Effetto Cassandra

Come il cambiamento climatico si manifesta nei dettagli della vita degli oceani

Da “New York Times”. Traduzione di MR 

Di William J. Broad

Marcos Chin
Il piccolo pesce noto come Vinciguerria Poweria è parte di un romanzo poliziesco che influenza tutto, dall’alimentazione del pianeta al monitoraggio della salute dell’oceano per imparare come prevedere meglio il cambiamento climatico. Il caso si svolge nell’area oscura dell’oceano – una regione tenebrosa che si estende da appena sotto le acque illuminate dal sole alle profondità di 1.000 metri. La sua oscurità viene spezzata solo dai raggi che filtrano giù nei giorni limpidi. Questa luce debole, anche al suo massimo, è insufficiente a sostenere la fotosintesi e le piante microscopiche. Quindi la zona non può alimentare una catena alimentare oceanica dal nulla. 
Data questa conoscenza, per lungo tempo si è suggerito che questa regione – nota come zona mesopelagica, dalle parole greche “medio” e “mare” – fosse relativamente vuota. Invece pullula di vita. Gli scienziati hanno scoperto che le creature dell’area oscura hanno una massa complessiva fino a 10 volte maggiore di quanto fosse stato stimato. “La scoperta è importante”, ha detto Xabier Irigoien, un biologo marino che ha preso parte ad una spedizione che ha circumnavigato il globo per fare una mappa della vita delle profondità. L’enorme massa di creature inusuali, ha aggiunto, rappresenta “probabilmente il 90% della biomassa dei pesci del pianeta”, superando di gran lunga tonni, merluzzi, squali ed altri pesci più conosciuti. L’investigazione è iniziata sul serio quando gli scienziati hanno stimato per la prima volta la densità di vita della zona. La loro stima, pubblicata nel 1980 dalla FAO delle Nazioni Unite, è diventata un riferimento. Ha registrato centinaia di specie come vinciguerria, pesci lanterna e ingollatori neri, che possono mangiare creature molto più grandi di loro stessi a causa delle loro grandi fauci e dei loro stomaci elastici.  
Gli scienziati hanno sommato le cifre delle catture di tutto il mondo ed hanno stimato la massa complessiva di un miliardo di tonnellate. Tuttavia hanno avvertito che molti dei pesci sembrano aver sfuggito la cattura, quindi le letture “sottostimano ovviamente la biomassa”. Nel decennio scorso, gli investigatori hanno cercato di colmare il divario, aiutati da reti migliori e sensori. La spedizione del dottor Irigoien, che comprendeva oceanografi da Spagna, Australia e Norvegia, hanno navigato il globo nel 2010 e 2011 e lo scorso anno hanno prodotto un rapporto dettagliato che ha stimato la massa complessiva di pesci mesopelagici in 10 miliardi di tonnellate e forse persino di più. Questa cifra non è soltanto 10 volte la stima precedente, ma 100 volte la cattura annuale mondiale di frutti di mare e 200 volte la biomassa stimata dei 24 miliardi di galline del mondo, considerati i vertebrati più numerosi sulla terraferma. 
L’alta densità della vita delle profondità, ha detto il Dr. Irigoien said, solleva molte domande. “Che cosa fanno?” si è chiesto. “Quanto consumano? Chi li mangia? Come influenzano la catena alimentare?” Una risposta trapelata dalla zona oscura è che i suoi abitanti tendono a salire verso l’alto verso le ricche acque di superficie di notte per alimentarsi per poi ridiscendere verso le ombre in cerca di protezione dai predatori durante il giorno. I pescatori commerciali hanno fatto tentativi limitati di attingere dai densi sciami, ma l’interesse “sta crescendo”, hanno riportato gli scienziati in Europa e Stati Uniti a febbraio. La pesca a strascico del passato usava le creature delle profondità principalmente come farina, olio e silaggio, piuttosto che per alimentazione umana. La quantità di vita mesopelagica è abbastanza grande da giocare un ruolo significativo nel ciclo globale del carbonio, dicono gli scienziati. 
L’acqua di mare assorbe tonnellate di biossido di carbonio dall’atmosfera, compreso quello prodotto dalla combustione di combustibili fossili. Le creature, a loro volta, usano il carbonio per costituire i propri corpi, che alla fine si uniscono alla pioggia di detriti organici degli abissi. (I corpi degli esseri umani sono per circa il 18% di carbonio e quelli dei pesci mesopelagici per circa l’8%). Questo assorbimento di carbonio da parte della vita mesopelagica ha spinto Villy Christensen, Uno scienziato dei pesci dell’Università della Columbia Britannica, a chiamare le creature delle profondità “alleati non riconosciuti contro il cambiamento climatico” e di opporsi alla loro pesca. Peter C. Davison, Uno scienziato dell’Istituto Farallon per la Ricerca Avanzata sull’Ecosistema, ha detto che gli scienziati del clima devono ancora tenere in considerazione la massa della vita mesopelagica come modo per capire il ciclo planetario del carbonio e il cambiamento climatico. “Bisognerà farci i conti”, ha detto, “se si vogliono ottenere modelli più precisi”. 

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Perché la signora Maria non capisce il cambiamento climatico: analfabetismo funzionale e ascesa della “nonpropaganda”

Da “Resource Crisis”. Traduzionedi MR

Di Ugo Bardi

Immaginedello Skills Outlook 2013 dell’OCSE. Questi dati mostrano che la maggior parte delle persone nei paesi OCSE hanno capacità molto limitate di gestire informazioni contrastanti. Questa mancanza di abilità è la fonte della propaganda tradizionale (che presente alle persone un singolo lato del problema) ma anche dell’ascesa della “nonpropaganda”, cioè la presentazione di informazioni così contrastanti che il pubblico non riesce ad arrivare a una conclusione stabile. Il risultato sono incertezza ed immobilismo. La apropaganda è stata usata con grande efficacia sul problema del cambiamento climatico. 

La storia ufficiale che si trova normalmente sulla questione dell’alfabetizzazione è che le persone in tutto il mondo stanno diventando sempre più istruite, cioè sempre più capaci di leggere e scrivere. Eppure, c’è un altro lato dell’alfabetizzazione: è il concetto “competenza dell’alfabetizzazione” che classifica le persone a seconda della loro capacità di capire quello che leggono.

Un recente sondaggio su questo punto è stato pubblicato dall’OCSE. Si tratta di un documento corposo di oltre 460 pagine che esamina le capacità di comprensione ed elaborazione  di un testo da parte dei cittadini dei paesi dell’OCSE. Il risultato è una suddivisione in 5 “livelli di alfabetizzazione”, come si può vedere nella figura all’inizio di questo post. Le definizioni esatte di questi livelli le potete trovare a pagina 64 del documento ma, riassumendo, i livelli più bassi al di sotto di 1, 1 e 2, sono relativi alle persone capaci di arrivare solo ai livelli più semplici di comprensione di un testo. Anche al livello 3, si potrebbe essere capaci di effettuare deduzioni sulla base del testo letto, ma i testi non devono contenere “informazioni conflittuali”. Solo ai livelli 4 e 5 è richiesta una qualche capacità di discernere criticamente i dati da informazioni in contrasto.

Come al solito, qualsiasi cosa si legga sul Web dev’essere valutata con molta cautela. Qual è l’affidabilità di questi dati? Perché 5 livelli e non di più, o di meno? Che significato hanno questi risultati? Digerire il lungo rapporto dell’OCSE non è un’impresa facile, ma penso che, per prima cosa, possiamo dire ciò che non è questa classificazione: coloro che non raggiungono i livelli più alti non sono necessariamente stupidi. Per esempio, i miei amici Rom andrebbero molto male nel test, visto che molti di loro sono realmente analfabeti, non solo funzionalmente. Ma posso assicurarvi che sono estremamente intelligenti, solo con un diverso tipo di intelligenza.

Poi, la sostanza del saggio dell’OCSE non è difficile: i test misurano la capacità delle persone di elaborare un testo scritto e di estrapolarne il significato. E se vieni classificato, diciamo, al livello 2, significa che hai fallito il test per il livello 3, per esempio mostrando di non essere capace di “costruirsi un significato su ampie parti di testo”. E se vieni classificato al livello 3, significa che hai sbagliato i test per il livello 4, per esempio identificare e definire “informazioni contrastanti”. In breve, sembra che ovunque nei paesi OCSE la maggior parte delle persone (di solito più del 90% della popolazione) non sono in grado di valutare criticamente le informazioni contrastanti.

Il rapporto dell’OCSE non usa il termine “analfabetismo funzionale”, ma sembra che questo venga normalmente usato per descrivere i livelli 1 e 2, cioè persone non sufficientemente capaci da essere in grado di affrontare pienamente la complessa società attuale. E’ un risultato scioccante: quasi il 50% della popolazione dei “ricchi” paesi dell’OCSE sono in queste condizioni (*). Anche se si limita la definizione di analfabetismo funzionale al livello 1, si tratta comunque una grande percentuale della popolazione, probabilmente molto più ampia di quanto gran parte di noi avrebbe mai pensato.

Ci possiamo domandare se questi risultati sono applicabili a tutte le forme di comunicazione, compreso, per esempio, ciò che le persone sentono in TV. Questo punto non viene discusso nel rapporto dell’OCSE, ma penso che sia difficile sfuggire alla conclusione che sì, non ci dovrebbero essere grandi differenze. I dati fanno riferimento a persone che sanno leggere e se qualcuno di loro ha un risultato così scarso nonostante sia in grado di capire le parole scritte, perché dovrebbero avere un risultato diverso se messi di fronte a parole dette? Quindi, una volta visti questi risultati, gran parte delle buffonate politiche in corso assumono un nuovo significato. Alcuni politici, pare, hanno raggiunto il successo confezionando il loro messaggio a livelli facilmente comprensibili dalla gran parte degli “analfabeti funzionali” del proprio paese. Berlusconi, in Italia, ne è un buon esempio, oggigiorno Trump sembra stia usando le stesse tattiche negli Stati Uniti. Questo modo di comunicare è l’essenza di quello che chiamiamo “propaganda” (oggigiorno le definiamo “pubbliche relazioni” o “creazione del consenso”). Consiste nel presentare soltanto un aspetto di ogni problema, convenientemente confezionato in semplici slogan: niente sottigliezze di sorta. Funziona: la maggior parte delle persone normalmente non cercherà o considererà informazioni contrastanti.

Ed ora passiamo alla domanda che volevo esaminare in questo post: qual è la rilevanza di questi dati sulla competenza di alfabetizzazione rispetto al problema del cambiamento climatico? Come tutti sappiamo, il cambiamento climatico è un tema estremamente complesso che richiede anni di studio per essere compreso nei dettagli. Tuttavia, il problema può anche essere riassunto in un’unica affermazione che dice: “se continuiamo a bruciare combustibili fossili, avremo di fronte un grande disastro”. E’ lo stesso tipo di affermazione che dice: “se continui a fumare rischi il cancro al polmone”. E per capire questo non c’è bisogno di essere degli esperti in epidemiologia. Gran parte dei problemi possono essere presentati in modi che possono essere capiti dalle persone a tutti i livelli della scala di alfabetizzazione, persone che, come dicevo prima, non sono stupide e perfettamente in grado di capire cos’è male e cos’è bene per loro.

Il problema della scala di alfabetizzazione è un altro: ha a che fare col dibattito sul cambiamento climatico. Qui vediamo lo sviluppo di una tecnica di comunicazione che sfrutta la mancanza di alfabetizzazione funzionale di una gran parte dell’opinione pubblica. Potremmo chiamare questa tecnica “nonpropaganda”. La propaganda tradizionale (letteralmente, “ciò che deve essere propagato”) punta a passare un messaggio semplificato eliminando o nascondendo tutte le informazioni contrastanti. Un messaggio diretto, come si dice alle volte in Italia “alla signora Maria” che si suppone non abbia più della licenza elementare.

La nonpropaganda (quello che non deve essere propagato), invece, punta a fermare la propagazione di un messaggio presentando moltissime informazioni contrastanti ad un’opinione pubblica incapace di valutarle pienamente. La nonpropaganda funziona e fa miracoli. I dati dell’OCSE mostrano che non più di circa il 5% della popolazione in gran parte dei paesi OCSE si può districare in un dibattito complesso che comporta molte informazioni contrastanti. Ora, guardate il dibattito sulla scienza del clima e vedete che l’idea di presentare “entrambe le parti” del problema è ben lungi dal significare una informazione equilibrata. E’ una strategia che confonde l’opinione pubblica. Non è molto costosa, ben alla portata delle lobby che perderebbero soldi in caso di un’azione seria sul cambiamento climatico. Ed è incredibilmente efficace. Guardate i sondaggi di Gallup: notate come l’opinione pubblica sia confusa e facilmente sviata da informazioni irrilevanti (il “climategate”) o da false informazioni (“la pausa”).

Quindi, come combattiamo la nonpropagandaclimatica? Per prima cosa, non aspettiamoci che i governi lavorino per coltivare la capacità delle persone di ragionare. Mi darete di cospirazionista, ma immagino che la maggior parte dei governi siano del tutto felici se i loro cittadini non sono tanto bravi a valutare criticamente le informazioni (nonostante tutto il discorso nel rapporto dell’OCSE sulla necessità di cittadini più abili). Poi, si può fare poco per cambiare una situazione che si è evoluta nell’arco di diversi decenni di sviluppo dei mass media. La nonpropaganda è economica e funziona molto bene: resterà con noi per un bel po’ di tempo.

Eppure, capire come funziona la nonpropaganda è un grande passo avanti. Per prima cosa, è un ulteriore chiodo nella bara del cosiddetto modello di “deficit di informazione”, cioè dell’idea che se spieghiamo al pubblico come stanno le cose col cambiamento climatico, il pubblico capirà e farà qualcosa. Non funziona: all’opinione pubblica non mancano le informazioni, ne ha troppe! E’ semplicemente incapace di farsi un’idea. Quindi ne consegue che dobbiamo concentrarci nel produrre informazione di alta qualità, riconoscibile come tale. Non significa che ci dovremmo nascondere dietro l’ingresso a pagamento delle riviste scientifiche, ma che non ci dovremmo impegnare in quel tipo di dibattito di basso livello tipico dei commenti infestati dai troll dei blog. In altre parole, non dobbiamo inseguire i negazionisti per cercare di dimostrare che si sbagliano. Ciò genera solo confusione.

Poi, notate come ha reagito in modo furioso l’opinione negazionista alla scoperta che il 97% degli scienziati climatici in attività sono d’accordo con l’idea che il cambiamento climatico esiste ed è causato principalmente dagli esseri umani. Il meme del 97%, infatti, distrugge la base stessa della loro strategia di nonpropaganda. Mostra che c’è un ampio consenso fra gli scienziati sul problema. E’ una cosa che le persone di tutti i livelli di alfabetizzazione possono percepire correttamente. E, lasciatemelo ripetere ancora una volta, non importa quale sia il livello di alfabetizzazione, la maggior parte delle persone NON sono stupide. Se un dottore di cui vi fidate vi dice di smettere di fumare, potreste non essere degli epidemiologi, ma sapete che fareste meglio a smettere. Se il 97% degli scienziati del clima mondiali (ed anche il Papa) ci dicono che dobbiamo smettere di bruciare combustibili fossili, allora potete anche non essere degli scienziati del clima, ma sapete che è meglio se facciamo qualcosa per questo. Così, ecco un altro punto sul quale concentrare i nostri sforzi.

Non facile, lo capisco, ma come ha detto Sun Tzu, se conosci il tuo nemico e conosci te stesso non hai bisogno di aver paura del risultato di cento battaglie.

(*) E’ discreto mistero il perché l’Italia, il paese che un tempo ha prodotto Dante Alighieri, vada così male nell’elenco dell’alfabetizzazione. D’altra parte, dopo aver visto questi dati, non ci si sorprende più del fatto che l’Italia sia il paese che ha prodotto Berlusconi. 



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Cartesio o Campanella? Una riflessione sul significato delle cose

di Jacopo Simonetta

In un precedente post ho ipotizzato che la civiltà occidentale abbia sbagliato strada da qualche parte fra Spinoza ed Archimede Pitagorico.    Ma forse anche prima.

Cartesio (1596 – 1650) e Campanella (1568 – 1639) furono contemporanei ed entrambi furono importanti ai loro tempi, Ma il loro destino in vita ed in morte fu quanto di più diverso si possa immaginare.   Si prestano quindi bene ad essere presi come simboli di due diversi modi di pensare, entrambi caratteristici dell’Europa, all’alba dell’evo moderno.

Ovviamente, non tenterò qui una sintesi del loro pensiero per mancanza sia di competenza che di spazio, ma vorrei suggerire alcune riflessioni del tutto personali, sempre alla ricerca di quel divorzio fra scienza, filosofia e teologia che caratterizza la nostra civiltà; caso unico nella storia.

Quanto è importante René Descartes?   Basti pensare al “piano cartesiano”: uno degli strumenti di base tanto per la ricerca, quanto per la didattica scientifica.  Ad oggi, il metodo e gli strumenti logici cartesiani strutturano il nostro modo di pensare; nel bene e nel male.

Cartesio pone alla base della sua riflessione il dubbio: cosa mi garantisce che gli oggetti, le persone, il mondo intero esistano?   Cercando un punto d’appoggio, lo trova nel celeberrimo: “Cogito ergo sum”.       Generalmente viene tradotto con. “Penso, quindi sono”, ma una traduzione più pignola sarebbe “Io penso, dunque io sono”.

Grammaticalmente non cambia nulla, mafilosoficamente cambia molto.   A cominciare perlomeno da Parmenide, sono stati parecchi a basare la propria speculazione sulla capacità di pensiero della nostra specie.   Ma Cartesio fu, a quel che ne so, il primo ad usare come fondamento del suo sistema la propria capacità individuale di pensare e, dunque, la propria individuale esistenza.   Vale a dire che non sono gli uomini che, pensando, esistono; bensì sono IO che sto pensando e ciò significa che IO esisto, perlomeno come unità pensante.   In altre parole, Cartesio fu l’inventore dell’ “Io”: chiave di volta della psicologia e delle psicopatie contemporanee, se ci fidiamo di Erich Fromm (fra gli altri).

Beninteso, non fu nel XVII secolo che furono inventati l’egoismo e l’individualismo!   E neppure si può sapere se Cartesio avesse o giustificasse tali difetti.   Tuttavia, questo grande filosofo mise a sistema una mentalità (in inglese si direbbe un “feeling”) del suo tempo, ponendo al centro del suo sistema il singolo individuo.   Una faccenda che a noi pare scontata perché siamo nati e cresciuti in questo modo di pensare, ma che all’epoca fu autenticamente rivoluzionaria.    Fu infatti in quel periodo che questi antichi vizi cominciarono la carriera che li porterà gradualmente ed inesorabilmente a diventare il fondamento delle società contemporanee, per il tramite di Adam Smith, circa un secolo e mezzo dopo.

L’epoca in cui visse Cartesio fu infatti un tornante decisivo nella storia del mondo.   Fu quella l’epoca in cui quasi un secolo di guerre e persecuzioni religiose culminavano con la guerra dei Trent’anni.   Bisognerà attendere Adolf Hitler per vivere un orrore analogo e non stupisce dunque il declino delle scuole di pensiero che avevano portato a tanto.   Nel frattempo, il sistematico saccheggio delle Americhe aveva portato in Europa un flusso di capitale immenso; coloro che erano stati più capaci ad appropriarsene e più avveduti nell’investirlo cominciavano a vederne i frutti, con una crescita economica e demografica senza precedenti.   Era nato il capitalismo moderno, non più basato sulla città, la dinastia o sulla ghilda come il mercantilismo tardo medioevale, bensì sulle capacità e la fortuna del singolo imprenditore.    Non per nulla, in quelli gli anni nacquero la borsa e le bolle speculative, guarda caso proprio in Olanda, patria d’adozione di Descartes.

La società si andava insomma strutturando intorno all’individuo, anziché ad un gruppo comunque definito, oppure alla cristianità nel suo complesso.   Un processo molto graduale, ma che da allora si è sviluppato di pari passo con il progredire della tecnica e con il crescere dell’economia, caratterizzando il mondo moderno.   In altre parole, Cartesio diede il battesimo filosofico a quell’individualismo moderno che il turbo-capitalismo contemporaneo ha portato alle sue estreme conseguenze.

Un secondo punto del pensiero cartesiano che ha avuto conseguenze enormi e nefaste fu la Teoria meccanicistica della vita.   Anche in questo caso, il nostro non fu certo il primo ad essere affascinato dagli automi.   La possibilità di costruire macchine capaci di simulare i movimenti di animali o uomini risale a quando furono perfezionati gli orologi meccanici, nel XV secolo.   Da allora, in molti hanno fantasticato di poter costruire degli automi (oggi li chiamiamo robot) capaci di simulare perfettamente la vita.   Un sogno tuttora ben vivo, ma il filosofo francese andò molto al di la di questo e formulò l’ipotesi (che per lui era una certezza assoluta) che gli animali altro non fossero che macchine.   Semplicemente molto più sofisticate di quelle che, al momento, venivano realizzate dagli artigiani.

La cosa non era priva di conseguenze.   Dal momento che gli animali erano macchine, erano necessariamente privi di sentimenti, così come della capacità stessa di provare dolore.   Come intese dimostrare un estimatore del filosofo, uccidendo pubblicamente a calci la propria cagna incinta.
Non risulta che Cartesio abbia personalmente mai fatto cose simili, ma indubbiamente ha fornito un alibi a coloro che amano sfogare le proprie frustrazioni tramite la crudeltà sugli animali.   Inoltre, da allora e fino al XIX secolo inoltrato, il fatto che vari popoli non fossero considerati del tutto umani servì a giustificarne scientificamente lo sterminio o la schiavitù.   Oggi consideriamo questo un’aberrazione, ma l’idea che ciò che non è umano non sia senziente rimane diffusa.    È infatti una regola legalmente accettata che si possano utilizzare esseri viventi come se fossero oggetti e sono pochissimi a capire che differenza vi sia fra un albero ed un palo telegrafico.   Un’occhiata alle piazze ed ai viali di qualunque città confermerà questa affermazione.

Se gli animali non sono senzienti, a maggior ragione non lo sono infatti le piante e niente può quindi giustificare un qualsivoglia limite all’azione dominatrice dell’Uomo sulla Natura.   Su questo punto Cartesio è esplicito: la conoscenza coincide con la saggezza ed è tale solo se fornisce agli uomini i mezzi per sempre meglio sfruttare e dominare il mondo “bruto”.   A ciò gli uomini sono destinati ed autorizzati dal fatto che, unici esseri al mondo, sono sia intelligenti che senzienti.   Capaci, cioè, sia di pensiero, sia di sentimento per il fatto di possedere un’anima immortale.   Anima che egli pensava incardinata al corpo tramite la ghiandola pineale.

E Dio in tutto ciò?   Cartesio fu un uomo prudente ed attento a non incorrere in grane teologiche, così come ad evitare ogni coinvolgimento politico.    Riprendendo una solida tradizione medioevale, cercò quindi di dimostrare che Dio esiste,  dal momento che ne esiste l’idea.   Un idea di infinita perfezione che, secondo il filosofo, non può sorgere spontaneamente in una mente imperfetta e limitata.   Dunque, se esiste l’idea di Dio, deve esistere anche Dio stesso, origine di tale idea.  

Agli antipodi di Cartesio troviamo il suo contemporaneo Tommaso Campanella.   Molto meno dotato di lui per il pensiero astratto e la matematica, ma assai più accorto osservatore dei fenomeni naturali, sia pur con tutti i limiti del suo tempo.

Oggi il monaco di Stilo non figura nel pantheon dei padri della modernità, bensì fra i personaggi pittoreschi e marginali della storia.   Battagliero e politicamente coinvolto, pagò con molti anni di carcere e torture la sua militanza e riuscì ad evitare il rogo per un soffio.
Letti con gli occhi cartesiani di cui ci ha forniti la scuola, i suoi scritti sembrano oggi delle fantasiose e prolisse divagazioni.    Una stravaganza, retaggio dell’oscuro medioevo, con la sua fede nella magia, ben più che nella matematica.

Ma la magia di cui ci si occupava allora non aveva niente a che vedere con Harry Potter.   Nessuno pensava infatti di poter sovvertire le forze della Natura.   Al contrario, i maghi si ponevano il problema di capire quali fossero le più intime leggi naturali per potersene servire.   La sperimentazione, la deduzione, ma soprattutto l’osservazione dei fenomeni naturali erano gli strumenti di una tale ricerca.    E lo scopo ultimo era scoprire quale fosse il “principio primo” da cui derivavano tutti gli altri.   Esattamente quella “legge del tutto” alla cui ricerca oggigiorno si affannano gli scienziati migliori.

Secondo Campanella, il principio fondamentale che anima l’universo è che tutte le cose hanno sensibilità e tendono alla propria conservazione.   Esattamente al contrario di Cartesio, Campanella riconosce quindi  agli animali non solo una sensibilità analoga a quella umana, ma anche un’intelligenza dello stesso tipo, sia pure molto più debole.   Le piante non hanno capacità mentali e non possono muoversi, ma secondo il nostro monaco hanno ugualmente la capacità di percepire stimoli dal mondo esterno e di reagire ad essi in modo da garantire la propria sopravvivenza e la propria riproduzione.   Oggigiorno, eserciti di botanici e biochimici gli stanno dando quotidianamente ragione.

Ma per Campanella perfino gli oggetti inanimati e gli elementi minerali hanno una qualche forma di “sensibilità” ed un “comportamento” caratteristici.   Con ciò non intendeva, ovviamente, attribuire alle pietre capacità sensoriali ed intellettive di tipo umano, bensì un’innata tendenza a spostarsi nella posizione più bassa e stabile possibile, compatibilmente con le condizioni esterne.   Ci penserà un altro mago ed alchimista importante, Isaac Newton, a spiegare il perché di questo comportamento, appena una generazione più tardi.    Ma l’importanza dell’osservazione campanelliana è che assolutamente niente in natura avviene per caso e che ogni singolo atomo di materia tende a fare qualcosa, nonappena ve ne è la possibilità.

Oggi parliamo di orbitali e di pesi atomici, di temperature e pressioni, di entalpia ed entropia, ma ciò non fa che confermare che ogni elemento ed ogni aggregato di materia ha effettivamente la tendenza a comportarsi in un determinato modo.   E’ infatti manipolando le condizioni ambientali che si controllano le cose: dai reagenti in una provetta, fino alle folle in una piazza.    Non dubito che Campanella avrebbe considerato “Mein Kampf” un eccellente manuale di magia pratica.   Magia demoniaca, per la precisione (distingueva tre tipi di magia: divina, naturale e demoniaca).

Insomma, Cartesio basò la sua speculazione sull’introspezione, la logica e l’individuo, mentre Campanella si basò sull’osservazione della Natura.   Il primo considerò la propria mente l’unica realtà accertata.   Il secondo considerava la propria mente un povero strumento per tentare di capire la Creazione: una realtà infinitamente complessa, ma armonica ed unitaria nel rispondere ad un unico sistema di leggi divine.

Nel corso dei 100 anni seguenti la loro morte, l’Europa scelse progressivamente l’approccio del primo  e fu un successo senza precedenti.    Anche la conoscenza della natura che oggi abbiamo, e che non ha precedenti nella storia, deve molto al “Discorso sul metodo”, malgrado il suo autore fosse un pessimo naturalista.

Fu, infatti, in buona parte grazie a questa scelta l’Europa ha costruito quella civiltà industriale e tecnologica che ha indubbiamente creato le più grandi meraviglie della storia.   Ma anche le più grandi tragedie: dalla sovrappopolazione allo sconquasso climatico.

Dunque abbiamo scelto bene o male?   Se aveva ragione Spinoza, profondo conoscitore sia di Cartesio che di Campanella, non c’erano alternative: non poteva che prevalere Cartesio.    Ma forse il compimento ultimo del cartesianesimo potrebbe essere scoprire che, in fondo, aveva ragione Campanella.

“Dopo una vita consacrata alla scienza, la più razionale possibile, posso dirvi che la materia non esiste.   Tutta la materia esiste in virtù di una forza che fa vibrare le particelle e tiene insieme il minuscolo sistema solare di un atomo.    E’ come uno spirito, intelligente e cosciente.   Questo spirito è la ragione di ogni materia.”   Max Plank

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Come i miglioramenti tecnologici aumentano la crescita della popolazione

Dalla pagina FB di Bodhi Paul Chefurka. Traduzione di MR

Ogni sviluppo tecnologico significativo della storia umana sembra aver causato almeno un raddoppio del tasso di crescita. Secondo la mia interpretazione del recente database della popolazione HYDE, ci sono stati cinque salti del genere negli ultimi 80.000 anni, più o meno. Questi salti sono facilmente correlabili con cambiamenti del livello generale di tecnologia, come mostrato nel grafico. Ipotizzo che l’Homo Sapiens abbia cominciato il nostro ultimo periodo dopo il collo di bottiglia di Toba, a partire da 77.000 anni fa, con 10.000 individui. Durante i 65.000 dalla catastrofe di Toba fino allo sviluppo dell’agricoltura intorno al 10.000 AC, la popolazione è cresciuta da 10.000 a circa 2 milioni, ad un tasso medio basso dello 0,01%all’anno o leggermente meno.

  1. Quando è stata sviluppata l’agricoltura intorno al 10.000 AC, il nostro tasso di crescita è quadruplicato allo 0,04%. Ciò ha fatto salire la nostra popolazione da 2 milioni a 240 milioni nei successivi 11.000 anni.
  2. Durante i mille anni del Medioevo, il cambiamento tecnologico ha iniziato a diffondersi in tutto il mondo. Per esempio, l’adozione dell’aratro a versoio all’inizio di questo periodo  (~800 DC) ha aumentato la produttività agricola e permesso all’umanità di appropriarsi di sempre maggiore habitat naturale per il proprio uso esclusivo. Di conseguenza il nostro tasso di crescita è più che raddoppiato raggiungendo lo 0,1% all’anno dal 800 al 1700 DC, dando al mondo una popolazione di circa 600 milioni di persone nel 1700. 
  3. Intorno al 1700, la Prima Rivoluzione Industriale ha preso il via, con macchinari alimentati da legna, carbonella e dall’energia cinetica dell’acqua. Questo sviluppo ha quadruplicato di nuovo il tasso di crescita, fino allo 0,4% all’anno, aumentando la popolazione dai 600 milioni del 1700 agli 1,3 miliardi del 1850. 
  4. Nel 1850 l’energia del carbone è entrata nel quadro e la Rivoluzione Industriale ha aumentato il vapore (ops, scusate!). Il tasso di crescita della popolazione è raddoppiato allo 0,8% e durante il secolo che ne è seguito fino al 1950 la popolazione mondiale è a sua volta raddoppiata fino a 2,5 miliardi di persone. 
  5. Dal 1950 abbiamo vissuto nella Tarda Rivoluzione Industriale. Questo periodo è caratterizzato da petrolio, gas e energia nucleare, trasporti e comunicazioni globali rapidi, Rivoluzione Verde, rivoluzione del computer e consumismo che hanno spazzato il mondo dopo la Seconda Guerra Mondiale. Il tasso di crescita della popolazione è di nuovo raddoppiato fino al 1,6% all’anno (mediato sull’intero periodo). In soli 65 anni la popolazione umana è quasi triplicata al suo attuale livello di 7,3 miliardi. 

Questa analisi suggerisce che livelli maggiori di tecnologia permettono (e forse incoraggiano) tassi di crescita della popolazione più alti. Potrebbe essere interessante fare un paio di esperimenti mentali con queste informazioni:

Per esempio, cosa sarebbe successo se la marcia del progresso tecnologico fosse cessata nel 1700 quando avevamo solo la tecnologia medievale? Se il tasso di crescita fosse rimasto costante allo 0,1%, ad oggi il mondo ospiterebbe “soltanto” 850 milioni di persone. Per coloro fra noi che considerano quel numero sia ben lungi dall’essere considerato sostenibile, questa è una notizia scoraggiante. Avevamo poca tecnologia oltre agli aratri trascinati da cavalli e comunque la nostra popolazione sarebbe cresciuta molto. Per essere ancora più draconiani, e se non avessimo sviluppato alcuna tecnologia al di là degli attrezzi di pietra e fossimo stati in grado di limitare il tasso di crescita allo 0,01%? In questo caso ci sarebbero 6 milioni di persone oggi – un livello di popolazione che potrebbe essere considerato realmente sostenibile, a patto che non continui ad aumentare…

Questa analisi si adatta perfettamente al “Principio di Circolo Vizioso” di Craig Dilworth: gli esseri umani usano il loro cervello per superare ostacoli o limiti alla crescita, quindi devono continuare a crescere. Questa interpretazione fornisce anche un forte sostegno induttivo al “Principio di Determinismo Infrastrutturale” di Marvin Harris: le istituzioni culturali e le credenze sono plasmate dall’ambiente della società, compresa la sua tecnologia. Queste credenze ed istituzioni generalmente agiscono a sostegno di ulteriore crescita, se possibile – se c’è un surplus percepito di materie prime, compresa energia e terra. Sostengono la stasi culturale o la decrescita solo se c’è una percezione di carenze da parte di tutta la società. Questa conclusione non promette bene per l’idea di ridurre la popolazione mondiale mantenendo i nostri standard di vita intatti.

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ENI: grande scoperta di gas in Egitto?

ENI: grande scoperta di un giacimento di gas naturale in Egitto“. Come al solito, la stampa da i numeri, ma non riesce mai a renderli comprensibili. Dopo aver detto che dentro questo giacimento è possibile che ci siano “850 miliardi di metri cubi di gas” (e notare il “possibile”), se non il metti in prospettiva, tanto valeva dire “millanta.” E’ un numero che piomba dal cielo sui lettori che non trovano in questi proclami i dati che permetterebbero di confrontare la dimensione del giacimento con quella delle altre riserve mondiali.

Eppure, ci vuole veramente poco per fare la proporzione. Basta digitare “riserve mondiali di gas naturali” e trovi subito il dato su Wikipedia. E se non ti fidi di Wikipedia, lo trovi in inglese sul sito di BP e lo trovi anche in tanti altri posti. Come sempre, i dati sono incerti, ma un ordine di grandezza lo abbiamo. Al mondo, si ritiene che ci siano qualcosa come 190.000 miliardi di metri cubi di gas naturale estraibile.

Ne consegue che la nuova scoperta aggiunge circa lo 0.45% alle riserve mondiali, sempre ammesso che le riserve “possibili” si rivelino poi reali. Non è che poi sia quella gran cosa epocale che sembrerebbe essere leggendo le iperboli dei giornali.

Intendiamoci, non è una scoperta da poco. Sul Financial Times, dicono che potrebbe soddisfare i consumi dell’Egitto per 10 anni e l’Egitto ha disperatamente bisogno di energia in una situazione economica molto difficile. Ed è anche un bel successo per l’ENI; che ne ha molto bisogno, vista la situazione non proprio brillante del campo di Kashagan, che ancora non produce e non produrrà fino al 2017 (perlomeno). Posto che poi che Kashagan produca qualcosa; è un giacimento molto costoso e con i prezzi del petrolio attuali non conviene di certo. Per non parlare poi del cambiamento climatico che galoppa e fa si che diventi sempre più essenziale lasciare almeno una parte degli idrocarburi fossili sottoterra.

Insomma, la scoperta sembrerebbe una cosa complessivamente seria, ma prima di mettersi a gridare al miracolo, cerchiamo perlomeno di mettere le cose in prospettiva!

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Nota: su “Argento fisico” ER ha anche fatto un po’ di conti di quanto potrebbe durare questo gas (ammesso che esista veramente): 

Ah …e’ a mare … ah, e’ a piu’ di 4 kilometri di profondita’…. pero’ almeno ha delle dimensioni bibliche 🙂 … 850 miliardi di metri cubi di gas !!! Altrochepicchi! …. bastano per …. ehm, in tutta la sua vita questo giacimento produrrà  abbastanza per soddisfare 3 mesi di consumo planetario di gas visto che se ne consumano circa 3.300 miliardi di metri cubi l’anno.

E a tutti quelli che stanno lanciando urla di gioia perché il gas Egiziano ci libererà da Vladimir Putin e dal suo gas Russo, prego di notare che non c’è nessun gasdotto che possa mettere in connessione l’Egitto con l’Italia. E se lo volessimo costruire, dovrebbe passare attraverso una delle regioni più instabili del mondo; la Libia……

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L’E-Cat di Andrea Rossi: la lenta morte di un meme

Da “Resource Crisis”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi

Risultati di una ricerca usando Google “Trends”. L’E-Cat è morto, ma continua a rimbalzare, un po’.

Notizie dell’E-Cat, il famigerato reattore a fusione da tavolo: Andrea Rossi, l’inventore, ha annunciato che è finalmente riuscito ad ottenere un brevetto del suo dispositivo e che presto verrà commercializzato come scaldabagno domestico.

Dopo quattro anni di dichiarazioni analoghe da parte di Rossi, tutte regolarmente disattese, non vale la pena discutere di quest’ultima, eccetto, forse, per osservare che, nel brevetto, il celebre “reattore nucleare” ora è diventato semplicemente un reattore chimico, contraddicendo quindi tutte le precedenti dichiarazioni di Rossi. Ma, allo stesso tempo, in uno dei siti di Rossi (come descritto qui) si dichiara ancora che avviene una reazione nucleare, ma non più quella che veniva descritta prima, che coinvolgeva nichel ed idrogeno. Davvero, sembra che Rossi punti al record da Guinness dei primati del numero di volte che una persona si può contraddire nelle proprie dichiarazioni pubbliche.

Così, da un punto di vista scientifico, questa storia è un gatto morto, ma è ancora interessante in termini di descrizione della traiettoria di un meme. Per coloro fra voi che non sanno cosa sia un meme, si tratta di una unità di informazione che si auto replica nello spazio conoscitivo umano, un tema studiato da una scienza chiamata “memetica”. Come potete vedere nella figura all’inizio, il meme del “E-Cat” ha avuto una tipica traiettoria virale, esplodendo letteralmente nel 2011. Poi ha raggiunto il picco ed ha iniziato un lento declino che è ancora in corso. E’ un comportamento molto comune dei meme di Internet, per esempio la recente storia di “Cecil il leone” sta seguendo la stessa traiettoria.

Alcuni dei picchi che vedete nella curva, sopra, sono i risultati dei tentativi di Rossi di rivitalizzare la sua idea per mezzo di nuove e roboanti dichiarazioni, delle quali l’ultima riguarda il brevetto. E’ probabile che questa nuova dichiarazione produrrà un ulteriore piccola asperità che poi si placherà. Apparentemente, i meme hanno questa traiettoria “naturale”, che resiste alla maggior parte dei tentativi di modifica.

Così, la storia del E-Cat solleva una serie interessante di domande: perché i meme si comportano in questo modo? Cosa determina l’intensità e la durata della loro penetrazione nel ciberspazio? Come possono essere modificati questi parametri? Si tratta di un tema davvero affascinante che ha a che fare col modo in cui gli esseri umani cambiano idee e definiscono le credenze comuni.  E da questa storia sto cominciando a capire un punto fondamentale che ha a che fare col nostro attuale processo: stiamo sbagliando tutto cercando un miracolo tecnologico.

Molte persone sono state così appassionate nel seguire le dichiarazioni infondate di Rossi (e qualcuno le segue ancora) perché hanno sinceramente pensato che abbiamo bisogno di una nuova fonte di energia per risolvere i nostri problemi. Be’, penso di no. Non ci servono nuovi gadget, ci serve qualcosa di molto più fondamentale: ci serve cooperazione. Cioè, dobbiamo lavorare insieme per gestire i beni comuni planetari (che il Papa chiama “Creato”, ma è lo stesso concetto). E gestione non significa sfruttamento: significa avere cura dei beni comuni. Se non riusciamo a fare questo, nessun miracolo tecnologico farà mai altro se non peggiorare i nostri problemi. Pensate al cambiamento climatico: non c’è nessun tipo di gadget ragionevole che possa invertire il danno che stiamo facendo al nostro ecosistema, finché continuiamo a farlo. Ciò che ci serve, prima di tutto, è un accordo per smettere di distruggere l’ecosistema. Ma come possiamo arrivare ad un accordo del genere? Be’, potrebbe essere in gran parte una questione di memetica. Così, l’E-Cat, anche se in gran parte una perdita di tempo per tutti, potrebbe risultare utile, alla fine, per imparare qualcosa di nuovo.

Per apprendere di più sulla memetica e le sue applicazioni nella lotta al cambiamento climatico, potete partire da questo post di Joe Brewer

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La resa energetica (‘EROEI’) della guerra

DaThe Oil Crash”. Traduzione di MR


Di Antonio Turiel

Cari lettori,

Data la situazione di decrescita energetica alla quale ci vediamo inevitabilmente condannati come società, un aspetto antipatico, anche se necessario, da analizzare è quello del rendimento, non tanto economico quanto energetico, della guerra. Poiché di sicuro la guerra è un modo di ottenere risorse e in particolare risorse energetiche, che sono quelle che in ultima istanza muovono tutta l’economia. Inoltre, è importante analizzare ciò che rappresenta la guerra da questo punto di vista, perché senza un cambiamento di rotta deciso dalla politica internazionale (poco probabile in questo momento), il futuro ci riserva una serie di guerre che si andranno concatenando senza soluzione di continuità e senza che i nostri esperti più avvezzi comprendano quale sia il filo conduttore di tutte (proprio il contrario: in questo momento c’è un’autentica offensiva mediatica per negare che il picco del petrolio si stia approssimando, proprio quest’anno che sembra che si verificherà il picco del petrolio in volume – in energia è stato nel 2010.

Di fronte alla moltitudine di conflitti armati che sorgeranno dal collasso dei paesi produttori (oggi l’Egitto, Libia, Siria o Yemen, domani Nigeria, Venezuela e Algeria) e dando per scontato il travisamento mediatico che ci sarà su tutte queste guerre fino a che l’esplosione di qualche produttore (per esempio rivolte in Arabia Saudita nel prossimo decennio) ponga gli orgogliosi paesi occidentali in ginocchio, credo che sia importante analizzare cosa significano le guerre come strumento per garantire che le risorse continuino ad arrivare alle nazioni più ricche e, in ultima istanza, analizzare il loro EROEI, inteso in questo contesto come il guadagno di energia che ottiene un paese che entra in guerra in confronto all’energia che consuma nel fare la guerra stessa. Il fatto è che, analogamente a quello che succede con le fonti di energia, ci sono certi modi di fare la guerra, i più semplici, che hanno EROEI alti, mentre in scenari geopolitici più maturi l’EROEI delle guerre è sempre più basso fino a giungere al punto in cui la guerra non è una sorgente ma un pozzo di risorse.

Dal punto di vista etico, parlare del rendimento o beneficio della guerra sembra di un cinismo insopportabile, poiché innanzitutto la guerra è morte, feriti, distruzione, epidemie, fame, famiglie distrutte, illusioni perdute, caos, perdita di civiltà… Non c’è niente di eroico nella guerra per quanto la propaganda la glorifichi e pensare alla guerra in termini del proprio beneficio è deplorevole. Tuttavia, le guerre si fanno sempre per guadagnare qualcosa e la maggior parte delle volte (se non tutte) il beneficio preteso è abbastanza tangibile e materiale, persino prosaico. D’altra parte, discutere del beneficio materiale della guerra può essere utile se si può dimostrare che tale beneficio materiale non si realizzerà, perché non è raggiungibile o perché semplicemente non esiste. Di fatto, nella misura in cui la nostra civiltà va consumando il suo prevedibile transito di decrescita energetica, le guerre successive saranno sempre meno interessanti dal punto di vista del beneficio. Addirittura, passato un certo punto (quello dei ritorni decrescenti), andare in guerra accelererà il nostro cammino verso il collasso, anziché ritardarlo. La Storia mostra e dimostra, tuttavia, che riconoscere che ci si trova in un punto di ritorno negativo (in qualsiasi attività, non solo nella guerra) è molto difficile e generalmente si continua a fare la stessa cosa che si è sempre fatta, “abbiamo sempre fatto questo”, per inerzia, finché quella stessa inerzia è quella che accelera la nostra caduta. Quanti imperi aggressivamente espansionisti hanno collassato nella Storia ancora più rapidamente di quanto si siano espansi, proprio perché le nuove guerre finivano per porre un carico maggiore dei benefici che apportavano? Il fenomeno si ripete in continuazione nella Storia, dai Maya fino agli Unni, da Alessandro magno ad Annibale, dall’Impero Romano all’Impero ottomano, dall’Impero Austro-Ungarico al Terzo Reich. Comprendere e spiegare come mai la guerra sia materialmente onerosa può essere utile per far riflettere coloro che non vengono toccati dagli argomenti etici, ma che sono sensibili alle variazioni del loro portafoglio.

Distinguerò tre tipi di guerra, a seconda del loro rendimento energetico: le guerre di saccheggio, quelle di dominio e quelle egemoniche. Non è una classificazione molto esaustiva e probabilmente non l’unica possibile, ma personalmente mi quadra abbastanza con le grandi linee delle guerre.

Guerre di saccheggio: E’ il tipo più semplice e di base di azione bellica, quello che ha l’EROEI più elevato. L’attaccante assalta un determinato territorio con l’intenzione più o meno dichiarata di prendere tutto ciò che può. Non si tratta di tenere una posizione, ma di prendersi il bottino e scappare di corsa. Questo tipo di conflitti di solito hanno dimensioni limitate, non essendo tipici di stati-nazione ma di bande mercenarie, pirati e simili. Esempi storici di questo tipo di guerra sarebbero su piccola scala, quelle intraprese dai Vichinghi su tutta la costa del nord Europa o quella dei pirati nei sette mari, ma grandi nazioni lo hanno tenuto come forma di finanziamento. Per esempio, la Spagna del XVI e XVII secolo finanziava le proprie armate, praticamente mercenari, col saccheggio delle popolazioni conquistate (in certe parti d’Europa sono ben ricordati alcuni “saccheggi” storici).

Il costo di questo tipo di guerra è molto limitato: un uomo, un’arma e un sacco in cui mettere tutto ciò che si può saccheggiare. Al contrario, il rendimento è molto elevato, soprattutto in regioni dove da tempo non si verificava un saccheggio. Possiamo fare una stima del rendimento del saccheggio in funzione della sua frequenza: più tempo passa fra un saccheggio e l’altro, maggiore è il rendimento del saccheggio precedente. L’EROEI è sicuramente alto, anche se la quantità totale di energia ottenuta è relativamente piccola (pertanto soddisfa una popolazione piccola di saccheggiatori). Le popolazioni di saccheggiatori non possono crescere in modo illimitato, visto che ci sono vari fattori che ne limitano l’espansione: la disponibilità di obbiettivi sufficientemente ricchi da garantire la sopravvivenza del gruppo come tale fino al saccheggio seguente, la necessità di lasciar passare un certo tempo prima di tornare a saccheggiare lo stesso luogo perché si possano riparare i danni e si troni a generare una ricchezza sufficiente che valga la pena di saccheggiare, la difficoltà crescente a saccheggiare se la presenza dei saccheggiatori è molto nota, visto che le città rafforzano le proprie difese, ecc. Le popolazioni saccheggiatrici si uniscono e si possono abbordare obbiettivi più pericolosi ma di maggior ricompensa. Se le circostanze peggiorano, il gruppo saccheggiatore può essere decimato ma la parte che sopravvive potrà sussistere saccheggiando popolazioni più piccola e indifese. Essenzialmente, i gruppi saccheggiatori svolgono il ruolo di predatori nei modelli predatore-preda, con popolazioni molto minori di quelle delle prede e governati dalla dinamica di queste ultime, comprendendo la lotta fra predatori come meccanismo di adattamento della propria popolazione se le prede cominciano a scarseggiare.

Questo modello di guerra ha una certa somiglianza con le società dei cacciatori-raccoglitori (con la differenza che questa non si dedicavano all’uccisione di nessuno), visto che si specializzano nel prendere le risorse dall’ambiente senza alterarlo, lasciandolo evolvere liberamente. Ma, al contrario dei cacciatori-raccoglitori, è molto difficile che i saccheggiatori raggiungano un equilibrio col proprio ecosistema e la cosa più probabile è che alla fine i saccheggiati si organizzino e finiscano per distruggerli, inseguendoli fino alle loro case se necessario.

Guerre di conquista: Questo tipo di guerra è quello preferito dagli stati-nazione. L’obbiettivo della guerra di conquista è mantenere il controllo permanente di un territorio e quindi delle sue risorse. Non basta, quindi, entrare in un territorio, bisogna occuparlo. Pertanto questo implica dispiegare un contingente militare ben addestrato e mantenerlo a tempo indeterminato su un territorio per garantire il flusso di risorse. Anticamente, gli Stati occupanti rimanevano fisicamente al comando dei paesi occupati. Oggigiorno, approfittando del fatto che tutto il mondo è organizzato in Stati-nazione, gli Stati occupanti collocano un’amministrazione locale favorevole ai propri interessi e si rivolgono allo stesso esercito locale come garante della pace e dell’ordine in favore dei suoi interessi. L’unica cosa che l’occupante mette in campo, a lungo termine, sono le imprese dedite all’estrazione delle risorse della nazione soggiogata. Grazie a questo sotterfugio di esternalizzare l’occupazione con “subappaltatori locali” si è riusciti a diminuire di molto i costi di questo tipo di guerra, che in passato era molto onerosa (in passato più di un impero ha ceduto a causa degli alti costi di una sola campagna militare fallita). Per questo motivo, le guerre di occupazione del passato avevano un EROEI molto basso e si occupavano soltanto paesi ricchi di risorse deisderate (un buon esempio di ciò è stata la spartizione dell’Africa alla Conferenza di Berlino del 1884). L’attuale sistema di esternalizzazione ha ridotto i costi per i paesi occupanti a quelli della prima campagna destinata ad annichilire la resistenza locale ed instaurare il governo amico, il che è molto più economico che incorrere in costi continui per anni, compreso quello di una opinione pubblica che di solito finisce per essere contraria, soprattutto quando si organizza una resistenza nel paese occupato che comporta vittime umane per l’occupante che si accumulano (e senza contare gli arruolamenti forzati).

L’esternalizzazione ha funzionato molto bene per tutto il XX secolo, permettendo di dissimulare il motivo della nostra ricchezza. Quando diciamo che l’EROEI del petrolio è di 20, di solito non teniamo conto del fatto che l’alto valore energetico per noi è il frutto del fatto che in origine è sicuramente maggiore (30 o più), ma che lì non si estrae ma viene importato ad un prezzo monetario che non corrisponde al guadagno energetico che ci porta. Tuttavia, col crollo naturale, per ragioni fisiche e geologiche, dell’EROEI dei giacimenti di materie prime energetiche, le aziende occidentali si ritrovano in una situazione compromessa: per mantenere l’alto rendimento energetico delle sue fonti per l’occidente devono ridurre il beneficio netto per la popolazione locale. Nascono così abusi ambientali e di diritti come quelli del delta del Niger o delle sabbie bituminose del Canada, arrivando persino a guerre con alcuni produttori importanti per garantire che il flusso di petrolio a buon mercato continui ad arrivare. Il problema è che la guerra è un metodo pessimo per combattere con la geologia. Un esempio paradigmatico lo troviamo in Libia. Pensate a come si è evoluta la produzione di petrolio in quel paese negli ultimi anni:

Si possono dare molte interpretazioni a quello che è successo in Libia, ma il grafico sopra ci mostra alcuni dati curiosi. Per esempio, che apparentemente è arrivata al proprio picco del petrolio nel gennaio del 2009 e che negli anni successivi, nonostante i prezzi del petrolio alti e i suoi sforzi, la Libia non è riuscita a recuperare i quasi 1,8 milioni di barili al giorno di allora. Nel gennaio 2011 comincia l’offensiva che praticamente ferma la produzione del paese e, una volta “liberato”, si riprendono livelli leggermente inferiori a quelli del 2011 per poco più di un anno, per poi crollare e vivere di continui alti e bassi. La situazione della Libia è talmente instabile che le diverse fazioni lottano fra loro, deteriorando il flusso della sua principale fonte di introiti e, senza un esercito occupante potente che imponga la propria legge, la situazione non si stabilizzerà. Ma i paesi occidentali si sono specializzati in eserciti di azione rapida e fulminante, che causano un grande danno iniziale con poco rischio per le proprie truppe, e non in occupazioni a lungo termine. Per questo le occupazioni a lungo termine, come quella dell’Afghanistan, sono tanto disastrose, perché hanno bisogno di un approccio militare diverso che implica un costo più alto che, semplicemente, non si vuole e non si può pagare. Pertanto, l’EROEI delle moderne guerre di conquista sta diminuendo in perfetto parallelo con l’EROEI delle fonti energetiche che si vogliono controllare. Per questa ragione, imbarcarsi in guerre in paesi che hanno già superato il loro picco del petrolio non è solo eticamente disprezzabile, è anche economicamente ed energeticamente rovinoso. Per questo invadere l’Iran non è solo un errore perché è un paese densamente popolato, con un’orografia che rende difficile le azioni militari sul terreno e una popolazione ed un esercito fortemente consapevoli, è che il premio per ciò per cui si lotta è un petrolio di qualità sempre peggiore, più pesante, di minore EROEI e, soprattutto, la produzione di petrolio dell’Iran è in declino.

Si potrebbero applicare ragionamenti simili, per esempio, al Venezuela e ad altri paesi che a loro volta sono nel mirino di alcune grandi potenze.

Le guerre di conquista hanno alcune analogie con le società agricole: si vuol ottenere il controllo permanente di una risorsa, anche modificando l’ambiente per migliorarne il rendimento. Il problema delle guerre di conquista attuali è che le risorse desiderate non sono rinnovabili, pertanto il rendimento è obbligato a cadere, fino a rendere questo tipo di guerra un pozzo, anziché una sorgente, di risorse.

Guerre per l’egemonia: questo tipo di guerra è quello proprio di un impero o, con una terminologia più moderna, di una superpotenza. L’obbiettivo della guerra per l’egemonia è mantenere lo status quo della metropoli. Queste guerre non hanno generalmente l’obbiettivo di ottenere il controllo di una risorsa, ma di mantenere un controllo che si ha già e a volte non si fa neanche contro il paese che ha le risorse, ma contro uno dei paesi satellite, a loro volta controllati, che danno sostegno logistico alle operazioni. Questo tipo di guerra è sempre un pozzo di risorse. Esempi di questo è il tipo di guerra che ha vissuto l’Afghanistan, sia con l’Unione Sovietica prima sia con gli Stati Uniti poi. Anche qui la tendenza è all’esternalizzazione: sono le guerre in prestito o guerre proxy, guerre fatte da manovalanza appoggiata dalle superpotenze che si disputano l’egemonia sul territorio. Un esempio di questo tipo è la guerra civile che sta avvenendo in Ucraina, col controllo del flusso di gas naturale russo all’Europa sullo sfondo.

Le guerre per l’egemonia, come abbiamo detto, hanno per definizione un EROEI minore di 1 (cioè, che si guadagna meno di quello che si consuma), quando non direttamente uguale a 0 (non si guadagna niente), perché l’obbiettivo molte volte non è tanto guadagnare ma non perdere. Nella misura in cui una superpotenza è più globale e controlla più territori, deve combattere, direttamente o indirettamente, sempre più guerre per mantenere quello che ha già. Essenzialmente sono guerre completamente territoriali, tipiche del maschio alfa, che hanno senso solo quando altri territori provvedono alle risorse necessarie per mantenerle. Sono anche, per il loro EROEI basso, il principale pozzo di risorse di molti imperi, siccome di solito sono ricorrenti nelle fasi di decadenza degli imperi, di solito sono anche la causa della loro perdizione.

Anche se queste guerre sono tipiche degli imperi, nella misura in cui questi si decompongono emergono paesi che si contendono lo spazio ora vacante, anche aspirando a diventare un impero che sostituisce un altro impero. Ma siccome a quel punto sono molti i paesi che si contendono quel luogo, su scala sempre più regionale, queste guerre sono sempre più complicate e in realtà non si possono mai vincere in modo definitivo. Servono semplicemente a dissipare risorse più rapidamente, in un processo frattale che ricorda la dissipazione di energia in un fluido turbolento. Un politico con una visione strategica potrebbe comprendere, a seconda della fase del declino nella quale si trova il suo paese, quali guerre non gli interessa scatenare e quali sono vitali per trattenere la parte salvabile fino fino a quel momento del suo potere. Tuttavia, questo tipo di capo di solito è raro, per cui pochissimi paesi riescono a prosperare a spese degli altri, semplicemente mantenendosi ai margini e senza richiamare l’attenzione né risvegliare l’avidità dei nuovi contendenti.

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Come vedete, a lungo termine non tornano i conti per nessun tipo di guerra e in realtà la più redditizia è la più banale: il saccheggio. Se la nostra società deve fare affidamento sulla guerra come modo di mantenere la propria sopravvivenza (anche se cinicamente negheremo di accettare che è per questo che si fanno le guerre, le nostre guerre), allora sicuramente non vale la pena che il nostro modello sociale sopravviva. Pensa a questo, caro lettore, quando i tamburi della guerra cominciano a rullare, gioiosi, vicino a casa tua.

Saluti.
AMT

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Come ridurre le dimensioni dell’economia senza distruggerla: un piano in dieci punti

Da “15/15/15”. Traduzione di MR (via Antonio Turiel)

Di Richard Heinberg

L’economia umana attualmente è troppo grande per essere sostenibile. Lo sappiamo perché il Global Footprint Network, che metodicamente monitorizza i dati, ci informa che l’umanità attualmente sta usando risorse equivalenti ad una Terra e mezzo. Possiamo usare temporaneamente le risorse più rapidamente di quanto la Terra le rigeneri unicamente prendendole in prestito alla produttività futura del pianeta, lasciando di meno per i nostri discendenti. Ma non possiamo farlomolto a lungo. In un modo o nell’altro, l’economia (e qui stiamo parlando principalmente delle economie dei paesi industrializzati) deve ridursi fino a combaciare con ciò che la Terra può provvedere a lungo termine. Dire “in un modo o nell’altro” implica che questo processo può avvenire tanto in forma volontaria come involontaria. Vale a dire, se non restringiamo l’economia deliberatamente, si contrarrà da sola una volta raggiunti i limiti non negoziabili.

Come ho spiegato nel mio libro La fine della crescita, ci sono ragioni per pensare che quei limiti stanno iniziando a condizionarci. Di sicuro, la maggioranza delle economie industriali stanno frenando o trovando difficoltà a crescere ai ritmi che erano comuni durante la seconda metà del secolo scorso. L’economia moderna è stata concepita per richiedere crescita, così che la contrazione causa fallimenti e licenziamenti. La semplice mancanza di crescita viene percepita come un grave problema che richiede l’applicazione immediata di incentivi economici. Se non si fa niente per invertire la crescita o adattarsi in anticipo all’inevitabile stagnazione e contrazione dell’economia, il risultato più prevedibile sarà un processo intermittente, prolungato e caotico di collasso che si prolungherà per molti decenni o forse per secoli, con innumerevoli vittime umane e non umane. Questa può essere, di fatto, la nostra traiettoria più probabile. E’ possibile, almeno in linea di principio, gestire il processo di contrazione economica in modo da evitare il collasso caotico? Un piano simile dovrebbeaffrontareostacoliimpressionanti. Le imprese, i lavoratori e il governo, tutti richiedono più crescita col fine di aumentare gli introiti fiscali, creare più posti di lavoro e fornire ritorni agli investimenti. Non c’è nessun settore significativo dell’elettorato che difenda un processo di decrescita deliberata e guidata politicamente, mentre esistono interessi potenti che cercano di mantenere la crescita e negare l’evidenza del fatto che l’espansione non è già più fattibile. Tuttavia, una contrazione gestita dovrebbe, al di fuori praticamente da tutto il debito, offrire migliori risultati – per tutti, comprese le élite – di un collasso caotico. Se esiste un percorso teorico che conduce ad un’economia considerevolmente più piccola e che non attraversi l’orribile deserto del conflitto, del degrado e della dissoluzione, dovremmo cercare di identificarlo. L’umile piano in dieci punti che segue è un tentativo di fare una cosa del genere.

1.- Energia: limitarla, ridurla e razionarla

L’energia è ciò che fa funzionare l’economia e l’aumento del consumo di energia è ciò che la fa crescere. Gli scienziati del clima raccomandano di limitare e ridurre le emissioni di carbonio per evitare un disastro planetario e tagliare le emissioni di carbonio comporta inevitabilmente la riduzione dell’energia proveniente dai combustibili fossili. Tuttavia, se il nostro obbiettivo è ridurre la dimensione dell’economia, dovremmo contenere non solo l’energia fossile, ma tutto il consumo energetico. Il modo più giusto di farlo sarebbe, probabilmente, con quote di energia negoziabili (TEQs).

2.- Che siarinnovabile

Come riduciamo il totale della produzione e del consumo di energia, dobbiamo ridurre rapidamente la percentuale della nostra energia di origine fossile mentre incrementiamo la percentuale di origine rinnovabile col fine di evitare il cambiamento climatico catastrofico – che, se si permette che segua il suo attuale corso, porterà di per sé come risultato un collasso economico caotico. Tuttavia, questo è un processo complicato. Non basterà scollegare semplicemente la spina di centrali termiche a carbone, collegare pannelli solari e continuare nei nostri affari come sempre: abbiamo costruito la nostra immensa infrastruttura industriale moderna di città, quartieri residenziali, autostrade, aeroporti e fabbriche perché sfruttassero delle caratteristiche e delle qualità uniche dei combustibili fossili. Pertanto, mentre transitiamo verso fonti di energia alternative, dovremo adattare – in modo che sarà spesso profondo – il modo in cui usiamo l’energia. Per esempio, il nostro sistema alimentare – che attualmente è in grandissima parte dipendente dai combustibili fossili per il trasporto, i fertilizzanti, i pesticidi e gli erbicidi – dovrà tornare ad essere molto più locale. In modoideale, sidovrebbetransitare verso un’agricolturaecologica a base perennepensata a lungo termine

3.- Recuperare il bene comune

Come ha segnalato Karl Polanyi negli anni 40, è stata la mercificazione della terra, del lavoro e dei soldi che ha dato impulso alla “grande trasformazione” che ha condotto all’economia di mercato che conosciamo oggi. Senza crescita economica continua, l’economia di mercato probabilmente non può funzionare molto a lungo. Ciò suggerisce che dovremmo dirigere il processo di trasformazione in senso contrario, mediante la de-mercificazione della terra, del lavoro e dei soldi. La de-mercificazione si traduce nella pratica in una riduzione dell’uso dei soldi come mediatori nei rapporti umani. Possiamo de-mercificare il lavoro aiutando le persone a seguire attitudini e vocazioni, al posto di cercare lavoro (“la schiavitù degli acquisti a rate”) e promuovendo il fatto che le imprese siano di proprietà dei propri lavoratori. Come ha detto l’economista Henry George più di un secolo fa, la terra – che non è creata per il lavoro delle persone – dev’essere proprietà della comunità, non di individui o impresa. E deve essere garantito l’accesso alla stessa con attenzione alla necessità e al desiderio di usarla nell’interesse della comunità.

4.- Liberarsideldebito

De-mercificare i soldi significa lasciare che torni alla sua funzione come mezzo inerte di scambio e riserva di valore e ridurre o eliminare le aspettative secondo cui i soldi debbano produrre altri soldi di per sé. Trasformare l’investimento in un processo che, con la mediazione della comunità, diriga il capitale verso progetti di indiscutibile beneficio collettivo. Il primo passo: cancellare il debito esistente. In seguito, proibire i derivati finanziari e gravare e regolamentare rigidamente la compravendita di strumenti finanziari di qualsiasi tipo.

5.- Ripensareisoldi

Praticamente tutte le monete nazionali oggigiorno iniziano la loro esistenza come debito (di solito come prestiti da parte delle banche). I sistemi monetari basati sul debito presuppongono sia la necessità crescente dello stesso sia la capacità quasi universale di pagarlo con gli interessi, supposizioni queste relativamente certe in economie stabili e in espansione. Ma i soldi basati sul debito probabilmente non funzioneranno in un’economia in continua contrazione: mentre diminuisce il totale del debito pendente e aumenta il numero di insolvenze, diminuiscono anche le riserve di soldi, conducendo ad un collasso deflazionistico. Negli ultimi anni il panico di evitare questo tipo di collasso ha portato le banche centrali di Stati Uniti, Giappone, Cina e Regno Unito ad iniettare miliardi di dollari, yen, yuan, e sterline nelle loro rispettive economie nazionali. Tali misure estreme non possono essere mantenute all’infinito, né si può ricorrere ad esse in continuazione. Nazioni e comunità dovrebbero prepararsi sviluppando un ecosistema di monete che compiano funzioni supplementari, come raccomandano i teorici delle monete alternative come Thomas Greco e Michael Linton.

6.- Promuovere l’uguaglianza

In un’economia in contrazione, la disuguaglianza estrema è una bomba ad orologeria sociale la cui esplosione spesso assume la forma di ribellioni e rivolte. Ridurre la disuguaglianza economica richiede due linee d’azione concomitanti: primo, ridurre il surplus di coloro che hanno di più tassando la ricchezza ed istituendo un limite massimo ai redditi. Secondo, favorire l’insieme di coloro che hanno meno facilitando il fatto che le persone possano andare avanti con un uso minimo di soldi (impedire gli sfratti, sussidiare gli alimenti e facilitare il fatto che le persone li coltivino). L’esaltazione culturale generalizzata delle virtù della semplicità materiale può contribuire in questo sforzo (il contrario della maggior parte dei messaggi pubblicitari attuali).

7.- Ridurre la popolazione

Se l’economia si riduce ma la popolazione continua ad aumentare, ci sarà una torta più piccola da spartirsi fra più gente. D’altra parte, la contrazione economica implicherà meno penurie se la popolazione smette di crescere e comincia a diminuire. La crescita della popolazione porta al sovraffollamento e alla iper-competizione in ogni caso. Come ottenere la diminuzione della popolazione senza violare i diritti umani fondamentali? Promulgando politiche non coercitive che promuovano le famiglie piccole e la non riproduzione; impiegando per quanto possibile incentivi sociali al posto di quelli monetari.

8.- Ri-localizzare

Uno degli ostacoli della transizione alle energie rinnovabili è che i combustibili liquidi sono difficili da sostituire. Il petrolio alimenta attualmente quasi tutto il trasporto ed è molto poco probabile che i combustibili alternativi possano rendere possibile un qualcosa di simile agli attuali livelli di mobilità (gli aerei passeggeri e cargo elettrici sono un fallimento; la produzione massiccia di biocombustibili è pura fantasia). Ciò significa che le comunità otterranno meno forniture provenienti da luoghi lontani. Certo, il commercio continuerà in un modo o nell’altro: anche i cacciatori-raccoglitori commerciano. La rilocalizzazione invertirà semplicemente la recente tendenza al commercio mondializzato fino al punto che la maggior parte dei beni di prima necessità torneranno ad essere prodotti nelle vicinanze, di modo che noi – come i nostri antenati di un solo secolo fa [negli Stati Uniti, perché per altre zone industrializzate e conquistate dalla società dei consumi più di recente la cosa è molto più vicina nel tempo, nota del traduttore spagnolo] – ci ritroviamo di nuovo a conoscere le persone che fanno le nostre scarpe e coltivano il nostro cibo.

9. Ri-ruralizzare

L’espansione delle città è stata la tendenza demografica dominante del XX secolo, ma non è sostenibile. Di fatto, senza trasporti a buon mercato ed energia abbondante, le mega città funzioneranno sempre peggio. Allo stesso tempo, ci servono molti più agricoltori. Soluzione: dedicare più risorse sociali alle piccole città e villaggi, mettendo la terra a disposizione dei giovani agricoltori  e lavorare per rivitalizzare la cultura rurale.

10. Promuovere la ricerca di fonti di felicità interiori e sociali

Il consumismo è stata una soluzione al problema della sovrapproduzione. Portava con sé la modifica della psiche umana per farci diventare più individualisti e per richiedere sempre più stimoli materiali. Oltre un certo punto questo non ci rende più felici (esattamente l’opposto, di fatto) e non può continuare ancora per molto. Nella misura in cui svanisce la capacità dell’economia di produrre e fornire quei prodotti, si devono spingere le persone a godere di ricompense più tradizionali ed intrinsecamente soddisfacenti, comprese la contemplazione filosofica e la valorizzazione della natura. Musica, danza, arte, oratoria, poesia, sport partecipativi e teatro sono attività che si possono realizzare localmente e offrire in festival stagionali: un divertimento per tutta la famiglia!

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Senza dubbio, si possono aggiungere altre raccomandazioni, ma dieci è un belo numero rotondo. Sicuramente molti lettori si chiederanno: questo non significa semplicemente far fare marcia indietro al “progresso”? Sì, negli ultimi secoli ci siamo legati all’idea di progresso e siamo arrivati a definire il progresso quasi interamente in termini di innovazione tecnologica e crescita economica, due tendenze che stanno giungendo ad una strada senza uscita. Se vogliamo evitare la sofferenza cognitiva di dover rinunciare alla nostra radicata infatuazione per il progresso, potremmo ridefinire questa parola in termini sociali o ecologici. In modo analogo, molta gente che considera che la società sia troppo attaccata alla ricerca della crescita economica per poterla convincere ad abbandonarla, difende la ridefinizione di “crescita” in termini di aumento della felicità umana e della sostenibilità sociale. Tali tentativi di ridefinizione hanno un’utilità limitata. Sicuramente l’atto di autolimitazione collettiva che implica le riduzione deliberata dell’economia segnerebbe un nuovo livello di maturità come specie, che prevedibilmente si rifletterebbe su tutta la nostra cultura. Socialmente e spiritualmente, questo sarebbe un passo avanti che potremmo pertanto descrivere come progresso o crescita. Ma è difficile monopolizzare la ridefinizione di termini come “progresso” o “crescita”: ci sono già forti interessi che lavorano alacremente per vincolare nuovi significati del secondo ad ingegnose interpretazioni di dati manipolati e con la manicure fatta a PIL, impiego e mercato dei valori.

Potrebbe essere più onesto far riferimento al programma abbozzato sopra come a un semplice ritorno alla sanità mentale. E’ anche la nostra migliore opportunità per conservare le più grandi conquiste scientifiche, culturali e tecnologiche della civiltà degli ultimi secoli, conquiste che potrebbero andare perdute completamente se la società collassa allo stesso modo in cui sono collassate le civiltà passate. Le raccomandazioni precedenti implicano la capacità e la volontà delle élite di far virare la barca di 180°. Ma tantouna come l’altrasonodiscutibili. Il nostro attuale sistema politico sembra progettato per impedire l’autolimitazione collettiva e anche per resistere ai tentativi seri di riforma. La misura più chiara della probabilità che il mio piano in dieci punti venga messo in pratica non la dà un semplice esercizio mentale: cercate di far il nome di un solo personaggio di rilievo della politica, della finanza o dell’industria che potrebbe proporre o raccomandare anche solo una piccola parte dello stesso. Eppure, qui c’è una profonda ironia. Anche se la decrescita non è appoggiata delle élite, molti, se non la maggioranza degli elementi del piano esposto hanno un sostegno molto ampio, reale o potenziale fra la popolazione in generale. Quanta gente non preferirebbe la vita in una comunità piccola e stabile all’esistenza in una mega città sovrappopolata e iper-competitiva; un mestiere ad un impiego; una vita libera dai debiti alle catene di pesanti obblighi finanziari? Può darsi che articolando questo piano e i suoi obbiettivi ed esplorando le implicazioni più dettagliatamente, possiamo aiutare fare in modo che i gruppi che potrebbero appoggiarlo si uniscano e crescano.

Discorso tenuto alla Conferenza sul Tecno-Utopismo e il destino della Terra, organizzato dal Forum Internazionale sulla Mondializzazione il 26 ottobre 2014 alla The Cooper Union, New York.

(Nota del traduttore. Ho cercato l’articolo originale in inglese, senza rendermi conto del link in fondo all’articolo spagnolo e stranamente non risultava nel mio file. La traduzione, quindi, potrebbe avere qualche sfumatura diversa, dovuto alla doppia traduzione, ma credo che il senso generale sia intatto)

Ascensore di Santa Justa, a Lisbona. COPYRIGHT: Ander Aguirre

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Rileggendo Spinoza.

Di Jacopo Simonetta

Una delle calamità che hanno colpito l’umanità, a mio avviso, è stato il divorzio fra scienza, filosofia e teologia.   Ognuna di queste branche del sapere, infatti, da sola si è come smarrita, con conseguenze spesso terribili, sia pure in maniera indiretta.
Senza volermi auto-nominare professore di filosofia, penso che possa quindi essere interessante andare a ripescare dalle nebbie del nostro passato liceale alcuni personaggi che hanno avuto un ruolo importante nel periodo in cui tale divorzio maturò.   Ovviamente, i primi nomi che vengono in mente sono Galilei, Bacone, Cartesio e gli altri “padri” della rivoluzione scientifica del XVII secolo.

Tuttavia, vorrei proporre qui alcune riflessioni “postpicco” sull’opera di Baruch de Spinoza (1632 – 1677).   Un tipico “cane sciolto” che non ha avuto l’influenza di altri pensatori, ma la cui filosofia presenta aspetti particolarmente interessanti alla luce delle più recenti scoperte scientifiche e della piega che hanno preso le vicende umane.

Il concetto a mio avviso centrale nel modello di Spinoza è quello di “Necessità”, a mio avviso mediato da Giordano Bruno e dall’Ananke platonica.    Nella sua concezione, la realtà e la divinità erano sinonimi; un’idea riassunta nel motto “Deus sive Natura” (Dio, o piuttosto Natura).   Il Dio di Spinoza è infatti l’insieme di tutto ciò che esiste, di tutte le relazioni che legano anche indirettamente ciò che esiste e le imprescindibili leggi che governano il divenire della natura.   Leggi che sono strutturate con l’assoluta precisione e determinatezza della geometria.   Tradotto in termini contemporanei: Dio è sinonimo di Realtà: cioè materia, energia, complessità e leggi fisiche (in senso lato).

La realtà è dunque perfetta.   Non nel senso stupido illustrato nel Candide da Voltaire (sempre molto abile nel deridere ciò che non capiva); bensì nel senso che ciò che accade è l’unica cosa che avrebbe potuto accadere.    Una realtà perfetta non è una realtà in cui va tutto bene, evidentemente, bensì una realtà che non potrebbe essere diversa da com’è.   Dunque ciò che accade è necessario che accada esattamente così come avviene.

Per fare un esempio di attualità, nella ristretta cerchia degli ambientalisti e dei “picchisti” è frequente lagnarsi del fatto che i punti essenziali circa lo sconvolgimento climatico ad opera delle emissioni antropogeniche erano già sufficientemente noti e sicuri agli inizi degli anni ’70.   Ci sarebbe quindi stato tutto il tempo per ridurre le emissioni ed evitare la tragedia che appare oggi inevitabile.
Ebbene, a mioavviso, no.

Di alterazione del clima, limiti dello sviluppo eccetera se ne parlava molto all’epoca, ma solo nel mondo occidentale.   In Unione Sovietica qualunque deroga al culto del progresso infinito del popolo era punito col carcere.   Di conseguenza, solo in occidente, teoricamente, si sarebbero potuti prendere dei provvedimenti efficaci.   Provvedimenti che avrebbero certamente giovato al Pianeta, ma che avrebbero fatto pendere la bilancia geo-politica a favore dell’URSS, con conseguenze facili da immaginare.   Di conseguenza, quand’anche fosse stato possibile soperchiare le enormi resistenze di imprenditori e consumatori, non era possibile che i governi occidentali optassero per una politica che avrebbe si ridotto i rischi climatici a lungo termine, ma a costo di aumentare quelli bellici e politici immediati.

Una seconda finestra di possibilità si poteva aprire negli anni ’90, quando gli USA erano in grado di imporre la propria volontà praticamente al mondo intero.   Ma avrebbero potuto, gli americani collettivamente, optare per uno stile di vita monastico e, contemporaneamente, impegnarsi per impedire qualunque sviluppo industriale fuori dai confini propri o dei satelliti più fidati?   Una simile politica avrebbe scontentato contemporaneamente destra e sinistra, finanzieri e missionari, ricchi e poveri, altruisti ed egoisti.    Per non parlare del fatto che, con ogni probabilità, una simile politica avrebbe ridotto il potere degli USA sul mondo, vanificando lo sforzo.
Spinoza avrebbe detto che se non è accaduto, non c’era la possibilità che accadesse.

Sulla base della Necessità, Spinoza giunge ad una serie di conclusioni particolarmente interessanti per noi.   Per lui non ha infatti senso attribuire alcun primato all’uomo sul resto della Natura, dal momento che noi siamo una parte di essa e siamo quindi soggetti esattamente alle stesse leggi che governano gli altri esseri viventi.   E’ assurdo cercare una finalità nel divenire della storia, dal momento che ciò che accade è semplicemente un’inevitabile evoluzione del passato.   E’ futile cercare di distinguere le cause dagli effetti, giacché gli effetti sono a loro volta cause, e così via all’infinito.    E’ sciocco pensare che le cose avrebbero potuto andare diversamente da come stanno andando e non ha neppure senso attribuire alla Sacre Scritture un valore altro da quello di indurre gli uomini a rispettare delle norme di civile coabitazione e buon comportamento.

A questo proposito, vorrei per inciso ricordare che Spinoza scrisse subito dopo la Guerra dei Trent’anni: il periodo più nero delle persecuzioni religiose e della caccia alle streghe.   Probabilmente non fu bruciato e se la cavò con una maledizione perché era un marrano nato in Olanda; ma ad ogni buon conto pubblicò anonime le sue opere principali.

Comunque, lo scoglio su cui lo spinozismo si incagliò fu proprio questo determinismo assoluto che eliminava qualunque spazio di scelta e qualunque margine di incertezza.   Un problema fondamentale che si sforzò di risolvere trattando della libertà umana, senza però giungere a conclusioni molto convincenti, se non per il fatto che lo Stato aveva il dovere di assicurare libertà di pensiero e di parola ai cittadini.

Mi diverte immaginare la felicità che avrebbero dato a Spinoza concetti attuali come le strutture dissipative, i sistemi a retroazione ed i principi della termodinamica.   Ma forse il punto su cui la scienza contemporanea potrebbe meglio incontrarsi con lo spinozismo è proprio quello di una possibile conciliazione fra l’assoluto determinismo delle leggi naturali (nientedimeno che Dio, secondo Spinoza) e l’irriducibile indeterminatezza della realtà (anche’essa Dio, non dimentichiamolo).

L’apparente paradosso scompare, infatti, non appena si cessa di pensare in termini geometrici e si inizia a pensare in termini di dinamica dei sistemi complessi.   Una cosa che lui non poteva fare, ma noi si.

Forse la maggiore scoperta del XX secolo è stata infatti quella dei sistemi caotici: sistemi cioè regolati da una serie di leggi, ognuna delle quali strettamente deterministica, ma il cui effetto complessivo è, viceversa, imprevedibile ed incontrollabile.   Perfino quando si tratta di sistemi interamente teorici in cui si ha quindi una conoscenza perfetta di tutte le variabili in gioco.

Questi sistemi sono fondamentali  in Natura (il clima è forse il più noto fra i sistemi caotici) ed hanno molte caratteristiche peculiari.    La prima è che il livello di indeterminatezza dipende dal livello di complessità del sistema (numero di variabili e di relazioni in gioco) e dalla velocità con cui avvengono i fenomeni (ad es. il passaggio da un flusso lineare ad un flusso turbolento).   Un’altra peculiarità è che una variazione minima in un determinato punto spazio-temporale può modificare l’evoluzione del sistema in modo crescente, portando a conseguenze enormi in un altro punto spazio-temporale.    E’ il famoso paradosso della farfalla che può scatenare un uragano, ma anche no.

In altre parole, oggi sappiamo che Spinoza aveva ragione:  la Natura è perfetta e tutto ciò che accade è determinato da leggi inviolabili come funzioni matematiche, ma ciò non impedisce agli esseri viventi di scegliere fra una gamma variabile di possibilità, con conseguenze imprevedibili.   Applicato alle civiltà umane, il concetto si può riassumere nei seguenti termini: ogni civiltà è destinata certamente a dissolversi, ma i modi ed i tempi con cui un tale fato si compie sono tanti quanti le civiltà stesse.

Ma non solo.   All’interno di una civiltà in collasso, niente impedisce che singoli individui o gruppi trovino il modo di vivere bene, talvolta anche meglio di prima.   La storia degli imperi succedutisi in Cina è forse l’esempio più calzante che si possa fare a questo proposito.

Insomma, senza essere filosofo, credo che lo spinozismo potrebbe essere un buon punto di partenza per ricucire quello strappo fra scienza, filosofia e teologia cui accennavo in apertura.   Un lavoro considerevole che potrebbe allontanarci da quello “scientismo” che, nipote della rivoluzione scientifica del XVII secolo, è degenerato col tempo in una malattia mentale grave, per usare le parole di Konrad Lorenz.   La certezza che il progresso tecnologico possa risolvere ogni problema che affligge l’umanità è infatti diventata una vera e propria superstizione che ha non poca parte nel mantenerci nell’impasse in cui ci troviamo.   Ognuno ha la sua tecnologia del cuore.   Reale, come l’elettricità fotovoltaica, o presunta, come la fusione fredda, ma quasi tutti concordano che una o più invenzioni porteranno il benessere per tutti.

Indicatori evidenti di questa sorta di fede son ben evidenti in tutte le rubriche e le istituzioni dedicate a “scienza e tecnica”, in cui gli aspetti prettamente ingegneristici ed industriali fanno ampiamente aggio sulla cosiddetta “scienza di base”.   Per non parlare delle questioni filosofiche, scomparse o ridotte al lumicino.

La Teologia è oramai da tempo una specie di fossile conservato nei seminari.
Per citare un esempio importante di questa evoluzione, si pensi a Leonardo da Vinci che, in vita, fu rinomato come artista e, secondariamente, per le sue ricerche scientifiche.   I trabiccoli che disegnava sui suoi quaderni erano, viceversa, considerati con sufficienza, se non con sospetto, dai suoi mecenati.   Viceversa, se oggi visitiamo un sito internet od una mostra su Leonardo, nella quasi totalità dei casi l’enfasi è posta sulla sua genialità inventiva.   Secondariamente sul suo talento artistico, mentre le sue ricerche, ad esempio in fisica ed anatomia, le ricordano solo gli specialisti.

Una parabola in qualche modo analoga la hanno compiuta anche altri personaggi, magari più lontani dai libri di scuola, ma più vicini al cuore ed alla mente degli scolari.   Ad esempio Archimede Pitagorico, nato dalla matita di Barks con il nome assai meno impegnativo di Gyro Gearloose.   In origine, era un personaggio buffo e pasticcione, sempre intento ad aggeggiare marchingegni che non funzionano, o peggio.    Col tempo, è invece diventato uno scienziato, capace di risolvere qualunque problema con una geniale invenzione.   Se un fallimento talvolta sopravviene, è solo per l’avidità di Paperone, non per i limiti che la realtà pone all’ingegno.

Forse, l’evoluzione del pensiero occidentale ha sbagliato strada da qualche parte lungo la parabola che ci ha condotti da Spinoza ad Archimede Pitagorico.


Ringraziamenti:  per questo post devo ringraziare Luca Pardi che non ha alcuna responsabilità sulle eventuali sciocchezze che vi si possono trovare, ma che mi ha dato ottimi suggerimenti su come affrontare la questione senza cadere nelle mie solite geremiadi.

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In che modo gli scienziati affrontano il timore per la propria esistenza?

Da “slate.com”. Traduzione di MR (via Ugo Bardi)

In che modo gli scienziati affrontano il timore per la propria esistenza? 

Di Eric Holthaus

Uomini che dormono sul pavimento durante un’ondata di calore in una moschea presso la sede del Jinnah Postgraduate Medical Centre (JPMC) a Karachi, in Pakistan, il 28 giugno 2015. 

C’è stata una ressa di notizie distopiche sul cambiamento climatico durante la scorsa settimana, più o meno. Una raffica di venti occidentali fuori scala nell’Oceano Pacifico sta bloccando uno degli El Niño più forti mai registrati, garantendo virtualmente che il 2015 sarà l’anno più caldo mai registrato nella storia umana. Il sistema meteorologico ha generato una rara tripletta di tifoni in Cina.
Temperature record sono state stabilite in Spagna, Francia, Regno Unito e Germania in una ondata di calore soffocante. Incendi diffusi in Alaska stanno bruciando il permafrost e il fumo persistente degli enormi incendi canadesi hanno portato a Minneapolis l’aria peggiore del decennio. Nel nordest del Pacifico, sotto una siccità in intensificazione, persino la foresta pluviale è in fiamme. Se il cambiamento climatico è già così, il futuro è praticamente fottuto, giusto? Be’, forse. Nonostante alcuni momenti memorabili di intenso realismo sulla scena mondiale, i capi del mondo non hanno fatto essenzialmente niente. Il timore per la propria esistenza è piuttosto comune fra coloro che lavorano sul cambiamento climatico quotidianamente. Questo è l’argomento esaminato questa settimana da John H. Richardson su Esquire in una discussione affascinante e franca con Jason Box ed altri scienziati del clima. Ho avuto anch’io le mie fasi di disperazione da cambiamento climatico e questo articolo mi colpisce come affascinante excursus nella psicologia di una scienza sempre più apocalittica. Dovreste leggerlo per intero, ma eccovi alcune perle. Richardson descrive Box come “stranamente distaccato dalle cose che dice, esponendo previsioni orribili una dopo l’altra senza emozione, come se fosse un antropologo che che osserva il ciclo di vita di una civiltà lontana”.

Ma ciò non significa che Box sia insensibile. In una didascalia di una foto, Richardson rivela il fatto sottolineando il malessere sempre presente di Box: “Il ruolo scientifico consueto è quello di avere a che fare spassionatamente coi dati, ma Box dice che ‘la merda che sta scendendo sta mettendo alla prova la mia capacità di bloccarli’”. Di fronte a tutto ciò, Box e la sua famiglia si sono trasferiti dagli Stati Uniti alla Danimarca. Richardson spiega la loro decisione:

La loro figlia ha tre anni e mezzo e la Danimarca è un bel posto in cui stare in un mondo incerto – c’è moltissima acqua, un sistema agricolo high-tech, una crescente adozione dell’energia eolica e molta distanza geografica dagli sconvolgimenti in arrivo. “Specialmente se si considera l’inizio della fiumana di persone disperate in fuga da conflitti e siccità”, dice, ritornando alla sua ossessione di quanto sarà profondamente cambiata la nostra civiltà. 

Infatti, Box spesso pensa ai profondi cambiamenti planetari che sono già in corso:

Il suo stato di origine, il Colorado, non se la passa tanto bene a sua volta. “Le foreste stanno morendo e non torneranno. Gli alberi non torneranno a un clima che si riscalda. Vedremo sempre più mega incendi, sarà questa la cosa nuova – mega incendi finché quelle foreste non saranno distrutte”. 

Ma il vero successo del pezzo di Richardson è il mondo in cui descrive la lotta interna con cui si confronta Box quotidianamente.

“Ma io – io – io non lascio che mi entri dentro. Se spendo la mia energia nella disperazione non penserò alle opportunità per minimizzare il problema”. La sua insistenza su questo punto è molto poco convincente, specialmente data la solennità che lo avvolge come un cappotto nero. Ma la parte più interessante è l’insistenza in sé – il bisogno disperato di non essere sconvolto da una cosa così sconvolgente. 

In un momento di candore che non avevo mai visto prima, Box ha rivelato a Richardson che si sta già preparando al peggio:

“In Danimarca”, dice Box, “abbiamo la resilienza, quindi non sono così preoccupato per il sostentamento di mia figlia andando avanti. Ma ciò non mi ferma dall’elaborare strategie per salvaguardare il suo futuro – ho guardato una proprietà in Groenlandia. Come possibile scenario difuga”. 

Nonostante ciò che dice l’articolo di Esquire, Box, il cui lavoro ho già precedentemente visitato su Slate, è un po’ anomalo fra gli scienziati del clima. La maggior parte di loro non è così disponibile a parlare della plausibilità di scenari da incubo. Eppure, la sua franchezza sul cambiamento climatico è benvenuta. Alla fine, ciò che stanno cercando gli scienziati è la verità, anche se quella verità è devastante a livello personale. Per questa ragione, essere uno scienziato del clima probabilmente è uno dei mestieri più psicologicamente impegnativi del XXI secolo. Come chiede l’articolo di Esquire, come fai ad andare avanti se la fine della civiltà umana è il tuo lavoro quotidiano? Ho raggiunto alcuni scienziati del clima famosi, per avere le loro reazioni all’articolo. Michael Mann, un meteorologo dell’Università di Stato della Pennsylvania che Richardson cita, mi ha detto: “Enfatizzerei il fatto che non è troppo tardi per agire, nonostante la sensazione che si potrebbe avere dall’articolo. Il nostro solo ostacolo al momento è la forza di volontà”. Quando gli ho chiesto quanti scienziati del clima lottano col terrore psicologico dei loro studi, Mann ha detto: “Onestamente non conosco quanti dei miei colleghi riflettano su questo argomento. Ma chi non lo fa dovrebbe. Ciò che stiamo studiando ed imparando è più di semplice scienza”.

“Ha ramificazioni nel futuro dell’umanità e in questo pianeta”. La risposta di gran lunga più avvincente è stata quella di Katharine Hayhoe, una stella nascente della comunità della scienza del clima dopo che il suo lavoro per coinvolgere i cristiani evangelici al problema è stato descritto in un documentario da prima serata  lo scorso anno. Il Time l’ha definita una delle 100 persone più influenti sul pianeta nel 2014. La Hayhoe ora vive in Texas, esattamente a causa della sua vulnerabilità climatica. La Haynoe ha detto che la “stridente opposizione politica del Texas alla realtà” la rende “la ground zero del cambiamento climatico”, che il suo lavoro abbraccia. “Se personalmente posso fare una differenza, sento che il Texas è dove la posso fare”. Ma è pronta ad applaudire il lavoro di Box e non critica la decisione della sua famiglia di trasferirsi. Nei recessi della sua mente, la Haynoe ha detto che ha anche tenuto conto della mancanza di progressi dell’umanità nei progetti per il futuro della sua famiglia. Come Box e la sua famiglia, la Haynoe ha a sua volta uno scenario di fuga: “Se continuiamo nel nostro attuale percorso, il Canada sarà la nostra casa, a lungo termine. Ma la maggior parte delle persone nel mondo non ha una strategia di emergenza… Quindi ecco chi sto cercando di aiutare qui”.

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