Effetto Cassandra

Deez Nuts: ma come si fa a credere che il riscaldamento globale sia tutta colpa del CO2?

Ragazzi, questa ve la devo raccontare perché è decisamente troppo bella (per così dire. Diciamo che è di una bellezza un po’ mostruosa).

Allora, l’altro giorno esce un post di Dana Nuccitelli sul blog “Effetto Risorse” dove si fa vedere che l’effetto del sole sul cambiamento climatico terrestre è molto debole rispetto a quello dei gas serra, tipo il CO2. Come prevedibile, questo ha generato diversi commenti indispettiti da parte di quelli che continuano a credere che i gas serra non possono essere gas serra perché l’idea che lo siano gli da fastidio. Di questi ameni commenti, quasi tutti anonimi, uno è particolarmente ameno (sempre per così dire). Eccolo qua:

Perfetto, siamo a posto…il sole non è il motore delle temperature del pianeta bensi sono 400 parti di CO2 per milione di parti di aria a scatenare la catastrofe….ma, volevo sapere, durante la stagione fredda (si può dire fredda? non vorrei offendere nessuno!) dove va a svernare l’anidride? Deve essere un posto bellissimo perchè per tutto l’inverno non la si trova ed infatti da noi fa tanto freddo solo per questo motivo…non potrebbe magari rendersi utile attraverso un po di telelavoro?

Ci vuole un attimo per assaporare la bestialità quasi sublime di questo commento. Non ci credereste, ma questo qui veramente sostiene che l’arrivo della “stagione fredda” implica la domanda “dove va a svernare l’anidride?” (intesa, immagino, come carbonica).

Non so quale perversa involuzione cefalica abbia portato l’anonimo commentatore a questa affermazione, ma si potrebbe pensare che non si rende conto che, se nell’emisfero Nord fa più freddo, allo stesso tempo nell’emisfero sud fa più caldo, per cui la temperatura media rimane più o meno la stessa e non c’è nessun bisogno di immaginarsi che la concentrazione di CO2 nell’atmosfera dovrebbe cambiare. (Sono possibili altre interpretazioni di questo commento, alcune anche implicanti una bestialità ancora maggiore).

Era tale la fesseriaggine del commento che mi sono limitato a rispondere che era “da incorniciare.” Al che l’anonimo mi ha risposto tutto inviperito con un commento offensivo (non passato, in accordo con le regole di questo blog). In questo secondo commento mi accusa “di non possedere nozioni di dinamica atmosferica, fisica solare e di base, astronomia.” No, dico…. giuro…..  Ha scritto proprio così! Ovvero, si prende veramente sul serio!

Insomma, credo che un esempio migliore di effetto Dunning Kruger sia difficile da trovare. Per quelli di voi che non sanno che cos’è, si spiega in due parole dicendo che gli incompetenti non si rendono conto di esserlo. C’è un corollario che dice che più sono incompetenti, meno se ne rendono conto e anche questo direi che è ben spiegato da questo commento.

 Ma forse non vale la pena scomodare Dunning e Kruger per qualcosa che si descrive meglio con questo filmatino che è andato molto di moda ultimamente negli USA, “Deez Nuts” (“so’ fesserie”)

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La crisi del picco del petrolio: un buco da 4 trilioni di dollari

Da “Post Carbon Institute”. Traduzione di MR (via (Maurizio Tron)

La scorsa settimana i giornalisti del Wall Street Journal si sono messi giù ed hanno fatto un po’ di conti. Hanno guardato a quando veniva venduto il petrolio nella primavera del 2014 (oltre 100 dollari al barile), a quanto viene venduto oggi (sotto i 50 dollari) ed hanno concluso che se i prezzi rimangono bassi nei prossimi tre anni, all’industria globale del petrolio e i paesi che finanzia mancheranno 4,4 trilioni di dollari in introiti. Man mano che queste società petrolifere, nazionalizzate e scambiate pubblicamente, produrranno circa la stessa quantità di petrolio nei prossimi anni, i 4 trilioni di dollari dovranno provenire principalmente da profitti e spese di capitale. Ed è qui che viene il problema per il futuro dell’offerta di petrolio. Le grandi società petrolifere, specialmente quelle che esportano gran parte della loro produzione, se la sono passata piuttosto bene negli anni scorsi. Le società petrolifere nazionali hanno realizzato grandi profitti per i loro padroni politici. Quelle scambiate pubblicamente hanno sviluppato una tradizione di pagare i buoni dividendi che detestano tagliare. Ciò fa si che siano principalmente le spese di capitale sull’esplorazione per la produzione di più petrolio nei prossimi anni a fare un tuffo come parte del colpo dei 4 trilioni introiti. Anche se i prezzi del petrolio di 50 dollari al barile o meno non continuassero per i prossimi tre anni, ciò comporta comunque um crollo degli introiti di 1,5 trilioni di dollari all’anno o circa tre volte le spese di capitale previste di circa 500 società petrolifere recentemente esaminate.

La IEA ha appena pubblicato una nuova previsione dicendo che mentre gli attuali prezzi del petrolio  fanno crescere rapidamente la domanda di prodotti petroliferi, c’è ancora così tanta sovrapproduzione che ci si attende che l’eccesso di petrolio duri un altro anno o più prima che il rapporto offerta/domanda torni in equilibrio. Il ritorno dell’Iran ad una produzione senza costrizioni non aiuterebbe le cose. Guardando i prossimi cinque anni ci sono diverse tendenze o grandi problemi che probabilmente condizioneranno l’offerta e la domanda di petrolio. Il primo è il recente collasso del prezzo che lo rende non più redditizio da dar inizio a nuovi progetti per produrre più petrolio, gran parte del quale ora proviene da alto mare, sabbie bituminose o giacimenti di petrolio di scisto ed è di gran lunga più caro da produrre del petrolio “convenzionale”. Di conseguenza, gli investimenti in progetti di nuova produzione di petrolio sono diminuiti in modo sostanziale negli ultimi anni ed è probabile che diminuiscano ulteriormente. Dal lato della domanda dell’equazione, la Cina è la più grande incognita. Negli ultimi 30 anni i cinesi hanno goduto di una crescita economica senza precedenti, ma di recente la “fabbrica del mondo” non se la passa molto bene. Il suo governo si è dimenato disperatamente per cercare di stimolare la crescita ed allontanare un collasso della propria borsa. Alcuni credono che la Cina sia un’enorme bolla economica che sta per scoppiare portando con sé gran parte del mondo, ovviamente riducendo la sua domanda di petrolio sempre in aumento.

L’altro gorilla da 400 kg che incombe la fuori è il cambiamento climatico. Eccetto per la siccità in California e la tempesta che ha allagato New York qualche anno fa, gran parte dell’America e della Cina in questo senso non sono state colpite abbastanza duramente dal meteo anomalo da raggiungere un accordo per cui fermare il cambiamento climatico è la prima priorità di tutti noi. Le notizie che “sembra che ci siano” 70°C che provengono dal Medio Oriente questa estate hanno poco impatto su coloro che sono convinti che il cambiamento climatico sia una truffa. Se gli effetti del cambiamento climatico dovessero peggiorare nel prossimo futuro al punto da “fare qualcosa prima che la vita sulla Terra diventi impossibile” diventa la percezione maggioritaria del problema, il consumo di combustibili fossili potrebbe essere severamente limitato. Anche se non ampiamente apprezzate, sembra che ci siano alternative praticabili ai combustibili fossili che aspettano di essere sfruttate. La violenza in Medio oriente è peggiorata negli ultimi anni. Anche se la produzione di petrolio in alcune aree è stata limitata da geopolitica e violenza, gran parte del petrolio continua ad essere prodotto. E’ inutile parlare dei prossimi cinque anni in Medio oriente. Tuttavia dobbiamo tenere in mente che ci sono almeno mezza dozzina di confronti in corso nella regione che potrebbero trasformarsi in situazioni in cui la produzione di petrolio diventa più limitata.

Se mettiamo tutto questo insieme, cosa abbiamo? La saggezza comune attualmente dice che i prezzi del petrolio è probabile che siano più vicini ai 50 dollari che ai 100 per il prossimo anno e più. La spesa di capitale in nuova produzione per compensare la produzione in declino dei giacimenti esistenti è probabile che crolli ulteriormente, lasciandoci nella situazione in cui l’esaurimento potrebbe superare il petrolio che proviene dai nuovi pozzi o giacimenti. Questa è l’argomentazione che usano coloro che credono che ci troviamo proprio ora in pieno picco di produzione mondiale di petrolio, o molto prossimi. La IEA dice che la domanda di petrolio più economico sta salendo rapidamente, che la produzione di petrolio di scisto attualmente sta crollando e il resto della produzione mondiale è relativamente statica, quindi potremmo vedere i prezzi del petrolio salire ancora dal 2017. E’ qui che potrebbe verificarsi il punto di svolta nella storia della produzione di petrolio. Nella storia recente i prezzi in aumento hanno portato i produttori di petrolio ad aumentare ancora le trivellazioni per nuovo petrolio. Tuttavia, al prossimo giro, come detto sopra, ci sono nuovi fattori che potrebbero entrare in gioco. La Cina aumenterà la propria domanda di petrolio fra altri due anni?Il Medio oriente esporterà ancora la stessa quantità di petrolio e produrrà petrolio dato il trambusto e la necessità di aumentare l’aria condizionata? Il mondo avrà deciso che è giunto il momento di dare seriamente un giro di vite alle emissioni di carbonio? Se la produzione globale di petrolio raggiunge una qualche tipo di picco quest’anno ed è minore nel 2016, può riprendersi per raggiungere nuovi massimi negli anni a seguire? Qualsiasi cosa, dagli investimenti inadeguati derivati dai prezzi del petrolio persistentemente bassi ad un grande conflitto nel Medio oriente, potrebbe impedire alla produzione di riprendersi ad un nuovo massimo storico. Viviamo tempi interessanti e potremmo assistere al picco del petrolio prima che ce ne rendiamo conto.

Immagine del Buco finanziario da shutterstock.

Pubblicato originariamente su Falls Church News Press

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Dodici modi per comunicare il cambiamento climatico in modo più efficace

Da “The Guardian”. Traduzione di MR (via Cristiano Bottone)

Sii coerente, parla dei rischi piuttosto che delle incertezze, usa delle immagini, racconta storie di esseri umani e dai il messaggio principale prima degli avvertimenti

Un nuovo manuale suggerisce che coloro che comunicano il cambiamento climatico usino storie ed immagini per rendere più accattivanti i rapporti scientifici complessi. Foto: Ryan McGinnis/Alamy


Di Adam Corner

L’incertezza è una caratteristica inevitabile del dibattito sul cambiamento climatico – proprio come di ogni altro problema complesso scientifico o sociale. Ma gli scettici hanno usato (ed in alcuni casi abusato) della presenza di incertezza nelle proiezioni climatiche per sostenere che la scienza non è sufficientemente definita da giustificare politiche di taglio del carbonio. In risposta, gli scienziati – che tendono per natura alle sfumature, alla cautela e all’andare per tentativi nel loro stile di comunicazione – si sono spesso sentiti spesso costretti a mettere in primo piano le incertezze e gli avvertimenti nel proprio lavoro al posto di concentrarsi sui molti aspetti della scienza del clima sui quali c’è un forte consenso. Purtroppo, le norme che governano il dialogo fra scienziati sono spesso in conflitto diretto coi canoni della comunicazione efficace. Messaggi semplici e concisi sono difficili da estrapolare da dati complessi e caotici.


Affari e clima: la montatura e la realtà

Ma mentre gli scienziati, gli attivisti ed altri comunicatori non devono mai sottovalutare o nascondere le complessità intrinseche nei modelli climatici, ci sono modi migliori e peggiori di comunicare l’incertezza. Un nuovo Manuale dell’incertezza pubblicato dall’Università di Bristol e dalla Rete per la Divulgazione e l’Informazione sul Clima distilla scoperte scientifiche e consigli di esperti per indicare 12 principi di una comunicazione più intelligente intorno all’incertezza del cambiamento climatico. E’ intesa a fornire agli scienziati, ai politici ed agli attivisti gli strumenti di cui hanno bisogno per comunicare con più efficacia il cambiamento climatico.

1. Gestisci le aspettative del pubblico

Le persone si aspettano che la scienza fornisca risposte definite, mentre in realtà la scienza è un metodo per porsi domande sul mondo. Quindi gestisci le aspettative del pubblico ed usa a piene mani analogie con la vita quotidiana di modo che le persone possano vedere che le incertezze sono ovunque, non solo nella scienza del clima.

2. Comincia con quello che sai, non con quello che non sai

Troppo spesso i comunicatori danno prima gli avvertimenti dei messaggi fondamentali. Su molte domande fondamentali come “sono gli esseri umani che causano il cambiamento climatico?” e “causeremo cambiamenti senza precedenti se non riduciamo la quantità di carbonio che bruciamo?”, la scienza è di fatto definita.

3. Sii chiaro sul consenso

Avere un messaggio chiaro e coerente sul consenso scientifico è importante, in quanto influenza se le persone vedono il cambiamento climatico come un problema che richiede una risposta sociale urgente. Usa grafici chiari come i diagrammi a spicchi, un messaggero attendibile per comunicare il consenso e cerca di trovare il punto di incontro più vicino fra i valori del pubblico e quelli della persona che comunica il messaggio di consenso.

4. Passa da “Incertezza” a “Rischio”

La maggior parte delle persone sono abituate ad avere a che fare con l’idea di rischio. E’ il linguaggio dei settori delle assicurazioni, della sanità e della sicurezza. Quindi per molti tipi di pubblico – politici, capi d’azienda o militari – parlare dei rischi del cambiamento climatico è probabile che sia più efficacie che non parlare di incertezze.

5. Sii chiaro sul tipo di rischio di cui stai parlando

Una strategia comune degli scettici è di confondere ed assimilare intenzionalmente diversi tipi di incertezza. E’ quindi cruciale essere chiari su quale tipo di rischio si sta parlando cause, impatti, politiche o soluzioni – ed adottare un linguaggio appropriato per ognuno di essi.

6. Capisci cos’è che definisce il punto di vista delle persone

L’incertezza sul cambiamento climatico è maggiore fra le persone con valori politici tendenti a destra. Tuttavia, un corpus di ricerca crescente indica modi di comunicare il cambiamento climatico che non minacciano i sistemi di credenze conservatori, usando un linguaggio che risuona meglio coi valori di centro-destra.

7. La domanda più importante è “quando”, non “se”

Le previsioni sul cambiamento climatico di solito vengono comunicate usando un formato standard di esito incerto. Così, un’affermazione può dire che i livelli del mare aumenteranno “fra i 25 e i 68 cm, con 50 cm come previsione media, per il 2072”. Ma rigira l’affermazione – usando un quadro temporale incerto – e all’improvviso è chiaro che la domanda è quando (non se) i livelli del mare aumenteranno di 50 cm: “i livelli del mare aumenteranno almeno di 50 cm e questo avverrà ad un certo punto fra il 2060 e il 2093”.

8. Comunica attraverso immagini e storie

La maggior parte delle persone capisce il mondo attraverso storie ed immagini, non elenchi di numeri, dichiarazioni di probabilità o grafici tecnici, quindi è cruciale trovare dei modi di tradurre ed interpretare il linguaggio tecnico presente nei rapporti scientifici in qualcosa di più attraente. Un artista visivo può catturare il concetto di aumento del livello del mare meglio di qualsiasi grafico ed essere comunque conforme ai fatti se vengono usate proiezioni scientifiche per informare il lavoro.

9. Sottolinea il lato positivo dell’incertezza

La ricerca ha scoperto che l’incertezza non è una barriera inevitabile all’azione, ha fornito ai comunicatori messaggi quadro sul cambiamento climatico in modo che inneschino la cautela di fronte all’incertezza. Un inquadramento positivo di informazioni incerte indicherebbe che le perdite potrebbero non verificarsi se venisse intrapresa un’azione preventiva.

10. Comunica efficacemente gli impatti del cambiamento climatico

La domanda “questo evento meteorologico è causato dal cambiamento climatico?” è malposta. Quando qualcuno ha un sistema immunitario debole è più suscettibile ad una gamma di malattie e nessuno chiede se ogni malattia sia stata causata da un sistema immunitario debole. La stessa logica vale per gli eventi meteorologici estremi: vengono resi più probabili, e più severi, dal cambiamento climatico.

11. Fai una conversazione, non una polemica

Nonostante la sproporzionata attenzione data dai media agli scettici, la maggior parte delle persone semplicemente non parla o pensa così tanto al cambiamento climatico. Ciò significa che l’atto stesso di fare una conversazione sul cambiamento climatico – non una polemica ripetendo slogan monotematici – può essere un metodo potente di coinvolgimento del pubblico.

12. Racconta una storia umana

La quantità di biossido di carbonio che viene emessa nei prossimi 50 anni determinerà la dimensione in cui cambia il nostro clima. Quindi ciò che scegliamo di fare – e quanto rapidamente possiamo mettere insieme la forza di volontà collettiva per farlo – è un’incertezza che rimpicciolisce tutte le altre.

Cristiano Bottone suggerisce, e sono d’accordo con lui, di aggiungere un tredicesimo punto:

13. Collega le parti del sistema

Metti in collegamento il cambiamento climatico con tutto il resto (combustibili fossili, agricoltura, deforestazione, crescita della popolazione, economia, ecc. ecc. ecc.), altrimenti tutto rimane un pezzo del puzzle che non si incastra con gli altri e nessuno cercherà di trovargli un posto nella propria quotidianità.

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Una recensione di Extracted di Ugo Bardi

Da “OneManTalk.com”. Traduzione di MR (via Club of Rome)

Di Stephen Northey


Mio voto: 7 /10

Titolo: Extracted, come la ricerca della ricchezza minerale ha saccheggiato il pianeta (Link amazon)

Autore: Ugo Bardi

Extracted potrebbe essere descritto come la storia delle risorse della società. Da dove sono venute e dove vanno. Le risorse hanno permesso alla società di sviluppare le moderne tecnologie che stanno alla base del nostro attuale stile di vita. Insieme a questo viene però un livello di dipendenza dalle risorse minerali. Un livello che sarà difficile da sostituire se le risorse dovessero finire.


L’estrazione di risorse o, come mi piace dire, correre (termodinamicamente) in discesa

La formazione di depositi minerali è un processo lungo e in salita che lotta continuamente contro la seconda legge della termodinamica, che afferma che l’entropia di un sistema aumenterà nel tempo. Un deposito minerale è tipicamente una regione localizzata di bassa entropia (vedi disordine) che è creata come prodotto secondario di enormi quantità di energia che alimentano processi geologici, ed occasionalmente, biologici. Su scale temporali lunghe (spesso milioni di anni), questi processi possono portare all’accumulo di preziosi minerali ed energia all’interno di strutture geologiche. E’ da queste tasche di risorse che la società ora estrae il materiale e l’energia necessaria a sostenere e far crescere i nostri mezzi di sussistenza. Ciò pone una domanda ovvia: Cosa succede quando le risorse, che hanno impiegato milioni di anni a formarsi, finiscono?

“Negli anni 20 del 900, il carbone prodotto in Inghilterra ha compensato il calore che si sarebbe prodotto bruciando quasi tutte le foreste del mondo”

Penso che la maggior parte delle persone sottovaluti quanto rapidamente  stiamo estraendo le risorse per alimentare la società. Una cosa che Extracted fa particolarmente bene è fornire analogie che possono rendere grandi quantità in qualche modo comprensibili per la persona media. Prendete per esempio il tasso generale al quale gli esseri umani estraggono le risorse. Questo varia a seconda di cosa si considera una risorsa, ma può essere generalmente misurato in almeno decine di milioni di tonnellate di materiale all’anno. Per mettere questo in prospettiva, ogni anno la biosfera produce approssimativamente 56 miliardi di tonnellate di nuova biomassa. Circa l1% di questa deve essere estratta dalla terra dalle piante (gran parte viene dall’atmosfera). Quindi se considerate tutte le piante sulla Terra, stanno estraendo dalla crosta terrestre solo mezzo miliardo circa di tonnellate di materiale ogni anno. Considerevolmente di meno di quanto estragga attualmente la specie umana.

Un altro esempio è il suolo agricolo fertile, che potrebbe essere considerato la nostra risorsa più preziosa. Sfortunatamente stiamo causando l’erosione di questa risorsa ad un ritmo enorme. Negli Stati Uniti, circa 4 miliardi di tonnellate di suolo agricolo vengono erose ogni anno. Le stime complessive di questa erosione vanno da 75 a 120 miliardi di tonnellate all’anno. Attualmente questo è di un ordine di grandezza maggiore di quello che potrebbe essere considerato il ritmo di erosione naturale. Per contrastare questo stiamo mettendo fertilizzanti basati su fosforo ed azoto nei suoli ad un ritmo molto elevato. Ciò ha alimentato le recenti preoccupazioni sulla disponibilità a lungo termine delle risorse di fosforo, in quanto è un ingrediente della crescita delle piante che non può essere sostituito. Le attuali stime di risorse di fosforo potrebbero durarci solo un secolo o due. Poi cosa succede? Be’ nessuno realmente lo sa…

Perché il voto 7/10?

Vedo Extracted come un libro in due parti. La prima parte la valuterei 8/10 e la seconda solo 6/10. La prima parte è il testo principale scritto da Ugo Bardi, che fornisce una panoramica interessante sulla storia delle risorse. Questa è molto estesa ed include:

  • Formazione della risorse.
  • In che modo le risorse hanno alimentato la società – dal nostro sviluppo tecnologico ai nostri sistemi economici e alle nostre guerre.
  • Esaurimento delle risorse e limiti per il futuro.
  • Interazioni fra processi geologici e clima globale.
  • Energia – in particolare carbone, petrolio, gas e nucleare.
  • Politica e politiche.
  • La nostra risposta – Quali opzioni abbiamo?

In generale ho percepito che questa parte fosse piuttosto solida e che ci fossero molte indicazioni da raccogliere. La seconda parte è quella di diverse pagine di casi studio che è stata scritta da collaboratori e sparsa ad intervalli regolari lungo il libro. Questi casi studio forniscono una panoramica dei problemi dell’esaurimento delle risorse per risorse minerali specifiche (per esempio, fosforo, rame, carbone, petrolio, ecc.). Sfortunatamente la qualità di questi casi studio era altamente variabile, con alcuni che sono stati ben ricercati ed altri no. Questo è un peccato visto che nel dibattito in corso sull’esaurimento delle risorse viene comunemente discusso nel contesto di beni specifici (più comunemente petrolio) e che fornire informazioni mal giustificate può portare le persone a scartare l’intera questione sulla base di diversi errori effettivi o concettuali.

Di solito non sono uno che fa il pignolo sui riferimenti, in particolare per i libri scritti sotto forma di prosa. Tuttavia, dato il mio interesse particolare su questo tema, vi presto più attenzione di quanto non farei normalmente con questo tipo di libri. I riferimenti di Extracted sono stati molto inconsistenti, spesso favorendo fonti secondarie a quelle primarie. Questa può essere un’area grigia quando si tratta di riferimenti, ma sfortunatamente mi sono imbattuto in degli esempi di lavoro di colleghi che vengono attribuiti erroneamente ad altri in questo modo. Nonostante questa mancanza, si tratta di un aspetto del libro che probabilmente non cambierebbe l’esperienza del lettore medio.

Pensieri finali

Extracted è un libro che raccomanderei a chiunque abbia interesse per il pensiero a lungo termine, la sostenibilità e i fondamenti della società moderna. L’ho trovata una lettura avvincente, nonostante le mancanze dei casi studio individuali presentati. Avete letto qualche libro simile di recente? Perché non lasciate un commento sotto e lasciate che tutti sappiano cosa pensate? Grazie per avere letto.

Stephen

Clicca qui per vedere altre recensioni di Extracted di Ugo Bardi su Amazon.com.

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No, il sole non ci salverà dal riscaldamento globale

Da “The Guardian”. Traduzione di MR (via Dante Lucco)

Un minimo solare compenserebbe non più di un decennio di riscaldamento globale antropogenico


Anche il più grande minimo solare avrebbe un impatto minore sulle temperature globali in confronto al rapido riscaldamento derivante dall’inquinamento di carbonio umano. Foto: Solar Dynamics Observatory/Nasa

Di Dana Nuccitelli

Alcuni miti-zombie non vogliono proprio morire. Infatti, questo l’ho smentito due anni fa proprio qui sul Guardian. Per riassumere, diversi studi scientifici si sono posti questa domanda, “se il Sole dovesse entrare in un’altra fase quieta prolungata (un grande minimo solare), questo in che modo impatterebbe sulla temperatura globale di superficie”? Tutti gli studi concordano, non causerebbe un raffreddamento maggiore di 0,3°C, che sarebbe sufficiente solo a compensare temporaneamente un decennio di riscaldamento globale antropogenico.

La temperatura globale media è mostrata per il periodo 1900-2100 in relazione allo scenario di emissioni A2 dell’IPCC. La linea rossa mostra il cambiamento di temperatura previsto con l’attuale livello di attività solare, la linea blu mostra il cambiamento di temperatura previsto al livello molto più basso del Minimo di Maunder e la linea nera mostra le temperature osservate fino al 2010. Adattato da  Feulner & Rahmstorf (2010) da SkepticalScience.com

L’attività solare in realtà è piuttosto stabile. Questa è una buona cosa per noi sulla Terra, perché senza grandi variazioni nella quantità di energia che raggiunge il pianeta dal sole, il nostro clima è altrettanto generalmente piuttosto stabile. Ciò ci ha permesso di costruire grandi città e fattorie stanziali, con la sicurezza che il clima e il meteo saranno molto coerenti in quelle aree. Ha permesso alla civiltà umana di svilupparsi durante gli ultimi 10.000 anni. Anche se col riscaldamento globale antropogenico che sta destabilizzando il clima, stiamo mettendo quella civiltà sotto un grave stress.

Ritorno dall’oltretomba

Recentemente c’è stata una marea di storie mediatiche che sostenevano che il sole potrebbe essere diretto verso una fase quieta (una possibilità), che potrebbe spedire la Terra in un “gelo profondo” (una impossibilità virtuale). Queste storie sembra abbiano avuto origine dai media prevenuti conservatori (come il Daily Mail e il Telegraph) ed è filtrata fino ad altri media mainstream (come la CNN). Alcune uscite sui media, come quelle del Washington Post, hanno fatto un buon lavoro nel cercare la storia e scoprendo i suoi errori prima di pubblicare.  Le storie derivavano da una presentazione al Meeting Nazionale di Astronomia della Royal Astronomical Society in Galle della matematica Valentina Zharkova. La sua ricerca (non ancora pubblicata) suggerisce che il sole potrebbe essere diretto verso una fase quieta come quella che è coincisa con un periodo noto come la “Piccole Era Glaciale”, ma non dice niente su come questo minimo solare impatterebbe sul clima della Terra.

Parte della colpa di aver resuscitato questo mito-zombi sta nella conferenza stampa della Royal Astronomical Society, che ha menzionato la precedente mini Era Glaciale senza chiarire che era l’attività solare e non il clima della Terra che era l’oggetto dello studio. Parte della colpa è della  Zharkova, che ha fatto commenti ‘scettici’ sul riscaldamento globale antropogenico che non erano sostenuti dalla sua ricerca. E la maggior parte della colpa sta nelle uscite dei media come il Daily Mail e il Telegraph che cavalcano storie piuttosto sensazionalistiche su un’imminente mini Era Glaciale, apparentemente senza consultare un solo scienziato del clima. Non è una coincidenza che le uscite dei media che non hanno contattato gli scienziati del clima abbiano diffuso questo mito, mentre le uscite dei media che hanno contattato gli scienziati del clima lo hanno smontato.

Un mito facile da sfatare

Questo mito della “mini Era Glaciale imminente” è incredibilmente facile da smontare. Infatti basta posti una semplice domanda – se il sole è un tale motore del clima della Terra, allora perché il pianeta intero (aria, oceani, terra e ghiaccio) si è scaldato rapidamente negli ultimi 60 anni mentre l’attività solare è declinata?

Cambiamento di temperatura di superficie annuale globale (sottile rosso chiaro) con 11 anni di media mobile della temperatura (spessa rosso scuro). Temperatura proveniente dal GISS della NASA, Irradiazione Solare Totale annuale (IST) (sottile blu chiaro) con 11 anni di media mobile di IST (spessa rosso scuro). Fonte: Skeptical Science
Quella semplice domanda è sufficiente di per sé a smontare la nozione che il sole sia il motore principale delle temperature globali. La ricerca ha mostrato chiaramente che è il biossido di carbonio la principale manopola di controllo delle temperature. Secondo, la ricerca ha suggerito che il minimo solare verificatosi intorno al 1650 ha giocato un ruolo relativamente piccolo nel raffreddamento delle temperature durante la Piccola Era Glaciale. Piuttosto, l’aumento dell’attività vulcanica ( che pompa ceneri in atmosfera che bloccano la luce solare) ed una diminuzione del carbonio atmosferico sono stati i principali contributi al raffreddamento durante quel periodo. Terzo, la Piccola Era Glaciale non è stata nemmeno così fredda, globalmente. Il grafico seguente mostra la ricostruzione finora più completa della temperatura di superficie, da parte del Consorzio PAGES 2k. Nei soli due ultimi decenni il pianeta si è riscaldato più di quanto si sia raffreddato durante tutta la Piccola Era Glaciale. 
I puntini rossi mostrano la media su 30 anni della nuova ricostruzione PAGES 2k. La curva rossa mostra la temepratura media globale di superficie, secondo i dati HadCRUT4 dal 1850 in avanti. In blu c’è la mazza da hockey originale di Mann, Bradley e Hughes (1999) con la sua gamma di incertezza (blu chiaro). Grafico di Klaus Bitterman. 400 anni di osservazioni di macchie solari sono state inserite e create da  Robert Rohde.
C’è stato un raffreddamento regionale significativo durante la mini era glaciale, particolarmente in parti di Europa e Nor America, ma globalmente è stato di fatto piuttosto piccolo. Quarto, un grande minimo solare sarebbe una fase temporanea. Qualsiasi raffreddamento che causasse durerebbe solo qualche decennio fino alla fine dell’evento e a quel punto l’aumento dell’attività solare contribuirebbe al riscaldamento globale. In sintesi, la differenza fra la Piccola Era Glaciale e l’attuale periodo di riscaldamento si riduce a vulcani, biossido di carbonio e grandezza. Il precedente periodo freddo è stato piuttosto ridotto, probabilmente causato in gran parte dall’attività vulcanica. E, naturalmente, gli esseri umani non pompavano 30 miliardi di biossido di carbonio in atmosfera ogni anno nel XVII secolo, come invece facciamo adesso. La linea di fondo è che anche il più grande minimo solare avrebbe un impatto minimo sulle temperature globali in confronto al rapido riscaldamento derivante dall’inquinamento di carbonio di origine umana.

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L’epidemia di obesità: un altro problema che non sappiamo come risolvere

Da “Resource Crisis”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi

Un mercato di periferia vicino a Firenze, pochi giorni fa. Questo mercato è frequentato solo da residenti e fornisce una buona prova del fatto che gli italiani, in media, non sono tanto grassi. La maggior parte delle persone che vedete camminare nella foto sono ragionevolmente in forma ed ho cercato con fatica di trovare qualcuno che fosse realmente obeso, ma non ne ho visto nemmeno uno. Risulta infatti che l’Italia è meno colpita dall’epidemia di obesità della maggior parte (anche se non di tutti) dei paesi del mondo occidentale. Ma le cose stanno cambiando rapidamente. Nonostante la dieta mediterranea, anche gli italiani stanno via via guadagnando peso e diventando obesi. L’epidemia di obesità  sembra essere uno di quei problemi che continuano a peggiorare e che semplicemente non sappiamo come risolvere. 

Sappiamo tutti che il mondo soffre di un’epidemia di obesità, che colpisce in particolare i paesi ricchi dell’occidente. Ma cosa rende grasse le persone, esattamente? Si potrebbe dire perché mangiano troppo e fanno pochissimo esercizio e questo sarebbe, ovviamente, vero. Ma i grassi devono essere demonizzati perché non riescono a controllare il loro appetito? Essere sovrappeso e, in particolare, essere obesi, comporta ogni tipo di problema di salute, se ai grassi dicono anche che è colpa loro questo aggiunge ulteriore miseria ad una condizione già triste (*). Eppure questo è un atteggiamento comune (vedete DeShazo et. al.). Ma considerate che è stato sviluppato un intero campo scientifico con lo scopo specifico di creare cibo così gustoso che non si riesce a smettere di mangiarlo. E viene fuori che abbiamo un’intera industria, quella alimentare, dedita a far mangiare di più le persone e un’altra, l’industria farmaceutica, che cerca di farle mangiare meno. Una situazione senza via di uscita.

C’è molto altro da dire sul danno fatto dalla moderna ed ipertecnologica industria alimentare. Il cibo non è solo una questione di quante calorie contiene, ma anche dei nutrienti che contiene. E c’è una ragione per cui spesso usiamo il termine “cibo spazzatura”. E’ perché questo cibo contiene un sacco di calorie ma pochi nutrienti (vedete anche questo mio post). Così, potrebbe essere che le persone cerchino di compensare la mancanza di nutrienti mangiando di più: un’altra ragione probabile dell’epidemia di obesità (vedete per esempio Swinburn et al). Le persone obese di fatto sono malnutrite (vedete per esempio Hyman).

Ma potrebbe esserci altro su questa storia se consideriamo la situazione da un punto di vista “sistemico”. Gli esseri umani sono sistemi complessi e i sistemi complessi sono noti per reagire in modo non lineare alle forze esterne. Così, di fronte ad una persona obesa, se pensate in termini di sistemi, non direste semplicemente “questa persona mangia troppo”. Piuttosto, vi chiedereste, “cosa potrebbe avere squilibrato l’omeostasi metabolica di questa persona?”

Per illustrare questo punto, confrontiamo l’epidemia di obesità con il cambiamento climatico (che potremmo chiamare una “epidemia di temperatura alta”). L’atmosfera della terra è un tipico sistema complesso che reagisce in maniera fortemente non lineare alle forze esterne (di solito chiamate “forzanti”). La forzante principale del riscaldamento globale è l’aumento della concentrazione del gas serra biossido di carbonio, CO2. Non è il solo agente forzante, ma sicuramente quello più importante nello squilibrare l’omeostasi atmosferica e nel generare quello che chiamiamo cambiamento climatico.

Notate come tutto quello che serve è un piccolo aumento nella concentrazione di CO2 (poco più di 100 parti per milione) per generare un grande cambiamento delle temperature dell’atmosfera. E’ un punto che molte persone trovano difficile da capire, cosa che non sorprende, perché non siamo abituati a pensare in termini sistemici. Ma anche un piccolo cambiamento nel complesso sistema atmosferico può generare una cascata di retroazioni positive che creano il disastro che chiamiamo “cambiamento climatico”. E così che funzionano i sistemi complessi.

Ora, potrebbe essere che qualcosa di simile si stia verificando con l’epidemia di obesità? Potrebbe esserci un singolo agente o, comunque, uno principale, che innesca una cascata di retroazioni metaboliche positive che trasformano normali esseri umani in balene terrestri?

Non si può escludere, ma identificare tale sostanza, se esiste, è una grande impresa – quasi impossibile. Una recente rassegna di Simmons et al. riporta una tavola di 23 presunte sostanze obesogene, sostanze chimiche che vanno dai metalli pesanti ai grassi saturi, compresi pesticidi, ormoni ed altro. Poi, gli stessi autori riportano una tavola di altri 38 possibili additivi obesogeni, ma mai testati in questo senso. Un totale complessivo di 61 additivi probabili che potrebbero rendervi grassi e sono sicuro che ce ne sono molti altri non elencati nel saggio.

L’elevato numero di possibili colpevoli fa girare la testa. Ma, in un certo senso, può anche essere visto come promettente. E se una di queste sostanze chimiche giocasse il ruolo del CO2 nell’atmosfera? Cioè, potrebbe essere una di loro l’innesco principale dell’obesità? Sarebbe bello se potessimo indicare una sostanza specifica e dire: “Guardate! Questa è la cosa che rende obese le persone!Smettete di metterla nel cibo che mangiamo!” E, da quel momento in poi, non vedremmo più balene di terra nei centri commerciali.

Sfortunatamente, le cose non sono così semplici. Come ho detto, il sistema metabolico umano è molto più complesso del sistema climatico, pertanto è difficile identificare tale sostanza, sempre che esista. Il meglio che si possa fare è verificare i possibili obesogeni uno ad uno, ma se i loro effetti fossero rinforzati da retroazioni create da loro combinazioni? Per tornare all’esempio climatico, se non avessimo capito completamente il sistema climatico, potremmo concludere che il vapore acqueo è una delle cause del riscaldamento globale, perché è un gas serra ed è abbondante nell’atmosfera. Ma non è così, l’aumento della concentrazione di vapore acqueo non è la causa del riscaldamento globale, è un effetto. Ma possiamo dirlo perché conosciamo il sistema climatico molto meglio del sistema metabolico umano.

Quindi, anche se potessimo identificare una o più sostanze che giocano un ruolo importante nell’innescare l’obesità, potrebbe essere impossibile rimuoverle dal cibo. Cose come i metalli pesanti sono semplicemente intorno a noi. Le abbiamo create o estratte in secoli di attività industriale. Non c’è modo di rimuoverli completamente dall’ecosistema.

E, infine, anche se riuscissimo ad avere la prova scientifica che una sostanza specifica è la causa principale dell’obesità, potete immaginare come si attrezzerebbe l’industria alimentare per una grande campagna negazionista? Potete immaginare i politici dire, “Guardate, non sono uno scienziato, ma credo che non ci sia prova che il bis-tetrafenile-diazina-ocomediaminesichiama causi l’obesità”. Poi “Fatgate: gli scienziati dell’alimentazione confessano di aver falsificato i dati sull’obesità per per conservare i finanziamenti per la loro ricerca!” E così via…

Alla fine, sembra che il problema dell’obesità sia lo stesso che abbiamo con gli altri grandi problemi: cambiamento climatico, fornitura alimentare, e molti altri. Spesso non siamo abbastanza intelligenti per capire cosa li causa e, anche se ci riusciamo, sfortunatamente siamo abbastanza intelligenti da bloccare tutti i tentativi di risolverli. Sembra che stiamo creando un mondo così complesso che sta diventando impossibile per noi gestirlo.

Possiamo concludere, tuttavia, con una nota di ottimismo (in un certo senso). L’obesità ha il vantaggio, rispetto al cambiamento climatico, che le persone possono sperimentare personalmente. Quindi vengono provate molte diete diverse, da quella vegana alla paleodieta, e tutto ciò che si trova fra le due. Con tutta questa sperimentazione in corso, alla fine impareremo qualcosa su cosa rende grasse le persone e come evitarlo. Dopotutto si tratta del modo in cui l’universo gestisce i sistemi complessi: semplicemente scarta ciò che non funziona; si chiama selezione naturale. Sarebbe bello se potessimo applicare la stessa strategia al cambiamento climatico, peccato che abbiamo un solo pianeta.

(*) L’autore di questo post ha un indice di massa corporea (BMI) di 26,2 e questo lo definisce come in leggero sovrappeso.

h/t Roberto Rondoni

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Il crollo della popolazione di fitoplancton

Da “Scientific American”. Traduzione di MR (via Antonio Turiel)

I ricercatori scoprono problemi nel fitoplancton, la base della catena alimentare, che hanno implicazioni sulla rete alimentare marina e sul ciclo mondiale del carbonio.

Di Lauren Morello

Le piante microscopiche che formano la base della rete alimentare marina stanno declinando, come dice uno studio pubblicato il 29 luglio su Nature. I piccoli organismi, conosciuti come fitoplancton, fagocitano anche il biossido di carbonio per produrre la metà dell’ossigeno del mondo – eguagliando quella degli alberi e delle piante sulla terraferma. Ma il loro numero è diminuito dall’alba del XX secolo, con conseguenze sconosciute per gli ecosistemi oceanici e per il ciclo del carbonio del pianeta.

I ricercatori dell’Università Dalhousie del Canada dicono che la popolazione globale di fitoplancton è crollata di circa il 40% dal 1950. Ciò si traduce in una diminuzione annuale di circa l’1% della popolazione media di plancton fra il 1899 e il 2008. Gli scienziati credono che l’aumento delle temperature di superficie del mare ne siano le responsabili. “E’ molto inquietante pensare alle implicazioni potenziali di un declino di un secolo della base della catena alimentare”, ha detto l’autore principale Daniel Boyce, un ecologo marino. Queste comprendono l’interruzione della rete alimentare marina ed effetti sul ciclo del carbonio mondiale. In aggiunta al consumo di CO2, il fitoplancton può influenzare la quantità di calore che viene assorbito dagli oceani del mondo ed alcune specie emettono molecole di solfato che promuovono la formazione di nuvole.

Una storia di costante mistero

“Per qualche aspetto, queste scoperte sono l’inizio della storia, non la fine”, ha detto Boyce. “La prima domanda è cosa succederà in futuro. Abbiamo osservato queste tendenze durante il secolo scorso ma non sappiamo cosa succederà fra 10 anni”. Lo studio “dà un contributo assolutamente necessario alla conoscenza dei cambiamenti storici nella biosfera oceanica”, hanno detto David Siegel dell’Università della California di Santa Barbara e Bryan Franz della NASA in un saggio a sua volta pubblicato su Nature.

“La loro identificazione di una connessione fra i declini a lungo termine della biomassa di fitoplancton e l’aumento delle temperature dell’oceano non fa presagire niente di buono per gli ecosistemi degli oceani in un mondo che probabilmente sarà più caldo”, hanno scritto. “La produttività del fitoplancton è la base della rete alimentare e tutta la vita marina ne dipende”. Boyce ha detto che lui ed i suoi coautori hanno iniziato lo studio nel tentativo di ottenere un quadro più chiaro di come se la stesse cavando il fitoplancton, dato che studi precedenti che si basavano su misurazioni satellitari hanno prodotto risultati contrastanti.

Il declino maggiore è ai poli

Gli scienziati hanno scavato a ritroso fra le registrazioni storiche ben oltre il 1997, l’anno in cui sono iniziate le registrazioni satellitari continuative. Hanno esaminato oltre mezzo milione di dati raccolti usando uno strumento chiamato disco di Secchi, così come misurazioni della clorofilla – un pigmento prodotto dal plancton. Il disco di Secchi è stato sviluppato nel XIX secolo da un astronomo gesuita, Padre Pietro Angelo Secchi, quando la marina del Papa gli ha chiesto di mappare la trasparenza del Mar Mediterraneo. Ciò che Secchi ha prodotto è stato un disco delle dimensioni di un piatto da tavola che viene immerso nell’acqua dell’oceano finché non si può più vedere. La profondità che raggiunge prima di scomparire ci dà una misura della chiarezza dell’acqua.

Ciò può essere usato come proxy per la popolazione di fitoplancton in una data area, visto che i piccoli organismi vivono vicino alla superficie dell’oceano, dove sono esposti alla luce del sole che usano per produrre energia. I dati raccolti con un disco di Secchi sono precisi quasi come le osservazioni raccolte dai satelliti, ha detto Boyce, anche se i satelliti hanno una portata globale maggiore. I ricercatori hanno scoperto i declini di fitoplancton più rimarchevoli nelle acque vicino ai poli e ai tropici, così come in oceano aperto. Essi credono che l’aumento delle temperature del mare stia alimentando il declino. Man mano che l’acqua di superficie si scalda tende a formare strati distinti che non si mescolano bene con l’acqua più fredda e ricca di nutrienti pi in basso, privando il fitoplancton di alcuni dei materiali di cui ha bisogno per trasformare CO2 e luce solare in energia.

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La scomparsa del ghiaccio marino artico spesso

Da “Arctic News”. Traduzione di MR

Di Sam Carana

[ Vedi l’immagine completa su facebook]

Il ghiaccio marino artico è in uno stato pietoso. Il 16 agosto 2015, l’estensione del ghiaccio marino artico era di 5.786 milioni di kmq, l’estensione minore ma registrata in questo periodo dell’anno eccetto per il 2007, 2011 e 2012, come illustrato nell’immagine a destra.

La situazione di oggi è anche peggiore di quanto si possa concludere quando si guarda alla sola estensione del ghiaccio marino. Il ghiaccio spesso è virtualmente assente in confronto alla situazione del 2012 più o meno in questo periodo dell’anno, come illustrato dall’immagine sotto che confronta lo spessore del ghiaccio marino il 16 agosto 2012 (sinistra) e il 16 agosto 2015 (destra).

Il ghiaccio era spesso oltre 4 metri a nord della Groenlandia e dell’arcipelago canadese. Questo ghiaccio spesso pluriennale è stata una caratteristica del ghiaccio marino artico per oltre 100.000 anni. C’era per tutto l’anno, a differenza del ghiaccio più sottile che poteva fondere completamente durante la stagione di fusione.

La scomparsa di questo giaccio pluriennale spesso è uno sviluppo importante. Perché? Fino ad ora, il ghiaccio marino pluriennale spesso sopravviveva alla stagione della fusione, dando al ghiaccio marino forza per l’anno successivo, comportandosi da tampone per assorbire il calore che altrimenti avrebbe fuso il ghiaccio più sottile. Senza ghiaccio marino pluriennale, l’Artico sarà in una brutta situazione nei prossimi anni ed enormi quantità di calore che altrimenti fonderebbero il ghiaccio, riscalderanno invece l’Oceano Artico, accelerando ulteriormente il riscaldamento delle sue acque.

L’assenza di ghiaccio spesso lo rende più incline al collasso e questo solleva la domanda se il ghiaccio marino potrebbe collassare presto, persino quest’anno. Il ghiaccio marino funziona come uno specchio. Senza ghiaccio marino, la luce solare che precedentemente veniva riflessa nello spazio, verrà invece assorbita dall’Artico. I cambiamenti dell’albedo nel solo Artico potrebbero più che raddoppiare la forzante radiativa netta risultante dalle emissioni causate da tutte le persone del mondo, come è stato calcolato dal professor Peter Wadhams nel 2012.

Inoltre, c’è il pericolo che la perdita di ghiaccio marino indebolirà le correnti che attualmente raffreddano il fondo del mare, dove enormi quantità di metano potrebbero essere presenti sotto forma di gas libero o di idrati nei sedimenti. Questo pericolo è illustrato dall’immagine sotto di Reg Morrison, da un mio precedente post.

L’assenza di ghiaccio marino va anche a braccetto con l’opportunità che si sviluppino tempeste sull’Oceano Artico. Tali tempeste potrebbero spingere il rimanente ghiaccio marino fuori dall’Oceano Artico. Tali tempeste potrebbero anche portare il calore di superficie verso il fondo del mare, dove potrebbe essere contenuto metano nei sedimenti.

Come descritto in un precedente post, sono state registrate anomalie della superficie del mare di oltre 5°C nell’agosto del 2007 (Immagine del NOAA a destra). La forte attività di polynya ha causato più acqua aperta estiva nel Mare di Laptey, causando a sua volta più mescolamento verticale della colonna d’acqua durante le tempeste alla fine del 2007, come descritto in questo studio, e le temperature dell’acqua del fondo a metà piattaforma sono aumentate di più di 3°C in confronto alla media a lungo termine.

Infatti, il pericolo è che il calore scalderà i sedimenti sotto il mare, che contengono metano come idrati e gas libero, causando la fuoriuscita di grandi quantità di questo metano in modo piuttosto improvviso nell’atmosfera.

L’immagine sulla destra, da uno studio di Hovland et al., mostra che gli idrati possono essere presenti nel sedimento alla fine dei condotti, formati quando il metano è uscito dagli idrati stessi in passato.

Il calore può scendere attraverso questi condotti relativamente in fretta, riscaldando gli idrati e destabilizzandoli nel processo, cosa che può risultare in rilasci enormi ed improvvisi di metano.

Visto che le acque possono essere realmente poco profonde nell’Artico, gran parte del metano può quindi risalire attraverso queste acque senza essere ossidato. Visto che il metano causa un’ulteriore riscaldamento dell’atmosfera, questo contribuirà al pericolo di un’ulteriore fuga di metano, che accelera ulteriormente il riscaldamento locale, in un circolo vizioso che può portare a condizioni catastrofiche ben oltre l’Artico. Per ulteriori retroazioni nell’Artico, vedete la pagina delle retroazioni.

Allo stesso tempo, il calore dell’oceano è al suo record massimo e c’è El Niño sta ancora guadagnando forza. Questo calore oceanico è probabile che raggiunga l’Oceano Artico a piena potenza ad ottobre 2015, in un momento in cui il ghiaccio marino potrebbe essere ancora al proprio minimo. L’immagine sotto mostra le temperature della superficie del mare il 16 agosto 2015 (sinistra) e le anomalie (destra).

Quanto è calda l’acqua che entra nell’Oceano Artico? Guardando solo le temperature di superficie del mare potrebbe far sfuggire la portata piena della situazione difficile in cui ci troviamo. Il calore oceanico che viaggia sotto la superficie del mare può essere anche maggiore delle temperature che si manifestano in superficie. Questo è illustrato dall’immagine sotto, che indica che il 16 agosto 2015 è emersa acqua calda alla superficie del mare alle Svalbard, con temperature di 14,9°C, 9,5°C di anomalia.

Manca ancora circa un mese prima che il ghiaccio marino raggiunga il proprio minimo, circa a metà settembre 2015, mentre le correnti marine continueranno a trasportare acqua più calda nell’Oceano Artico nei mesi a venire.

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La gestione della cacca urbana

Da “fromfilmerstofarmers”. Traduzione di MR (via Maurizio Tron)

Un impianto di trattamento fognario ad Amburgo, in Germania: la cacca non è mai stata così bella (foto: Mark Michaelis)

I saggideldottor Merdaiolo (“pooper” in originale), numero 3:

Proprio la settimana scorsa la Città di Toronto è stata informata dal Ministro dell’Ambiente che ora deve avvertire la popolazione ogni qualvolta gli impianti di trattamento delle acque vengono bypassati e gli scarichi vengono mandati nel lago Ontario. Si dice che queste evenienze siano dovute alle forti piogge che chiedono il loro pedaggio sul “vecchio sistema fognario” di Toronto, una cosa che si dice che avvenga circa 3 volte al mese, per tutto l’anno. Secondo Mark Mattson, direttore della onlus Lake Ontario Waterkeeper, le strade e i porti di Toronto sono state inondate da più di un miliardo di litri di liquami nel luglio 2013, quando sono caduti più di 90 mm di pioggia sulla città in sole due ore. Ciò, tuttavia, non sembra essere un’avvenimento straordinario, visto che lo stato di New York quest’estate ha analogamente promulgato leggi che richiedono di avvertire la popolazione entro quattro ore degli scarichi inviati nei loro bacini. “Penso che ci sia una vera richiesta di questa informazione”, ha detto Mattson, un punto difficile da confutare visto che “diportisti, canoisti ed escursionisti su molti fiumi e sentieri” menzionati da Mattson probabilmente non vogliono imbattersi in un’invasione di roba marrone galleggiante nelle loro passeggiate del sabato pomeriggio.

Ma la cosa che Mattson sbaglia, penso, è la sua valutazione del problema. Come dice lui, “le persone non si rendono conto che a Toronto abbiamo queste tubazioni di 70 anni basate su una concezione del tutto antiquata di come funziona la città”. E come spiega ulteriormente l’articolo del Toronto Star, “le fognature attuali sono state costruite con in mente richieste diverse e… l’infrastruttura vecchia non riesce a tenere il passo”. In altre parole, Mattson (e forse anche il Toronto Star) non afferrano come “funzionano” le città, né si rendono conto cosa c’è al centro delle richieste delle “attuali fognature”.

La civiltà industriale potrebbe presto cagare mattoni?

Prima di tutto, la grande espansione delle città, esemplificata da Londra all’inizio del 1800 in seguito alla privatizzazione dei beni comuni, è stata invariabilmente resa possibile da copiosi input per alimentare e fornire le masse, input distribuiti attraverso il trasporto ferroviari alimentato dal carbone. Tuttavia, l’enorme quantità di acque reflue umane create da popolazioni aumentate in modo massiccio, doveva essere affrontata in qualche modo e il solo modo per farlo è stato creando dei sistemi fognari – sistemi fognari che a quei tempi richiedevano milioni di mattoni per la loro costruzione. E creare quei mattoni richiedeva una conseguente enorme quantità di calore per cuocerli. Prossimi alla distruzione delle foreste inglesi, ciò non sarebbe mai stato possibile se non per il recente accesso alla fornitura del combustibile fossile carbone. In altre parole, i combustibili fossili sono necessari per creare le condutture fisiche dei sistemi fognari (i mattoni ed ora il cemento e i tubi metallici), senza contare tutta l’energia necessaria per interrare (e fare manutenzione a) quei sistemi, così come a far funzionare gli impianti di trattamento centralizzati. (Prima degli impianti di trattamento a combustibili fossili, ed in alcuni casi fino ai giorni nostri, gli scarichi venivano semplicemente mandati negli oceani ed in altri grandi bacini d’acqua). Ma ecco il punto debole: supponendo che la Città di Toronto (o qualsiasi altra città) abbia i centinaia di milioni, se non miliardi, di dollari per rimodernare la sua vecchia infrastruttura fognaria, non è possibile che che avrà le risorse per rifarlo dopo 70 anni, più o meno, quando la sua infrastruttura sarà di nuovo vecchia. Perché questo?

Pale eoliche e pannelli solari non saranno in grado di alimentare questo (foto: Washington State Dept of Transportation)

Il mondo ora è all’apice del picco del petrolio, il che significa che in 70 anni più o meno sarà molto probabilmente impossibile fare un rifacimento di un ampio sistema fognario di una città. Avremo superato da tempo il picco di Hubbert e semplicemente non ci sarà l’energia necessaria ad alimentare i macchinari per svolgere tutto il lavoro pesante né per fare manutenzione a tutto. Solo come esempio, nel 2008 è stata scoperta una crepa nei tunnel delle fogne di Toronto, un problema che potrebbe aver prevedibilmente comportato la fuoriuscita delle acque reflue di 750.000 abitanti di Toronto nel vicino fiume Don. Anche se sono seguiti tre anni di ritardi, le riparazioni alla fine sono state completate e rimanendo al di sotto dei 40 di dollari di budget. Ciononostante, visto che tali avvenimenti sono destinati a verificarsi in futuro, vale la pena chiedersi quanto a lungo tali riparazioni saranno energeticamente sostenibili. Questo quindi pone la domanda: se l’infrastruttura sottostante alle più grandi città metropolitane dell’industrialismo (così come le sue città più piccole) è basata su un sistema che necessita di copiose quantità di combustibili fossili, come si gestirà quando il sussidio dell’energia comincia a contrarsi? In altre parole, dimenticatevi tutta la bella storia del cibo locale per un momento e considerate questo: visto che la città moderna ed il suo popolino compresso come le sardine (che produce quantità oscene di acque reflue umane in concentrazioni storicamente mai viste) è dipendente da dee di porcellana alimentate da combustibili fossili per sciacquare via le sue acque reflue (con acqua potabile!), le nostre megalopoli (ed anche le città piccole) come affrontano tutte quelle acque reflue se la super struttura diventa sempre meno funzionale? Tenendo in considerazione le forniture di energia, dovrebbe essere subito evidente che le preoccupazioni miopi riguarda a roba che galleggia il sabato pomeriggio è il modo sbagliato di vedere le cose. Ma mentre la situazione a Toronto evidenzia un particolare aspetto del problema sistemico che abbiamo di fronte, abbastanza stranamente, Toronto ci fornisce anche un suggerimento verso la direzione che dovremmo prendere . Sfortunatamente solo unsuggerimento.

Cob in the Park (foto: A Great Capture) 

Appena in fondo alla strada dove abitavo, al Dufferin Grove Park, è stato messo insieme un progetto di comunità chiamato Cob in the Park. Si tratta di una bella struttura di argilla e paglia con anche una compost toilet per i bambini che giocano nel vicino parco giochi e piscina per bambini. Quindi un giorno ho fatto una passeggiata per vedere il gabinetto. Ma dopo un’infinita ed infruttuosa ricerca ho poi scoperto che anche se il progetto aveva il sostegno pieno del locale assessore, l’aspetto della compost toilet è stato bocciato grazie ad una piccola minoranza di residenti vicini che hanno asserito che il gabinetto non sarebbe stato (probabilmente) mantenuto in modo appropriato e quindi avrebbe posto un pericolo sanitario. Di conseguenza, un’eccellente opportunità per gli abitanti di Toronto di imparare qualcosa sui cicli dei loro stessi scarichi è andata perduta.

Ma visto che adesso possiamo subito vedere che un approccio industriale nell’affrontare i nostri scarichi non può essere mantenuto all’infinito, dovrebbe essere ovvio che il problema non riguarda argomenti fittizi riguardo alle compost toilet che (probabilmente) non verranno mantenute, ma che il vero problema è che il sistema industriale dello status quo non può essere mantenuto. In altre parole al posto di rinviare bottoni, leve e altri progressi ingegneristici (”progresso”), dovremo letteralmente imparare come gestire la nostra cacca e dovranno essere ideati dei metodi per riportare i nutrienti contenuti in quella cacca alla terra.

Per aiutarci a fare la transizione, dovrebbe esserci utile prendere nota di come siamo arrivati qui, per prima cosa. Le ragioni dietro a ciò sono naturalmente ampie e variegate, forse a cominciare dal nostro uso dei combustibili fossili che ha reso possibile l’approccio su larga scala agli scarichi umani, per prima cosa. Mettete insieme questo coi burocrati e gli ingegneri che spesso hanno un’inclinazione ad applicare approcci tecnici ad ogni problema (e persino ai non-problemi!) ed ottenete il sistema centralizzato che abbiamo attualmente, un vero e proprio casino che aspetta di succedere (ed ora succede!).

Isolare i burocrati e gli ingegneri è però un po’ ingiusto, visto che c’è anche un diffuso perbenismo vittoriano fra la popolazione: le cose più importanti vengono sorvolate continuamente da sofisticazioni che importano solo a sé stesse e cose del genere, mentre ciò che sta dalla parte opposta viene rapidamente portata via tirando una leva, lontano dagli occhi e lontano dal cuore.
Per vedere tutto questo all’opera bisogna solo guardare lo strumento che ci ha molto aiutati ad giungere dove siamo oggi, che è il nostro linguaggio. Come già detto, esiste una giusta quantità di consapevolezza sulla necessità di proteggere i nostri bacini idrici e, fra buone forchette e simili, una preoccupazione (che sia o meno superficiale) circa le nostre aree agricole. Tuttavia, la triade non è completa e il nostro linguaggio manca così della necessaria struttura per comprendere pienamente il problema. Questa necessità di affrontare finalmente i nostri scarichi in un modo ecologicamente sensibile implora quindi un suggerimento.

La prossima volta che vi trovate ad una cena o a un cocktail e la conversazione diventa piuttosto arida, non abbiate paura di rivolgervi al vostro vicino e con estrema gioia, chiedete con eccitazione, “Allora, le piacerebbe che le raccontassi del mio deposito di cacca!?”

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Se un grado in più vi sempra poco, pensate a un aumento di sei metri del livello del mare

Da “Iflscience”. Traduzione di MR (via Maurizio Tron)

Di Caroline Reid

Foto: Riscaldamento globale – iceberg del ghiacciaio San Rafael in Patagonia, Cile. ribeiroantonio/Shutterstock.

Una nuova analisi ha esaminato gli effetti della fusione delle calotte glaciali polari ed il conseguente aumento dei livelli del mare negli ultimi 3 milioni di anni. Il saggio riassume 30 anni di ricerca sulla relazione fra la fusione delle calotte glaciali, la fluttuazione dei livelli del mare e i livelli di biossido di carbonio in atmosfera. La sua conclusione più sorprendente: i livelli del mare sono saliti di 6 metri diverse volte in passato e questo aumento è stato indotto da un aumento delle temperature medie di solo 1 o 2°C. Ciò potrebbe farci scoprire che gli attuali livelli di biossido di carbonio in atmosfera sono equivalenti a quelli stimati essere presenti tre milioni di anni fa, quando i livelli del mare sono aumentati di 6 metri.

Dal 1880, i nostri oceani sono saliti di circa 20 centimetri. Non sono i drammatici 6 metri descritti nel saggio, ma Anders Carlson, dell’Università di Stato dell’Oregon (OSU) e il coautore dello studio pubblicato su Science, spiega il perché: “Ci vuole tempo perché il riscaldamento spezzetti le calotte glaciali. Ma non ci vuole un’eternità. Ci sono prove che probabilmente stiamo vedendo che quella trasformazione sta cominciando ad avere luogo adesso”. Peter Clark, della OSU, e l’altro coautore dello studio, che ha osservato che i livelli di CO2 oggi sono gli stessi di 3 milioni di anni fa, ha concluso che “siamo già compromessi ad una certa quantità di aumento di livello del mare”, anche se attualmente non sappiamo ancora quanto sarà. Coi livelli di CO2 in atmosfera ancora in aumento, siamo stabilmente diretti verso un territorio inesplorato. Le previsioni del passato potrebbero non essere sufficienti per prevedere accuratamente l’effetto moltiplicatore dell’emissione di altro CO2 in atmosfera.

Ci potrebbero volere secoli o anche millenni per vedere l’impatto pieno dell’aumento dei livelli del mare. La preoccupazione non riguarda solo l’esaurimento delle calotte glaciali fino ad un punto tale che non abbiamo mai sperimentato prima, ma anche l’effetto a valle per il resto del globo, in particolare per le aree costiere dove vivono milioni di persone. I luoghi che verrebbero colpiti drasticamente da un aumento dei livelli del mare comprendo luoghi ad un basso livello sul livello del mare degli Stati Uniti, come la Florida e parti della Louisiana, così come Dacca in Bangladesh, che ha 14,4 milioni di abitanti, che vivono tutti il aree basse. Tokyo e Singapore sono state a loro volta identificate come potenzialmente vulnerabili agli aumenti del livello del mare. “L’influenza dell’aumento degli oceani è anche maggiore della quantità complessiva di aumento di livello del mare a causa di tempeste, erosione ed inondazioni”, ha detto Carlson. “Gli impatti potrebbero essere enormi”.

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