Effetto Cassandra

La fine annunciata della civiltà

Da “bastamag.net” Traduzione di MR (via Luca Pardi)

Di Ivan Du Roy

Dei nove limiti vitali al funzionamento del “sistema Terra”, almeno quattro sono già stati superati dalle nostre società industriali, con il riscaldamento globale, il declino della biodiversità o il tasso insostenibile di deforestazione. Superare questi limiti significa prendersi il rischio che il nostro ambiente e le nostre società reagiscano “in modo improvviso ed imprevedibile”,avvertono Pablo Servigne e Raphaël Stevens nel loro libro “Come tutto può collassare”. Ricordando tutti i dati e gli avvertimenti scientifici sempre più allarmanti, i due autori fanno appello ad uscire dalla negazione. “Essere catastrofisti non significa né essere pessimisti né ottimisti, significa essere lucidi”. Un’intervista.

Basta!: Un libro sul collasso, non è un po’ troppo catastrofista?

Pablo Servigne e Raphaël Stevens: [1] La nascita del libro è il risultato di quattro anni di ricerca. Abbiamo messo insieme centinaia di articoli e di saggi scientifici: libri sulle crisi finanziarie, sull’ecocidio, opere di archeologia sulla fine delle civiltà antiche, rapporti sul clima… Tutto rimanendo il più rigorosi possibile. Ma percepivamo una forma di frustrazione: quando un libro affronta il picco del petrolio (il declino progressivo delle riserve di petrolio e di gas), non evoca la biodiversità; quando un saggio tratta l’estinzione delle specie, non parla della fragilità del sistema finanziario… Mancava un approccio interdisciplinare. E’ l’obbiettivo del libro. Per mesi siamo stati attraversati da grandi emozioni, quelle che gli anglosassoni chiamano il punto “Oh my God” (Oh cazzo!” oppure “Oh mio Dio”), quando ricevono un’informazione così enorme da essere sconvolgente. Abbiamo vissuto diversi punti “Oh my Godt”, come scoprire che la nostra alimentazione dipende completamente dal petrolio, che le conseguenze di un riscaldamento oltre i 2°C sono terrificanti, che i sistemi altamente complessi, come il clima o l’economia, reagiscono in maniere repentina ed imprevedibile nel momento in cui si superano alcune soglie. Quindi, a forza di leggere tutti questi dati, siamo diventati catastrofisti. Non nel senso in cui si dici tutto è perduto, per cui si affonda in un pessimismo irrevocabile. Piuttosto nel senso per cui si accetta che delle catastrofi si possono verificare: sono di fronte a noi, dobbiamo guardarle con coraggio, con gli occhi bene aperti. Essere catastrofisti non significa né essere pessimisti né ottimisti, significa essere lucidi.

Picco del petrolio, estinzione di specie, riscaldamento climatico… Quali sono i limiti della nostra civiltà “termo-industriale”? 

Abbiamo distinto i limiti e i confini. I confini sono fisici e non possono essere superati. I limiti possono essere superati, a nostro rischio e pericolo. La metafora della macchina, che utilizziamo nel libro, permette di comprenderlo bene. La nostra macchina è la civiltà termo-industriale attuale. Accelera in modo esponenziale, all’infinito, è la crescita. Tuttavia, è limitata dalle dimensioni del suo serbatoio: il picco del petrolio quello dei metalli e delle risorse in generale, il “picco di tutto” (“peak everything”), per riprendere l’espressione dello statunitense Richard Heinberg. Ad un certo punto, non c’è più energia sufficiente per continuare. E quel momento è oggi. Siamo in riserva. Non si può più proseguire oltre.

Poi ci sono i limiti. La macchina viaggia in un mondo reale che dipende da clima, biodiversità, ecosistemi, grandi cicli geochimici. Questo sistema terra comporta la particolarità di essere un sistema complesso. I sistemi complessi reagiscono in modo imprevedibile se vengono superate certe soglie. Sono stati identificate nove limiti vitali del pianeta: clima, biodiversità, uso del suolo, acidificazione degli oceani, consumo di acqua dolce, inquinamento chimico, ozono stratosferico, ciclo di azoto e fosforo e il carico di aerosol in atmosfera. Di queste nove soglie, quattro sono già state superate: riscaldamento climatico, declino della biodiversità, deforestazione e le prime “zone morte” stanno comparendo in mare. Ci sono zone in cui non c’è assolutamente più vita, oltre a molte interazioni dovute ad inquinamenti molto forti (vedete qui). Sulla terra, il tasso di deforestazione rimane insostenibile [2]. Tuttavia, quando superiamo un limite, aumentiamo il rischio di superare altre soglie. Per tornare alla nostra metafora della macchina, ciò corrisponde ad un’uscita di strada: abbiamo superato i limiti. Non solo continuiamo ad accelerare, ma abbiamo lasciato l’asfalto per una strada caotica, nella nebbia. Rischiamo l’incidente.

Quali sono gli ostacoli alla presa di coscienza?

Prima di tutto c’è il negazionismo, individuale e collettivo. Fra la popolazione, ci sono quelli che non sanno, quelli che non possono sapere per mancanza di accesso all’informazione e quelli che non vogliono sapere. Ci sono quelli che sanno, e sono numerosi, ma non credono. Come la maggior parte dei decisori che conoscono i dati e i rapporti dell’IPCC, ma non ci credono realmente. Infine, ci sono quelli che sanno e che credono. Fra loro, si constata un ventaglio di reazioni: quelli che dicono “a che serve”, quelli che pensano che “scoppierà tutto”…

L’allarme sui limiti della crescita è stato lanciato più di 40 anni fa, col rapporto del fisico americano Dennis Meadows al Club di Roma (1972). Come si spiega questa persistente cecità dei “decisori”? 

Quando si produce un fatto che contraddice la nostra rappresentazione del mondo, preferiamo deformare quei fatti per farli rientrare all’interno dei nostri miti, piuttosto che cambiarli. La nostra società si basa sul mito della competizione, del progresso, della crescita infinita. Questa ha fondato la nostra cultura occidentale e liberale. Quando un fatto non corrisponde a quel futuro, si preferisce deformarlo o negarlo in assoluto, come fanno gli scettici del clima o le lobby che seminano il dubbio contraddicendo le argomentazioni scientifiche. Poi, la struttura delle nostre connessioni neurali non ci permette di visualizzare facilmente degli avvenimenti di così grande portata. Tre milioni di anni di evoluzione ci hanno forgiato una forza cognitiva che ci impedisce di comprendere una catastrofe che si pone sul lungo termine. E’ l’immagine del ragno: la vista di una tarantola in una teca provoca più adrenalina della lettura di un rapporto dell’IPCC! Mentre la tarantola rinchiusa è inoffensiva, il riscaldamento climatico causerà potenzialmente milioni di morti. Il nostro cervello non è adatto ad affrontare un problema gigantesco che si pone su tempi lunghi. Tanto più che il problema è complesso: la nostra società va dritta contro il muro, si dice. Non si tratta di un muro. Solo dopo aver superato una soglia – in materia di riscaldamento, inquinamento, perdita di biodiversità – si percepisce di averla superata.

Non possiamo frenare e riprendere il controllo della macchina, della nostra civiltà?

Il nostro volante è bloccato. Si tratta del blocco tecnico-sociale: quando un’invenzione tecnica appare – il petrolio ed i suoi derivati, per esempio – invade la società, la blocca economicamente, culturalmente e giuridicamente ed impedisce alle altre innovazioni più prestanti di emergere. La nostra società resta bloccata su scelte tecnologiche sempre più inefficaci. E spingiamo a fondo l’acceleratore visto che non ci si può permettere di abbandonare la crescita, salvo correndo il rischio di un collasso economico e sociale. L’abitacolo della nostra macchina è anche sempre più fragile, a causa dell’interconnessione sempre maggiore delle catene di approvvigionamento, della finanza, delle infrastrutture dei trasporti o delle comunicazioni, come Internet. E’ apparso un nuovo tipo di rischio, il rischio sistemico globale. Un collasso globale che non sarà soltanto un semplice incidente stradale. A prescindere da come si affronti il problema, siamo bloccati.

I modi in cui si potrebbe produrre il collasso e ciò che resterà della civiltà postindustriale è abbondantemente rappresentato al cinema – da Interstellar a Max Max, passando per Elysium – o nelle serie come Walking Dead. Questo immaginario è in linea con la vostra visione del “giorno dopo”?

Parlare di collasso significa prendersi il rischio che il nostro interlocutore s’immagini immediatamente Mel Gibson con un fucile a canne mozze nel deserto. Perché non c’è altro che questo tipo di immagine che ci arriva. Le nostre intuizioni non portano pertanto ad un mondo versione Mad Max, ma a delle immagini o delle storie che non troviamo se non troppo di rado nei romanzi e al cinema. Ecotopia, per esempio, è un eccellente romanzo utopistico di Ernest Callenbach. Pubblicato negli Stati Uniti nel 1975, ha molto ispirato il movimento ecologista anglosassone, ma sfortunatamente non è stato tradotto in francese. Non pensiamo più che sarà un avvenire alla Star Trek; non abbiamo più energia a sufficienza per viaggiare verso altri pianeti e per colonizzare l’universo. E’ troppo tardi. C’è una lacuna nel nostro immaginario del “giorno dopo”. L’URRS è collassata economicamente. La situazione della Russia di oggi non è terribile, ma non è Mad Max. A Cuba il ricorso all’agroecologia ha permesso di limitare i danni. Mad Max ha questa specificità di affrontare un collasso attraverso il ruolo dell’energia e di considerare resterà ancora abbastanza petrolio disponibile per fare guerre gli uni contro gli altri. Gli scienziati si aspettano proprio degli avvenimenti catastrofici di questo tipo. Nella letteratura scientifica, la comparsa di carestia, epidemie e guerre viene affrontata, anche attraverso la questione climatica. L’emigrazione in massa c’è già. Non si tratta di avere una visione ingenua dell’avvenire, dobbiamo rimanere realisti, ma ci sono altri scenari possibili. Sta a noi cambiare il nostro immaginario.

Esiste, come per i sismi, una scala Richter del collasso?

Ci siamo interessati a quello che ci insegna l’archeologia e la storia delle civiltà antiche. Dei collassi si sono già verificati in passato, l’Impero Maya, l’Impero Romano o la Russia Sovietica. Sono di natura e grado diversi. La scala realizzata da un ingegnere russo-americano, Dmitry Orlov, definisce 5 stadi del collasso: collasso finanziario – abbiamo avuto un leggero antipasto di quello che questo può provocare nel 2008 – il collasso economico, politico, sociale e culturale, ai quali può essere aggiunto un sesto stadio, il collasso ecologico, che impedirà il riavvio della civiltà. L’URRS, per esempio, si è fermata al terzo stadio: un collasso politico che non le ha impedito di girare l’angolo. I Maya ed i Romani sono andati più lontano, fino al collasso sociale. Questo si è evoluto verso l’emersione di nuove civiltà, come quelle dell’Europa del Medioevo.

Quali sono i segnali che un paese o una civiltà è minacciata dal collasso?

C’è una costante storica: gli indicatori chiari del collasso si manifestano in primo luogo nella finanza. Una civiltà passa sistematicamente da una fase di crescita, poi una lunga fase di  stagnazione prima del declino. Questa fase di stagnazione si manifesta attraverso dei periodi di  stagflazione e deflazione. Anche i Romani hanno svalutato la loro valuta: le loro monete contenevano molto meno argento col tempo. Secondo Dmitry Orlov, non possiamo più, oggi, evitare un collasso politico, di stadio 3. Prendete il sud dell’Europa: il collasso finanziario che è cominciato sta per trasformarsi in collasso economico e a poco a poco si perde la legittimità politica. La Grecia sta per giungere a questo stadio. Altro esempio: la Siria è collassata oltre il collasso politico. Secondo noi ha iniziato un collasso sociale di stadio 4, con guerre e morti di massa. In questo caso, si avvicina a Mad Max. Quando oggi si guarda un’immagine satellitare notturna della Siria, l’intensità luminosa è diminuita dell’80% in confronto a quattro anni fa. Le cause del collasso siriano sono molto evidentemente molteplici, di volta in volta geopolitiche, religiose, economiche… A monte c’è anche la crisi climatica. Prima del conflitto, annate successive di siccità hanno provocato pessimi raccolti e lo spostamento di un milione di persone, che si sono aggiunte ai rifugiati iracheni ed hanno rafforzato l’instabilità. Anche se semplificata, questa classificazione degli stadi ci permette di comprendere che quello che stiamo per vivere non è un evento omogeneo e brutale. Non è l’apocalisse. E’ un mosaico di collassi, più o meno profondi seconda dei sistemi politici, le regioni, le stagioni, gli anni. Ciò che è ingiusto è che i paesi che hanno contribuito di meno al riscaldamento climatico, i più poveri, sono già sul punto di collassare, in particolare a causa della desertificazione. Paradossalmente, i paesi di zone temperate, che hanno maggiormente contribuito all’inquinamento, forse ne usciranno meglio.

Questo ci porta alla questione delle disuguaglianze. “Le disuguaglianze nei paesi dell’OCSE non sono mai così alte da quando le misuriamo”, ha dichiarato, il 21 maggio a Parigi, il segretario generale dell’OCSE. Che ruolo giocano le disuguaglianze nel collasso?

Le disuguaglianze sono un fattore di collasso. Affrontiamo la questione con un modello chiamato “Handy”, finanziato dalla NASA. Descrive le diverse interazioni fra una società e il suo ambiente. Questo modello mostra che finché le società sono diseguali, collassano più velocemente ed in modo più sicuro delle società egalitarie. Il consumo ostentato tende ad aumentare quando le diseguaglianze economiche sono forti, come dimostra il lavoro del sociologo Thorstein Veblen. Ciò intrappola la società in una spirale di consumo che, alla fine, provoca il collasso per esaurimento di risorse. Il modello mostra anche che le classi ricche possono distruggere la classe lavoratrice – il potenziale umano – sfruttandola sempre di più. Questo fa stranamente da eco alle politiche di austerità attuate attualmente, che diminuiscono la capacità dei più poveri di sopravvivere. Con l’accumulo di ricchezze, la casta delle élite non subisce il collasso se non dopo i più poveri, cosa che la rende cieca e la mantiene nella negazione. Due epidemiologi britannici, Richard Wilkinson e Kate Pickett [3], mostrano anche che il livello di diseguaglianze ha conseguenze molto tossiche sulla salute degli individui.

Il Movimento di Transizione, molto collegato alle alternative ecologiche, affronta a sufficienza le disuguaglianze? 

Il Movimento di Transizione tocca principalmente le classi più ricche, le meglio istruite e ben informate. Le classi precarie sono meno attive in questo movimento, è un fatto. Nel Movimento di Transizione, così come si manifesta in Francia con Alternatiba o gli obbiettori alla crescita, la questione sociale è presente, ma non viene affrontata di petto. Non è una bandiera. La posizione del Movimento di Transizione è quella di essere inclusivi: siamo tutti sulla stessa barca, siamo tutti preoccupati. E’ vero che questo può infastidire i militanti politicizzati che sono abituati alle lotte sociali. Ma ciò permette anche a molta gente disincantata o poco politicizzata di mettersi in movimento, di agire e di non sentirsi più impotenti. Il Movimento di Transizione viene dal Regno Unito dove, storicamente, l’utilizzo dello stato sociale è meno forte: una via, un quartiere, un paese. Il ruolo degli animatori del movimento è di mettere tutti, individuo o gruppo, in relazione.

Il Movimento di transizione sembra essere per gli spazi in cui un cittadino può ancora esercitare il suo potere di agire: la sfera privata, il suo modo di abitare o di consumare, il suo quartiere… Il mondo del lavoro, dove questo potere di agire attualmente è molto limitato, persino impedito, ma che rimane il quotidiano di milioni di stipendiati, non è di fatto escluso?

Non necessariamente. Quella che chiamano “REconomy”: costruire un’economia che sia compatibile con la biosfera, pronta a fornire servizi e a fabbricare prodotti indispensabili ai nostri bisogni quotidiani. Non una cosa che si fa solo durante il tempo libero. Sono cooperative in cui imprenditorialità svolta verso un’attività senza petrolio, in movimento con un clima destabilizzato. Ci sono anche monete locali. Tutto ciò rappresenta oggi milioni di persone nel mondo [4]. Non è cosa da poco. La Transizione è la storia di una grande sconnessione. Coloro che lavorano dentro e per il sistema, che è in via di collasso, devono sapere che questo finirà. Non glielo si può dire diversamente! Bisogna sconnettersi, staccare progressivamente i fili, ritrovare un po’ di autonomia e  il potere di agire. Mangiare, vestirsi, abitare e spostarsi senza il sistema industriale attuale non avverrà da solo. La Transizione è un ritorno alla collettività per ritrovare un po’ di autonomia. Personalmente, non sappiamo come sopravvivere senza andare al supermercato o utilizzare la macchina. Non lo impareremo che all’interno di un quadro collettivo. Coloro che rimarranno troppo dipendenti avranno grosse difficoltà.

Non è un po’ brutale come discorso, soprattutto per coloro che necessariamente non hanno la capacità o il margine di manovra di anticipare il collasso?

La tristezza, la collera, l’ansia, l’impotenza, la vergogna, il senso di colpa: abbiamo percepito in successione tutte queste emozioni durante le nostre ricerche. Le vediamo esprimersi in modo più o meno forte nel pubblico che incontriamo. E’ accogliendo queste emozioni, non rifiutandole, che possiamo piangere il sistema industriale che ci ha nutrito e passare oltre. Senza una presa di coscienza lucida e catastrofista da un alto e delle strade per andare verso la Transizione dall’altro, non ci si può mettere in movimento. Se non sei catastrofista, non fai niente. Se non sei positivo, non ti puoi rendere conto dello shock che sta arrivando e quindi entrare in transizione.

Come fare in modo, in questo contesto, che prevalgano il sostegno reciproco e le dinamiche collettive?

Il sentimento di ingiustizia di fronte al collasso può essere molto tossico. In Grecia, che sta per collassare finanziariamente, economicamente e politicamente, la popolazione vede questo come un’enorme ingiustizia e risponde con la collera o il risentimento. E’ del tutto legittimo. La collera può essere diretta, con la ragione, contro le élite, come ha mostrato la vittoria di Syriza. Ma rischia anche di di prendere come bersagli dei capi espiatori. Lo si è visto col partito di estrema destra Alba Dorata che se la prende con gli stranieri e gli immigrati. Trattare a monte la questione delle diseguaglianze permetterebbe di disinnescare catastrofi politiche future. E’ per questo che i sindacati e i protagonisti di lotte sociali hanno tutto il loro spazio all’interno del Movimento di Transizione.

Confronto fra le previsioni del Club di Roma del 1972 e la situazione attuale in materia di esaurimento delle risorse, produzione agricola e industriale, crescita della popolazione, aumento della deforestazione e dell’inquinamento globale…

Note

Pablo Servigne è ingegnere agronomo e laureato in biologia. Raphaël Stevens è esperto in resilienza dei sistemi socio-ecologici. Sono entrambi autori di “Come tutto può collassare”, Ed. du Seuil, aprile 2015.
Fra il 1995 e il 2010, il pianeta ha perso in media 10 ettari di foresta al minuto, secondo la FAO.
Vedere il libro, tradotto in francese: “Perché l’uguaglianza è meglio per tutti”.
Vedere la nostra mappa delle alternative in Francia così come la nostra rubrica Inventare.

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Un Artico più caldo significa inverni più freddi altrove.

Da “Inside Climate News”. Traduzione di MR (via Skeptical Science)

Di Katherine Bagley

L’aumento delle temperature dell’Artico stanno cambiando il jet stream, portando l’aria fredda più a sud, dimostrando che il cambiamento climatico può alimentare il meteo estremo in modi inattesi. 

Il cambiamento climatico si manifesta con inverni più nevosi in luoghi come Boston, grazie ad un Artico più caldo. Foto: Peter Enyeart, via Flickr

La fusione del ghiaccio marino e le temperature più alte nell’Artico sono responsabili per i brutali picchi di freddo che hanno afflitto parti dell’Asia e del Nord America negli ultimi anni, secondo la nuova ricerca di scienziati coreani ed europei pubblicata lunedì.

Lo studio, pubblicato nella rivista peer-review Nature Geoscience, si aggiunge alle prove crescenti che collegano l’aumento delle temperature nell’Artico al cambiamento degli schemi meteorologici in tutto il globo. Aiuta anche a demolire ulteriormente una delle argomentazioni preferite dai negazionisti: il meteo freddo prova che il mondo non si sta scaldando a causa dell’accumulo di gas serra nell’atmosfera.

I negazionisti lo scorso inverno si crogiolavano nella loro teoria quando una nevicata record di 281 cm è caduta su Boston e temperature di -37°C ha gelato ampie aree delle Pianure Centrali e del nordest. Il senatore repubblicano Jim Inhofe ha notoriamente portato una palla di neve sul pavimento del Senato per “provare” la sua idea e il candidato repubblicano principale alle elezioni presidenziali e uomo d’affari Donald Trump a febbraio a tweettato: “Record minimo delle temperature e massicce quantità di neve. Dove diavolo è il RISCALDAMENTO GLOBALE?

“Questa ricerca provoca enormi buchi in quella argomentazione, se i negazionisti scelgono di fare attenzione alle sue scoperte”, ha detto Jennifere Francis, una scienziata del clima all’Unniversità di Rutgers in New Jersey, che non è stata impegnata nella ricerca.

Il concetto sembra contraddittorio all’inizio, temperature più alte in un posto che causano inverni freddi in un altro. Ma il saggio scopre che un Artico più caldo e meno ghiacciato – una regione che si è riscaldata il doppio più velocemente del resto del mondo negli ultimi due decenni – crea un rigonfiamento di aria calda nella bassa atmosfera che spinge il jet stream ad diventare più ondulato, spingendolo più a sud in alcuni luoghi e più a nord in altri, man mano che si sposta verso est sul globo. Mentre scende a sud verso latitudini più basse di quanto non facesse prima, porta con sé aria fredda dell’Artico.

Lo scienziato climatico ed autore principale del saggio Jong-Seong Kug dell’Università di Pohang in Corea ed i suoi colleghi hanno scoperto che il riscaldamento a nord della Russia occidentale crea inverni più freddi nell’Asia centrale e il riscaldamento a nord dell’Alaska occidentale crea inverni più freddi nell’America centrale ed orientale.

Gli scienziati hanno controllato tre volte le loro scoperte usando i dati di temperatura e meteo degli ultimi decenni, esperimenti di simulazione del jet stream e modelli climatici globali. Kug e i suoi colleghi non hanno risposto alla richiesta di commentare.

La Francis, che ha studiato l’impatto del riscaldamento dell’Artico sul jet stream, ha detto che lo studio potrebbe aiutare chi fa previsioni e le figure istituzionali preposte alla preparazione ai disastri a capire che tipo di meteo aspettarsi in diverse parti del mondo.

“I risultati di questo studio ci dicono anche che le differenze anno per anno nella localizzazione delle maggiori perdite di ghiaccio possono aiutare a prevedere – a a prepararsi – inverni rigidi in regioni di latitudine media densamente popolate”, ha detto.

Tuttavia, ha anche riconosciuto che El Niño di quest’anno e le temperature dell’oceano estremamente alte nell’Oceano Pacifico potrebbero interferire quest’inverno con il collegamento riscaldamento dell’Artico/meteo freddo.

“Siamo in un territorio inesplorato”, ha detto la Francis. “Non abbiamo una mappa stradale degli schemi meteorologici che si verificheranno in queste condizioni, ma è sicuro prevedere che ‘inusuale’ sarà una parola che verrà usata un sacco”.

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Controintutitivo: (Un po’ di) volatilità dei mercati è buona, la stabilità non tanto

Da “Resource Insight”. Traduzione di MR

Di Kurt Cobb

Con le borse del mondo che precipitano e i prezzi dei beni in picchiata, sembra appropriato tornare al tema di cui ho parlato in precedenza, cioè del fatto che una certa quantità di volatilità finanziaria è cosa buona per gli esseri umani e per i sistemi che costruiscono e che i tentativi di soffocare la naturale e salutare volatilità di un sistema può portare alla fine ad una maggiore, e persino catastrofica, volatilità. Tutto questo va contro la propaganda con la quale veniamo intrattenuti quotidianamente. Per esempio, agli investitori viene detto che minore è la volatilità dei loro portafogli, minore è il rischio. Ma nel 2008 questo si è rivelato essere falso. Più di recente, man mano che la volatilità nell’ampiamente seguito S&P 500 si è assestata ai minimi storici, quest’anno, gli investitori hanno creduto che la magia della volatilità bassa fosse un fatto permanente. Le banche centrali, attraverso i loro interventi periodici quando i mercati hanno iniziato a crollare, avevano in qualche modo approntato una situazione senza possibilità di perdere per gli investitori. Sarebbe stato vento in poppa per… be’, per sempre, se si ascolta Wall Street.


La storia della volatilità nei mercati e nella vita quotidiana suggerisce che la volatilità alta si trova dietro l’angolo dopo un periodo prolungato di volatilità bassa. E’ impossibile dire cosa innescherebbe il tipo di collasso che abbiamo visto nel 2008. Per adesso, il collasso della borsa cinese e le recenti notizie economiche negative in Cina e negli Stati Uniti hanno innervosito molti investitori. La borsa cinese ora è a più di metà strada verso un collasso in stile 2008. Le borse in Europa e Stati Uniti hanno finalmente iniziato a crollare sul serio dopo aver tenuto e persino migliorato nonostante i grandi declini dei mercati emergenti come Brasile, Indonesia, Malesia e Turchia. I soldi sono scappati dai mercati emergenti verso le grandi economie sviluppate cercando – avete indovinato – stabilità.

Sulla scia del collasso del 2008 le banche centrali e i governi sono stati determinati nel ravvivare la crescita economica. A loro non importava il fatto che avessimo troppa capacità produttiva, troppa edilizia, troppe banche, troppi brokeraggi e troppo anche di molte altre cose. Quell’eccesso doveva essere assorbito dai consumatori e dalle imprese con l’accesso a finanziamenti a basso costo, finanziamenti che quei gruppi avrebbero speso per ravvivare l’economia. Le imprese marginali, gli speculatori troppo indebitati nell’edilizia e le banche insolventi e i brokeraggi dovevano essere salvati di modo che potessero vivere per speculare e funzionare per un altro giorno.. Gli eccessi della bolla precedente sarebbero stati trasferiti alla successiva. In pochi sarebbero stati redarguiti per i loro errori.

Avendo applicato diversi cicli di questo stile politico, a partire dal collasso del 1987, a parti marginali dell’economia – come le grandi banche indebitate e sovraesposte – è stato permesso non solo di sopravvivere, ma in realtà di prosperare e di prodursi in comportamenti sempre più rischiosi, confidando sul fatto che le autorità le avrebbero sempre salvate se fossero divenute insolventi.

L’apparente stabilità del mercato e la bassa volatilità progettata dall’acquisto delle obbligazioni da parte della banca centrale e dalla politica dei tassi di interesse zero dopo il collasso del 2008 è un’illusione. Praticamente è come l’illusione che una faglia tellurica a riposo da a chi ci vive sopra. Lo stress sulla faglia invisibile si accumula gradualmente in un lungo periodo. Va tutto bene finché non giunge l’assestamento improvviso e la terra comincia a tremare portandosi via autostrade, ponti ed edifici. E’ l’equivalente geologico di un collasso del mercato.

Ma, come hanno indicato all’inizio di quest’anno su Foreign Affairs Nassim Nicholas Taleb ed il suo coautore, Gregory Treverton, queste idee sulla volatilità valgono non solo per i mercati, ma anche per paesi interi. Il pezzo contrappone l’apparente stabilità della Siria con l’ambiente relativamente caotico del Libano di poco prima della Primavera Araba. Ma il Libano, che si è dovuto adattare alle nuove condizioni dopo 15 anni di guerra civile, si è dimostrato forte nonostante il caos diffuso in tutto il Medio Oriente. La Siria, che sembrava essere l’immagine della stabilità, ora è nel caos, vittima della sua stessa rigidità. Gli autori sottolineano cinque cause di questa fragilità fra i regimi apparentemente stabili:

1. Sistema decisionale concentrato
2. Assenza di diversità economica
3. Alto indebitamento complessivo e grande effetto leva di particolari industrie
4. Mancanza di alternanza politica
5. Nessuna memoria di sopravvivenza a degli shock

Controintuitivamente, l’Italia viene stimata come di gran lunga più robusta della Francia a causa del sistema politico fortemente decentralizzato dell’Italia, un sistema in cui 14 diversi primi ministri in 25 anni hanno causato minimi contrasti nella governance italiana.

La Francia, che è molto più centralizzata ed anche fortemente indebitata, è fragile in confronto per quanto riguarda gli shock economici ed i cambiamenti degli alti dirigenti. Le quasi costanti crisi politiche parlamentari in Italia difficilmente hanno conseguenze sul paese. L’ascesa della destra anti immigrazione in Francia sta dando i brividi all’elettorato. Il Giappone, che è stato una pietra di paragone di stabilità in Asia, in realtà è piuttosto vulnerabile per due motivi: il più alto rapporto debito/PIL del mondo e il regno ininterrotto del Partito Liberale Democratico dal 1955 al 2009. Forte debito e mancanza di alternanza politica preludono ad un innesco che porterà una volatilità inconsueta. La Turchia, un paese altamente centralizzato e fortemente dipendente dal turismo per la sua valuta straniera, sta vivendo una turbolenza intensa collegata al dissenso interno dei Curdi, alle ricadute della guerra civile della vicina Siria e alla conseguenza perdita di introiti turistici. Nel linguaggio di Taleb e Treverton, il paese è fortemente dipendente dal turismo.

Una moderata volatilità nelle economie sotto forma di recessioni periodiche estirpa le ditte deboli rendendo così l’economia generale più forte. Quando quella volatilità viene soppressa, come è stato fatto ripetutamente negli ultimi 30 anni, molte strutture deboli e avventate sopravvivono insieme a quelle forti e prudenti. Di fatto, gli avventurieri vengono premiati per il fatto di prendersi pericolosi rischi, specialmente nel settore finanziario, dove riescono a tenersi i sussidi che hanno avuto, mentre i contribuenti ripuliscono il casino.

Una moderata volatilità negli affari delle nazioni impartisce loro delle lezioni, le costringe ad adattarsi a circostanze che cambiano e in generale mantiene le persone sveglie e pronte. Le difficoltà ci insegnano molto di più dei successi, rendendoci molto più robusti di fronte alle difficoltà future.

C’è anche la troppa volatilità. Esercitarsi è cosa buona per la salute. Morire di un colpo di calore per un allenamento troppo lungo in un caldo eccessivo è troppa volatilità. Dall’altra parte, stare seduti a guardare la TV per gran parte della giornata prepara soltanto la mente e il corpo per una volatilità catastrofica sotto forma di grandi problemi di salute come attacchi di cuore ed una compromessa capacità di analizzare e risolvere i grandi problemi della vita.

Trovare il giusto livello di volatilità degli individui, delle società e delle loro istituzioni non è così difficile quanto sembra. Ciò che è difficile è accettare quel livello.

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Gli esseri umani si trovano di fronte all’estinzione se la distruzione delle piante continua: ‘Le leggi della termodinamica non hanno pietà’

Da “International Business Times”. Traduzione di MR (via Bodhi Paul Chefurka)

Di Hannah Osborne


Una sezione di pascolo bruciato vista in un’area deforestata dell’Amazzonia nello stato di Maranhao (Mario Tama/Getty Images)


Uno studio ha scoperto che gli esseri umani o si estingueranno o saranno costretti a tornare a stili di vita da cacciatori-raccoglitori se continuiamo a distruggere la vita vegetale della Terra.
John Schramski, dell’Università della Georgia, ha detto che il nostro pianeta diventerà sempre meno ospitale in conseguenza della perdita di piante e che, se non ci estinguiamo, i nostri stili di vita torneranno quelli dei nostri antenati di 12.000 anni fa. In uno studio pubblicato sulla rivista PNAS, Schramski e colleghi hanno usato la termodinamica (la relazione fra calore ed energia) per guardare l’energia immagazzinata nelle piante e il tasso al quale viene distrutta per stabilire le conseguenze della distruzione continua. La Terra è stata un panorama desolato per miliardi di anni, finché gli organismi si sono evoluti fino a trasformare la luce solare in energia. Dopo di che c’è stata una esplosione di vita vegetale ed animale. I ricercatori stimano che il pianeta contenesse circa 1.000 miliardi di tonnellate di carbonio nella vita vegetale 2.000 anni fa e che da allora gli esseri umani hanno ridotto quella quantità di circa la metà, distruggendola per fare spazio a città e agricoltura. Si pensa che abbiamo distrutto circa il 10% di questa banca di carbonio negli ultimi 100 anni.

La necessità di sfamare una popolazione in crescita ha alimentato lo squilibrio di energia (REUTERS/Luke MacGregor)

“Si può pensare alla Terra come ad una batteria che è stata caricata molto lentamente per milioni di anni”, ha detto Schramski. “L’energia solare è immagazzinata nelle piante e nei combustibili fossili, ma gli esseri umani stanno drenando energia molto più rapidamente di quanto questa possa essere reintegrata. Se non invertiamo questa tendenza, alla fine raggiungeremo un punto in cui la batteria a biomassa si scarica ad un livello al quale la Terra non ci può più sostenere”. Lo studio ha mostrato che gran parte della perdita di biomassa è stata il risultato della deforestazione e dell’agricoltura meccanizzata su larga scala per nutrire una popolazione in crescita. Dal 1800, la popolazione globale è aumentata da una stima di un miliardo a sette miliardi. Ma mano che viene distrutta più vita vegetale, il pianeta ha meno energia immagazzinata per mantenere il suo equilibrio naturale. “Man mano che il pianeta diventa meno ospitale e più persone dipendono da meno opzioni di energia disponibile, il loro standard di vita e la stessa sopravvivenza diventeranno sempre più vulnerabili alle fluttuazioni, come siccità, epidemia e disordine sociale”, ha detto Schramski.

Lo studio ha scoperto che l’attuale tasso di consumo di energia dei moderni esseri umani è intorno alle 24 volte quello dei cacciatori-raccoglitori. Ha detto che il tasso di scarico netto fra i bisogni metabolici della specie umana e le riserve chimiche rimaste è “ovviamente insostenibile”. Schramski ha detto a IBTimes UK che non c’è quadro temporale su quando la batteria a biomassa finirà o quanto ci vorrà per ricaricarla, ma che la sfida chiave del saggio è stata quella di assicurarsi che le persone capiscano quanto sia importante la vita vegetale come fonte di energia. “Parliamo di energia in modi che a volte sono fuorvianti – che molta energia sia intercambiabile. Potrebbe essere vero per i dispositivi fatti dall’uomo, ma quando parliamo di far funzionare la biosfera, c’è una sola energia che conta ed è la biomassa. E la biomassa è la pietra angolare energetica di tutte le altre energie. Non è intercambiabile. Non ci sono pezzi di ricambio della biomassa e non ci saranno mai”.

Schramski ha detto che la Terra è come una grande batteria che non viene ricaricata (Nasa Earth Observatory)

Gli autori concludono: “la Terra si trova in un grave squilibrio energetico a causa dell’uso di energia da parte degli esseri umani. Questo squilibrio definisce il nostro conflitto più dominante con la natura. E’ davvero un conflitto, nel senso che l’attuale squilibrio energetico, una crisi senza precedenti nella storia della Terra, è una conseguenza diretta dell’innovazione tecnologica. “Per la prima volta nella storia, l’umanità è di fronte ad un limite di energia chimica globale. Il paradigma della batteria terra-spazio fornisce una cornice semplice per la comprensione degli effetti storici degli esseri umani sulle dinamiche energetiche della biosfera, compresi i confini termodinamici inalterabili che ora pongono gravi sfide al futuro della specie umana. “La biomassa è il capitale di energia che tiene in funzione la biosfera e sostiene la popolazione umana e l’economia. Non c’è semplicemente nessun serbatoio di riserva di biomassa del pianeta Terra. Le leggi della termodinamica non hanno pietà. L’Equilibrium è inospitale, sterile e finale”.

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Cambiamento climatico: ci salverà la crisi economica?

Dalla pagina FB di Bodhi Paul Chefurka. Traduzione di MR

Una delle cose interessanti del modo in cui l’economia funziona è che per fare un dollaro è sempre necessario consumare energia. E il consumo di energia (parlando globalmente) comporta il rilascio di CO2. Come abbiamo visto dall’inizio della Rivoluzione Industriale, man mano che l’economia mondiale cresce, le emissioni di CO2 seguono.

Il PIL mondiale potrebbe cominciare a scivolare? Questa probabilità sembra sempre maggiore. Le borse stanno crollando, man mano che i prezzi dei beni collassano, l’economia della Cina sta sprofondando, i rapporti del debito nel mondo stanno lievitando e le banche centrali sembrano aver finito gli strumenti incentivanti su larga scala. Ovviamente siamo a rischio di inversione economica globale, che potrebbe persino già essere in corso.

Sono stato per lungo tempo dell’opinione di recente condivisa dallo scienziato del clima Christopher Reyer, che è stato citato nell’articolo “Il collasso economico limiterà il cambiamento climatico, prevede uno scienziato del clima” quando dice, “Non siamo nemmeno sulla strada per i +6°C perché le economie collasseranno molto prima che ci arriviamo”.

Per cui ho deciso di fare un piccolo esperimento mentale. Cosa succederebbe alle emissioni di CO2 se il mondo entrasse in una depressione analoga alla Grande Depressione dei primi anni 30, ma in qualche modo più duratura? Come ogni buono scienziato amatoriale, comincio dichiarando le mie ipotesi in anticipo.

Ho cominciato con l’ipotesi chiave che l’intensità di CO2 del PIL (la quantità di CO2 emessa per ogni dollaro di PIL) rimarrebbe costante nel periodo della depressione, il che significa che il declino percentuale delle emissioni di CO2 sarebbe lo stesso di quello del PIL.

Quell’ipotesi iniziale si basa sull’ipotesi sottesa: i fattori che in passato hanno ridotto l’intensità di carbonio del PIL – come l’accumulo di energia rinnovabile e il passaggio a livello mondiale verso le economie dei servizi – non saranno più in gioco. Gli investimenti in nuovi impianti di produzione di energia si fermeranno, in quanto non serviranno più e il mondo sarà troppo occupato a cercare di sopravvivere per preoccuparsi di creare più posti di lavoro in servizi finanziari e nell’arredamento di interni.

Lo scenario si dipana così: ho immaginato che il mondo cade in una depressione che inizia praticamente come la Grande Depressione, con tre anni di scivolamento del PIL a doppia cifra. Questo salto è seguito da una tentata ripresa che recupera un po’ di campo economico per un anno o due, dopo di che si insedia una discesa economica più graduale ma di maggior durata, che si dipana man mano che si avvicina il 2030.

Nella mia immaginazione il ripido scivolamento economico inizia il prossimo anno, con tre anni consecutivi di declino del PIL mondiale del 11% – più o meno quello che il mondo ha vissuto dal 1929 al 1932. Quei declini sono seguiti da un anno di ripresa e da un anno di paralisi da far strabuzzare gli occhi. Dopo il 2020, comincia lo scivolamento più lungo e lento. Comincia col 5% all’anno e si riduce gradualmente a declini del 2% all’anno verso la fine del decennio. Ogni anno, le emissioni di CO2 scendono della stessa percentuale del PIL.

Ecco come si presenta l’evento in numeri:

Nel 2030, il mondo emetterebbe solo la metà del CO2 che emette oggi – circa la stessa quantità che emetteva nel 1977. Ciò avverrebbe senza alcuna necessità di investimenti in energie rinnovabili o nucleare e senza la necessità di alcun accordo internazionale. Naturalmente, a quel punto il PIL mondiale sarebbe declinato a sua volta della metà…

Ora, questo non è un piano o una proposta. E’ solo una descrizione di quello che accadrebbe durante un declino economico simile a quello che abbiamo già vissuto in un passato non troppo lontano.

A differenza delle conferenze internazionali sul clima “estendi-e-fingi”, o le pie illusioni dei sostenitori delle energie rinnovabili, questo processo è garantito che funzioni. Ed un rapido sguardo alle borse di azioni, obbligazioni e beni proprio in questo momento suggerisce che le possibilità che questo accada in realtà sono piuttosto buone.

Forse c’è qualche speranza, dopotutto, per la biosfera…

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5 trilioni di tonnellate di ghiaccio perse dal 2002

Da “slate”. Traduzione di MR (via Skeptical Science)

Di Phil Plait 

Scrivo del significato che ha il riscaldamento globale per il nostro pianeta e per noi ormai da molto tempo. Una preoccupazione cruciale riguardo a questo è la perdita di ghiaccio terrestre in Antartide e Groenlandia, per molte ragioni. Una è che è un indicatore dei poli, un’anticipazione di cosa significa alzare il termostato globale. Un’altra è che contribuisce all’aumento del livello del mare, che si sta alzando ormai da un bel po’ di tempo. La la perdita di ghiaccio terrestre è forse più importante come innesco politico. La quantità totale di ghiaccio terrestre persa ogni anno è diretta, qui, ora. E i numeri sono impressionanti: usando i dati dei satelliti GRACE lanciati nel 2002, gli scienziati hanno misurato che la calotta glaciale dell’Antartide sta perdendo 134 miliardi di tonnellate all’anno e la Groenlandia ne sta perdendo 287.

Ghiaccio terrestre perso da Groenlandia e Antartide dal 2002. Il punto zero è la media 2002-2015. Grafico della NASA

Sono un astronomo. Mi occupo sempre di numeri molto grandi. Ma interiorizzarli è tutta un’altra storia, dopo un po’ diventano semplicemente, be’, numeri. Forse è necessario un cambiamento di prospettiva. Quei tassi citati sono terrificanti, ma cosa significano per la perdita totale di ghiaccio di quelle due regioni? Mercoledì, la NASA ha pubblicato il grafico sopra sul suo sito sul cambiamento climatico ed ha cercato insistentemente di far capire cosa significhino 420 miliardi di tonnellate di ghiaccio che fondono ogni anno se guardiamo al recente passato. Dal 2002 al metà novembre 2014 – meno di 13 anni – il totale di ghiaccio terrestre perso da Antartide e Groenlandia è più di 5 trilioni di tonnellate.

Cinque. Trilioni. Tonnellate
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Questo è più che sconcertante ; è quasi inconcepibile. E’ un volume di circa 5.700 chilometri cubici, un cubo di ghiaccio di quasi 18 km di lato. Mettete quel cubo sulla terra e il suo vertice sarebbe oltre il 90% dell’atmosfera terrestre, raggiungendo un’altezza del doppio del monte Everest.

Tanto per darvi un’idea. Illustrazione fotografica di Lisa Larson-Walker. Fotografie di Daniel Prudek/Thinkstock e StudioZ/Shutterstock.
Cinque trilioni di tonnellate. Ricordatevelo la prossima volta che qualche negazionista del cambiamento climatico comincia a sputare le solite sciocchezze sull’aumento del livello del mare. Quell’affermazione è molto vicina ad una bugia sfacciata. Primo, il ghiaccio marino artico sta declinando rapidamente. Secondo, la perdita di ghiaccio marino artico è così enorme che sovrasta facilmente qualsiasi guadagno temporaneo di ghiaccio del ghiaccio marino in Antartide. E, terzo, il ghiaccio marino è molto diverso da quello terrestre. La perdita di ghiaccio terrestre non viene sostituita nemmeno lontanamente al tasso al quale viene perso. Una volta che scivola in mare, è andato. 
Eccetto il fatto che in realtà non è andato. E’ andato come ghiaccio. E’ ancora lì sotto forma di acqua dolce, facendo aumentare il livello del mare e alterando potenzialmente le correnti di acqua calda e fredda che regolano ulteriormente il nostro clima. Ogni qualvolta faccio un post come questo, ricevo email, tweet e commenti da parte di persone che negano che il riscaldamento globale stie avvenendo e che indicano “prove” fatalmente errate –  facendo cherry-picking di dati (come guardare a piccole aree anziché ai dati globali), ignorando le tendenze per evidenziare picco picchi nel tempo, distraendo le persone usando esempi fuorvianti di raffreddamento o crescita del ghiaccio. E’ sempre la stessa noiosa robaccia. La realtà è che ci stiamo scaldando. La realtà è che stiamo perdendo ghiaccio in entrambi i poli a ritmi allucinanti. La realtà è che il nostro clima sta cambiando, il nostro meteo sta cambiando, le nostre vite stanno cambiando. Dobbiamo riconoscerlo e i nostri politici lo devono riconoscere. I negazionisti si affidano alla cattiva scienza e ad interpretazioni patologiche. Nonostante le recenti sciocchezze su questo (Rick Santorum ha mai ragione su qualcosa?), di fatto la maggioranza schiacciante degli scienziati del clima concorda: il riscaldamento globale è reale ed è colpa nostra. Dobbiamo eleggere politici che capiscano questo e che siano disposti ad agire. Altrimenti, in un futuro non lontano, 5 trilioni di tonnellate sembreranno una goccia in un secchio. 

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Dieci miliardi

Se i livelli di popolazione continuano ad aumentare al tasso attuale, i nostri nipoti vedranno la Terra sprofondata in una crisi ambientale senza precedenti, sostiene lo scienziato computazionale Stephen Emmott in in questo estratto dal suo libro Dieci Miliardi

Da “The Guardian”. Traduzione di MR (via Luca Pardi)



La popolazione globale è prevista superare la soglia dei 10 miliardi in questo secolo. Foto: Getty, Corbis

Di  Stephen Emmott

La Terra è la casa di milioni di specie. Solo una la domina. Noi. La nostra intelligenza, la nostra inventiva e le nostre attività hanno modificato quasi ogni parte del nostro pianeta. Di fatto stiamo avendo un profondo impatto su di esso. Di fatto, la nostra intelligenza, la nostra inventiva e le nostre attività ora sono i motori di ogni problema globale che affrontiamo. Ed ognuno di questi problemi sta accelerando man mano che continuiamo a crescere verso una popolazione globale di 10 miliardi. Di fatto, credo che possiamo giustamente definire un’emergenza la situazione in cui ci troviamo – una emergenza planetaria senza precedenti.

Noi esseri umani siamo emersi come specie circa 200.000 anni fa. In tempi geologici, è un tempo davvero molto recente. Solo 100.000 anni fa, eravamo solo un milione. Nel 1800, solo 200 anni fa, eravamo 1 miliardo. Nel 1960, eravamo 3 miliardi. Ora siamo oltre 7 miliardi. Nel 2015, i vostri figli o i figli dei vostri figli, vivranno su un pianeta con almeno 9 miliardi di altre persone. Ad un certo punto verso la fine del secolo, ci saranno almeno 10 miliardi di persone. Probabilmente di più.
Siamo arrivati dove siamo grazie ad diverse civiltà – e di “eventi” che hanno plasmato la società, in particolare la rivoluzione agricola, quella scientifica e quella industriale e, in Occidente, quella della salute pubblica. Nel 1980, eravamo 4 miliardi sul pianeta. Solo 10 anni dopo, nel 1990, eravamo 5 miliardi. Da questo momento i primi segni delle conseguenze della nostra crescita hanno iniziato a manifestarsi. Non ultimo fra questi segni è stato sull’acqua. La nostra domanda di acqua – non solo l’acqua che abbiamo bevuto, ma l’acqua che ci è servita per produrre cibo e per fare tutte le cose che stavamo consumando – stava andando alle stelle. Ma stava per cominciare ad accadere qualcosa all’acqua.

Nel 1984 i giornalisti hanno fatto un servizio dall’Etiopia sulla carestia di proporzioni bibliche causata da una diffusa siccità. Siccità ed alluvioni inusuali stavano aumentando ovunque: Australia, Asia, Stati Uniti, Europa. L’acqua, una risorsa vitale che pensavamo come abbondante, ora all’improvviso era qualcosa di potenzialmente scarso. Nel 2000 eravamo 6 miliardi. Stava diventando chiaro alla comunità scientifica mondiale che l’accumulo nell’atmosfera di CO2, metano ed altri gas serra – conseguenza dell’aumento dell’agricoltura, dell’uso della terra e della produzione, lavorazione e trasporto di tutto ciò che stavamo consumando – stava cambiando il clima. E che, di conseguenza, avevamo problemi seri fra le mani. Il 1998 era stato l’anno più caldo mai registrato. I 10 anni più caldi mai registrati si sono verificati dal 1998.

Sentiamo il termine “clima” ogni giorno, quindi vale la pena pensare a quello che intendiamo realmente con questo. Ovviamente, “clima” non è la stessa cosa di Meteo. Il clima è uno dei sistemi di supporto vitale fondamentali della Terra. E’ generato da quattro componenti: l’atmosfera (l’aria che respiriamo); l’idrosfera (l’acqua del pianeta); la criosfera (le calotte glaciali ed i ghiacciai) e la biosfera (le piante e gli animali del pianeta). Al momento, le nostre attività hanno iniziato a modificare ognuna di queste componenti. Le nostre emissioni di CO2 modificano l’atmosfera. Il nostro uso d’acqua in aumento ha iniziato a modificare la criosfera, in particolare per quanto riguarda la riduzione inaspettata delle calotte glaciali di Artico e Groenlandia. Il nostro uso di terra in aumento, per l’agricoltura, le città, le strade, l’estrazione mineraria – così come tutto l’inquinamento che avevamo creato – aveva iniziato a modificare la nostra biosfera. O, per dirla in un altro modo, avevamo iniziato a cambiare il nostro clima.

Ora siamo più di 7 miliardi sulla Terra. Mentre il nostro numero continua a crescere, continuiamo ad aumentare la nostra necessità di molta più acqua, molto più cibo, molta più terra, molti più trasporti e molta più energia. Di conseguenza, stiamo accelerando il tasso al quale stiamo cambiando il clima. Di fatto, le nostre attività non sono solo completamente interconnesse col sistema complesso in cui viviamo, ma col quale ora interagiamo anche: la Terra. E’ importante capire come è connesso tutto quanto.

Prendiamo un aspetto, ancora poco conosciuto ma importante, dell’aumento dell’uso di acqua: “l’acqua nascosta”. L’acqua nascosta è acqua usata per produrre le cose che consumiamo ma che di solito non pensiamo contengano acqua. Fra queste cose ci sono pollo, manzo, macchine, cioccolato e cellulari. Per esempio: ci vogliono circa 3.000 litri di acqua per produrre un hamburger. Nel 2012, sono stati consumati circa 5 miliardi di hamburger nel solo Regno Unito. Significano 15 trilioni di litri di acqua in hamburger solo nel Regno Unito. Negli Stati Uniti sono stati consumati qualcosa come 14 miliardi di hamburger nel 2012. Sono circa 42 trilioni di litri d’acqua. Per produrre hamburger negli Stati Uniti. In un anno. Ci vogliono 9.000 litri d’acqua per produrre un pollo. Nel solo Regno Unito abbiamo consumato circa un miliardo di polli nel 2012. Ci vogliono circa 27.000 litri d’acqua per produrre un chilo di cioccolato. Sono circa 2.700 litri d’acqua per ogni barretta di cioccolato. Questa dovrebbe essere di sicuro una cosa a cui pensare mentre stiamo rannicchiati su un divano in pigiamo a mangiare cioccolato. Ma ho cattive notizie sui pigiami. Perché temo che al vostro pigiama di cotone servano 9.000 litri d’acqua per essere prodotto. E ci vogliono 100 litri d’acqua per produrre una tazza di caffè. E questo prima che venga aggiunta realmente acqua al vostro caffè.

Probabilmente, abbiamo bevuto circa 20 miliardi di tazze di caffè lo scorso anno nel Regno Unito. E ironia delle ironie – ci vogliono circa quattro litri d’acqua per produrre una bottiglia di plastica per l’acqua da un litro. Nel solo Regno Unito, abbiamo comprato, bevuto e buttato via nove miliardi di bottiglie d’acqua di plastica. Cioè 36 miliardi di litri d’acqua, usata in modo del tutto non necessario. Acqua sprecata per produrre bottiglie… per l’acqua. E ci vogliono circa 72.000 litri d’acqua per produrre un chip che solitamente alimenta il vostro portatile, navigatore satellitare, iPad e la vostra macchina. Sono stati prodotti due miliardi di tali chip nel 2012. Cioè 145 trilioni di litri d’acqua. In chip semiconduttori. In breve, stiamo consumando acqua, come anche cibo, ad un tasso che è del tutto insostenibile.

La domanda di terra per il cibo raddoppierà – come minimo – nel 2050 e triplicherà – come minimo – per la fine di questo secolo. Ciò significa che la pressione per abbattere molte delle foreste tropicali mondiali che rimangono per uso umano si intensificherà di decennio in decennio, perché questa è questa principalmente la sola terra disponibile che rimane per espandere l’agricoltura su scala. A meno che la Siberia non fonda prima che finiamo di deforestare. Nel 2050, 1 miliardo di ettari di terra verrà probabilmente liberata per soddisfare la domanda di cibo in aumento di una popolazione in crescita. Si tratta di un’area più grande degli Stati Uniti. E ad accompagnare questo ci saranno 3 gigatonnellate all’anno in più di emissioni di CO2. Se la Siberia fonde prima che finiamo di deforestare, ci sarebbe una grande quantità di nuove terre disponibili per l’agricoltura, così come l’apertura di una fonte molto ricca di minerali, metalli, petrolio e gas. Durante il suo sviluppo, questo quasi certamente cambierebbe la geopolitica globale. La Siberia che fonde trasformerebbe la Russia in una forza economica e politica notevole in questo secolo per via delle sue risorse minerali, agricole ed energetiche recentemente scoperte. Ciò sarebbe anche inevitabilmente accompagnato da grandi riserve di metano – attualmente sigillate sotto la tundra del permafrost siberiano – che vengono rilasciate, accelerando fortemente il problema climatico ancora di più.

La foresta amazzonica fuma dopo essere stata abbattuta per il pascolo di bestiame in brasile. Foto: Michael Nichols/Getty Images

Nel frattempo, altri 3 miliardi di persone avranno bisogno di vivere da qualche parte. Nel 2050, il 70% di noi vivrà in grandi città. Questo secolo vedrà la rapida espansione delle città, così come la nascita di città completamente nuove che non esistono ancora. Vale la pena di dire che delle 19 città brasiliane che sono raddoppiate in popolazione nell’ultimo decennio, 10 sono in Amazzonia. Tutto questo occuperà ancora più terra. Attualmente non abbiamo mezzi noti in grado di sfamare 10 miliardi di persone all’attuale tasso di consumo e con il nostro sistema agricolo attuale. Infatti, solo per sfamare noi stessi nei prossimi 40 anni, avremo bisogno di produrre più cibo dell’intera produzione agricola degli ultimi 10.000 anni messi insieme. Invece la produttività del cibo è destinata a declinare, probabilmente in modo molto netto, nei prossimi decenni a causa di: cambiamento climatico, degrado del suolo e desertificazione – entrambi stanno aumentando rapidamente in molte parti del mondo – e stress idrico. Per la fine di questo secolo, grandi parti del pianeta non avranno più acqua utilizzabile.

Allo stesso tempo, i settori delle spedizioni e delle linee aeree globali sono previste in continua e rapida espansione ogni anno, per trasportare più di noi, e più delle cose che vogliamo consumare, intorno al pianeta anno dopo anno. Ciò causerà problemi enormi per noi in termini di più emissioni di CO2, più fuliggine e più inquinamento provocato dall’estrazione e dalla lavorazione per fare tutte queste cose. Ma pensate a questo. Per trasportare noi e le nostre cose su tutto il pianeta, stiamo anche creando una rete altamente efficiente per la diffusione globale di malattie potenzialmente catastrofiche. C’è stata una pandemia globale solo 95 anni fa – l’epidemia di Spagnola, che ora si stima abbia ucciso fino a 100 milioni di persone. E questo prima che una delle invenzioni più discutibili – le linee aeree a basso costo – fossero inventate. La combinazione di milioni di persone che viaggiano intorno al mondo ogni giorno, oltre a milioni di persone in più che vivono in prossimità estrema a maiali e pollame – spesso nella stessa stanza, rendendo più probabile il salto della barriera fra specie di un nuovo virus – significa che stiamo aumentando, in modo significativo, la probabilità di una nuova pandemia globale. Quindi non soprende che gli epidemiologi siano sempre più d’accordo sul fatto che una nuova pandemia globale ora sia una questione di “quando”, non di “se”.

Dovremo triplicare – come minimo – la produzione di energia per la fine di questo secolo per soddisfare la domanda prevista. Per soddisfare quella domanda dovremo costruire, grosso modo, qualcosa come: 1.800 delle dighe più grandi del mondo o 23.000 centrali nucleari, 14 milioni di pale eoliche, 36 miliardi di pannelli solari, oppure continuare prevalentemente con petrolio, carbone e gas – e costruire 36.000 nuove centrali mdi cui avremo bisogno. Le sole nostre riserve di petrolio, carbone e gas valgono trilioni di dollari. I governi e le principali società petrolifere, del carbone e del gas mondiali – fra le multinazionali più influenti della Terra – decideranno davvero di lasciare i soldi nel sottosuolo mentre la domanda di energia aumenta senza sosta? Ne dubito. Nel frattempo il problema climatico che emerge è su una scala del tutto diversa. Il problema è che potremmo essere diretti verso diversi “punti di non ritorno” del sistema climatico globale. C’è un obbiettivo globale politicamente concordato – spinto dall’IPCC – per limitare l’aumento medio della temperatura globale a 2°C. Il fondamento logico di questo obbiettivo è che un aumento al di sopra di 2°C porta un rischio significativo di cambiamento climatico catastrofico che porterebbe quasi sicuramente a “punti di non ritorno” planetari, causati da eventi come la fusione della calotta glaciale della Groenlandia, il rilascio dei depositi di metano dalla tundra artica, o il disseccamento dell’Amazzonia. Di fatto, i primi due stanno già accadendo ora – al di sotto della soglia dei 2°C.

In quanto al terzo, non stiamo aspettando che lo faccia il cambiamento climatico: lo stiamo facendo in questo momento tramite la deforestazione. E una ricerca recente mostra che sembra si certo che siamo diretti verso un aumento delle temperature medie globali maggiore di 2°C – un aumento molto maggiore. Ora è molto probabile che stiamo assistendo ad un aumento medio globale futuro di 4°C – e non possiamo escludere un aumento di 6°C. Questo sarà assolutamente catastrofico. Porterà al cambiamento climatico fuori controllo, in grado di portare il pianeta in uno stato completamente diverso, rapidamente. La Terra diventerà un inferno. Nei decenni lungo il percorso, saremo testimoni di estremi senza precedenti di meteo, incendi, alluvioni, ondate di calore, perdita di raccolti e foreste, stress idrici e aumenti del livello del mare catastrofici. Grandi parti dell’Africa diventeranno aree disastrate permanentemente. L’Amazzonia potrebbe trasformarsi in una savana o persino in un deserto. E l’intero sistema agricolo si troverà di fronte ad una minaccia senza precedenti.

Paesi più “fortunati”, come il Regno Unito, gli Stati Unite e gran parte dell’Europa, potrebbero apparire come qualcosa di simile a paesi militarizzati, con pesanti controlli in difesa dei confini studiati per impedire a milioni di persone di entrare, persone che si spostano perché i loro paesi non sono più abitabili, o hanno acqua e cibo insufficienti, o stanno vivendo conflitti per risorse sempre più scarse. Queste persone saranno “migranti climatici”. Il termine “migranti climatici” è uno di quelli a cui ci dovremo abituare sempre di più. Infatti, chiunque pensi che lo stato di cose emergente non abbia il potenziale per conflitti civili ed internazionali si illude. Non è una coincidenza che quasi ogni conferenza scientifica sul cambiamento climatico a cui vado ora ha un nuovo tipo di partecipante: i militari. In qualsiasi modo la si guardi, un pianeta con 10 miliardi di abitanti appare come un incubo. Quali sono quindi le nostre opzioni?

La sola soluzione che ci rimane è cambiare il nostro comportamento, radicalmente e globalmente, su ogni livello. In breve, abbiamo urgente bisogno di consumare meno. Molto meno. Radicalmente meno. E dobbiamo conservare di più. Molto di più. Per ottenere un tale cambiamento radicale del comportamento servirebbe anche un’azione governativa radicale. Ma dall’interesse che mostrano per questo tipo di cambiamento, i politici attualmente sono parte del problema, non parte della soluzione, perché le decisioni che devono essere prese per implementare un significativo cambiamento di comportamento rendono inevitabilmente i politici molto impopolari – cosa di cui loro sono ben consapevoli. Quindi ciò per cui hanno invece optato i politici è la diplomazia fallimentare. Per esempio: l’UNFCCC, il cui lavoro è stato per 20 anni quello di assicurare la stabilizzazione dei gas serra nell’atmosfera della Terra: fallito. L’UNCCD, il cui lavoro è stato per 20 anni quello di fermare il degrado della terra che diventa deserto: fallito. Il CBD, il cui lavoro è stato per 20 anni quello di il tasso di perdita della biodiversità: fallito. Questi sono solo tre esempi di iniziative globali fallite. L’elenco e tristemente lungo. E il modo in cui i governi giustificano questo livello di inazione e sfruttando l’opinione pubblica e l’incertezza scientifica. Era un caso di “Dobbiamo aspettare che la scienza provi che il cambiamento climatico stia avvenendo”. Ora questo è fuor di dubbio. Quindi ora è “Dobbiamo aspettare che gli scienziati siano in grado di dirci quale sarà l’impatto e i costi”. E, “Dobbiamo aspettare che l’opinione pubblica sostenga l’azione”. Ma i modelli climatici non saranno mai scevri da incertezze. E in quanto all’opinione pubblica, i politici si sentono notevolmente liberi di ignorarla quando fa loro comodo – guerre, bunus ai banchieri e riforme sanitarie, solo per fare tre esempi.

Quello che i politici e i governi dicono sull’impegno per affrontare il cambiamento climaticoè completamente diverso da quello che fanno. E che dire delle aziende? Nel 2008 un gruppo di economisti e scienziati molto rispettati condotti da Pavan Sukhdev, allora economista senior della Deutsche Bank, hanno condotto un’autorevole analisi economica del valore della biodiversità. La loro conclusione? Il costo delle attività d’affari delle 3.000 maggiori multinazionali del mondo in perdita o danno alla natura e all’ambiente ora è di 2,2 trilioni di dollari all’anno. E aumenta. Questi costi dovranno essere pagati in futuro. Dai vostri figli e nipoti. Per citare Sukhdev: “Le regole degli affari devono essere urgentemente cambiate, così che le multinazionali competano sulla base dell’innovazione, della conservazione delle risorse e del soddisfacimento delle richieste di una moltitudine di parti in causa, piuttosto che sulla base di chi è più efficace nell’influenzare le regole di governo, evitando tasse e ottenendo sussidi per attività dannose per massimizzare il ritorno per gli azionisti”. Penso che questo accadrà? No, e noi?

Confesso che lo trovavo divertente, ma ora mi sono rotto di leggere nei settimanali di qualche celebrità che dice “Ho mollato la mia 4×4 ed ho comprato una Prius. Sto facendo o no la mia parte per l’ambiente”? Non stanno facendo la loro parte per l’ambiente. Ma non è colpa loro. Il fatto è che loro – noi – non siamo stati informati bene. E ciò è parte del problema. Non riceviamo le informazioni che ci servono. La scala e la natura del problema non ci vengono semplicemente comunicati. E quando veniamo consigliati di fare qualcosa, questa a malapena incide sul problema. Ecco alcuni dei cambiamenti che ci è stato chiesto di fare di recente da parte di celebrità che amano pronunciarsi su questo tipo di cose e dai governi, che dovrebbero avere di meglio da fornire come ‘soluzioni’ che non queste sciocchezze: spegnete il vostro caricabatterie del cellulare; fate la pipì nella doccia (la mia preferita); comprate un’auto elettrica (no, non fatelo9; usate due fogli di carta igienica anziché tre. Sono tutti gesti simbolici che non colgono il fatto fondamentale che la scala e la natura dei problemi che abbiamo di fronte sono immense, senza precedenti e probabilmente irrisolvibili.

I cambiamenti di comportamento che ci sono richiesti sono così fondamentali che nessuno li vuole fare. Quali sono? Dobbiamo consumare meno. Molto meno. Meno cibo, meno energia, meno cose. Meno macchine, macchine elettriche, magliette di cotone, computer portatili, aggiornamenti di cellulari. Di gran lunga di meno. E qui vale la pena di sottolineare che “noi” è riferito alle persone che vivono a occidente e a nord del globo. Attualmente ci sono circa 3 miliardi di persone nel mondo che hanno urgente bisogno di consumare di più: più acqua, cibo, energia. Dire “Non fate figlia” è completamente ridicolo. Contraddice ogni pezzo di informazione geneticamente codificata che conteniamo e uno degli impulsi più importanti (e divertenti) che abbiamo. Detto questo, la cosa peggiore che possiamo continuare a fare – globalmente – è fare figli al ritmo attuale. Se il tasso di riproduzione globale attuale continua, per la fine di questo secolo non saremo 10 miliardi. Secondo le Nazioni unite, la popolazione dello Zambia è prevista in aumento del 941% per la fine del secolo. La popolazione della Nigeria è prevista crescere del 349%, fino a 730 milioni di persone.

L’Afghanistan del 242%.
La Repubblica Democratica del Congo del 213%.
Il Gambia del 242%.
Il Guatemala del 369%.
L’Iraq del 344%.
Il Kenya del 284%.
La Liberia del 300%.
Il Malawi del 741%.
Il Mali del 408%.
Il Niger del 766%.
La Somalia del 663%.
L’Uganda del 396%.
Lo Yemen del 299%.

Persino la popolazione degli Stati Uniti è prevista in crescita del 54% per il 2100, da 315 milioni nel 2012 a 478 milioni. Voglio solo sottolineare che se l’attuale tasso globale di riproduzione continua, per la fine di questo secolo non saremo 10 miliardi – saremo 28 miliardi.

Dove ci porta tutto questo? Guardiamola così. Se domani scoprissimo che c’è un asteroide in rotta di collisione con la terra e – visto che la fisica è una scienza molto semplice – fossimo in grado di calcolare che colpirebbe la Terra il 3 giugno del 2072 e noi sapessimo che il suo impatto spazzerebbe via il 70% della vita sulla terra, i governi del mondo porterebbero il pianeta intero ad un’azione senza precedenti. Ogni scienziato, ingegnere, università ed azienda verrebbero arruolati: metà per cercare un modo di fermarlo, l’altra metà per cercare un modo di sopravvivere e ricostruire per la nostra specie, se la prima opzione si dimostrasse un insuccesso. Ci troviamo quasi esattamente nella stessa situazione adesso, eccetto per il fatto che non c’è una data specifica e non c’è un asteroide. Il problema siamo noi. Perché non facciamo di più per la situazione in cui ci troviamo – data la scala del problema e l’urgenza necessaria – semplicemente non lo capisco. Spendiamo 8 miliardi di euro al Cern per cercare prove di una particella chiamata Bosone di Higgs, che alla fine potrebbe o meno spiegare la massa e fornire un ok parziale per il modello standard della fisica delle particelle. E i fisici del Cern sono ansiosi di dirci che si tratta dell’esperimento più grande e più importante sulla Terra. Non lo è. L’esperimento più grande e importante sulla Terra è quello che stiamo conducendo tutti insieme, adesso, sulla Terra stessa. Solo un idiota negherebbe che c’è un limite a quante persone può sostenere la Terra. La domanda è, sono 7 miliardi (la nostra popolazione attuale), 10 miliardi o 28 miliardi? Credo che lo abbiamo già superato. Sperato di molto.

La scienza è essenzialmente scetticismo organizzato. Ho passato la mia vita a cercare di smentire il mio lavoro o a cercare spiegazioni alternative ai miei risultati. Si chiama condizione Popperiana di falsificabilità. Spero di sbagliare. Ma la scienza evidenzia il mio essere nel giusto. Possiamo giustamente chiamare la situazione in cui ci troviamo un’emergenza senza precedenti. Dobbiamo urgentemente fare – ed intendo fare davvero – qualcosa di radicale per evitare una catastrofe globale. Ma non penso che lo faremo. Penso che siamo fottuti. Ho chiesto ad uno degli scienziati più razionali e brillanti che conosco – uno scienziato che lavora in questo campo, uno scienziato giovane, uno scienziato del mio laboratorio – se ci fosse una sola cosa che dovrebbe fare riguardo alla situazione che abbiamo davanti, quale sarebbe? La sua risposta? “Insegnare a mio figlio come usare una pistola”.

Questo è un estratto modificato da Dieci Miliardi di Stephen Emmott (Penguin, £6.99)

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Paul Chefurka: come i principi della termodinamica determinano la situazione energetica

Da “Prosperouswaydown”. Traduzione di MR (via Bodhi Paul Chefurka)

I principi termodinamici spiegano come una base energetica, per l’uomo e per la natura, governa sia l’auto organizzazione gerarchica sia la devoluzione di complessità nei sistemi attraverso le leggi fisiche.

Il principio della selezione naturale si rivela come capace di cedere informazioni che la prima e la seconda legge della termodinamica non sono competenti a fornire. Le due leggi fondamentali della termodinamica sono, naturalmente, insufficienti a determinare il corso degli eventi in un sistema fisico. Ci dicono che certe cose non possono accadere, ma non ci dicono cosa succede (Lotka, 1922).

Arriviamo così alla conclusione che ogni tipo di moto perpetuo è impossibile. Un flusso continuo di energia fresca è necessario per il funzionamento costante di ogni sistema in opera, sia animato sia inanimato. La vita è ciclica per quanto riguarda le sostanze materiali consumate e gli stessi materiali vengono usati in continuazione nel metabolismo. Ma per quanto riguarda l’energia, è unidirezionale e nessun uso ciclico continuo dell’energia è nemmeno concepibile. Se abbiamo energia disponibile, potremmo mantenere la vita e produrre ogni requisito materiale necessario. E’ per questo che il flusso di energia dovrebbe essere la prima preoccupazione dell’economia (Soddy, 1926, p. 56).

I processi geologici, i sistemi atmosferici, gli ecosistemi e le società sono interconnessi attraverso una serie di trasformazioni energetiche… ognuna di esse riceve energia e materie dall’altro, ridandola indietro e agendo attraverso meccanismi di retroazione per auto-organizzare il tutto in una grande interazione di spazio, tempo, energia ed informazione. I processi di trasformazione dell’energia in tutta la biosfera costruiscono ordine, degradano energia nel processo e mettono in ciclo materiali ed informazioni in reti di sistemi organizzati gerarchicamente di scala spaziale e temporale sempre maggiore (Odum, 2001, p. 4).

Le prime tre leggi spiegano cosa succede nei singoli processi, mentre i quattro principi aggiuntivi mettono in relazione processi di potenza fra le scale, nel tempo.

1. La Prima Legge di Conservazione dell’Energia dice che l’energia non può essere creata o distrutta, piuttosto, la quantità di energia persa in un processo di stato stazionario non può essere maggiore della quantità di energia guadagnata. Vale a dire, non si può avere niente in cambio di niente, perché materia ed energia vengono conservate. Così, l’energia che fluisce in un sistema (e nello schema di un sistema) deve o essere conteggiata in flussi in uscita dai confini del sistema o in stoccaggio all’interno del sistema. Come riformulatoda CP Snow: non puoi vincere.

2. La Seconda Legge, l’Entropia, dice che l’entropia in un sistema isolato in equilibrio tenderà ad aumentare nel tempo, avvicinandosi ad un valore massimo nel punto di equilibrio; i sistemi hanno una tendenza ad aumentare la propria entropia nel tempo. L’energia viene trasformata dal lavoro. Così, l’energia dispersa non può fare più lavoro e lascia degradata il sistema definito, raffigurato nei diagrammi come pozzo di calore. Non si può tornare allo stesso stato energetico durante il lavoro, perché c’è sempre un aumento del disordine, parte del calore va sprecato in tutti i processi in quanto la disponibilità di energia potenziale viene perduto. Come riformulatoda Snow: non puoi pareggiare.

3. Man mano che la temperatura si avvicina allo zero assoluto, il cambiamento di entropia di un sistema a sua volta si avvicina allo zero, quindi è impossibile ridurre l’entropia di un sistema al suo valore di zero assoluto. L’entropia dipende dalla temperatura e porta alla formulazione dell’idea di zero assoluto, che è irraggiungibile. In altre parole, non si può cambiare il sistema o, come riformula Snow: non puoi ritirarti dal gioco.

Leggi o principi proposti

4. Non si può giocare a lungo a meno che non rubi pedine all’avversario

Una quarta legge energetica proposta è il Principio di Potenza Massima: “Nella competizione fra i processi auto-organizzati, i progetti di rete che massimizzano il potenziamento prevarranno” (Odum, 1996). “Siccome i progetti con migliori prestazioni prevalgono, l’auto-organizzazione seleziona le connessioni di rete che ridanno indietro energia trasformata per aumentare l’afflusso di risorse o per usarle in modo più efficiente” (Odum, 2000). Denominata Principio di Massima Potenza e un corollario, Potenziamento Massimo, questa idea, adattata da Lotka (1922), spiega perché i sistemi come le civiltà possono auto-organizzarsi al di fuori della tendenza universale verso l’entropia. L’energia alimenta la complessità con la trasformazione tramite lavoro in gerarchie sempre più alte di complessità ed ordine, rinforzando la produzione tramite l’acquisizione di energia disponibile massimizzata. La riformulazione, Potenziamento Massimo, descrive il tasso massimo di acquisizione di emergia. “Col tempo, tramite il processo di prova ed errore, i modelli complessi di strutture e processi si sono evoluti… quelli di successo sopravvivono perché usano bene materiali ed energie per la propria manutenzione e competono bene con altri modelli che il caso interpone”  (Odum). I fattori di qualità dell’energia (transformities, sotto) offrono più precisione nel comprendere come si auto-organizzano i sistemi. Quest’idea è importante anche per spiegare l’equilibrio reciproco fra potenza ed efficienza e come viene usata l’energia dai sistemi. Quando le forniture di energia sostengono la crescita accelerata, la massima potenza favorisce la competizione. Quando l’energia è limitata dal flusso, i livelli di crescita si livellano e vengono favorite unità diverse e cooperative (Odum, 2007). Questa idea di successione diventa importante per spiegare come smettono di crescere i sistemi, una volta maturi, e a persino devolvere, tramite impulsi. La prima priorità dei sistemi è quella di massimizzare l’afflusso di energia; la loro seconda priorità è massimizzare l’efficienza nell’elaborazione dell’energia.

5. Più rubi, più accorci la lunghezza totale del gioco
“Un quinto principio proposto delle gerarchia energetica o Transformity, afferma che il fattore qualitativo dell’energia aumenta gerarchicamente. Detto semplicemente, energie di diversi tipi formano una gerarchia di qualità. Perché? Perché questo progetto massimizza il potenziamento. Da studi di isotopi nelle catene alimentari ecologiche, Odum ha proposto che le trasformazioni dell’energia formano una serie gerarchica misurata dall’aumento di Transformity. I flussi di energia sviluppano reti gerarchiche nelle quali le energie che affluiscono interagiscono e vengono trasformate da processi di lavoro in forme di energia di maggiore qualità che rispondono ad azioni di amplificazione, aiutando a massimizzare la potenza del sistema” – (Odum 1994, p. 251). Questa trasformazione può essere misurata come la quantità di energia di un tipo necessaria per fare un’unità di energia di un altro tipo. Amplificatori di retroazione, o autocatalisi, creano flussi amplificatori di energia in aumento creando piramidi di complessità come le catene alimentari.
6. Lo scopo del gioco è quello di farlo durare il più possibile
Una sesta legge energetica proposta afferma che i cicli materiali hanno modelli gerarchici misurati dal rapporto emergia/massa che determina la loro zona, ampiezza e frequenza di pulsazione nella gerarchia energetica. I materiali sono accoppiati alla gerarchia di trasformazione dell’energia e circolano verso i centri della concentrazione gerarchica, re-circolando verso le concentrazioni di fondo disperse. 
In aggiunta, la legge di conservazione della materia afferma che ingressi di materie grezze inorganiche devono essere contate o per gli stoccaggi o per i deflussi tramite circolazione quando descritti nei sistemi, similmente all’energia, come raffigurato sotto dai flussi di materiali. 
7. I soldi del gioco sono contraffatti
Odum ha proposto anche la Gerarchia dei Soldi come settima legge (Odum, 2000, p. 12). I soldi sono accoppiati alle serie di trasformazioni dell’energia (gerarchia energetica) e sono limitati dalle proprietà della gerarchia. Le loro proprietà cambiano passando a centri più alti di concentrazione, le città. Ai livelli bassi sulla sinistra ci sono le trasformazioni ambientali libere senza soldi. Ad ogni passo più alto c’è un valore aggiunto, quindi la concentrazione di soldi aumenta come il rapporto energia/soldi. L’energia per unità di soldi diminuisce e, viceversa, i soldi per unità di energia (prezzo) aumentano. Nei centri, la circolazione di soldi è più concentrata ma il potere d’acquisto dei soldi è minore (Odum, 2000, p. 11).

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Siccità e alluvioni: la nuova normalità

di Jacopo Simonetta

Il giorno dodici Agosto ero a Rossano Calabro.   In poche ore sono caduti 15 cm di pioggia, tanti quanti avrebbero dovuto caderne in 5 mesi, solo che non erano caduti.

Alluvioni e nubifragi sono spettacolari e drammatici.   Nel giro di poche ore ci sono grossi danni, spesso morti, feriti e dispersi.   Accorrono elicotteri e mezzi anfibi, mentre video e foto diventano virali su internet, amici e conoscenti telefonano angosciati ed i sindaci rilasciano proclami roboanti.

Le siccità sono infide e neglette.  Si sviluppano silenziosamente per anni, spesso per decenni, senza che apparentemente succeda niente di straordinario.   Solo climatologi, naturalisti ed i contadini ci fanno caso, ma non ci sono foto o video spettacolari da postare.   Le autorità semplicemente ignorano la cosa finché non si prosciugano i rubinetti di qualche città o quando collassa un intero settore economico.    Allora scatta l’emergenza e come tale viene trattata:  laddove ce lo si può ancora permettere, si tenta di sostituire con un fiume di soldi i fiumi di acqua che sono scomparsi.   Ma non funziona mai, spesso anzi contribuisce a peggiorare le cose perché non si capiscono, o non si vogliono capire, due punti fondamentali:

1 – Siccità ed alluvioni sono in buona misura due facce della stessa medaglia.

2 – Tanto l’una che l’altra non sono un’emergenza, ma la nuova normalità che ci accompagnerà nel corso del secolo a venire e probabilmente molto oltre.

Come tutti i fenomeni complessi, anche questi derivano da intricati sistemi di concause e di retroazioni, ma tre punti fondamentali dovrebbero essere abbastanza chiari anche per degli amministratori.

A – Cambiamento climatico.   Oramai dovrebbero saperlo davvero tutti.   Vi è in corso un rapido aumento della temperatura media terrestre, ma l’incremento è diverso da un posto e da un periodo all’altro e ci sono anche zone e periodi in cui la temperatura è più bassa del solito.   Questo altera la circolazione delle masse d’aria e, dunque, la distribuzione delle piogge.   Cioè ci sono posti o periodi in cui piove di più ed altri in cui piove di meno.   In molte zone della Terra, e fra queste l’Italia, la pioggia è diminuita considerevolmente (in Versilia dove abito, circa il  30% meno in 30 anni).   Ma soprattutto si sta consolidando una situazione in cui per molti mesi non  piove o quasi, per poi “rimettersi in pari” nel giro di poche ore.    C’è una ragione precisa per questo:  le tempeste sono il modo con cui l’atmosfera dissipa l’energia in eccesso che ha accumulato, perlopiù durante i mesi di siccità. E quando la pioggia cade sul terreno inaridito e denudato, I danni sono inevitabili.

Dunque lo stesso fenomeno, il Riscaldamento Climatico, provoca sia un aumento nella frequenza e durata delle siccità, sia un aumento della frequenza e dell’intensità dei nubifragi.    Dunque, considerando gli scenari prevedibili, entrambi i fenomeni costituiscono oramai il clima attuale e prossimo futuro del nostro Paese, oltre che di molti altri.    Anzi, un peggioramento è sicuro, anche se non quantificabile adesso.   Continuare a fingere che si tratti di fenomeni eccezionali non servirà ad altro che a dilapidare le poche risorse ancora disponibili per adattarci.

2 – Urbanizzazione.   Abbiamo passato 50 anni a costruire case, strade e capannoni dovunque ci facesse comodo.   A varie riprese il governo ha cercato di metterci una pezza imponendo controlli e cautele.   Tutto puntualmente disatteso dagli enti locali che hanno gestito queste cose come mere trafile burocratiche, anziché usarle per dire dove non si doveva costruire e basta.   Il risultato è che una miriade di corsi d’acqua sono diventati canali o tubi che bastano quando piove poco.   Ma quando piove tanto l’acqua torna a passare dove passava prima; cioè lungo le strade ed attraverso le case che sono state costruite dentro o a ridosso degli antichi alvei.
Anche in questo caso, la risposta emergenziale consiste nel ricostruire quello che c’era dov’era.   Oltre ad alzare gli argini, cementare le sponde ad atre misure del genere che, è vero, riducono la frequenza delle esondazioni, ma al prezzo di renderle ancora più rovinose.

Non solo.   La superfici urbanizzate scaricano l’acqua piovana il più rapidamente possibile in un reticolo di fiumi e fossi sempre più stretti per fare spazio a qualcosa di redditizio.   Ma le conurbazioni hanno anche bisogno di enormi quantità di acqua (fra  100 ed i 200 litri al giorno a cranio) e di cibo, per produrre il quale non c’è altro modo che irrigare.   Di qui lo sfruttamento sempre più ossessivo di ogni risorsa idrica residua, fino al completo prosciugamento del territorio.   In Italia, il 90% delle aree umide è stato spazzato via fra la metà dell’ XIX e la metà del XX secolo.   I fiumi sono invece stati prosciugati o quasi in anni più recenti mediante la sistematica captazione delle sorgenti.   Miriadi di pozzi legali e non pompano ininterrottamente acqua da falde acquifere sempre più profonde, con consumi energetici sempre maggiori.   Il risultato è che la quantità di acqua che circola in superficie e nel suolo è diminuita drammaticamente.  E con essa la piovosità, specialmente estiva.   Si perché, contrariamente a quanto ancora si impara a scuola, la maggior parte dell’acqua che piove sulla terra non evapora dal mare, bensì dalle paludi, dai fiumi, dal suolo e dalle foreste.

3 – La guerra contro la vegetazione.   Uno dei mantra che si odono a seguito di ogni alluvione e frana è quello delle “montagne abbandonate”, presunta causa di ogni disastro.   Ebbene, l’agricoltura di sussistenza in aree marginali è interessante sotto molti aspetti, ma, salvo casi particolari, non sotto quello del presidio idrogeologico.   Tanto è vero che la situazione idrogeologica dello Stivale è considerevolmente migliorata nei decenni compresi tra il 1950 ed il 1980 proprio a seguito dell’abbandono di colture e pascoli.   Del resto, sulle colline intorno a Rossano Calabro gli oliveti sono tuttora alacremente coltivati ed è proprio grazie a questi zelanti agricoltori che è difficile trovarvi un filo d’erba.   Il risultato è che il 12 agosto centinaia, probabilmente migliaia, di tonnellate di terra sono confluiti ad intasare il poco che restava dei fiumi.

E’ verissimo che gran parte del nostro attuale patrimonio forestale avrebbe bisogno di oculati interventi di disetaneamento ed incremento della biodiversità, ma ciò non toglie che, nel complesso, il tasso di erosione sia diminuito considerevolmente.  Tanto da contribuire a porre in pericolo l’esistenza di molte spiagge.   Per una volta, non ci sarebbe quindi da lamentarsi,  ma desta preoccupazione il ritorno alla ribalta del legname come materiale da costruzione e, soprattutto, da ardere.  Al di là dell’etichettatura “sostenibile” che oramai accompagna qualunque nefandezza, nessuno, infatti, sembra intenzionato a verificare gli attuali tassi di accrescimento dei boschi.   Tassi che, però, sappiamo essere molto più bassi di quanto non sia riportato sui manuali in conseguenza del differente regime pluviometrico di cui si diceva all’inizio.  Il problema non è dunque se si possono o meno tagliare i boschi, perché ovviamente si.   Il problema è quanto si possono tagliare: un argomento su cui né gli industriali, né le amministrazioni hanno alcuna voglia di vederci chiaro.

Comunque, anche se il crollo del prezzo del petrolio potrà fermare temporaneamente l’assalto ai boschi, la siccità aumenta il rischio e la gravità degli incendi i quali, a loro volta, favoriscono la siccità.   E’ vero che i servizio anti-incendio si è dotato di mezzi potenti, ma ciò non ha potuto impedire un aumento degli incendi.   “Il numero annuo di incendi in Italia è passato da 6.000 negli anni ’60, a 12.000 negli anni’80 e a 15.000 oggi corrispondenti a 42 incendi al giorno, quasi 2 all’ora

La morale di queste poche note è semplice e complessa ad un tempo: danni climatici consistenti e crescenti sono inevitabili e, se volessimo mitigarli, dovremmo  fare sostanzialmente il contrario di quello che stiamo facendo.  
Ad esempio, demolire strade e palazzi per ripristinare gli alvei fluviali, con la loro vegetazione caratteristica.   Dovremmo anche ridurre i consumi idrici, liberare sorgenti e ripristinare paludi per mitigare contemporaneamente sia le siccità che le tempeste.   Contemporaneamente, dovremmo ridurre i consumi energetici per contribuire il meno possibile all’effetto serra.

Ma non ho mai letto un piano d’intervento che comprenda questi tre punti.

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Mazzucco e gli allunaggi: nuovo insulto all’intelligenza umana

Il solo fatto che questo video di Mazzucco esista è prova indiscutibile del declino generalizzato delle capacità ragionative umane che vediamo in questo periodo storico. Veramente, credo che solo la legge universale che dice “non c’è limite al peggio” possa spiegare una cosa del genere.

Allora esaminiamo questo video. Per prima cosa, secondo Mazzucco dovremmo credere che gli astronauti non erano mai andati sulla luna perché avevano una “faccia triste” alla conferenza stampa; il che è di per se una fesseria lunare. Poi, viene fuori nel film che gli astronauti hanno detto che non avevano visto le stelle quando erano erano sulla Luna e questo prova che non ci erano stati. Anche questa è una fesseria planetaria, ma merita un attimo di discussione.

Vi ricordate, forse, che nei vecchi romanzi di fantascienza si raccontava che gli astronauti vedevano le stelle a occhio nudo nello spazio. Era una convenzione letteraria, un po’ come i phasers e la warp speed di “Star Trek”. Ma gli autori di quei romanzi sulla Luna non c’erano mai stati e non si erano resi conto che sulla Luna, durante il giorno lunare, le stelle non si vedono a occhio nudo. Non le si vedono semplicemente perchè gli occhi umani (nudi) si adattano alla luminosità dell’ambiente e durante il giorno lunare, la Luna è illuminata dal sole esattamente come la Terra. Altri astronauti hanno raccontato di aver visto le stelle dallo spazio, ma solo quando la navicella era nel cono d’ombra della Terra e loro stessi avevano abbassato le luci interne.

Questa è la parte “scientifica” della bufala, ma la vera nequizia del film è come Marzucco stesso non si renda conto della contraddizione in cui cade. Facciamo un’analisi logica di una cosa illogica: o le stelle non si vedono dalla Luna di giorno (caso 1), oppure le si vedono (caso 2), tertium non datur.  Ora, ci sono due possibilità:

1. E’ vero il caso 1 (le stelle non si vedono). Quindi gli astronauti hanno semplicemente detto la verità. Se per caso sulla Luna non c’erano andati avrebbero potuto pensare e raccontare che le stelle si potevano vedere e allora si che sarebbe stata prova di un imbroglio. Invece, le loro dichiarazioni non sono evidenza di un complotto; anzi, il contrario. 

2. E’ vero il caso 2 (le stelle si vedono). Questo è contro la fisica, ma ammettiamolo per la discussione. Allora, se sulla Luna gli astronauti non ci sono mai stati, i complottatori che hanno ordito l’inganno avrebbero dovuto e potuto addestrarli a raccontare che cosa si vedeva (o pensavano avrebbero dovuto vedere) dalla superficie della Luna; ovvero le stelle. E invece gli astronauti hanno raccontato esattamente il contrario. Quindi, anche qui, nessuna evidenza di complotto.

In sostanza, il fatto che gli astronauti abbiano detto senza esitazioni che le stelle dalla Luna non le hanno viste, non solo non prova il complotto ma è, semmai, una forte indicazione che gli astronauti sulla Luna ci sono stati per davvero (posto che ci  fosse bisogno di un’indicazione del genere). Insomma, Mazzucco costruisce tutto il suo argomento su degli elementi che indicano l’esatto contrario di quello che lui vorrebbe provare. 

Epperò a Mazzucco non glie la fai: lui li guarda in faccia gli astronauti e basta quello per capire che è tutto un comblotto. Sicuro. Guardateli in faccia, non basta quello? E poi, arriva un imbecille con una bibbia in mano…… e uno si dovrebbe stupire che gli astronauti reagiscono come quando ti arriva un messaggio che ti dice che hai vinto un milione di dollari alla lotteria del Madagascar? Come dicevo, un insulto per l’intelligenza umana.



h/t Argento Fisico


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