioni Unite sui cosiddetti “Obbiettivi del Millennio”.   Un documento di 75 pagine denso di dati e di politica.  

Limitandoci all’assai più potabile articolo di Vox, scopriamo che la vita media degli umani è circa raddoppiata nel giro di un secolo, il PIL globale è letteralmente esploso, l’estrema povertà è in diminuzione così come le morti per AIDS e morbillo, il mondo non è mai stato tanto pacifico, la democrazia è diffusa come non mai, la percentuale di persone denutrite è diminuita, meno donne muoiono di parto, la mortalità infantile decresce, mentre la scolarizzazione aumenta.  

Dunque davvero non siamo mai stati tanto bene?   Ma il picco, il “postpicco” e tutte le altre “cassandrate” con cui certuni si trastullano?

Nei rapporti e nelle analisi occorre leggere sempre con attenzione non solo quello che c’è scritto, ma anche come viene scritto e, soprattutto, quello che NON viene scritto.

La prima osservazione da fare è banale, ma si trascura facilmente.   All’interno di un sistema complesso che evolve in una determinata direzione non accade mai che tutti gli elementi seguano tendenze omogenee.   Ci sono sempre sotto-sistemi che procedono più speditamente di altri e, generalmente, anche sotto-sistemi in controtendenza, almeno entro determinate finestre spazio-temporali.   Ad esempio, in Italia non tutti hanno perduto i loro soldi nella stessa misura e  ci sono migliaia di persone che oggi guadagnano meglio che nel 2007.   Ci sono anche un sacco di aziende che hanno aumentato sia il fatturato che i dipendenti, ma sfido chiunque a dire che l’economia italiana non versa in una crisi gravissima.

Scegliendo le inquadrature, in dieci scatti un buon fotografo può far apparire una qualunque città come bellissima od orripilante.   Ed in entrambi i casi le foto sono autentiche.  Un gioco che si può fare in entrambi i sensi, dipende dallo scopo che ci si propone.  O che si propone il committente.

Un secondo aspetto è costituito dai margini di incertezza.   Tutti o quasi i dati utilizzati in questo, come in altri rapporti, sono in realtà delle stime con ampi margini di incertezza.   Margini che di solito vengono discussi nei documenti tecnici preliminari, ma che spariscono nelle pubblicazioni finali dove si sceglie se adottare il valore maggiore, minore o medio a seconda della committenza.

Un terzo trucco ampiamente utilizzato per manipolare questo tipo di informazione è rappresentato dalla oculata scelta su quando utilizzare il dato in cifra assoluta e quando in percentuale.  L’effetto può essere importante.  Ad esempio, la percentuale di persone denutrite è effettivamente diminuita, ma poiché la popolazione è aumentata, il numero di persone denutrite è aumentato.

 Allora, va meglio o va peggio?

Anche la scelta della scala temporale è importante.   Mostrare l’evoluzione di una qualunque variabile negli ultimi mesi, anni, decenni o secoli può generare opinioni molto diverse.   Si pensi ad esempio al prezzo del petrolio che tanto ha anche fare con l’economia globale:  rispetto all’anno scorso è tracollato, mentre rispetto a dieci anni fa è altissimo.

Un altro grande assente è il contesto in cui si collocano i dati.   Una certa percentuale di mortalità o di scolarizzazione od altro,  può rappresentare un grande successo od un fiasco a seconda del contesto sociale, economico, ecologico, geografico, eccetera in cui ci si trova.

Molto più importante di tutto questo, è però il fatto che l’intero rapporto è costruito ignorando totalmente le retroazioni che strutturano il sistema Terra, che è un sistema unico ed inscindibile.   Concentrarsi su determinati aspetti è necessario per studiarli, ma se non si considerano i rapporti che intercorrono fra i diversi fattori considerati ed i molti altri ignorati si finisce con il perdere ogni contatto con la realtà.   Per esempio, è vero che la mortalità è molto diminuita e che il PIL è cresciuto a dismisura, due aspetti ben reali del nostro mondo.   Ma questo determina proprio quell’aumento della popolazione e dei consumi che sta minando le basi stesse della vita sulla Terra, un altro aspetto della stessa identica realtà.

Soprattutto, con questo tipo di approccio si rinuncia alla possibilità di capire l’evoluzione del sistema di cui ci stiamo occupando.   Di conseguenza, si rinuncia a cercare di capirne il futuro, eventualmente limitandosi a proiettare nel futuro le tendenze rilevate nel passato.   Qualcosa del genere “se Giovanni da 0 a 10 anni è cresciuto di 30 chili, a 20 anni ne peserà 60 ed a 100 tre quintali.

Qualcosa non funziona?   Forse un ventenne che pesa 60 kg è anoressico e non può diventare un centenario obeso perché morirà prima.    Si da il caso che la dinamica interna di un qualunque sistema complesso cambi a seconda della fase e del contesto in cui si trova.   Lo fanno i singoli organismi, ma anche le popolazioni e gli ecosistemi.   Lo fa anche la Biosfera,  solo che aumentando il livello di complessità diventa sempre più arduo, fino ad impossibile, fare previsioni precise ed affidabili.   Dovrebbe essere facile da capire, ma ciò non impedisce agli analisti delle NU di esibirsi periodicamente con uscite del genere “nel 2030 la popolazione sarà di 10 miliardi di abitanti” senza preoccuparsi minimamente di valutare se ce ne potrebbero essere i presupposti e quali ne sarebbero le conseguenze per capire se il loro dato sia plausibile o meno.

Nel complesso, direi che questo articolo di Vox rappresenta un brillante esempio di “pensiero positivo”.

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Problemi diabolici e soluzioni diaboliche: il caso della fornitura mondiale di cibo

Da “Resource Crisis”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi


Sono appena tornato da due giorni di full immersion ad un incontro su una cosa per me piuttosto nuova: la fornitura mondiale di cibo. Mi devo ancora riprendere. Ogni qualvolta si vada ad una certa profondità in qualsiasi cosa si vede quanto le cose siano immensamente più complesse in confronto all’ombra pallida del mondo che si percepisce dallo schermo scintillante della vostra TV. Tutto è complesso e tutto ciò che è complesso diventa diabolico una volta che si comincia a vederlo come un problema. E i problemi diabolici di solito generano soluzioni diaboliche (immagine da  Wikipedia)

Riuscite a pensare a qualcosa di peggio di un problema diabolico? Sì, è del tutto possibile: è una soluzione diabolica. Vale a dire, una soluzione che non solo non fa nulla per risolvere il problema ma, di fatto, lo peggiora. Sfortunatamente, se si lavora nella dinamica dei sistemi, spesso si apprende che gran parte dei sistemi complessi non sono solo terribili, ma soffre di soluzioni diaboliche (vedete, per esempio, qui).

Detto questo, passiamo ad uno dei problemi più diabolici a cui possa pensare: quello della fornitura mondiale di cibo. Qui cercherò di riportare almeno una parte di ciò che ho imparato alla recente conferenza su questo argomento, tenuta congiuntamente dalla FAO e sezione italiana della System Dynamics Society. Due giorni di discussioni tenutisi a Roma durante una mostruosa ondata di calore che ha messo a dura prova il sistema di aria condizionata della sala conferenze e reso la camminata da lì all’hotel un’impresa confrontabile alla camminata su un pianeta alieno: ciò ha portato la sensazione netta di aver bisogno di una tuta spaziale refrigerata. Ma è valsa la pena esserci.

Per prima cosa, è il caso di dire che la fornitura mondiale di cibo è un “problema”? Sì, se notate che circa la metà della popolazione umana mondiale è malnutrita, se non veramente affamata. E della metà rimanente, una grande percentuale non è nutrita nel modo giusto, perché l’obesità e il diabete di tipo II sono malattie in espansione – alla conferenza hanno detto che se la tendenza continua, nel futuro metà della popolazione mondiale soffrirà di diabete.

Quindi, se abbiamo un problema, è davvero “diabolico”? Sì, lo è, nel senso che trovare una buona soluzione è estremamente difficile e i risultati sono spesso l’opposto di quelli desiderati all’inizio. Il sistema alimentare mondiale è un sistema diabolicamente complesso e coinvolge una serie di sottosistemi collegati vicendevolmente che interagiscono fra loro. La produzione di cibo è una cosa, ma la fornitura di cibo è una storia del tutto diversa, che comporta trasporto, distribuzione, immagazzinamento, refrigerazione, fattori finanziari ed è condizionata da cambiamento climatico, conservazione del suolo, popolazione, fattori culturali… ed altro, compreso il fatto che le persone non mangiano semplicemente “calorie”, hanno bisogno di cibo, cioè una miscela bilanciata di nutrienti. In un sistema del genere, ogni cosa che si tocca si ripercuote su tutto il resto. E’ un caso classico del concetto conosciuto in biologia come “non puoi fare una cosa sola”.

Una volta che ti fai una vaga idea della complessità del sistema di fornitura del cibo – come è possibile in due giorni di full immersion ad una conferenza – allora puoi anche capire quanto siano spesso scarsi e in malafede i tentativi di “risolvere il problema”. L’errore di fondo che quasi tutti fanno a questo punto (e non solo nel caso del sistema di fornitura del cibo) è cercare di linearizzare il sistema.

Linearizzare un sistema complesso significa che si agisce su un suo singolo elemento, sperando che tutto il resto non cambi di conseguenza. E’ l’approccio “guarda, è semplice”, quello preferito dai politici (*). Recita così, “guarda, è semplice: facciamo semplicemente questo e il problema sarà risolto”. Quello che si intende per “questo” varia a seconda della situazione. Col sistema alimentare, spesso comporta qualche trucco tecnologico per aumentare i rendimenti agricoli. In altri ambienti comporta l’urlo a squarciagola “passiamo agli OGM!”.

Sfortunatamente, anche ipotizzando che i rendimenti agricoli possano essere aumentati in termini di calorie prodotte usando gli OGM (possibile, ma solo in sistemi agricoli industrializzati), allora il risultato è una cascata di effetti che si ripercuotono sull’intero sistema, di solito trasformando un sistema di produzione rurale resiliente in un sistema di produzione fragile e parzialmente industrializzato – per non dire niente del fatto che queste tecnologie spesso peggiorano le qualità nutrizionali del cibo. E ipotizzando che sia possibili aumentare i rendimenti, come si trovano le risorse finanziarie per costruire l’infrastruttura necessaria per gestire l’aumentato rendimento agricolo? Servono camion, frigoriferi, impianti di stoccaggio ed altro. Anche se si riuscisse a mettere insieme tutte queste cose, molto spesso il risultato è semplicemente quello di rendere il sistema più fragile e meno resiliente, vulnerabile agli shock esterni come l’aumento del costo di forniture come combustibili e fertilizzanti.

Ci sono altri esempi egregi di quanto sia profondamente errata la strategia “guarda, è semplice”. Uno è l’idea che possiamo risolvere il problema sbarazzandoci dello spreco di cibo. Ideona, ma come lo si può fare esattamente  e quanto costerebbe? (**) E chi pagherebbe per l’aggiornamento dell’intera infrastruttura di distribuzione? Un altro approccio “guarda, è semplice” è ‘se diventassimo tutti vegetariani ci sarebbe moltissimo cibo per tutti’. In parte è vero, ma non è così semplice, a sua volta. Di nuovo, c’è una questione di distribuzione e trasporto e il fatto che i ricchi occidentali che comprano “cibo verde” nei loro supermercati ha un impatto minimo sulla situazione dei poveri nel resto del mondo. E quindi, alcuni tipi di cibo “verde” sono ingombranti e quindi difficili da trasportare, inoltre si rovinano facilmente e quindi serve refrigerazione e così via. Una cosa analoga vale per la strategia “cibo locale”. Come si affrontano le inevitabili fluttuazioni della produzione locale? Una volta, queste fluttuazioni erano causa di carestie periodiche che venivano accettate come un fatto della vita. Tornare a quello non è esattamente “risolvere il problema della fornitura di cibo”.

Un modo diverso di affrontare il problema è concentrato sulla riduzione della popolazione umana. Ma, anche qui, spesso facciamo l’errore “guarda, è semplice”. Cosa sappiamo esattamente sul meccanismo che genera la sovrappopolazione e come interveniamo su di esso? A volte, coloro che propongono questo approccio sembrano pensare che tutto ciò che dobbiamo fare è sganciare profilattici sui paesi poveri (se non altro, è meglio che sganciare bombe). Non è così facile, ma supponiamo che si possa ridurre la popolazione in modi non traumatici, poi si interviene in un sistema in cui “popolazione” significa un complesso misto di diverse nicchie sociali ed economiche: ci sono popolazioni urbane, periurbane e rurali. Una riduzione della popolazione potrebbe spostare le persone da un settore all’altro, potrebbe significare perdita di capacità produttive nelle aree rurali o, al contrario, una ridotta capacità di finanziare la produzione se si potesse diminuire la popolazione in aree urbane. Di nuovo, la riduzione della popolazione, di per sé, è un approccio lineare che non funzionerà come si pensa che faccia, anche se potesse essere implementata.

Di fronte alla complessità del sistema, ascoltando gli esperti che ne discutono, hai la raggelante sensazione che si tratti di un sistema davvero troppo difficile da afferrare per gli esseri umani. Si dovrebbe essere allo stesso tempo esperti in agricoltura, in logistica, in nutrizione, in finanza, in dinamiche della popolazione e molto altro. Una cosa che ho notato, come modesto esperto in energia e combustibili fossili, è quanto gli esperti di cibo di solito non si rendano conto che la disponibilità di combustibili fossili deve necessariamente diminuire nel prossimo futuro. Ciò avrà effetti spaventosi sull’agricoltura: pensate ai fertilizzanti, alla meccanizzazione, al trasporto, alla refrigerazione ed altro. Ma non ho visto questi effetti presi in considerazione  nella maggior parte dei modelli presentati. Diversi ricercatori hanno mostrato diagrammi che estrapolano le attuali tendenze per il futuro come se la produzione di petrolio dovesse continuare ad aumentare per il resto del secolo ed oltre.

La stessa cosa vale per il cambiamento climatico. Alla conferenza non ho sentito dire molto riguardo agli effetti estremi che un rapido cambiamento climatico potrebbe avere sull’agricoltura. E’ comprensibile, abbiamo buoni modelli che ci dicono come aumenteranno le temperature e come condizioneranno alcuni sottosistemi del pianeta (per esempio i livelli del mare), ma nessun modello che possa dirci in che modo il sottosistema agricolo reagirà al variare dei modelli meteorologici, alle diverse temperature, alle siccità e alle alluvioni. Pensate solo a quanto i rendimenti agricoli in India siano profondamente collegati ai modelli annuali dei monsoni, e non si può che rabbrividire al pensiero di cosa potrebbe accadere se il cambiamento climatico li condizionasse.

Quindi l’impressione che ho avuto dalla conferenza è che nessuno sta realmente afferrando la complessità del problema; né a livello di singoli individui, né a livello di organizzazioni. Per esempio, non ho mai sentito un termine cruciale usato nelle dinamiche planetarie che è “overshoot” (superamento). Cioè, è vero che adesso siamo in grado di produrre più o meno cibo a sufficienza – misurato in calorie – per la popolazione attuale. Ma per quanto tempo saremo in grado di farlo? In diversi casi potrei descrivere gli approcci a cui ho assistito come il tentativo di aggiustare un orologio meccanico usando un martello. O di guidare un transatlantico usando uno stuzzicadenti incastrato nell’elica.

Ma ci sono anche elementi positivi che emergono dalla conferenza di Roma. Uno è che la FAO anche se è un’organizzazione grande ed a volte goffa comprende il fatto che la dinamica dei sistemi è uno strumento che potrebbe aiutare molto i politici a capire le conseguenze di quello che facciamo. E, probabilmente, ad aiutarli ad escogitare idee migliori per “risolvere il problema del cibo”. Ciò è più difficile di quanto sembri: la dinamica dei sistemi non è per tutti e insegnarla ai burocrati è come insegnare ai cani a risolvere equazioni: ci vuole tanto lavoro e non funziona tanto bene. Inoltre, i professionisti della dinamica dei sistemi spesso sono vittime della sindrome da “diagramma degli spaghetti”, che consiste nel disegnare modelli complessi pieni di scatoline e di freccette che vanno da una parte all’altra per poi guardare la confusione che hanno creato; annuendo in segno di grande soddisfazione interiore. Ma è anche vero che alla conferenza ho visto molta buona volontà fra i vari attori sul campo per trovare un linguaggio comune. E’ una cosa buona, difficile, ma promettente.

Alla fine, qual è la soluzione al “problema della fornitura di cibo”? Se me lo chiedete, proverei a proporre un concetto: “in un sistema complesso, non ci sono né problemi né soluzioni. C’è solo cambiamento ed adattamento”. Come corollario, potrei dire che puoi risolvere un problema (o provarci) ma non puoi risolvere un cambiamento (nemmeno puoi provarci). Ti puoi solo adattare al cambiamento, preferibilmente in un modo non traumatico.

Visto in questo senso, il miglior modo di affrontare l’attuale situazione della fornitura di cibo è quello di non cercare soluzioni impossibili (terribili) (per esempio gli OGM), ma di aumentare la resilienza del sistema. Ciò comporta lavorare a livello locale ed interagire con tutti gli attori che lavorano nel sistema di fornitura di cibo. E’ un approccio ragionevole. La FAO lo sta già seguendo e può assicurare una fornitura ragionevole anche in presenza di inevitabili shock che stanno per arrivare in conseguenza dei problemi di cambiamento climatico e di fornitura di energia. La dinamica dei sistemi può essere di aiuto? Probabilmente sì. Naturalmente, c’è molto lavoro da fare, ma la conferenza di Roma è stata un buon inizio.

H/t: Stefano Armenia, Vanessa Armendariz, Olivio Argenti e tutti gli organizzatori della conferenza congiunta Sydic/FAO  a Roma.

Note

* Una volta che si affronta il problema del cibo, non si può ignorare la situazione del “terzo mondo”. Di conseguenza, la conferenza non è stata solo fra occidentali ed il dibattito ha preso un aspetto più ampio che ha anche coinvolto diversi modi di vedere il mondo. Una discussione particolarmente interessante che ho avuto è stata con una ricercatrice messicana. Secondo lei, “linearizzare” i problemi complessi è una caratteristica tipica (e piuttosto diabolica) del modo di pensare occidentale. Lei ha contrastato questa visione lineare con l’approccio “circolare” che, secondo lei, è tipico delle antiche culture mesoamericane, come i Maya ed altri. Quell’approccio, ha detto, potrebbe aiutare molto il mondo ad affrontare problemi diabolici senza peggiorarli. Riporto semplicemente la sua opinione, personalmente non ho conoscenza sufficiente per giudicarla. Tuttavia, mi sembra vero che ci sia qualcosa di diabolico nel modo in cui il pensiero occidentale tenda a plasmare tutto a sua immagine. 

** Nel sistema alimentare, l’idea che “guarda, è semplice: liberiamoci semplicemente degli sprechi” è esattamente parallela all’approccio “rifiuti zero” per i rifiuti urbani ed industriali. Ho una certa esperienza in questo settore e posso dirvi che, nel modo in cui spesso viene proposta, l’idea di “rifiuti zero” semplicemente non può funzionare. Comporta costi alti e rende semplicemente il sistema sempre più fragile e vulnerabile agli shock. Ciò non significa che i rifiuti siano inevitabili, niente affatto. Se si non può costruire un sistema industriale a “rifiuti zero” si possono costruire sottosistemi che possono gestire quei rifiuti. Questi sottosistemi, tuttavia, non possono funzionare usando la stessa logica del sistema industriale standard, devono essere adattati per funzionare su risorse a basso rendimento. In pratica, è l’approccio della “gestione partecipata” (vedete, per esempio, il lavoro del professor Gutberlet). Si può fare coi rifiuti urbani, ma anche con lo spreco di cibo ed è un altro modo per aumentare la resilienza del sistema.

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Termodinamica del disboscamento.

di Jacopo Simonetta

In un recente articolo  pubblicato dalla testata  “Proceedings of the National Academy of Sciences” James Hataway sintetizza irisultati si uno studio condotto da un gruppo di tre fisici dell’Università dellaGeorgia (USA).   Lo studio rientra nel fertile filone del’applicazione delle leggi della termodinamica allo studio della crisi sistemica in corso a livello globale. Qui  e qui due versioni dell’articolo.
In estrema sintesi, i ricercatori sostengono che, sotto il profilo meramente termodinamico, la Terra si è comportata per circa 2.5 miliardi di anni come una batteria che ha accumulato energia in forma chimica, tramite l’attività fotosintetica.   Sia la biomassa attuale, sia i combustibili fossili sono infatti costituiti da energia solare immagazzinata in legami chimici ad opera di piante, batteri e cianobatteri.   Questo assicura al nostro Pianeta una distanza teoricamente misurabile dallo stato di degli altri, che è molto più vicino all’equilibrio termodinamico e perciò incompatibile con la vita.   Un modo corretto e complicato di dire che è la presenza di vita che assicura il fatto che sulla Terra ci siano condizioni compatibili con la vita, umana e non.
Nel corso degli ultimi 2 secoli ed in modo progressivamente accelerato,  prosegue l’articolo, questa riserva di energia è stata consumata senza che fosse possibile ripristinarla perché i tempi di dissipazione sono di diversi ordini di grandezza maggiori di quelli necessari par la sua cattura ed accumulo.   D’altronde, è stata esattamente questa spettacolare dissipazione di energia che ha permesso il dominio assoluto della nostra specie sul pianeta, la presenza di oltre 7 miliardi di noi e la costruzione della complessa infrastruttura industriale, agricola ed urbana in cui viviamo.
Ma riducendosi il gradiente termodinamico fra la Terra e lo spazio esterno, le condizioni per la vita vengono gradualmente meno.   Considerando che circa metà della materia organica vivente e fossile è stata distrutta, è il caso di cominciare a preoccuparsi molto seriamente.    Esiste la possibilità di fermare questo processo?    Secondo gli scienziati si ed è incrementare la biomassa vegetale, dunque il tasso di attività foto sintetica a livello planetario.   Un obbiettivo molto difficile, ma l’unica alterativa è l’estinzione della civiltà e, forse, anche della specie umana; finanche la scomparsa della Biosfera stessa.
Anni di autonomia alimentare garantita dalla fotosintesi dall’anno 0 ai giorni nostri.

La materia non è nuova e riprende, aggiornandolo e circostanziandolo meglio, il punto fondamentale sostenuto da James Lovelock nel suo celebre libro “Ipotesi Gaia” del 1979:  l’indizio sicuro di presenza di vita su di un pianeta sarebbe un’entropia anormalmente bassa.

Come ecologo, non posso che approvare l’enfasi posta sull’importanza della biomassa vegetale come fattore chiave nel mantenere la Terra in un salubre disequilibrio termodinamico.   In altre parole, nell’impedire che il nostro pianeta diventi un deserto di rocce come tutti gli altri del nostro sistema solare.    Nessuno di essi è, beninteso, in perfetto equilibrio con lo spazio circostante, ma il livello di disequilibrio del nostro Pianeta è molto superiore ed è esattamente questo che ci permette di esistere.
Vorrei però aggiungere qualcosa a proposito di uno degli aspetti più importanti e negletti della crisi in corso: la rapida erosione di biodiversità.   Un ecosistema non è infatti composto solo da materia che circola ed energia che fluisce, ma anche da informazione.   La trasformazione di energia luminosa in legami chimici  comporta certo un accumulo di energia, ma anche di informazione sul nostro pianeta.   Quantità e qualità di questa informazione sono, credo, altrettanto e forse ancor più importanti della biomassa.
Per capirsi, già a livello di idrocarburi fossili, quello che rende il brent tanto più prezioso dello Shale oil sono profonde differenze nella forma e nelle dimensioni delle molecole che li compongono.    Dunque la diversa informazione che tali molecole contengono.   Tant’è vero che buona parte dei problemi che cominciamo avere con il petrolio non dipende tanto dalla sua quantità, bensì dal fatto che stiamo esaurendo quello di buona qualità (cioè contenente un certo tipo di informazione).   Altri materiali possono contenere altrettanta energia, ma non la stessa informazione e questo ha conseguenze immense sui processi industriali.

Se passiamo alla biomassa vivente, quella cioè che si riproduce e che quindi ricarica la nostra batteria qui ed ora, troviamo che l’informazione è contenuta non solo nei legami molecolari, ma soprattutto nel genoma e  nella struttura degli ecosistemi di cui gli organismi fotosintetici fanno parte.   La vita si mantiene infatti solo grazie ad un continuo processo di reciproco adattamento fra tutti gli elementi che costituiscono gli ecosistemi.

Fanno eccezione solamente le forzanti esterne, ma se si considera l’ecosistema globale, queste si riducono a pochi fattori astronomici e geologici.   Fra i primi, abbiamo fenomeni come la posizione della Luna, l’attività solare, l’inclinazione dell’asse terrestre, l’eventuale caduta di grandi meteoriti e poco altro.   Fra i secondi, principalmente la deriva dei continenti e l’attività vulcanica.   

In altre parole, quella che si riscontra è una co-evoluzione che crea biodiversità e che si alimenta della medesima.    Non sono infatti le specie e neppure le popolazioni che evolvono, bensì gli ecosistemi di cui le popolazioni sono parte.  

Ma sono i genomi delle popolazioni che costituiscono le “carte” con cui si gioca la partita della vita.   Una partita in cui le regole fisse sono molto poche e tutto cambia in continuazione.   Ogni estinzione è quindi una “carta” perduta e ciò ha due ordini di conseguenze.  

Nell’immediato, riduce l’efficienza e la resilienza del sistema.   Superato un imprevedibile punto di rottura, l’ecosistema si trasforma molto rapidamente e spesso irreversibilmente in qualcosa di completamente diverso e molto più povero.    Esempi classici di questo tipo di fenomeni sono l’eutrofizzazione delle acque e la desertificazione dei suoli.   
In prospettiva, ogni estinzione riduce sia le possibilità di adattamento del sistema complessivo, sia la possibilità di recupero dopo la crisi.   In altre parole, riduce la probabilità che in futuro via sia vita sulla Terra ed il fatto che sia già accaduto varie volte non dovrebbe indurci a sonni tranquilli.   E’ vero che ad ogni estinzione massiva fin qui avvenuta è seguita una fase di recupero, ma le condizioni astrofisiche del Pianeta e del sistema solare non erano le stesse di oggi.   E, comunque, nessuna delle specie dominanti della fase precedente l’estinzione è sopravvissuta.
Insomma, il fatto che stiamo vivendo le fasi iniziali di un’estinzione di massa non pone solo dei problemi di ordine etico (peraltro fondamentali), ma anche di mera sopravvivenza.    Un concetto un po’ difficile da far capire ai nostri amministratori, imprenditori e concittadini, abituati a rispondere che “Non si può fermare il progresso (o l’economia e quel che gli pare al momento) per salvare un uccellino”.
D’altronde, è anche vero che è consumando le riserve di energia e di informazione contenute nel nostro Pianeta che la nostra specie ha potuto costruire l’immensa infrastruttura e la complessa cultura odierna, oltre che i circa cinquecento milioni di tonnellate di carne umana attualmente in circolazione.   In altre parole, una parte consistente dell’energia e dell’informazione contenute anticamente dal Pianeta sono state trasformate nei “hardwhwre” e “softwhere” della civiltà attuale.   Una parte maggiore è stata distrutta nel processo.   Non possiamo sapere quanta, ma sicuramente più di quanta ne rimane, visto che ad ogni trasformazione corrisponde necessariamente un aumento dell’entropia.
Dunque l’impero universale della nostra specie si fonda necessariamente sulla distruzione delle basi termodinamiche della vita di cui noi stessi facciamo parte.   Per usare una parola cara ai filosofi, si potrebbe dire che l’autodistruzione rappresenta l’Entelechia (compimento ultimo e perfetto di una tendenza) dell’evoluzione umana.   Ma non è detto che ci riusciamo!
Anche gli altri animali hanno potenzialmente la stessa tendenza, ma non la possono realizzare perché la loro crescita si scontra con dei limiti invalicabili.   Proprio quelli che, viceversa, noi siamo riusciti finora tanto brillantemente a superare.    Motivo non piccolo di comprensibile orgoglio, ma anche prodromo di suicidio collettivo.   Già, perché il fattori limitanti sono esattamente quella “cosa” che, impedendo lo sviluppo delle popolazioni oltre un certo limite, ne favorisce la sopravvivenza a lungo termine.   Un concetto un po’ acido da ingurgitare, ma è così che funziona il mondo.
Possiamo quindi pensare a molti modi per fermare la distruzione della Vita, ma sarebbero efficaci solamente se ottenessero lo scopo di dirigere il flusso di entropia “verso di noi” anziché “lontano da noi”.   In altre parole, è necessaria una rapida diminuzione della quantità di materia, energia ed informazione contenuta nell’antroposfera.   
In parole povere, la Terra può sopportare a tempo indeterminato solo poca gente che utilizza tecnologie semplici e si accontenta di molto poco.  

Naturalmente, molti non sono d’accordo con questa conclusione ed è possibilissimo che abbiano ragione.   Queste che ho appena tratteggiato non sono infatti certezze, men che meno “verità”, ma solo considerazioni fondate sull’esperienza personale.   Negli anni a venire vedremo quale fra i tanti “mondi” teoricamente possibili diventerà reale.

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