Effetto Cassandra

Raccontino dello scorso Agosto: chi si accorge del riscaldamento globale?

La caldissima estate del 2015 ha battuto tutti i record, seppellendo per sempre l’idea che il riscaldamento globale fosse in “pausa”. Ma stiamo cominciando ad accorgerci qualcosa? Sembrerebbe di no: questo inverno, ai primi freddi, ci saranno i soliti allocchi che credono di essere originali a ritirar fuori la battuta, condita con una strizzatina d’occhio e un sorriso, “e allora, dov’è finito questo famoso riscaldamento globale?” Sembra proprio un’impresa impossible convincere la gente che la situazione è seria, anche da questo raccontino di una cosa che mi è successa questo Agosto.

Scena: terrazza al quinto piano di una casa di Firenze in un tardo pomeriggio di Agosto. Temperatura circa 35-36 gradi, umidità non quantificata, ma alta. Persone sedute, con un bicchiere di aperitivo in mano. Tutti sono sudati fradici.

Signora: Certo, è proprio caldo, oggi.

Io: Altro ché! E’ un mese che stiamo soffrendo.

Signora: Proprio vero; è un caldo!

Io: Eh, si…. del resto era previsto.

Signora: Previsto? Ma come?

Io: Beh, è il calore accumulato negli oceani che viene rilasciato nell’atmosfera. E’ per via di un oscillazione nella circolazione oceanica, una cosa che si chiama “El Niño”… Ci sono dei modelli…..

Signora: Ma allora c’è di mezzo il riscaldamento globale?

Io: Certamente….. piano piano, le temperature si alzano. L’anno prossimo sarà peggio.

Signora. Come sarebbe a dire?

Io: Il riscaldamento globale non si ferma. Ogni anno è un po’ di più.

Signora: …. Ma, no… ma, no…..  l’anno scorso è piovuto sempre! (scuote la testa e si allontana)

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Raccontino dello scorso Agosto: chi si accorge del riscaldamento globale?

La caldissima estate del 2015 ha battuto tutti i record, seppellendo per sempre l’idea che il riscaldamento globale fosse in “pausa”. Ma stiamo cominciando ad accorgerci qualcosa? Sembrerebbe di no: questo inverno, ai primi freddi, ci saranno i soliti allocchi che credono di essere originali a ritirar fuori la battuta, condita con una strizzatina d’occhio e un sorriso, “e allora, dov’è finito questo famoso riscaldamento globale?” Sembra proprio un’impresa impossible convincere la gente che la situazione è seria, anche da questo raccontino di una cosa che mi è successa questo Agosto.

Scena: terrazza al quinto piano di una casa di Firenze in un tardo pomeriggio di Agosto. Temperatura circa 35-36 gradi, umidità non quantificata, ma alta. Persone sedute, con un bicchiere di aperitivo in mano. Tutti sono sudati fradici.

Signora: Certo, è proprio caldo, oggi.

Io: Altro ché! E’ un mese che stiamo soffrendo.

Signora: Proprio vero; è un caldo!

Io: Eh, si…. del resto era previsto.

Signora: Previsto? Ma come?

Io: Beh, è il calore accumulato negli oceani che viene rilasciato nell’atmosfera. E’ per via di un oscillazione nella circolazione oceanica, una cosa che si chiama “El Niño”… Ci sono dei modelli…..

Signora: Ma allora c’è di mezzo il riscaldamento globale?

Io: Certamente….. piano piano, le temperature si alzano. L’anno prossimo sarà peggio.

Signora. Come sarebbe a dire?

Io: Il riscaldamento globale non si ferma. Ogni anno è un po’ di più.

Signora: …. Ma, no… ma, no…..  l’anno scorso è piovuto sempre! (scuote la testa e si allontana)

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Geoingegneria? Quale geoingegneria?

Da “The Guardian”. Traduzione di MR (via Cristiano Bottone)

I ricercatori hanno dimostrato che anche se venisse scoperta una soluzione geoingegneristica per le emissioni di CO2, non sarebbe abbastanza per salvare gli oceani 

“L’eco chimica dell’inquinamento da CO2 di questo secolo riecheggerà per migliaia di anni”, ha detto il coautore del rapporto Hans Joachim Schellnhuber Foto: Doug Perrine/Design Pics/Corbis

Di Tim Radford

Dei ricercatori tedeschi hanno dimostrato ancora una volta che il modo migliore per limitare il cambiamento climatico è quello di smettere di bruciare combustibili fossili adesso. In un “esperimento mentale” hanno cercato un’altra opzione: la drammatica rimozione in futuro di enormi volumi di biossido di carbonio dall’atmosfera. Ciò riporterebbe l’atmosfera alle concentrazioni di gas serra esistite per gran parte della storia umana – ma non salverebbe gli oceani, hanno concluso.

Vale a dire che gli oceani rimarrebbero più caldi e più acidi per migliaia di anni e le conseguenze per la vita marina potrebbero essere catastrofiche. La ricerca, pubblicata su Nature Climate Change oggi (3 agosto 2015, ndt), consegna l’ennesima dimostrazione che finora non c’è alcuna “soluzione tecnica” fattibile che permetta agli esseri umani di continuare a estrarre carbone, petrolio e gas (noto come scenario “business as usual”) perché poi le geoingegneria sia una soluzione quando il cambiamento climatico diventa calamitoso.

Sabine Mathesius (del Centro Helmholtz per la Ricerca Oceanografica a Kiel e dell’Istituto Potsdam per la Ricerca sull’Impatto Climatico) i i suoi colleghi hanno deciso di modellizzare quello che si potrebbe fare con una tecnologia ad oggi non provata chiamata rimozione del biossido di carbonio. Un esempio sarebbe coltivare un numero enorme di alberi, bruciarli, intrappolare il biossido di carbonio, comprimerlo a seppellirlo da qualche parte. Nessuno sa se questo si possa fare, ma la dottoressa Mathesius e i suoi compagni scienziati non se ne sono preoccupati. Hanno calcolato che potrebbe essere plausibilmente possibile rimuovere biossido di carbonio dall’atmosfera ad un tasso di 90 miliardi di tonnellate l’anno. Si tratta del doppio di quanto viene riversato nell’aria delle ciminiere delle fabbriche e dagli scarichi dei motori in questo momento.

Gli scienziati hanno ipotizzato un mondo che ha continuato a bruciare combustibili fossili ad un tasso accelerato per poi adottare una tecnica di rimozione del biossido di carbonio ad alta tecnologia finora non provata. “Curiosamente, viene fuori che dopo il ‘business as usual’ fino al 2150, persino togliere quantità così enormi di CO2 dall’atmosfera non aiuterebbe poi tanto l’oceano profondo – dopo che l’acqua acidificata è stata trasportata a grandi profondità dalla circolazione oceanica su larga scala, questa è fuori portata per molti secoli, a prescindere da quanto CO2 venga rimosso dall’atmosfera”, ha detto il coautore, Ken Caldeira, che di solito lavora alla Carnegie Institution negli Stati Uniti. Gli oceani coprono il 70% del globo. Nel 2500, le temperature di superficie dell’oceano aumenterebbero di 5°C e la chimica delle acqua oceaniche sarebbe portate a livelli di acidità che renderebbe difficile a un pesce o ad un crostaceo (o mollusco) prosperare. Le acque più calde contengono meno ossigeno disciolto. Le correnti oceaniche probabilmente cambierebbero a loro volta.

Ma mentre il cambiamento nell’atmosfera avviene nel corso di decine di anni, il cambiamento nella superficie dell’oceano impiega secoli e nell’oceano profondo millenni. Quindi anche se le temperature atmosferiche venissero ripristinate ai livelli precedenti alla Rivoluzione Industriale, gli oceani continuerebbero a sperimentare la catastrofe climatica. “Nell’oceano profondo, l’eco chimica dell’inquinamento da CO2 di questo secolo riecheggeranno per migliaia di anni”, ha detto il coautore Hans Joachim Schellnhuber, che dirige l’Istituto Potsdam. “Se non attuiamo subito misure di riduzione delle emissioni in linea con l’obbiettivo dei 2°C in tempo, non saremo in grado di preservare la vita dell’oceano come la conosciamo”.

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Geoingegneria? Quale geoingegneria?

Da “The Guardian”. Traduzione di MR (via Cristiano Bottone)

I ricercatori hanno dimostrato che anche se venisse scoperta una soluzione geoingegneristica per le emissioni di CO2, non sarebbe abbastanza per salvare gli oceani 

“L’eco chimica dell’inquinamento da CO2 di questo secolo riecheggerà per migliaia di anni”, ha detto il coautore del rapporto Hans Joachim Schellnhuber Foto: Doug Perrine/Design Pics/Corbis

Di Tim Radford

Dei ricercatori tedeschi hanno dimostrato ancora una volta che il modo migliore per limitare il cambiamento climatico è quello di smettere di bruciare combustibili fossili adesso. In un “esperimento mentale” hanno cercato un’altra opzione: la drammatica rimozione in futuro di enormi volumi di biossido di carbonio dall’atmosfera. Ciò riporterebbe l’atmosfera alle concentrazioni di gas serra esistite per gran parte della storia umana – ma non salverebbe gli oceani, hanno concluso.

Vale a dire che gli oceani rimarrebbero più caldi e più acidi per migliaia di anni e le conseguenze per la vita marina potrebbero essere catastrofiche. La ricerca, pubblicata su Nature Climate Change oggi (3 agosto 2015, ndt), consegna l’ennesima dimostrazione che finora non c’è alcuna “soluzione tecnica” fattibile che permetta agli esseri umani di continuare a estrarre carbone, petrolio e gas (noto come scenario “business as usual”) perché poi le geoingegneria sia una soluzione quando il cambiamento climatico diventa calamitoso.

Sabine Mathesius (del Centro Helmholtz per la Ricerca Oceanografica a Kiel e dell’Istituto Potsdam per la Ricerca sull’Impatto Climatico) i i suoi colleghi hanno deciso di modellizzare quello che si potrebbe fare con una tecnologia ad oggi non provata chiamata rimozione del biossido di carbonio. Un esempio sarebbe coltivare un numero enorme di alberi, bruciarli, intrappolare il biossido di carbonio, comprimerlo a seppellirlo da qualche parte. Nessuno sa se questo si possa fare, ma la dottoressa Mathesius e i suoi compagni scienziati non se ne sono preoccupati. Hanno calcolato che potrebbe essere plausibilmente possibile rimuovere biossido di carbonio dall’atmosfera ad un tasso di 90 miliardi di tonnellate l’anno. Si tratta del doppio di quanto viene riversato nell’aria delle ciminiere delle fabbriche e dagli scarichi dei motori in questo momento.

Gli scienziati hanno ipotizzato un mondo che ha continuato a bruciare combustibili fossili ad un tasso accelerato per poi adottare una tecnica di rimozione del biossido di carbonio ad alta tecnologia finora non provata. “Curiosamente, viene fuori che dopo il ‘business as usual’ fino al 2150, persino togliere quantità così enormi di CO2 dall’atmosfera non aiuterebbe poi tanto l’oceano profondo – dopo che l’acqua acidificata è stata trasportata a grandi profondità dalla circolazione oceanica su larga scala, questa è fuori portata per molti secoli, a prescindere da quanto CO2 venga rimosso dall’atmosfera”, ha detto il coautore, Ken Caldeira, che di solito lavora alla Carnegie Institution negli Stati Uniti. Gli oceani coprono il 70% del globo. Nel 2500, le temperature di superficie dell’oceano aumenterebbero di 5°C e la chimica delle acqua oceaniche sarebbe portate a livelli di acidità che renderebbe difficile a un pesce o ad un crostaceo (o mollusco) prosperare. Le acque più calde contengono meno ossigeno disciolto. Le correnti oceaniche probabilmente cambierebbero a loro volta.

Ma mentre il cambiamento nell’atmosfera avviene nel corso di decine di anni, il cambiamento nella superficie dell’oceano impiega secoli e nell’oceano profondo millenni. Quindi anche se le temperature atmosferiche venissero ripristinate ai livelli precedenti alla Rivoluzione Industriale, gli oceani continuerebbero a sperimentare la catastrofe climatica. “Nell’oceano profondo, l’eco chimica dell’inquinamento da CO2 di questo secolo riecheggeranno per migliaia di anni”, ha detto il coautore Hans Joachim Schellnhuber, che dirige l’Istituto Potsdam. “Se non attuiamo subito misure di riduzione delle emissioni in linea con l’obbiettivo dei 2°C in tempo, non saremo in grado di preservare la vita dell’oceano come la conosciamo”.

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Mangio, quindi uccido: i limiti del vegetarianismo

Da “The Great Change”. Traduzione di MR

“Perché pensiamo di doverci appropriare di tutte le terre coltivabili del mondo per sfamare gli esseri umani?”

Cavalli islandesi

Di Albert Bates

Siamo tutto ciò che che pensiamo come “individui” in comunità viventi di fatto. Qui in Islanda abbiamo partecipanti a corsi di permacultura da questo paese e da Germania, Stati Uniti, Danimarca, Messico, Canada, Australia, Svizzera, Francia, Norvegia, Svezia, Indonesia, Bulgaria e Costa Rica. Ognuno di noi sta fertilizzando in modo incrociato tutti gli altri col proprio microbioma – le spore e i microbi che trasportiamo dalle nostre bioregioni e trasmettiamo liberamente per contatto attraverso la pelle, l’aria, i fluidi e varie superfici che tocchiamo. Ognuno di noi se ne va con un nuovo microbioma, leggermente alterato e più diversificato di quello con cui è arrivato.

Raccogliamo ed incorporiamo anche nuovi microbi dall’ambiente del luogo. Potremmo ingerire parti e pezzi che sono già passati attraverso il corpo di un antico vichingo, o del suo cavallo, prima che venissero interrate nel suolo per qualche tempo, per poi trovare la loro strada nel cibo e nell’acqua ed ora per venir via con noi per diventare parte del suolo da qualche altra parte. Alla fine, veniamo tutti dalla polvere di stelle e veniamo continuamente riciclati.

Il padre della Permacultura, Bill Mollison, amava canzonare i vegetariani per le loro scelte dietetiche perché pensava che ogni argomentazione per scendere più in basso nella catena alimentare fosse un po’ sospetta. “Non ho passato diversi milioni di anni ad arrampicarmi con unghie e denti fino al vertice per poi mangiare tofu”, ci ha detto una volta a pranzo. Abbiamo guardato imbarazzati il nostro tofu.

In quel periodo stavamo partecipando ad un incontro sulla Permacultura a Perth, in Australia Occidentale e al personale della cucina è stato detto che ci si attendevano principalmente persone che mangiavano carne. Sfortunatamente c’erano tre volte più vegetariani fra i permacultori partecipanti, il che ha significato lunghe code per l’opzione vegetariana e che il personale che serviva i pasti ha vissuto una piccola crisi per mancanza di lungimiranza.

Islanda: campi di lava coperti da un leggero strato di erba da pascolo; vaste aree sono adatte soltanto ad allevare animali.

Robyn Francis, che è stata una delle prime studentesse di Bill e lo ha aiutato a compilare il Manuale di progettazione in Permacultura nei primi anni 80, fa a pezzi alcune delle argomentazioni etiche più comuni. “La carne è solo clorofilla concentrata su un bastoncino di calcio”, dice, prendendo a prestito un’intuizione unica nel suo genere da un ex studente.

La rotazione del pascolo dei maiali spezza le zolle e approfondisce il profilo del suolo, rendendolo coltivabile per verdure e cereali.

La banale frase vegana sul non mangiare cose che hanno occhi o che cercano di scappare potrebbe essere divertente, ma come sappiamo da studi sui meccanismi sensori e le “emozioni” delle piante, anche quelle hanno sentimenti, conoscono la paura, cercano di preservarsi la vita e preferirebbero non essere la vostra cena se fosse offerta loro una scelta. Inoltre, ognuna di loro ha un microbioma fatto di molti piccoli animali con occhi che cercano di scappare.

Zoocentrismo: il relegare le piante in fondo alla gerarchia della vita intelligente.

La Robyn ha fatto una slide prendendo spunto da uno studio sulla coltivazione di cereali in Australia che mostra quante cose viventi – rettili, uccelli, furetti, topi di campagna – vengono massacrati ogni anno per ettaro di cereali che viene raccolto dalle mietitrebbie. Nell’area di studio del Nuovo Galles del Sud, i raccoglitori di cereali uccidono 25 volte più animali per ettaro degli analoghi pascoli di mucche destinate al macello. Messa in un altro modo, il rapporto di bulbi oculari di cose che cercano di scappare è circa di 25:1 in sfavore del lato vegano della contabilità. In un’altra slide, la Robyn spiega che possedere un cane pastore consuma il costo di risorsa equivalente di possedere un SUV. Ed è meglio che non parliamo dei gatti domestici.

Diciamocelo. Se siamo vivi lo rimaniamo solo uccidendo qualcos’altro. E’ così che circolano i nutrienti fra roccia, suolo, piante, materia in decomposizione, insetti, batteri, funghi ed animali. E’ un processo di gruppo, ognuno di noi ha un ruolo, ad un certo punto, come predatore o come preda. Potrebbe non piacerci di mangiare vermi, ma alla fine loro sono più che felici di mangiare noi.

“In pratica, non esiste l’autonomia. In pratica, c’è solo una distinzione fra dipendenze responsabili ed irresponsabili”.

Wendell Berry, L’arte del luogo comune


Pubblicata su Facebook il 27 agosto, 

questa immagine ha 12.000 like e 2877 condivisioni, finora.

Considerate il più ampio problema della fornitura globale di cibo. Gli esseri umani ora sono 7 miliardi e continuano ad espandersi. Fornitura di energia, cibo ed acqua permettendo. Un terzo della massa terrestre della terra è adatta all’agricoltura ma solo un terzo di questa è realmente coltivabile a cereali, verdure, frutta o il tipo di cose che mangiano i vegani. Gli altri due terzi non sono in grado di far crescere vegetali e potrebbero non avere acqua sufficiente per la coltivazione di alberi, ma possono, con una gestione accurata e una giusta presenza di bestiame, sostenere animali commestibili. Infatti, se seguite la discussione di massa sulla rotazione dei pascoli iniziata da Allan Savory, potreste credere che solo le grandi mandrie di animali al pascolo, raggruppati ed in movimento, siano in grado di ripristinare ecologicamente quelle tipologie di terreni danneggiati, ri-sequestrando il carbonio che avevano un tempo e ripristinando i cicli idrologici e climatici del pre-Antropocene – il regime di acqua e suolo un tempo costruito e conservato da bufali, mammut, tigri e lupi.

Ecco un punto di contesa che portiamo con questa discussione, e diamo il benvenuto alla discussione. Per estensione, possiamo dire che se la terra coltivabile è il premio, allora la terra buona con molta acqua dev’essere dedicata ai cereali, alle verdure, alla frutta ed al tipo di cose che mangiano i vegani. Di gran lunga più persone possono essere nutrite con proteine di alta qualità, carboidrati e grassi da quella terra se mangiamo dalla parte bassa della catena alimentare, perché far passare i cereali attraverso gli animali ci fa perdere ritorni nutrizionali di grandi fattori, da 10:1 nel caso del pollame a 40:1 nel caso dei bovini. Secondo la logica usata dalla Robyn, dobbiamo allevare animali domestici esclusivamente sulle terre marginali che non possono sostenere nient’altro. Ciò elimina la fattoria di Joel Salatin in Virginia e molte delle operazioni con animali ad alto rendimento in Nord e Sud America, Europa, Africa, Asia ed Australia. Niente più Manzo di Kobe o Sauerbraten tedesco.

L’argomentazione per mangiare animali da allevamento assume che non possiamo nutrire il mondo se togliessimo l’allevamento di animali e ci concentrassimo sulle piante. Possiamo – solo sulla porzione di terra coltivabile primaria che ha una buona stagione agricola e un sacco di acqua. Un acro di soia biologica, coltivata senza arare, nutrito con biochar che fissa l’azoto e non OGM, non trasformato in mangime animale o plastiche, può fornire proteine di alta qualità come 40 o più acri di bovini. Eliminate l’allevamento di animali nei terreni agricoli migliori e non avrete bisogno di usare l’altro 60% delle terre coltivabili per animali da nutrimento.

Perché pensiamo di doverci appropriare di tutte le terre coltivabili del mondo per sfamare gli esseri umani?

Produrre cibo per le popolazioni umane nei climi secchi o con suoli poveri importandolo da terre migliori è una proposta rischiosa, dato che il paradigma della globalizzazione ora è in vita ed è costruito su uno schema di debito Ponzi che è un vero furto nei confronti dei nostri figli. Il mondo è costretto dall’inesorabilità della fisica dell’energia fossile a rilocalizzare, e rapidamente. Continuare a seguire la curva esponenziale consumistica – di uso di acqua, perdita di suolo, esaurimento del petrolio, estinzione di pesci, popolazione e inquinamento – è pura follia. Al di là di ogni bugia, un Dirupo di Olduvai.

Cavallo islandese arrosto. Il cavallo era
la carne tradizionale del Sauerbraten tedesco. 

In un mondo localizzato, in assenza di un declino indotto catastroficamente, immaginiamo che la popolazione umana frenerà gradualmente verso qualcosa che si avvicina all’equilibrio di stato stazionario fra offerta e domanda in cui gli indigeni erano maestri. Quella era la vecchia normalità prima dell’ultima era Glaciale e andrà probabilmente in quel modo nell’Era delle Conseguenze.

Gli esseri umani delle società locali potrebbero scegliere di equilibrare le loro diete in qualsiasi modo sia più efficace per il loro clima e i loro costumi. Alcuni potrebbero essere vegani, molti probabilmente no.

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Mangio, quindi uccido: i limiti del vegetarianismo

Da “The Great Change”. Traduzione di MR

“Perché pensiamo di doverci appropriare di tutte le terre coltivabili del mondo per sfamare gli esseri umani?”

Cavalli islandesi

Di Albert Bates

Siamo tutto ciò che che pensiamo come “individui” in comunità viventi di fatto. Qui in Islanda abbiamo partecipanti a corsi di permacultura da questo paese e da Germania, Stati Uniti, Danimarca, Messico, Canada, Australia, Svizzera, Francia, Norvegia, Svezia, Indonesia, Bulgaria e Costa Rica. Ognuno di noi sta fertilizzando in modo incrociato tutti gli altri col proprio microbioma – le spore e i microbi che trasportiamo dalle nostre bioregioni e trasmettiamo liberamente per contatto attraverso la pelle, l’aria, i fluidi e varie superfici che tocchiamo. Ognuno di noi se ne va con un nuovo microbioma, leggermente alterato e più diversificato di quello con cui è arrivato.

Raccogliamo ed incorporiamo anche nuovi microbi dall’ambiente del luogo. Potremmo ingerire parti e pezzi che sono già passati attraverso il corpo di un antico vichingo, o del suo cavallo, prima che venissero interrate nel suolo per qualche tempo, per poi trovare la loro strada nel cibo e nell’acqua ed ora per venir via con noi per diventare parte del suolo da qualche altra parte. Alla fine, veniamo tutti dalla polvere di stelle e veniamo continuamente riciclati.

Il padre della Permacultura, Bill Mollison, amava canzonare i vegetariani per le loro scelte dietetiche perché pensava che ogni argomentazione per scendere più in basso nella catena alimentare fosse un po’ sospetta. “Non ho passato diversi milioni di anni ad arrampicarmi con unghie e denti fino al vertice per poi mangiare tofu”, ci ha detto una volta a pranzo. Abbiamo guardato imbarazzati il nostro tofu.

In quel periodo stavamo partecipando ad un incontro sulla Permacultura a Perth, in Australia Occidentale e al personale della cucina è stato detto che ci si attendevano principalmente persone che mangiavano carne. Sfortunatamente c’erano tre volte più vegetariani fra i permacultori partecipanti, il che ha significato lunghe code per l’opzione vegetariana e che il personale che serviva i pasti ha vissuto una piccola crisi per mancanza di lungimiranza.

Islanda: campi di lava coperti da un leggero strato di erba da pascolo; vaste aree sono adatte soltanto ad allevare animali.

Robyn Francis, che è stata una delle prime studentesse di Bill e lo ha aiutato a compilare il Manuale di progettazione in Permacultura nei primi anni 80, fa a pezzi alcune delle argomentazioni etiche più comuni. “La carne è solo clorofilla concentrata su un bastoncino di calcio”, dice, prendendo a prestito un’intuizione unica nel suo genere da un ex studente.

La rotazione del pascolo dei maiali spezza le zolle e approfondisce il profilo del suolo, rendendolo coltivabile per verdure e cereali.

La banale frase vegana sul non mangiare cose che hanno occhi o che cercano di scappare potrebbe essere divertente, ma come sappiamo da studi sui meccanismi sensori e le “emozioni” delle piante, anche quelle hanno sentimenti, conoscono la paura, cercano di preservarsi la vita e preferirebbero non essere la vostra cena se fosse offerta loro una scelta. Inoltre, ognuna di loro ha un microbioma fatto di molti piccoli animali con occhi che cercano di scappare.

Zoocentrismo: il relegare le piante in fondo alla gerarchia della vita intelligente.

La Robyn ha fatto una slide prendendo spunto da uno studio sulla coltivazione di cereali in Australia che mostra quante cose viventi – rettili, uccelli, furetti, topi di campagna – vengono massacrati ogni anno per ettaro di cereali che viene raccolto dalle mietitrebbie. Nell’area di studio del Nuovo Galles del Sud, i raccoglitori di cereali uccidono 25 volte più animali per ettaro degli analoghi pascoli di mucche destinate al macello. Messa in un altro modo, il rapporto di bulbi oculari di cose che cercano di scappare è circa di 25:1 in sfavore del lato vegano della contabilità. In un’altra slide, la Robyn spiega che possedere un cane pastore consuma il costo di risorsa equivalente di possedere un SUV. Ed è meglio che non parliamo dei gatti domestici.

Diciamocelo. Se siamo vivi lo rimaniamo solo uccidendo qualcos’altro. E’ così che circolano i nutrienti fra roccia, suolo, piante, materia in decomposizione, insetti, batteri, funghi ed animali. E’ un processo di gruppo, ognuno di noi ha un ruolo, ad un certo punto, come predatore o come preda. Potrebbe non piacerci di mangiare vermi, ma alla fine loro sono più che felici di mangiare noi.

“In pratica, non esiste l’autonomia. In pratica, c’è solo una distinzione fra dipendenze responsabili ed irresponsabili”.

Wendell Berry, L’arte del luogo comune


Pubblicata su Facebook il 27 agosto, 

questa immagine ha 12.000 like e 2877 condivisioni, finora.

Considerate il più ampio problema della fornitura globale di cibo. Gli esseri umani ora sono 7 miliardi e continuano ad espandersi. Fornitura di energia, cibo ed acqua permettendo. Un terzo della massa terrestre della terra è adatta all’agricoltura ma solo un terzo di questa è realmente coltivabile a cereali, verdure, frutta o il tipo di cose che mangiano i vegani. Gli altri due terzi non sono in grado di far crescere vegetali e potrebbero non avere acqua sufficiente per la coltivazione di alberi, ma possono, con una gestione accurata e una giusta presenza di bestiame, sostenere animali commestibili. Infatti, se seguite la discussione di massa sulla rotazione dei pascoli iniziata da Allan Savory, potreste credere che solo le grandi mandrie di animali al pascolo, raggruppati ed in movimento, siano in grado di ripristinare ecologicamente quelle tipologie di terreni danneggiati, ri-sequestrando il carbonio che avevano un tempo e ripristinando i cicli idrologici e climatici del pre-Antropocene – il regime di acqua e suolo un tempo costruito e conservato da bufali, mammut, tigri e lupi.

Ecco un punto di contesa che portiamo con questa discussione, e diamo il benvenuto alla discussione. Per estensione, possiamo dire che se la terra coltivabile è il premio, allora la terra buona con molta acqua dev’essere dedicata ai cereali, alle verdure, alla frutta ed al tipo di cose che mangiano i vegani. Di gran lunga più persone possono essere nutrite con proteine di alta qualità, carboidrati e grassi da quella terra se mangiamo dalla parte bassa della catena alimentare, perché far passare i cereali attraverso gli animali ci fa perdere ritorni nutrizionali di grandi fattori, da 10:1 nel caso del pollame a 40:1 nel caso dei bovini. Secondo la logica usata dalla Robyn, dobbiamo allevare animali domestici esclusivamente sulle terre marginali che non possono sostenere nient’altro. Ciò elimina la fattoria di Joel Salatin in Virginia e molte delle operazioni con animali ad alto rendimento in Nord e Sud America, Europa, Africa, Asia ed Australia. Niente più Manzo di Kobe o Sauerbraten tedesco.

L’argomentazione per mangiare animali da allevamento assume che non possiamo nutrire il mondo se togliessimo l’allevamento di animali e ci concentrassimo sulle piante. Possiamo – solo sulla porzione di terra coltivabile primaria che ha una buona stagione agricola e un sacco di acqua. Un acro di soia biologica, coltivata senza arare, nutrito con biochar che fissa l’azoto e non OGM, non trasformato in mangime animale o plastiche, può fornire proteine di alta qualità come 40 o più acri di bovini. Eliminate l’allevamento di animali nei terreni agricoli migliori e non avrete bisogno di usare l’altro 60% delle terre coltivabili per animali da nutrimento.

Perché pensiamo di doverci appropriare di tutte le terre coltivabili del mondo per sfamare gli esseri umani?

Produrre cibo per le popolazioni umane nei climi secchi o con suoli poveri importandolo da terre migliori è una proposta rischiosa, dato che il paradigma della globalizzazione ora è in vita ed è costruito su uno schema di debito Ponzi che è un vero furto nei confronti dei nostri figli. Il mondo è costretto dall’inesorabilità della fisica dell’energia fossile a rilocalizzare, e rapidamente. Continuare a seguire la curva esponenziale consumistica – di uso di acqua, perdita di suolo, esaurimento del petrolio, estinzione di pesci, popolazione e inquinamento – è pura follia. Al di là di ogni bugia, un Dirupo di Olduvai.

Cavallo islandese arrosto. Il cavallo era
la carne tradizionale del Sauerbraten tedesco. 

In un mondo localizzato, in assenza di un declino indotto catastroficamente, immaginiamo che la popolazione umana frenerà gradualmente verso qualcosa che si avvicina all’equilibrio di stato stazionario fra offerta e domanda in cui gli indigeni erano maestri. Quella era la vecchia normalità prima dell’ultima era Glaciale e andrà probabilmente in quel modo nell’Era delle Conseguenze.

Gli esseri umani delle società locali potrebbero scegliere di equilibrare le loro diete in qualsiasi modo sia più efficace per il loro clima e i loro costumi. Alcuni potrebbero essere vegani, molti probabilmente no.

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Lo scioglimento catastrofico del permafrost: una cosa “reale e imminente”.

Da “Robertscribbler”. Traduzione di MR (via Sam Carana)

C’è molto carbonio immagazzinato nel permafrost dell’Artico che fonde. Secondo le nostre migliori stime, intorno ai 1.300 miliardi di tonnellate (vedete Cambiamento climatico e retroazione del permafrost). E’ più del doppio della quantità di carbonio già emesso dai combustibili fossili globalmente dagli anni 80 del 1800. E la triste ironia è che il continuo bruciare combustibili fossili rischia di superare un punto di svolta oltre il quale una rapida destabilizzazione e rilascio di quel carbonio diventa irreversibile.

Copertura globale del permafrost come è stata registrata dalla World Meteorological Organization. In generale si pensa che una soglia di riscaldamento globale di 2°C sia il punto in cui una parte sufficiente del permafrost artico si destabilizzerà in modo catastrofico, diventando una retroazione di amplificazione del riscaldamento globale che quindi fonde gran parte o tutto il resto. La soglia di 2°C è stata scelta perché è il limite minimo del Pliocene – un periodo in cui è iniziata la formazione di questa riserva di permafrost. Tuttavia, potrebbero esserci dei rischi che una parte sufficiente della riserva possa diventare instabile a livelli più bassi di riscaldamento – superando quel punto di svolta prima di quanto ci si attende. Fonte dell’immagine: WMO.


In questione c’è il fatto che gran parte di questo carbonio è stato immagazzinato durante il periodo degli ultimi 2 milioni di anni di ere glaciali ed interglaciali. A causa della combustione di combustibili fossili da parte degli esseri umani, ora stiamo entrando in un periodo in cui l’Artico sta diventando più caldo che in qualsiasi altro periodo perlomeno negli ultimi 110.000 anni. E con i livelli di CO2 atmosferico che ora raggiungono e superano le concentrazioni viste per l’ultima volta durante il Pliocene di 2-3 milioni di anni fa, ampie andane di riserve di carbonio potrebbero essere in pericolo di rapido scioglimento. Tale scioglimento rilascerebbe ancora più CO2 e metano, che intrappolano calore in atmosfera. E’ qualcosa di cui preoccuparsi anche se non siete uno di quelli, come Sam Carana, che sono preoccupati di un potenziale e catastrofico rilascio di metano. E non ci vuole uno scienziato del clima per dirvi che abbiamo già visto diversi ed inquietanti aumenti delle emissioni di metano dai laghi di thermokarst, dalle stesse regioni del permafrost, attraverso i meccanismi di distruzione del permafrost degli incendi dell’Artico, dal letto della tundra sommersa nella Piattaforma Siberiana Orientale e dalle nuove bizzarre formazioni che ora chiamiamo sfiatatoi di metano.

I grandi incendi siberiani come questo scoppiato il primo di agosto del 2014 sono indicativi del fatto che le riserve di carbonio del permafrost artico si stanno avvicinando ad un punto di svolta critico? Gli scienziati di punta pensano che dobbiamo scoprirlo il più rapidamente possibile. Fonte dell’immagine: LANCE-MODIS.

Uno scienziato di Woods Hole fa appello per una ricerca sui punti di svolta 

Con così tanto carbonio immagazzinato nel permafrost, ogni livello di riscaldamento che comincia a sbloccare volumi significativi della sua significativa riserva può dare come risultato il superamento di un punto di non ritorno climatico. Scatenando retroazioni di amplificazione che non si arrestano finché gran parte o tutto il carbonio viene rilasciato e noi veniamo proiettati in nuovi stati climatici molto più caldi. Dato il fatto che stiamo già iniziando ad entrare nella gamma di temperature dell’Eemiano – un periodo in cui il mondo era caldo come adesso o di più, ma l’Artico è rimasto ragionevolmente più freddo – è più che ragionevole ipotizzare che un tale pericolo sia già su di noi. Oggi, un emerito scienziato di Woods Hole che va sotto il nome di dottor Max Holmes ha definito tale minaccia “reale ed imminente”, dichiarando:

“Il rilascio di gas serra che risulta dallo scioglimento del permafrost dell’Artico potrebbe avere conseguenze catastrofiche globalmente. Gli Stati Uniti devono guidare uno sforzo su larga scala per trovare il punto di svolta – a quale livello di riscaldamento il ciclo di riscaldamento e lo scioglimento del permafrost diventeranno impossibili da fermare. La minaccia reale ed imminente posta dallo scioglimento del permafrost dev’essere comunicata chiaramente ed ampiamente all’opinione pubblica ed alla comunità politica”. 

Il dottor Holmes è stato sostenuto da altri scienziati di Woods Hole nel lancio di questo appello per più ricerca in quello che ora considerano una minaccia crescente ed imminente (vedete il comunicato stampa completo qui). Il “punto di svolta” generalmente accettato per il rilascio di riserve dal permafrost tende ad essere intorno ai 2°C. Il problema è che abbiamo già emesso sufficiente CO2, metano ed altri gas serra da riscaldare la Terra di 2-4°C sul lungo termine e di circa 1,4-1,9°C in questo secolo. Quindi sembra che abbiamo già un grande slancio verso il punto di svolta dello scioglimento del permafrost e relativo rilascio di carbonio. Il dottor Holmes ed i suoi colleghi di Woods Hole fanno appello per uno sforzo concentrato per fissare quel punto di svolta. Per farci un’idea migliore di quanto siamo realmente vicini e per fornire un senso di urgenza per evitare ciò che potrebbe essere meglio descritto come un terribile segno di guai.

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Lo scioglimento catastrofico del permafrost: una cosa “reale e imminente”.

Da “Robertscribbler”. Traduzione di MR (via Sam Carana)

C’è molto carbonio immagazzinato nel permafrost dell’Artico che fonde. Secondo le nostre migliori stime, intorno ai 1.300 miliardi di tonnellate (vedete Cambiamento climatico e retroazione del permafrost). E’ più del doppio della quantità di carbonio già emesso dai combustibili fossili globalmente dagli anni 80 del 1800. E la triste ironia è che il continuo bruciare combustibili fossili rischia di superare un punto di svolta oltre il quale una rapida destabilizzazione e rilascio di quel carbonio diventa irreversibile.

Copertura globale del permafrost come è stata registrata dalla World Meteorological Organization. In generale si pensa che una soglia di riscaldamento globale di 2°C sia il punto in cui una parte sufficiente del permafrost artico si destabilizzerà in modo catastrofico, diventando una retroazione di amplificazione del riscaldamento globale che quindi fonde gran parte o tutto il resto. La soglia di 2°C è stata scelta perché è il limite minimo del Pliocene – un periodo in cui è iniziata la formazione di questa riserva di permafrost. Tuttavia, potrebbero esserci dei rischi che una parte sufficiente della riserva possa diventare instabile a livelli più bassi di riscaldamento – superando quel punto di svolta prima di quanto ci si attende. Fonte dell’immagine: WMO.


In questione c’è il fatto che gran parte di questo carbonio è stato immagazzinato durante il periodo degli ultimi 2 milioni di anni di ere glaciali ed interglaciali. A causa della combustione di combustibili fossili da parte degli esseri umani, ora stiamo entrando in un periodo in cui l’Artico sta diventando più caldo che in qualsiasi altro periodo perlomeno negli ultimi 110.000 anni. E con i livelli di CO2 atmosferico che ora raggiungono e superano le concentrazioni viste per l’ultima volta durante il Pliocene di 2-3 milioni di anni fa, ampie andane di riserve di carbonio potrebbero essere in pericolo di rapido scioglimento. Tale scioglimento rilascerebbe ancora più CO2 e metano, che intrappolano calore in atmosfera. E’ qualcosa di cui preoccuparsi anche se non siete uno di quelli, come Sam Carana, che sono preoccupati di un potenziale e catastrofico rilascio di metano. E non ci vuole uno scienziato del clima per dirvi che abbiamo già visto diversi ed inquietanti aumenti delle emissioni di metano dai laghi di thermokarst, dalle stesse regioni del permafrost, attraverso i meccanismi di distruzione del permafrost degli incendi dell’Artico, dal letto della tundra sommersa nella Piattaforma Siberiana Orientale e dalle nuove bizzarre formazioni che ora chiamiamo sfiatatoi di metano.

I grandi incendi siberiani come questo scoppiato il primo di agosto del 2014 sono indicativi del fatto che le riserve di carbonio del permafrost artico si stanno avvicinando ad un punto di svolta critico? Gli scienziati di punta pensano che dobbiamo scoprirlo il più rapidamente possibile. Fonte dell’immagine: LANCE-MODIS.

Uno scienziato di Woods Hole fa appello per una ricerca sui punti di svolta 

Con così tanto carbonio immagazzinato nel permafrost, ogni livello di riscaldamento che comincia a sbloccare volumi significativi della sua significativa riserva può dare come risultato il superamento di un punto di non ritorno climatico. Scatenando retroazioni di amplificazione che non si arrestano finché gran parte o tutto il carbonio viene rilasciato e noi veniamo proiettati in nuovi stati climatici molto più caldi. Dato il fatto che stiamo già iniziando ad entrare nella gamma di temperature dell’Eemiano – un periodo in cui il mondo era caldo come adesso o di più, ma l’Artico è rimasto ragionevolmente più freddo – è più che ragionevole ipotizzare che un tale pericolo sia già su di noi. Oggi, un emerito scienziato di Woods Hole che va sotto il nome di dottor Max Holmes ha definito tale minaccia “reale ed imminente”, dichiarando:

“Il rilascio di gas serra che risulta dallo scioglimento del permafrost dell’Artico potrebbe avere conseguenze catastrofiche globalmente. Gli Stati Uniti devono guidare uno sforzo su larga scala per trovare il punto di svolta – a quale livello di riscaldamento il ciclo di riscaldamento e lo scioglimento del permafrost diventeranno impossibili da fermare. La minaccia reale ed imminente posta dallo scioglimento del permafrost dev’essere comunicata chiaramente ed ampiamente all’opinione pubblica ed alla comunità politica”. 

Il dottor Holmes è stato sostenuto da altri scienziati di Woods Hole nel lancio di questo appello per più ricerca in quello che ora considerano una minaccia crescente ed imminente (vedete il comunicato stampa completo qui). Il “punto di svolta” generalmente accettato per il rilascio di riserve dal permafrost tende ad essere intorno ai 2°C. Il problema è che abbiamo già emesso sufficiente CO2, metano ed altri gas serra da riscaldare la Terra di 2-4°C sul lungo termine e di circa 1,4-1,9°C in questo secolo. Quindi sembra che abbiamo già un grande slancio verso il punto di svolta dello scioglimento del permafrost e relativo rilascio di carbonio. Il dottor Holmes ed i suoi colleghi di Woods Hole fanno appello per uno sforzo concentrato per fissare quel punto di svolta. Per farci un’idea migliore di quanto siamo realmente vicini e per fornire un senso di urgenza per evitare ciò che potrebbe essere meglio descritto come un terribile segno di guai.

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L’invenzione del Progresso.

di Jacopo Simonetta
Per noi il progresso è un fatto auto-evidente che ha portato l’uomo dalle caverne alle stelle e che lo porterà verso sempre più elevate mète.    Al netto di incidenti di percorso, magari drammatici, ma temporanei.   Si tratta di un’idea per noi così scontata e congeniale che ci pare debba essere sempre esistita.
   
Ebbene no. Il progresso è stato inventato nel 1794 dal signor Marie-Jean-Antoine-Nicolas de Caritat, marchese di Condorcet.  Matematico, enciclopedista e rivoluzionario.
Ovviamente, come tutti, anche Condorcet elaborò le sue idee a partire di quelle di altri che lo avevano preceduto.   Può quindi essere di un qualche interesse tracciare l’origine di questa idea che, vedremo, ha parecchio a che fare con quel divorzio fra scienza, filosofia e teologia cui facevo riferimento in un precedente post.
Spesso, quale “padre nobile” del progresso si cita nientedimeno che Leonardo da Vinci, in forza delle centinaia di marchingegni più o meno strampalati che aveva disegnato nei suoi appunti.   Tuttavia, Leonardo studiava le leggi della Natura tramite l’osservazione delle forme e tuonava contro la superbia dell’uomo che osa attaccare il creato.   Un approccio decisamente medioevale alla scienza.
Più appropriatamente, vengono indicati quali precursori dell’idea di progresso alcuni dei padri della rivoluzione scientifica del XVII secolo: gente del calibro di Bacone, Galileo e Cartesio.   Effettivamente,  costoro avevano inteso la scienza come motore di un sempre maggiore potere dell’Uomo sulla Natura, ma non avevano mai letto la storia come una marcia trionfale verso forme di civiltà sempre superiori.   
La vera culla dell’idea di “progresso”, così come oggi lo intendiamo oggi, è stata dunque l’Enciclopedia.   Fu infatti nel circolo di coloro che curarono quest’opera epocale, tutti amici di Condorcet,  che prese corpo l’idea che il costante miglioramento delle conoscenze scientifiche e delle capacità tecniche avrebbe condotto necessariamente ad un miglioramento indefinito delle condizioni di vita umane e, di conseguenza, ad un miglioramento indefinito dell’uomo stesso.   Venendo meno il bisogno, sarebbero infatti venute meno la ferocia, l’avidità e tutti gli altri vizi che da sempre ostacolano lo sviluppo spirituale dell’umanità.   
Non era certo la prima utopia, ma questa presentava alcuni caratteri esclusivi e nuovi che la differenziavano nettamente da precedenti illustri quali “Utopia” (di Tommaso Moro – 1516) e “La Città del Sole” (di Tommaso Campanella – 1602), entrambe di chiara ispirazione platonica.
  
Tanto per cominciare, il Progresso non fu l’idea di un solo pensatore e non fu narrato in un solo libro, descrivendo la società ideale.   Al contrario, fu il prodotto di un’intera generazione di filosofi, scienziati e scrittori; e divenne un modello mentale mediante il quale leggere ed interpretare passato, presente e futuro.
   
Un secondo punto assolutamente nuovo dell’utopia progressista fu l’avere nel suo cuore “La Macchina”.   Non più vista come un mero oggetto utile, divenne lo strumento principe per affrancare l’uomo dalla miseria materiale e morale.    La meccanizzazione divenne quindi sinonimo di progresso ed il progresso sinonimo di un miglioramento della condizione umana che sarebbe avvenuto  grazie, soprattutto, allo sviluppo di macchine sempre più potenti e perfezionate.   Fino, in prospettiva, alla possibilità di sostituire interamente il lavoro manuale con il lavoro meccanico, liberando così del tutto le infinite potenzialità dell’intelletto umano dai ceppi del lavoro manuale.   Insomma, una riedizione della schiavitù, ma priva dei problemi etici connessi con questa.    Un sogno tuttora ben vivo nella cultura contemporanea.

Un terzo punto fondamentalmente nuovo fu che, in questo salvifico disegno, un ruolo fondamentale fu  assegnato alla nascenda scienza economica.   Anche se il principale teorico di questo aspetto del mito fu uno scozzese: un certo Adam Smith, per la precisione.

Infine, un ultimo punto che caratterizzò i principali enciclopedisti, e che influenzò moltissimo il pensiero occidentale seguente, fu il considerare la religione, quale che fosse, un ostacolo anziché un ausilio al sapere.   In pratica, fu l’illuminismo a celebrare il divorzio fra filosofia e scienza da una parte e teologia dall’altra.   La Ragione da una parte, ignoranza e superstizione dall’altra; nel mezzo un baratro incolmabile.

L’utopia progressista, ben prima di essere formalizzata nell’ultimo libro di Condorcet, impregnò di sé l’intera opera dell’Enciclopedia, ma non solo.   Fu divulgata in tutto l’occidente e nelle colonie da un fiume di scritti, opera di un gran numero di entusiasti sostenitori, primo fra tutti François-Marie Arouet, meglio conosciuto come Voltaire (1694-1778).
Un altro canale di rapida diffusione e profondo radicamento di questa idea fu la Massoneria.   Nata in una birreria di Londra nel 1717, agli albori del movimento illuminista, ne divenne il principale strumento di diffusione.   Massone era infatti Condorcet, come lo erano Voltaire e tutti i principali protagonisti di questa stagione del pensiero europeo, assieme a migliaia di anonimi adepti.

Dunque l’idea di progresso fu il frutto di un’intera epoca, ma nel suo “Equisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain” Condorcet fu il primo a riscrivere l’intera storia dell’umanità usando come filo conduttore l’idea di un miglioramento infinito ed inarrestabile della nostra specie.   Per l’appunto quella marcia trionfale dalle caverne alle stelle che ancora da forma al nostro modo di intendere noi stessi, la storia, il mondo che ci circonda ed il futuro che ci attende.
Emblematico il fatto che questo suo testamento spirituale sia stato pubblicato postumo, nel 1795, dopo che il suo autore si era suicidato in carcere per sfuggire alla ghigliottina di quella stessa rivoluzione che egli aveva contribuito a scatenare in nome e per conto del progresso.

Il paradigma progressista fu da più parti respinto. Tutti conoscono Rousseau ed il romanticismo, ma non furono solo scrittori e filosofi a criticare l’ideale del progresso.   Ad esempio, fra la fine del ‘700 ed i primi decenni dell’800, in Inghilterra, i luddisti tentarono di fermare la meccanizzazione della produzione tessile con sommosse ed attentati.   Più pacificamente, nel 1781, sempre in una birreria londinese, nasceva il druidismo moderno.   Una confraternita per molti aspetti simile alla Massoneria, ma di segno filosofico opposto.

Se ci fidiamo di Michel Greer, arcidruido americano ben noto nella ristretta cerchia dei “picchisti”, la molla che portò alla nascita di questo movimento fu infatti lo shock psicologico prodotto dalla diffusione delle prime aree industriali nelle periferie urbane.  

Come è andata poi lo sappiamo:  né druidi, né luddisti; né Rousseau né Schelling riuscirono a contrastare la forza del mito del Progresso che, fra continui rimaneggiamenti ed aggiornamenti, è giunto intatto fino a noi.   Anzi, col tempo si è evoluto giungendo ad una nuova sintesi tra filosofia, scienza e religione che ha chiuso il cerchio da cui l’idea moderna di progresso era nata.

Precisiamo.  Se consideriamo “religione” un insieme di credenze afferenti ad una o più divinità, certo l’idea di “Progresso” non può assolutamente essere considerato una religione, semmai il contrario.   Tuttavia, uno dei maggiori storici delle religioni, Georges Dumézil, ha proposto una diversa e, secondo me, scientificamente più valida definizione: “La religione è una spiegazione generale e coerente dell’universo che sostiene ed anima la vita delle società e degli individui.”

In questo senso allargato, la religione è dunque il modello mentale attraverso il quale cerchiamo di capire la realtà e prendiamo le nostre decisioni.   In questo senso dunque, la fede nel progresso è, a mio avviso, pienamente assimilabile ad una religione.   Fra l’altro, una religione che, non avendo divinità proprie, ha potuto svilupparsi sia in maniera atea, sia assorbirsi ad altre religioni precedenti.   Un po’ come aveva già fatto il Buddismo, altra grande religione priva di Dei, oltre duemila anni prima.
Del resto, chi oggi mette in dubbio l’esistenza del progresso facilmente suscita sentimenti assai negativi fra i suoi simili.    In un suo post che non saprei ritrovare, Michael Greer fece un’analogia polemica, ma azzeccata.   In sostanza, sostenne che oggi dire a qualcuno che il progresso e la tecnologia non possono fare niente per risolvere i suoi problemi è come dire ad un contadino medioevale che le ossa del suo santo patrono non possono far cessare la siccità.   Se è di buon umore ti guarda con commiserazione, se è nervoso ti insulta, o peggio.

Si può capire.   E’ indubbio che la sinergia fra scienza e tecnologia sia alla base delle straordinarie conquiste dell’Uomo nei due secoli che seguirono la morte di Condorcet.   Perlomeno nei paesi occidentali abbiamo potuto credere di aver raggiunto o quasi quell’empireo che il progresso aveva promesso ai nostri avi.   E ciò in forza del centinaio di “schiavi meccanici” che, mediamente, ognuno di noi ha avuto a disposizione grazie all’industria petrolifera.   Ma tanto progresso aveva un prezzo nella devastazione della biosfera e del clima, così come nell’annientamento di innumerevoli civiltà, quando non di interi popoli.

Man mano che questi  “effetti collaterali” sono diventati evidenti, sono andati maturando altri divorzi. Quello fra scienza e filosofia, oramai separati in casa da tempo.   E perfino fra tecnica ed alcune delle branche in cui la scienza di è intanto parcellizzata. La prima proiettata verso fare sempre di più, le seconde sempre più preoccupate di ciò che, viceversa,  era bene non-fare.   Di qui il conflitto filosofico, scientifico e religioso che, dalla fine degli anni ’60, anima l’occidente senza peraltro aver finora prodotto alcun risultato pratico.   In fondo, se ad oggi nessun provvedimento serio è stato preso per contrastare la distruzione del Pianeta è proprio per non rinunciare al mito fondante della nostra civiltà.

Tuttavia, qualcosa forse sta cambiando.   Da un lato, abbiamo infatti l’accumulo e la divulgazione di conoscenze scientifiche sempre maggiori al riguardo dei come e dei perché del disastro che si svolge sotto i nostri occhi.   Dall’altro assistiamo al diffondersi di movimenti religiosi di ispirazione “naturalista” come i citati druidi ed altri movimenti neo-pagani, senza dimenticare l’epocale svolta francescana voluta dall’attuale pontefice e l’attenzione all’ambiente del Patriarca di Costantinopoli.

Si tratta di una moda passeggera o dell’inizio di una nuova età nella storia del pensiero?   Lo sapranno i nostri discendenti fra un paio di secoli.   

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L’invenzione del Progresso.

di Jacopo Simonetta
Per noi il progresso è un fatto auto-evidente che ha portato l’uomo dalle caverne alle stelle e che lo porterà verso sempre più elevate mète.    Al netto di incidenti di percorso, magari drammatici, ma temporanei.   Si tratta di un’idea per noi così scontata e congeniale che ci pare debba essere sempre esistita.
   
Ebbene no. Il progresso è stato inventato nel 1794 dal signor Marie-Jean-Antoine-Nicolas de Caritat, marchese di Condorcet.  Matematico, enciclopedista e rivoluzionario.
Ovviamente, come tutti, anche Condorcet elaborò le sue idee a partire di quelle di altri che lo avevano preceduto.   Può quindi essere di un qualche interesse tracciare l’origine di questa idea che, vedremo, ha parecchio a che fare con quel divorzio fra scienza, filosofia e teologia cui facevo riferimento in un precedente post.
Spesso, quale “padre nobile” del progresso si cita nientedimeno che Leonardo da Vinci, in forza delle centinaia di marchingegni più o meno strampalati che aveva disegnato nei suoi appunti.   Tuttavia, Leonardo studiava le leggi della Natura tramite l’osservazione delle forme e tuonava contro la superbia dell’uomo che osa attaccare il creato.   Un approccio decisamente medioevale alla scienza.
Più appropriatamente, vengono indicati quali precursori dell’idea di progresso alcuni dei padri della rivoluzione scientifica del XVII secolo: gente del calibro di Bacone, Galileo e Cartesio.   Effettivamente,  costoro avevano inteso la scienza come motore di un sempre maggiore potere dell’Uomo sulla Natura, ma non avevano mai letto la storia come una marcia trionfale verso forme di civiltà sempre superiori.   
La vera culla dell’idea di “progresso”, così come oggi lo intendiamo oggi, è stata dunque l’Enciclopedia.   Fu infatti nel circolo di coloro che curarono quest’opera epocale, tutti amici di Condorcet,  che prese corpo l’idea che il costante miglioramento delle conoscenze scientifiche e delle capacità tecniche avrebbe condotto necessariamente ad un miglioramento indefinito delle condizioni di vita umane e, di conseguenza, ad un miglioramento indefinito dell’uomo stesso.   Venendo meno il bisogno, sarebbero infatti venute meno la ferocia, l’avidità e tutti gli altri vizi che da sempre ostacolano lo sviluppo spirituale dell’umanità.   
Non era certo la prima utopia, ma questa presentava alcuni caratteri esclusivi e nuovi che la differenziavano nettamente da precedenti illustri quali “Utopia” (di Tommaso Moro – 1516) e “La Città del Sole” (di Tommaso Campanella – 1602), entrambe di chiara ispirazione platonica.
  
Tanto per cominciare, il Progresso non fu l’idea di un solo pensatore e non fu narrato in un solo libro, descrivendo la società ideale.   Al contrario, fu il prodotto di un’intera generazione di filosofi, scienziati e scrittori; e divenne un modello mentale mediante il quale leggere ed interpretare passato, presente e futuro.
   
Un secondo punto assolutamente nuovo dell’utopia progressista fu l’avere nel suo cuore “La Macchina”.   Non più vista come un mero oggetto utile, divenne lo strumento principe per affrancare l’uomo dalla miseria materiale e morale.    La meccanizzazione divenne quindi sinonimo di progresso ed il progresso sinonimo di un miglioramento della condizione umana che sarebbe avvenuto  grazie, soprattutto, allo sviluppo di macchine sempre più potenti e perfezionate.   Fino, in prospettiva, alla possibilità di sostituire interamente il lavoro manuale con il lavoro meccanico, liberando così del tutto le infinite potenzialità dell’intelletto umano dai ceppi del lavoro manuale.   Insomma, una riedizione della schiavitù, ma priva dei problemi etici connessi con questa.    Un sogno tuttora ben vivo nella cultura contemporanea.

Un terzo punto fondamentalmente nuovo fu che, in questo salvifico disegno, un ruolo fondamentale fu  assegnato alla nascenda scienza economica.   Anche se il principale teorico di questo aspetto del mito fu uno scozzese: un certo Adam Smith, per la precisione.

Infine, un ultimo punto che caratterizzò i principali enciclopedisti, e che influenzò moltissimo il pensiero occidentale seguente, fu il considerare la religione, quale che fosse, un ostacolo anziché un ausilio al sapere.   In pratica, fu l’illuminismo a celebrare il divorzio fra filosofia e scienza da una parte e teologia dall’altra.   La Ragione da una parte, ignoranza e superstizione dall’altra; nel mezzo un baratro incolmabile.

L’utopia progressista, ben prima di essere formalizzata nell’ultimo libro di Condorcet, impregnò di sé l’intera opera dell’Enciclopedia, ma non solo.   Fu divulgata in tutto l’occidente e nelle colonie da un fiume di scritti, opera di un gran numero di entusiasti sostenitori, primo fra tutti François-Marie Arouet, meglio conosciuto come Voltaire (1694-1778).
Un altro canale di rapida diffusione e profondo radicamento di questa idea fu la Massoneria.   Nata in una birreria di Londra nel 1717, agli albori del movimento illuminista, ne divenne il principale strumento di diffusione.   Massone era infatti Condorcet, come lo erano Voltaire e tutti i principali protagonisti di questa stagione del pensiero europeo, assieme a migliaia di anonimi adepti.

Dunque l’idea di progresso fu il frutto di un’intera epoca, ma nel suo “Equisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain” Condorcet fu il primo a riscrivere l’intera storia dell’umanità usando come filo conduttore l’idea di un miglioramento infinito ed inarrestabile della nostra specie.   Per l’appunto quella marcia trionfale dalle caverne alle stelle che ancora da forma al nostro modo di intendere noi stessi, la storia, il mondo che ci circonda ed il futuro che ci attende.
Emblematico il fatto che questo suo testamento spirituale sia stato pubblicato postumo, nel 1795, dopo che il suo autore si era suicidato in carcere per sfuggire alla ghigliottina di quella stessa rivoluzione che egli aveva contribuito a scatenare in nome e per conto del progresso.

Il paradigma progressista fu da più parti respinto. Tutti conoscono Rousseau ed il romanticismo, ma non furono solo scrittori e filosofi a criticare l’ideale del progresso.   Ad esempio, fra la fine del ‘700 ed i primi decenni dell’800, in Inghilterra, i luddisti tentarono di fermare la meccanizzazione della produzione tessile con sommosse ed attentati.   Più pacificamente, nel 1781, sempre in una birreria londinese, nasceva il druidismo moderno.   Una confraternita per molti aspetti simile alla Massoneria, ma di segno filosofico opposto.

Se ci fidiamo di Michel Greer, arcidruido americano ben noto nella ristretta cerchia dei “picchisti”, la molla che portò alla nascita di questo movimento fu infatti lo shock psicologico prodotto dalla diffusione delle prime aree industriali nelle periferie urbane.  

Come è andata poi lo sappiamo:  né druidi, né luddisti; né Rousseau né Schelling riuscirono a contrastare la forza del mito del Progresso che, fra continui rimaneggiamenti ed aggiornamenti, è giunto intatto fino a noi.   Anzi, col tempo si è evoluto giungendo ad una nuova sintesi tra filosofia, scienza e religione che ha chiuso il cerchio da cui l’idea moderna di progresso era nata.

Precisiamo.  Se consideriamo “religione” un insieme di credenze afferenti ad una o più divinità, certo l’idea di “Progresso” non può assolutamente essere considerato una religione, semmai il contrario.   Tuttavia, uno dei maggiori storici delle religioni, Georges Dumézil, ha proposto una diversa e, secondo me, scientificamente più valida definizione: “La religione è una spiegazione generale e coerente dell’universo che sostiene ed anima la vita delle società e degli individui.”

In questo senso allargato, la religione è dunque il modello mentale attraverso il quale cerchiamo di capire la realtà e prendiamo le nostre decisioni.   In questo senso dunque, la fede nel progresso è, a mio avviso, pienamente assimilabile ad una religione.   Fra l’altro, una religione che, non avendo divinità proprie, ha potuto svilupparsi sia in maniera atea, sia assorbirsi ad altre religioni precedenti.   Un po’ come aveva già fatto il Buddismo, altra grande religione priva di Dei, oltre duemila anni prima.
Del resto, chi oggi mette in dubbio l’esistenza del progresso facilmente suscita sentimenti assai negativi fra i suoi simili.    In un suo post che non saprei ritrovare, Michael Greer fece un’analogia polemica, ma azzeccata.   In sostanza, sostenne che oggi dire a qualcuno che il progresso e la tecnologia non possono fare niente per risolvere i suoi problemi è come dire ad un contadino medioevale che le ossa del suo santo patrono non possono far cessare la siccità.   Se è di buon umore ti guarda con commiserazione, se è nervoso ti insulta, o peggio.

Si può capire.   E’ indubbio che la sinergia fra scienza e tecnologia sia alla base delle straordinarie conquiste dell’Uomo nei due secoli che seguirono la morte di Condorcet.   Perlomeno nei paesi occidentali abbiamo potuto credere di aver raggiunto o quasi quell’empireo che il progresso aveva promesso ai nostri avi.   E ciò in forza del centinaio di “schiavi meccanici” che, mediamente, ognuno di noi ha avuto a disposizione grazie all’industria petrolifera.   Ma tanto progresso aveva un prezzo nella devastazione della biosfera e del clima, così come nell’annientamento di innumerevoli civiltà, quando non di interi popoli.

Man mano che questi  “effetti collaterali” sono diventati evidenti, sono andati maturando altri divorzi. Quello fra scienza e filosofia, oramai separati in casa da tempo.   E perfino fra tecnica ed alcune delle branche in cui la scienza di è intanto parcellizzata. La prima proiettata verso fare sempre di più, le seconde sempre più preoccupate di ciò che, viceversa,  era bene non-fare.   Di qui il conflitto filosofico, scientifico e religioso che, dalla fine degli anni ’60, anima l’occidente senza peraltro aver finora prodotto alcun risultato pratico.   In fondo, se ad oggi nessun provvedimento serio è stato preso per contrastare la distruzione del Pianeta è proprio per non rinunciare al mito fondante della nostra civiltà.

Tuttavia, qualcosa forse sta cambiando.   Da un lato, abbiamo infatti l’accumulo e la divulgazione di conoscenze scientifiche sempre maggiori al riguardo dei come e dei perché del disastro che si svolge sotto i nostri occhi.   Dall’altro assistiamo al diffondersi di movimenti religiosi di ispirazione “naturalista” come i citati druidi ed altri movimenti neo-pagani, senza dimenticare l’epocale svolta francescana voluta dall’attuale pontefice e l’attenzione all’ambiente del Patriarca di Costantinopoli.

Si tratta di una moda passeggera o dell’inizio di una nuova età nella storia del pensiero?   Lo sapranno i nostri discendenti fra un paio di secoli.   

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