Effetto Cassandra

L’energia del capitale

Di Giancarlo Fiorito

Da circa 130 anni gli economisti hanno immaginato di rappresentare la produzione di beni e servizi con una funzione Y = f(x1, x2, …, xn)che mettesse in relazione i fattori di produzione (xi) o input, con il prodotto Y o output. Va anche detto che la rappresentazione del processo produttivo è stata pesantemente limitata, poiché delle funzioni molto semplici e con due soli input hanno significato molta rigidità e poco realismo della rappresentazione stessa1. Ma la matematica serviva a mettere chiarezza nei dibattiti, come scriveva Wicksteed nel 1894:

I use the mathematical form of statement, then, in the first instance, as a safeguard against unconscious assumptions, and as a reagent that will precipitate the assumptions held in solution in the verbiage of our ordinary disquisitions.

Figura 1 – La funzione di produzione nel processo economico

Nel 1927 l’economista Paul Douglas chiese al matematico Charles Cobb di trovare una funzione per mettere in relazione capitale e lavoro con la produzione inglese nel periodo 1889–1922. Ebbe successo: empiricamente fedele alla produzione reale – l’equazione “seguiva” i dati storici – e con due soli input (K, L) “miscelabili” a piacere, l’idea infondeva ottimismo. Così dal carbone estratto, ai frigoriferi assemblati, al PIL usando le ore-uomo (L) e una variabile che rappresenta scavatrici, macchinari, o il capitale aggregato (K) si spiega la produzione. E si fanno politiche…

Tra le principali criticità della teoria economica della produzione si trova l’elasticità, una misura conveniente per quantificare le reazioni tra input e output al variare di un elemento; un numero puro dato dal rapporto tra due variazioni relative: η= (∆y/∆x)•(x/y). L’elasticità risponde alla domanda “quanto varia y se x varia dell’1%?” Ad esempio, se aumenta l’IVA sui carburanti (per le “temute” clausole di salvaguardia, ad esempio), cambiano i litri acquistati dagli automobilisti? Se la quantità non diminuisce all’aumentare del prezzo indotto dall’aumento delle tasse si dice che la domanda è inelastica.
L’elasticità si calcola con i prezzi e/o con le quantità di input ed output e tra gli input. In quest’ultimo caso si parla di elasticità di sostituzione (σ): quanto deve variare la quantità del fattore xi se il prezzo pxj del fattore xj sale dell’1% mantenendo il livello di produzione costante? Tutte le funzioni sopra, esclusa la translog, hanno elasticità di sostituzione fissa: 1 la Cobb-Douglas, 0 la Leontief e infinita la Lineare, constante la CES. Tutte condizioni irrealistiche.

A partire dagli anni ’70 nuove funzioni più complesse e flessibili, hanno risolto le rigidità dell’elasticità di sostituzione tra input, consentendo di aumentarne il numero.

Tabella 1 – Principali funzioni di produzione



Finalmente l’energia (E) e le materie prime (M) entravano nella funzione di produzione, anche se:

When Solow and Stiglitz sought to make the production function more realistic by adding in natural resources, they did it in a manner that economist Georgescu-Roegen criticized as a “conjuring trick” that failed to address the laws of thermodynamics, since their variant allows capital and labour to be infinitely substituted for natural resources. Neither Solow nor Stiglitz addressed his criticism, despite an invitation to do so in the September 1997 issue of the journal Ecological Economics (Wiki.)

Storicamente, la sostituzione tra input è stata motivo di forte disaccordo tra economisti di scuola neoclassica ed ecologisti: mentre i primi credono nella sostituzione, i secondi, pur in misura diversa,  propendono per una complementarietà. Il tema è cruciale. Infatti, secondo la teoria neoclassica della produzione, la dipendenza dell’economia da fonti non rinnovabili può essere risolta in due soli modi: la sostituzione tra input e col progresso tecnologico. La prima, rappresentata appunto da σ, quantifica la flessibilità di un sistema economico di produrre un output dato con diverse combinazioni di input; il progresso tecnologico si “cerca” introducendo variabili più o meno complicate atte a cogliere l’efficienza degli input, una sorta di “parsimonia” nell’uso di energia e materiali, ma anche di capitale e lavoro.

Dopo il primo shock petrolifero, importanti sviluppi hanno riguardato l’econometria sia teorica che applicata, le serie storiche degli input, fino alle nuove formule per l’elasticità, atte a quantificare la possibilità di modificare la composizione di K, L, E, M. Diverse formulazioni dell’Elasticità di sostituzione (Allen, Cross-price, Morishima ecc.) appaiono in centinaia di articoli scientifici per quantificare la flessibilità nell’uso degli input in diversi settori e in una miriade di paesi. La domanda di fondo rimane: gli input si cambiano a piacimento oppure esistono delle rigidità? (Aggiungerei, indipendentemente da sindacati, Jobs Act, ecc.)

Purtroppo per i sindacati (e molte altre persone), da molti studi empirici spesso risulta possibile rimpiazzare uomini con macchine, ma, purtroppo per industria e finanza, si è trovato anche che spesso vige una difficile sostituzione tra capitale ed energia. L’energia è necessaria – complementare – al capitale: se il prezzo dell’energia aumenta, la quantità di capitale cala e se la quantità di capitale diminuisce cala il PIL. Così accade spesso e questo sta accadendo dal 2008. Sembra banale, ma non è solo l’economia che ha bisogno di energia, ma più precisamente il capitale. In ogni caso, che il processo economico, secondo modelli ed ipotesi proprie della teoria economica sviluppata dagli economisti neoclassici (“liberisti” si direbbe oggi),  non possa fare a meno di energia a basso costo è un’esplicita e poco (ri)conosciuta ammissione di rigidità e fragilità del sistema economico: ci vuole energia abbondante per fare (e far funzionare) le macchine.

A questo punto è doveroso ricordare come, nonostante la scienza economica ammetta i suoi limiti nel rappresentare precisamente il processo economico, spesso, dei risultati empirici “parlanti” (a meno rapida confutazione) permeano in profondità nella politica (l’influenza dei “tecnici”), condizionando le scelte di strategia internazionale. Basti pensare al ruolo assunto del concetto di “produttività”, che oggi comporta la generale convinzione della necessità di ottenere una totale flessibilità salariale.

Riprendendo un po’ la storia, credo sia importante ricordare (e riconoscere) il merito dello sviluppo della funzione di produzione in “forme funzionali libere” a due economisti agrari, Earl Heady e John Dillon, le cui ricerche su nuove funzioni atte a rappresentare la produzione agricola e di bestiame, basate sugli sviluppi in serie di Taylor includevano sia la Translog che la Lineare Generalizzata così denominate rispettivamente da Christensen, Jorgenson e Lau e Diewert oltre dieci anni dopo2.
Usando i dati EU-KLEMS abbiamo stimato una funzione di tipo translog per Francia, Germania, Italia, Giappone, UK e USA sul periodo 1970-2005 per il settore manifatturiero. Dai risultati emerge una generale complementarietà tra E e K, come si vede dal Grafico 1. Un’elasticità di sostituzione negativa infatti significa complementarietà tra i fattori di produzione.

Grafico 1 – Elasticità di sostituzione capitale-energia in alcuni paesi (1970-2005)

I risultati sono tanto più “allarmanti” considerando che i dati si fermano al 2005, prima del balzo del petrolio del 2008, cui è seguita una crisi economica mondiale che dura tuttora: una prova empirica del “bisogno” di energia a buon mercato dell’attuale sistema economico. Un sistema economico che sembra dematerializzarsi, divenire agile, pulito, leggero e – insomma – sostenibile, ma che, guardando alla produzione in senso stretto, senza energia “si ferma” un po’ come le nostre automobili. E’ una rivincita dell’eretico Georgescu-Roegen, il pessimista, che sottolineava insistentemente come fosse la termodinamica a condizionare il processo economico. E le inefficienze dei motori a scoppio, delle ruote di gomma su un asfalto rugoso per muovere persone e cose avessero un costo (sempre meno) nascosto che l’EROEI ci insegna a contabilizzare (vedi Pardi).

Grafico 2 – La produzione con input complementari

Quando l’economia ha sviluppato un modello della produzione che includesse energia e materiali ha trovato che erano necessari. E’ una conferma, credo importante, del bisogno di cambiare la struttura produttiva, disincentivando le produzioni energivore, investendo in infrastrutture ferroviarie e ciclabili, tassando il carbonio e riorientando l’agricoltura verso una produzione di prossimità, organica e di stagione.

L’alternativa semplicemente non c’è, o meglio è rappresentata dalla crescita (e collasso) del debito che impedisce, comunque, la crescita ed il benessere delle persone, come spiega bene Gail Tverberg.

  • Questo contributo è una sintesi divulgativa dell’articolo Capital-energy substitution in manufacturing for seven OECD countries: learning about potential effects of climate policy and peak oil pubblicato sulla rivista Energy Efficiency. 


1 Per una storia delle prime funzioni di produzione vedi Humphrey.  
2 Vedi Heady E. e Dillon, J. Agricultural Production Functions, Iowa University Press, 1962 e  Modeling and measuring natural resource substitution, Edited by Ernst R. Berndt and Barry C. Field, MIT Press, 1980.

Wicksteed, P. H. (1894). An essay on the co-ordination of the laws of distribution. London: Macmillan & Co.

more

L’energia del capitale

Di Giancarlo Fiorito

Da circa 130 anni gli economisti hanno immaginato di rappresentare la produzione di beni e servizi con una funzione Y = f(x1, x2, …, xn)che mettesse in relazione i fattori di produzione (xi) o input, con il prodotto Y o output. Va anche detto che la rappresentazione del processo produttivo è stata pesantemente limitata, poiché delle funzioni molto semplici e con due soli input hanno significato molta rigidità e poco realismo della rappresentazione stessa1. Ma la matematica serviva a mettere chiarezza nei dibattiti, come scriveva Wicksteed nel 1894:

I use the mathematical form of statement, then, in the first instance, as a safeguard against unconscious assumptions, and as a reagent that will precipitate the assumptions held in solution in the verbiage of our ordinary disquisitions.

Figura 1 – La funzione di produzione nel processo economico

Nel 1927 l’economista Paul Douglas chiese al matematico Charles Cobb di trovare una funzione per mettere in relazione capitale e lavoro con la produzione inglese nel periodo 1889–1922. Ebbe successo: empiricamente fedele alla produzione reale – l’equazione “seguiva” i dati storici – e con due soli input (K, L) “miscelabili” a piacere, l’idea infondeva ottimismo. Così dal carbone estratto, ai frigoriferi assemblati, al PIL usando le ore-uomo (L) e una variabile che rappresenta scavatrici, macchinari, o il capitale aggregato (K) si spiega la produzione. E si fanno politiche…

Tra le principali criticità della teoria economica della produzione si trova l’elasticità, una misura conveniente per quantificare le reazioni tra input e output al variare di un elemento; un numero puro dato dal rapporto tra due variazioni relative: η= (∆y/∆x)•(x/y). L’elasticità risponde alla domanda “quanto varia y se x varia dell’1%?” Ad esempio, se aumenta l’IVA sui carburanti (per le “temute” clausole di salvaguardia, ad esempio), cambiano i litri acquistati dagli automobilisti? Se la quantità non diminuisce all’aumentare del prezzo indotto dall’aumento delle tasse si dice che la domanda è inelastica.
L’elasticità si calcola con i prezzi e/o con le quantità di input ed output e tra gli input. In quest’ultimo caso si parla di elasticità di sostituzione (σ): quanto deve variare la quantità del fattore xi se il prezzo pxj del fattore xj sale dell’1% mantenendo il livello di produzione costante? Tutte le funzioni sopra, esclusa la translog, hanno elasticità di sostituzione fissa: 1 la Cobb-Douglas, 0 la Leontief e infinita la Lineare, constante la CES. Tutte condizioni irrealistiche.

A partire dagli anni ’70 nuove funzioni più complesse e flessibili, hanno risolto le rigidità dell’elasticità di sostituzione tra input, consentendo di aumentarne il numero.

Tabella 1 – Principali funzioni di produzione



Finalmente l’energia (E) e le materie prime (M) entravano nella funzione di produzione, anche se:

When Solow and Stiglitz sought to make the production function more realistic by adding in natural resources, they did it in a manner that economist Georgescu-Roegen criticized as a “conjuring trick” that failed to address the laws of thermodynamics, since their variant allows capital and labour to be infinitely substituted for natural resources. Neither Solow nor Stiglitz addressed his criticism, despite an invitation to do so in the September 1997 issue of the journal Ecological Economics (Wiki.)

Storicamente, la sostituzione tra input è stata motivo di forte disaccordo tra economisti di scuola neoclassica ed ecologisti: mentre i primi credono nella sostituzione, i secondi, pur in misura diversa,  propendono per una complementarietà. Il tema è cruciale. Infatti, secondo la teoria neoclassica della produzione, la dipendenza dell’economia da fonti non rinnovabili può essere risolta in due soli modi: la sostituzione tra input e col progresso tecnologico. La prima, rappresentata appunto da σ, quantifica la flessibilità di un sistema economico di produrre un output dato con diverse combinazioni di input; il progresso tecnologico si “cerca” introducendo variabili più o meno complicate atte a cogliere l’efficienza degli input, una sorta di “parsimonia” nell’uso di energia e materiali, ma anche di capitale e lavoro.

Dopo il primo shock petrolifero, importanti sviluppi hanno riguardato l’econometria sia teorica che applicata, le serie storiche degli input, fino alle nuove formule per l’elasticità, atte a quantificare la possibilità di modificare la composizione di K, L, E, M. Diverse formulazioni dell’Elasticità di sostituzione (Allen, Cross-price, Morishima ecc.) appaiono in centinaia di articoli scientifici per quantificare la flessibilità nell’uso degli input in diversi settori e in una miriade di paesi. La domanda di fondo rimane: gli input si cambiano a piacimento oppure esistono delle rigidità? (Aggiungerei, indipendentemente da sindacati, Jobs Act, ecc.)

Purtroppo per i sindacati (e molte altre persone), da molti studi empirici spesso risulta possibile rimpiazzare uomini con macchine, ma, purtroppo per industria e finanza, si è trovato anche che spesso vige una difficile sostituzione tra capitale ed energia. L’energia è necessaria – complementare – al capitale: se il prezzo dell’energia aumenta, la quantità di capitale cala e se la quantità di capitale diminuisce cala il PIL. Così accade spesso e questo sta accadendo dal 2008. Sembra banale, ma non è solo l’economia che ha bisogno di energia, ma più precisamente il capitale. In ogni caso, che il processo economico, secondo modelli ed ipotesi proprie della teoria economica sviluppata dagli economisti neoclassici (“liberisti” si direbbe oggi),  non possa fare a meno di energia a basso costo è un’esplicita e poco (ri)conosciuta ammissione di rigidità e fragilità del sistema economico: ci vuole energia abbondante per fare (e far funzionare) le macchine.

A questo punto è doveroso ricordare come, nonostante la scienza economica ammetta i suoi limiti nel rappresentare precisamente il processo economico, spesso, dei risultati empirici “parlanti” (a meno rapida confutazione) permeano in profondità nella politica (l’influenza dei “tecnici”), condizionando le scelte di strategia internazionale. Basti pensare al ruolo assunto del concetto di “produttività”, che oggi comporta la generale convinzione della necessità di ottenere una totale flessibilità salariale.

Riprendendo un po’ la storia, credo sia importante ricordare (e riconoscere) il merito dello sviluppo della funzione di produzione in “forme funzionali libere” a due economisti agrari, Earl Heady e John Dillon, le cui ricerche su nuove funzioni atte a rappresentare la produzione agricola e di bestiame, basate sugli sviluppi in serie di Taylor includevano sia la Translog che la Lineare Generalizzata così denominate rispettivamente da Christensen, Jorgenson e Lau e Diewert oltre dieci anni dopo2.
Usando i dati EU-KLEMS abbiamo stimato una funzione di tipo translog per Francia, Germania, Italia, Giappone, UK e USA sul periodo 1970-2005 per il settore manifatturiero. Dai risultati emerge una generale complementarietà tra E e K, come si vede dal Grafico 1. Un’elasticità di sostituzione negativa infatti significa complementarietà tra i fattori di produzione.

Grafico 1 – Elasticità di sostituzione capitale-energia in alcuni paesi (1970-2005)

I risultati sono tanto più “allarmanti” considerando che i dati si fermano al 2005, prima del balzo del petrolio del 2008, cui è seguita una crisi economica mondiale che dura tuttora: una prova empirica del “bisogno” di energia a buon mercato dell’attuale sistema economico. Un sistema economico che sembra dematerializzarsi, divenire agile, pulito, leggero e – insomma – sostenibile, ma che, guardando alla produzione in senso stretto, senza energia “si ferma” un po’ come le nostre automobili. E’ una rivincita dell’eretico Georgescu-Roegen, il pessimista, che sottolineava insistentemente come fosse la termodinamica a condizionare il processo economico. E le inefficienze dei motori a scoppio, delle ruote di gomma su un asfalto rugoso per muovere persone e cose avessero un costo (sempre meno) nascosto che l’EROEI ci insegna a contabilizzare (vedi Pardi).

Grafico 2 – La produzione con input complementari

Quando l’economia ha sviluppato un modello della produzione che includesse energia e materiali ha trovato che erano necessari. E’ una conferma, credo importante, del bisogno di cambiare la struttura produttiva, disincentivando le produzioni energivore, investendo in infrastrutture ferroviarie e ciclabili, tassando il carbonio e riorientando l’agricoltura verso una produzione di prossimità, organica e di stagione.

L’alternativa semplicemente non c’è, o meglio è rappresentata dalla crescita (e collasso) del debito che impedisce, comunque, la crescita ed il benessere delle persone, come spiega bene Gail Tverberg.

  • Questo contributo è una sintesi divulgativa dell’articolo Capital-energy substitution in manufacturing for seven OECD countries: learning about potential effects of climate policy and peak oil pubblicato sulla rivista Energy Efficiency. 


1 Per una storia delle prime funzioni di produzione vedi Humphrey.  
2 Vedi Heady E. e Dillon, J. Agricultural Production Functions, Iowa University Press, 1962 e  Modeling and measuring natural resource substitution, Edited by Ernst R. Berndt and Barry C. Field, MIT Press, 1980.

Wicksteed, P. H. (1894). An essay on the co-ordination of the laws of distribution. London: Macmillan & Co.

more

Amministratori della Terra: un ruolo per la specie umana?

Da “Resource Crisis”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi


Questo post è stato ispirato da un incontro tenutosi a Firenze sul tema dell’enciclica sul clima del Papa e, in particolare, dalla presentazione fatta da Padre Bernardo, priore della chiesa di San Miniato. Ho pensato alla relazione fra religione e ambiente per un po’ e, come commento, riproduco più sotto un testo che ho scritto sull’interpretazione di un’antico mito sumero che, secondo me, descrive un’antica catastrofe ecologica, non diversa da quella che abbiamo di fronte oggigiorno. Molti elementi dell’antica religione sumera sono sopravvissuti attraverso i millenni e sono ancora fra noi. In particolare il concetto che gli esseri umani hanno di potere e responsabilità: sono qua per servire la creazione, non per usarla per i loro scopi. (h/t Antonella Giachetti)

Quando ho iniziato la mia carriera nella ricerca scientifica, difficilmente potevo immaginare che il Papa Cattolico avrebbe, un giorno, insegnato agli scienziati (e non solo a loro) come fare il proprio lavoro. Eppure, sembra che siamo arrivati esattamente a questo punto.

I tentativi fatti finora di risolvere il dibattito sui vari disastri che incombono su di noi (e che noi stessi abbiamo creato) non hanno portato a niente. Per quanti decenni abbiamo cercato di giungere ad un accordo per evitare il disastro del cambiamento climatico? Ora stiamo ponendo le nostre speranze residue sula conferenza di Parigi di quest’anno, ma pensate davvero che un gruppo di politici e burocrati vestiti in abiti grigi sarà in grado di salvare il pianeta?


Ciò che vediamo, piuttosto, è il totale fallimento di un modo di pensare che a volte chiamiamo “positivismo” che ha le sue origini nel XIX secolo con pensatori come Condorcet, Saint Simon, Comte, ed altri. A quel tempo, sembrava essere una buona idea quella di usare la ragione e la scienza per risolvere ogni questione. Forse una buona idea ma, in pratica, non funziona. Sappiamo tutto di ciò che sta succedendo e perché. E’ tutto metodo scientifico e logica. Eppure, il messaggio non passa, continuiamo a distruggere tutto, compresi noi stessi.

La sola ragione non ci dice cosa dovremmo fare per mantenere in vita le altre specie condividendo la Terra con loro. La sola ragione ci ha portato ad una tale assurdità da credere che l’egoismo individuale sia il modo migliore per gestire i beni comuni della Terra (quest’idea è una specie di religione, ma una religione del male). La sola ragione trasforma l’ecosistema in in gigantesco supermarket dove non si deve nemmeno pagare per quello che si prende (finché rimane qualcosa da prendere).

Dobbiamo abbracciare una visione diversa. Una visione che non intenda gli esseri umani come i padroni (o forse i parassiti) del pianeta, ma come gli amministratori della Terra. Una visione che ci dica che gli esseri umani hanno una responsabilità verso il pianeta. Senza una tale visione, continueremo a comportarci come i batteri in una piastra di Petri, indegni di creature che si dice che siano state create “a immagine e somiglianza di Dio”. Penso che non ci sia bisogno di essere cristiani per assumere questo atteggiamento e, probabilmente, nemmeno religiosi o credenti in un Dio trascendentale. Ma penso che bisogna avere almeno la sensazione che esista qualcosa, là fuori, che va oltre il mero soddisfacimento dei desideri personali. Non è nemmeno una questione di sopravvivenza, più che altro una questione di dignità della specie umana.

Questa è un’idea vecchia, l’idea che gli esseri umani non sia qui per essere padroni, ma come amministratori del pianeta sul quale vivono. Risale agli antichi Sumeri e, sotto, ripropongo un articolo che ho scritto su un antico mito Sumero che potrebbe descrivere una situazione critica simile a quella che abbiamo di fronte ora.

______________________________________________

Da “Chimeras” del 23 agosto 2015 

Inanna ed Ebih: il racconto di un’antica catastrofe ecologica?

Ugo Bardi
Dipartimento di Scienze della Terra – Università di Firenze
Polo Scientifico di Sesto Fiorentino,
Sesto Fiorentino (Fi) via della Lastruccia 3, 50019, Italy
ugo.bardi@unifi.it

Abstract

“Inanna ed Ebih” è il titolo moderno di un testo scritto dalla poetessa Sumera Enheduanna intorno alla seconda metà del terzo millennio prima di Cristo. Descrive il conflitto fra la Dea Inanna e la montagna chiamata Ebih, che finisce con la distruzione della seconda. Suggerisco che il poema possa essere interpretato come la conseguenza del modo in cui gli antichi percepivano quello che oggi chiamiamo una “catastrofe ecologica”, il risultato dell’eccessivo pascolo e deforestazione di un fragile ambiente di montagna.

1. Introduzione

Il poema di “Inanna ed Ebih” è stato composto intorno al 2300 AC dalla poetessa Sumera Enheduanna ed è stato riscoperto nel XX secolo (1). La storia raccontata nel poema può essere riassunta in poche righe. Prima leggiamo che la Dea Inanna si sta preparando a combattere contro la montagna “Ebih”, perché la montagna “non le ha portato rispetto.” Prima di attaccare, Inanna va a far visita al Dio An, che chiama “padre”, apparentemente per chiedergli il suo aiuto. An, tuttavia, è perplesso ed Inanna decide di combattere da sola, riuscendo infine a trionfare sulla montagna. Questa storia dev’essere stata molto famosa ai tempi dei Sumeri, tanto che ce ne sono arrivate diverse copie, scritte in cuneiforme su tavolette d’argilla. Il suo significato, quindi, dev’essere stato sufficientemente chiaro per le persone dei tempi antichi, che devono aver trovato la storia interessante abbastanza da continuare a copiarla diverse volte, apparentemente anche come esercizio standard per i giovani scribi (2).

Tuttavia, per noi, “Inanna ed Ebih” è difficile da classificare come poema, persino sconcertante. I personaggi, il loro conflitto e il fatto stesso di un Dio che combatte con una montagna appaiono totalmente alieni ai nostro sentire moderno. Come storia è molto lontana dai canoni moderni di ciò che definiamo come “letteratura” o “poesia”.

Il presente articolo aggiunge qualche considerazione alla comprensione della storia di Inanna ed Edih. E’ basato sul concetto che gli antichi hanno affrontato gli stessi problemi fisici che affrontiamo noi, per esempio l’erosione del suolo, la deforestazione e cose simili. Tuttavia, il loro modo di vedere e descrivere questi problemi era molto diverso. Così, potrebbe essere che la storia che stiamo prendendo in considerazione descriva un’antica catastrofe ecologica, la distruzione di un ecosistema forestale. La storia potrebbe anche essere l’eco di un conflitto ancora esistente in tempi moderni: la necessità di preservare gli ambienti naturali contro il tentativo di sfruttarli eccessivamente.

L’autore non afferma di essere in grado di leggere il Sumero e la presente discussione è basata sulle versioni della storia disponibili nelle lingue moderne. Ovvero su quella di Betty De Shong Meador (3), su quella disponibile nel corpus elettronico di Letteratura Sumera (4), sulla versione di Attinger (5) e su quella italiana di Pettinato (6). Queste traduzioni differiscono in qualche dettaglio, ma il contenuto complessivo si è rivelato lo stesso.

2. Inanna ed Ebih: interpretare il mito

Ci sono diversi modi di interpretare i miti antichi. Forse il migliore conosciuto è il metodo “comparativo”, di cui è stato pioniere, fra gli altri, Claude Levi-Strauss (7). Questo consiste nel trovare elementi comuni fra i diversi miti che si possono trovare in diverse culture e diverse ere. Questi elementi comuni evidenziano la struttura di base del mito e aiutano a capire il suo significato generale, inquadrandolo nel suo contesto specifico.

Nel caso di “Inanna ed Ebih”, potremmo per prima cosa cercare storie che implichino Dei impegnati a combattere montagne, ma una trama del genere sembra essere molto rara. L’antico testo Sumero denominato “Lugal-e”, dal primo termine con cui inizia, ha una trama simile (8). Esso risale a tempi vicini a quelli di Enheduanna, ma è probabilmente più tardo. In Lugal-e ci viene raccontato dell’eroe divino Ninurta che combatte un demone chiamato “Asag” che si rivela essere un “mucchio di pietre”, forse per essere identificato come una montagna con quel nome. Karahashi ha discusso questo mito confrontandolo esplicitamente con quello di Inanna ed Ebih, scoprendo diversi punti in comune, specialmente nella terminologia usata (8).⁠

Un altro mito che mostra qualche analogia strutturale è il mito Greco della Chimera. In questo caso, l’eroe è Bellerofonte, semidio in quanto figlio del Dio Poseidone e, come mostro, la Chimera ha alcuni elementi ctonici, specialmente nel suo alito di fuoco che potrebbe portare ad identificarla con una montagna. Sia Plinio il Vecchio nella sua “Storia naturale” come Servio Mario Onorato nel suo commentario all’Eneide di Virgilio, affermano che la Chimera deve essere intesa come una rappresentazione di un vulcano. Troviamo una interpretazione simile nelle “Moralia” di Plutarco (3.16.9) dove ci viene raccontato di come Bellerofonte abbia asportato una sezione di una montagna chiamata “Chimera”, che stava producendo un riflesso sgradevole sulla pianura, che, a sua volta, seccò i raccolti. In un lavoro precedente (9), l’autore del presente articolo ha proposto che la fonte del mito della Chimera si debba ricercare nella antica  mitologia dell’Asia orientale. Non è impossibile che una fonte possa essere la storia di Inanna ed Ebih.

A parte queste storie, i mostri-montagna sono rari nelle tradizioni a livello mondiale. Alcune montagne sono state certamente importanti in termini religiosi, come il Monte Olimpo per gli antichi Greci e il Monte Fuji in Giappone, fino a tempi relativamente recenti. Tuttavia non sono stati deificati nel ruolo dato ad Ebih nella storia che stiamo qui discutendo. Possiamo trovare sporadici mostri di pietra nella moderna fiction. Per esempio in “Lo Hobbit” di J.R.R. Tolkien (1937) possiamo leggere la descrizione di mostri di pietra che si lanciano giganteschi massi l’uno contro l’altro. Altri mostri ctonici di fantasia appaiono in ambienti come i giochi di ruolo. In generale, tuttavia, possiamo dire che una trama descrivibile come “Dio combatte la montagna” è molto rara sia nella tradizione antiche che moderna. E’ quindi quasi impossibile usarla come base per il metodo comparativo di interpretazione del mito di Inanna ed Ebih.

A questo punto potremmo provare a classificare il mito di Inanna ed Ebih come un esempio del tema generico dell’eroe brillante che combatte un orribile mostro. Ci sono molti di miti antichi e moderni basati su questa idea. Tuttavia, una tale interpretazione tralascia alcuni degli elementi che rendono così enigmatica la sconfitta di Ebih. Perché il mostro è una montagna? Perché fa arrabbiare così tanto Inanna? Quali sono le ragioni della lite di Inanna con gli altri dei? E’ chiaro che c’è qualcosa di più in questa storia che la costituisce oltre al tradizionale conflitto eroe/mostro.

Una diversa linea di interpretazione del mito viene riportata da Delnero (2). E’ basata sull’idea che la storia sia, in realtà, una rappresentazione del conflitto esistente al tempo dell’autrice, Enheduanna, fra elementi Accadici e Sumeri della civiltà Mesopotamica. E’ risaputo che un tale conflitto è esistito ed altri poemi di Enheduanna potrebbero riferirsi ad esso. Per esempio, in “nin-me-sarra,” “La signora dalle virtù splendenti”, Enheduanna sembra descrivere una insurrezione che la porta ad essere cacciata via dal proprio tempio. L’interpretazione riportata dalla Meador (p. 181) è che gli insorti fossero condotti da un uomo di nome Lugalanne, o Lugalanna, probabilmente di origine etnica Sumera, contro il re Accadico del tempo, Naram-Sin, il nipote di Enheduanna. (3).

Chiaramente c’è qualcosa in queste interpretazioni e la violenza che pervade i testi di Enheduanna potrebbero essere un riflesso della violenza che caratterizzava i suoi tempi. Tuttavia, rimane il problema che “Inanna ed Ebih” rimane così astratto nella caratterizzazione dei suoi protagonisti che se descrive realmente un conflitto locale dei tempi di Enheduanna, non è chiaro quale parte debba essere identificata con quale elemento del mito. Forse questa interpretazione era chiara agli antichi Sumeri, ma di questo si potrebbe ragionevolmente dubitare.

La Meador (3) fornisce una interpretazione più profonda della storia, vedendo il poema come una versione precedente del mito biblico del giardino dell’Eden, con Inanna che rappresenta l’equivalente Sumero di Eva/Lilith. Mentre, nella Bibbia, Eva viene punita per le sue azioni, nel mito Sumero Inanna prende l’iniziativa e rifiuta di sottomettersi al padre-Dio, distruggendo l’Eden nel processo. La Meador vede la storia anche come un riflesso di un antico conflitto fra un pantheon dominato dalle donne, con Inanna nel ruolo della Dea Madre, e un pantheon emergente dominato dai maschi, con An come figura paterna che domina gli altri Dei. Questo conflitto è evidente in diverse altre storie mitologiche Sumere ed Accadiche in cui, per esempio, Inanna è contrapposta a suo fratello Gilgamesh. Si tratta di una interpretazione molto interessante in quanto comporta che “Inanna ed Ebih” sia collegata ad altri miti antichi, forse risalenti a tempi pre-letterati. Questo sembra essere accennato nel testo, quando si dice che Inanna (nella traduzione delle Meador) “indossava i vestiti degli antichi Dei” (3). Attinger (5) e pettinato 86) chiamano esplicitamente questi “Antichi Dei” “Enul ed Enŝar” che potrebbero essere, infatti, Dei di un’era più antica (10) (p. 53).

Tuttavia, anche questo modo di vedere il mito non spiega il significato di alcuni elementi. Per esempio, se questa è la storia di un conflitto fra una Dea Madre e un Dio Padre, qul è esattamente il ruolo della montagna Ebih?

Un modo diverso di vedere questo mito è il modo “euemeristico” o “razionalistico”, che consistono nella spiegazione del mito in termini di fenomeni naturali. Questo modo di interpretare i miti antichi era più popolare nel passato di quanto lo sia oggi, ma non è mai passato di moda. Tuttavia, i ricercatori moderni tendono ad essere molto più cauti nello spiegare (alcuni potrebbero dire “spiegar via”) gli elementi di storie complesse in banali fenomeni fisici. Quando Servio ha detto che la Chimera era un vulcano, potrebbe avere inteso che gli antichi erano così ingenui da scambiare un vulcano per un leone, ma questo, naturalmente, è improbabile, a dire poco. Piuttosto, gli antichi stavano affrontando gli stessi fenomeni fisici che affrontiamo noi e, per loro, descrivere una tempesta di fulmini in termini di azioni compiute da un Dio di nome Zeus era un modo di renderle coerenti coi loro strumenti culturali e mentali. Noi facciamo la stessa cosa in tempi moderni quando ascriviamo certi eventi ad entità astratte e forse sovrannaturali, la cui esistenza può essere ragionevolmente messa in dubbio (vedi, per esempio, “il libero mercato”).

Riguardo ai miti Sumeri/Accadici, spiegazioni naturalistiche sono state proposte da Jacobsen (11), anche se non specificamente per la storia di Inanna ed Ebih. Tuttavia, se esaminiamo la storia alla luce di una possibile spiegazione razionalistica, vediamo immediatamente come la distruzione della montagna suggerisca una catastrofe ecologica causata dalla deforestazione e dall’eccessivo pascolo.

Nel mito, la montagna di Ebih viene descritta come un luogo lussureggiante: ci sono frutti sospesi nei sui giardini rigogliosi. Ci sono alberi magnifici, leoni, tori selvaggi e i cervi sono abbondanti, proprio come i tori selvaggi e l’erba. Poi, vediamo Inanna che attacca la montagna col fuoco e con un pioggia di pietre. In un altro poema di Enheduanna, tradotto dalla Meador col titolo di “La signora dal grande cuore” (3), leggiamo alcune strofe che potrebbero riferirsi alla lotta di inanna contro Ebih:

Essa riduce la montagna a spazzatura,sparpagliando i detriti dall’alba al tramonto,la sferza con grandi pietre, e la montagna, come vaso d’argilla si sgretola e così la sua grandezza essa scioglie la montagna in una vasca di grasso di pecora.

Ci vuole poca immaginazione per vedere che il poema possa riferirsi al degrado del suolo sui pendii di una montagna, trasformato in fango che scivola a valle. I terreni di montagna sono particolarmente sensibili all’erosione del suolo e il problema è particolarmente grave nei climi caldi soggetti ad episodi di forti piogge e inframmezzate da periodi siccitosi, come nel caso del clima del Mediterraneo e del Medio Oriente.

La Mesopotamia è una terra pianeggiante, ma i suoi abitanti commerciavano legno ed altri beni forestali attivamente. Oggi, gran parte delle catene montuose del Nord Africa e del Medio oriente sono degradate ed erose a vari gradi. Ma non era così in tempi antichi e sarà sufficiente osservare in che modo le montagne del Libano fossero una fonte di legname per gli antichi Sumeri (come riportato nel mito di Gilgamesh ed Enkidu), mentre in tempi moderni queste regioni sono quasi completamente deforestate ed erose (12). Dai dati disponibili (13), sembra chiaro che le montagne della regione di Zagros, alla quale probabilmente fa riferimento la storia di “Inanna ed Ebih”, era ancora piena di foreste al tempo dei Sumeri, ma è anche chiaro che la deforestazione era già in corso. Un processo lento che ha portato alla condizione attuale di grave degrado ambientale (14).

Gli antichi conoscevano il problema del degrado del suolo. McNeill e Viniwarter (15) hanno riassunto diversi elementi della questione, riferendo che già nel 2000 AC, cioè in un periodo non lontano da quello di Enheduanna, gli agricoltori contadini del Medio oriente avevano già sviluppato alcuni modi per combattere l’erosione del suolo. Riportano anche come gli scrittori Romani, come Varro, avessero un forte interesse per la qualità del suolo e per la necessità di evitare l’erosione. E’ anche ben noto che Platone , in “Crizia” (IV secolo prima di Cristo), descrive l’erosione e il degrado delle montagne della Grecia. Un interessante documento preindustriale su questo problema è stato scritto da Matteo Biffi Tolomei intorno alla fine del XVIII secolo (16). Il documento racconta del tentativo di conservare la copertura forestale sugli Appennini in Toscana e di come il tentativo sia fallito dopo molto dibattito fra coloro che si definivano il partito “moderno” (in favore del teglio degli alberi) e il partito “vecchio” (in favore, invece, del mantenimento della copertura forestale). Questo conflitto di qualche secolo fa non è inquadrato in termini religiosi, ma in esso possiamo forse vedere un riflesso del conflitto molto più antico del tempo dei Sumeri che potrebbe essere riflesso a sua volta nella storia di Inanna ed Ebih.

3. Conclusione religione come modo di interpretare il mondo.

La religione al tempo dei Sumeri era certamente qualcosa di molto diverso dal modo in cui la intendiamo oggi. Tuttavia, alcuni elementi del concetto di religione sono comuni a tutte le sue forme (vedi per esempio Thorkild Jacobsen (11) per un racconto esaustivo delle caratteristiche e dello sviluppo storico della visione religiosa del mondo dei Sumeri). Una visione religiosa del mondo potrebbe vedere oltre il semplice vantaggio a breve termine di una azione (tagliare alberi), per notare gli svantaggi a lungo termine (erosione del suolo). Oggi, possiamo vedere questo tipo di approccio nella recente enciclica papale sul cambiamento climatico (17) e sulla dichiarazione islamica sul cambiamento climatico globale (18). Potrebbe essere stato così anche per la storia di Inanna che “punisce” la montagna di nome Ebih, una cosa che potrebbe essere interpretata come la distruzione degli esseri umani che non sono stati abbastanza attenti da conservare e sostenere il loro ecosistema.

Riferimenti

1. Kramer SN. Sumerian Aythology: Uno studio delle conquista spirituali e letterarie nel terzo millennio prima di Cristo. Memoirs of. Philadelphia: American Philosophical Society; 1944.
2. Delnero P. Inanna ed Ebih e la tradizione degli scriba. Un’eredità culturale comune: studi sulla Mesopotamia e il mondo biblico in onore di Barry L Eichler [Internet]. CDL Press; 2011 [citato l’8 agosto 2015]. Disponibile presso: https://www.academia.edu/1908001/Inana_and_Ebih_and_the_Scribal_Tradition
3. Meador B. Inanna, Signora dal cuore più grande: poemi della somma sacerdotessa Enheduanna [Internet]. Austin (Texas): University of Austin Press; 2000 [citato il 3 agosto 2015]. Disponibile presso: https://books.google.it/books?hl=en&lr=&id=B45PvLlj3ogC&oi=fnd&pg=PR3&dq=inanna+and+ebih&ots=PCrv4Pptzm&sig=2nUOlV-Ef5ewoPe-dNMa-pzfv_A
4. Black JA, Cunningham G, Fluckiger-Hawker E, Robson E, Zólyomi G. Inanaa ed Ebih: traduzioni [Internet]. Corpus elettronico della letteratura Sumera. [citato il 3 agosto 2015]. Disponibile presso: http://etcsl.orinst.ox.ac.uk/section1/tr132.htm
5. Attinger P. Inanna ed Ebih. Periodico di assiriologia ed archeologia [Internet]. 1998;88:164–95. Disponibile presso: http://www.degruyter.com/dg/viewarticle/j$002fzava.1998.88.issue-2$002fzava.1998.88.2.164$002fzava.1998.88.2.164.xml
6. Pettinato G. Mitologia sumerica [Internet]. Torino: UTET; 2001 [citato il 9 agosto 2015]. Disponibile presso: https://books.google.it/books/about/Mitologia_sumerica.html?id=JoMRAQAAIAAJ&pgis=1
7. Levi-Strauss C. Mito e significato. Londra: Routledge & Kegan Paul, U.K; 1978.
8. Karahashi F. Combattere la montagna: alcune osservazioni sul mito Sumero di Inanna e Ninurta*. J Near East Stud [Internet]. 2004 [citato il 3 agosto 2015];63(2):111–8. Disponibile presso: http://www.jstor.org/stable/10.1086/422302
9. Bardi U. Il Libro della Chimera. Firenze, Italia: Polistampa; 2008.
10. Espak P. Alcuni sviluppi antichi dell’elenco di Dei e del pantheon Sumeri.In: Kanmerer T, editor. Identità e società nelle regioni dell’antico mediterraneo orientale [Internet]. Munster: Ugarit-Verlag; 2011 [citato il 23 agosto 2015]. Disponibile presso: https://www.academia.edu/1466135/Some_Early_Developments_in_Sumerian_God-Lists_and_Pantheon
11. Jacobsen T. I tesori dell’oscurità: storia della religione mesopotamica [Internet]. 1978 [citato il 9 agosto 2015]. Disponibile presso: https://books.google.it/books/about/The_Treasures_of_Darkness.html?id=bZT57A8ioCkC&pgis=1
12. Mikesell MW. La deforestazione di monte Libano. Geogr Rev [Internet]. 1969;59(1):1–28. Disponibile presso: http://www.jstor.org/stable/213080
13. Rowton MB. Le foreste dell’antica Asia Occidentale. J Near East Stud [Internet]. 1967;26(4):261–177. Disponibile presso: http://www.jstor.org/stable/543595
14. Pswarayi-Riddihough I. Foreste in Medio Oriente e Nord Africa: rassegna di implementazione, Volumi 23-521 [Internet]. World Bank Publications; 2002 [citato il 9 agosto 2015]. 56 p. Disponibile presso: https://books.google.com/books?id=TqTJdyForfkC&pgis=1
15. McNeill JR, Winiwarter V. Romper ela zolla: specie umana, storia e suolo. Science [Internet]. 2004 Jun 11 [citato il 18 agosto 2015];304(5677):1627–9. Disponibile presso: http://www.sciencemag.org/content/304/5677/1627.full
16. Biffi Tolomei M, Clauser F. Una tragedia ecologica del ’700. Firenze, Italia: Libreria Editrice Fiorentina; 2004. 64 p.
17. Laudato si’ [Internet]. [citato l’11 agosto 2015]. Disponibile presso: http://w2.vatican.va/content/francesco/en/encyclicals/documents/papa-francesco_20150524_enciclica-laudato-si.html
18. Dichiarazione Islamica sul Cambiamento Climatico Globale [Internet]. [citato il 23 agosto 2015]. Disponibil presso: http://islamicclimatedeclaration.org/islamic-declaration-on-global-climate-change/

more

Amministratori della Terra: un ruolo per la specie umana?

Da “Resource Crisis”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi


Questo post è stato ispirato da un incontro tenutosi a Firenze sul tema dell’enciclica sul clima del Papa e, in particolare, dalla presentazione fatta da Padre Bernardo, priore della chiesa di San Miniato. Ho pensato alla relazione fra religione e ambiente per un po’ e, come commento, riproduco più sotto un testo che ho scritto sull’interpretazione di un’antico mito sumero che, secondo me, descrive un’antica catastrofe ecologica, non diversa da quella che abbiamo di fronte oggigiorno. Molti elementi dell’antica religione sumera sono sopravvissuti attraverso i millenni e sono ancora fra noi. In particolare il concetto che gli esseri umani hanno di potere e responsabilità: sono qua per servire la creazione, non per usarla per i loro scopi. (h/t Antonella Giachetti)

Quando ho iniziato la mia carriera nella ricerca scientifica, difficilmente potevo immaginare che il Papa Cattolico avrebbe, un giorno, insegnato agli scienziati (e non solo a loro) come fare il proprio lavoro. Eppure, sembra che siamo arrivati esattamente a questo punto.

I tentativi fatti finora di risolvere il dibattito sui vari disastri che incombono su di noi (e che noi stessi abbiamo creato) non hanno portato a niente. Per quanti decenni abbiamo cercato di giungere ad un accordo per evitare il disastro del cambiamento climatico? Ora stiamo ponendo le nostre speranze residue sula conferenza di Parigi di quest’anno, ma pensate davvero che un gruppo di politici e burocrati vestiti in abiti grigi sarà in grado di salvare il pianeta?


Ciò che vediamo, piuttosto, è il totale fallimento di un modo di pensare che a volte chiamiamo “positivismo” che ha le sue origini nel XIX secolo con pensatori come Condorcet, Saint Simon, Comte, ed altri. A quel tempo, sembrava essere una buona idea quella di usare la ragione e la scienza per risolvere ogni questione. Forse una buona idea ma, in pratica, non funziona. Sappiamo tutto di ciò che sta succedendo e perché. E’ tutto metodo scientifico e logica. Eppure, il messaggio non passa, continuiamo a distruggere tutto, compresi noi stessi.

La sola ragione non ci dice cosa dovremmo fare per mantenere in vita le altre specie condividendo la Terra con loro. La sola ragione ci ha portato ad una tale assurdità da credere che l’egoismo individuale sia il modo migliore per gestire i beni comuni della Terra (quest’idea è una specie di religione, ma una religione del male). La sola ragione trasforma l’ecosistema in in gigantesco supermarket dove non si deve nemmeno pagare per quello che si prende (finché rimane qualcosa da prendere).

Dobbiamo abbracciare una visione diversa. Una visione che non intenda gli esseri umani come i padroni (o forse i parassiti) del pianeta, ma come gli amministratori della Terra. Una visione che ci dica che gli esseri umani hanno una responsabilità verso il pianeta. Senza una tale visione, continueremo a comportarci come i batteri in una piastra di Petri, indegni di creature che si dice che siano state create “a immagine e somiglianza di Dio”. Penso che non ci sia bisogno di essere cristiani per assumere questo atteggiamento e, probabilmente, nemmeno religiosi o credenti in un Dio trascendentale. Ma penso che bisogna avere almeno la sensazione che esista qualcosa, là fuori, che va oltre il mero soddisfacimento dei desideri personali. Non è nemmeno una questione di sopravvivenza, più che altro una questione di dignità della specie umana.

Questa è un’idea vecchia, l’idea che gli esseri umani non sia qui per essere padroni, ma come amministratori del pianeta sul quale vivono. Risale agli antichi Sumeri e, sotto, ripropongo un articolo che ho scritto su un antico mito Sumero che potrebbe descrivere una situazione critica simile a quella che abbiamo di fronte ora.

______________________________________________

Da “Chimeras” del 23 agosto 2015 

Inanna ed Ebih: il racconto di un’antica catastrofe ecologica?

Ugo Bardi
Dipartimento di Scienze della Terra – Università di Firenze
Polo Scientifico di Sesto Fiorentino,
Sesto Fiorentino (Fi) via della Lastruccia 3, 50019, Italy
ugo.bardi@unifi.it

Abstract

“Inanna ed Ebih” è il titolo moderno di un testo scritto dalla poetessa Sumera Enheduanna intorno alla seconda metà del terzo millennio prima di Cristo. Descrive il conflitto fra la Dea Inanna e la montagna chiamata Ebih, che finisce con la distruzione della seconda. Suggerisco che il poema possa essere interpretato come la conseguenza del modo in cui gli antichi percepivano quello che oggi chiamiamo una “catastrofe ecologica”, il risultato dell’eccessivo pascolo e deforestazione di un fragile ambiente di montagna.

1. Introduzione

Il poema di “Inanna ed Ebih” è stato composto intorno al 2300 AC dalla poetessa Sumera Enheduanna ed è stato riscoperto nel XX secolo (1). La storia raccontata nel poema può essere riassunta in poche righe. Prima leggiamo che la Dea Inanna si sta preparando a combattere contro la montagna “Ebih”, perché la montagna “non le ha portato rispetto.” Prima di attaccare, Inanna va a far visita al Dio An, che chiama “padre”, apparentemente per chiedergli il suo aiuto. An, tuttavia, è perplesso ed Inanna decide di combattere da sola, riuscendo infine a trionfare sulla montagna. Questa storia dev’essere stata molto famosa ai tempi dei Sumeri, tanto che ce ne sono arrivate diverse copie, scritte in cuneiforme su tavolette d’argilla. Il suo significato, quindi, dev’essere stato sufficientemente chiaro per le persone dei tempi antichi, che devono aver trovato la storia interessante abbastanza da continuare a copiarla diverse volte, apparentemente anche come esercizio standard per i giovani scribi (2).

Tuttavia, per noi, “Inanna ed Ebih” è difficile da classificare come poema, persino sconcertante. I personaggi, il loro conflitto e il fatto stesso di un Dio che combatte con una montagna appaiono totalmente alieni ai nostro sentire moderno. Come storia è molto lontana dai canoni moderni di ciò che definiamo come “letteratura” o “poesia”.

Il presente articolo aggiunge qualche considerazione alla comprensione della storia di Inanna ed Edih. E’ basato sul concetto che gli antichi hanno affrontato gli stessi problemi fisici che affrontiamo noi, per esempio l’erosione del suolo, la deforestazione e cose simili. Tuttavia, il loro modo di vedere e descrivere questi problemi era molto diverso. Così, potrebbe essere che la storia che stiamo prendendo in considerazione descriva un’antica catastrofe ecologica, la distruzione di un ecosistema forestale. La storia potrebbe anche essere l’eco di un conflitto ancora esistente in tempi moderni: la necessità di preservare gli ambienti naturali contro il tentativo di sfruttarli eccessivamente.

L’autore non afferma di essere in grado di leggere il Sumero e la presente discussione è basata sulle versioni della storia disponibili nelle lingue moderne. Ovvero su quella di Betty De Shong Meador (3), su quella disponibile nel corpus elettronico di Letteratura Sumera (4), sulla versione di Attinger (5) e su quella italiana di Pettinato (6). Queste traduzioni differiscono in qualche dettaglio, ma il contenuto complessivo si è rivelato lo stesso.

2. Inanna ed Ebih: interpretare il mito

Ci sono diversi modi di interpretare i miti antichi. Forse il migliore conosciuto è il metodo “comparativo”, di cui è stato pioniere, fra gli altri, Claude Levi-Strauss (7). Questo consiste nel trovare elementi comuni fra i diversi miti che si possono trovare in diverse culture e diverse ere. Questi elementi comuni evidenziano la struttura di base del mito e aiutano a capire il suo significato generale, inquadrandolo nel suo contesto specifico.

Nel caso di “Inanna ed Ebih”, potremmo per prima cosa cercare storie che implichino Dei impegnati a combattere montagne, ma una trama del genere sembra essere molto rara. L’antico testo Sumero denominato “Lugal-e”, dal primo termine con cui inizia, ha una trama simile (8). Esso risale a tempi vicini a quelli di Enheduanna, ma è probabilmente più tardo. In Lugal-e ci viene raccontato dell’eroe divino Ninurta che combatte un demone chiamato “Asag” che si rivela essere un “mucchio di pietre”, forse per essere identificato come una montagna con quel nome. Karahashi ha discusso questo mito confrontandolo esplicitamente con quello di Inanna ed Ebih, scoprendo diversi punti in comune, specialmente nella terminologia usata (8).⁠

Un altro mito che mostra qualche analogia strutturale è il mito Greco della Chimera. In questo caso, l’eroe è Bellerofonte, semidio in quanto figlio del Dio Poseidone e, come mostro, la Chimera ha alcuni elementi ctonici, specialmente nel suo alito di fuoco che potrebbe portare ad identificarla con una montagna. Sia Plinio il Vecchio nella sua “Storia naturale” come Servio Mario Onorato nel suo commentario all’Eneide di Virgilio, affermano che la Chimera deve essere intesa come una rappresentazione di un vulcano. Troviamo una interpretazione simile nelle “Moralia” di Plutarco (3.16.9) dove ci viene raccontato di come Bellerofonte abbia asportato una sezione di una montagna chiamata “Chimera”, che stava producendo un riflesso sgradevole sulla pianura, che, a sua volta, seccò i raccolti. In un lavoro precedente (9), l’autore del presente articolo ha proposto che la fonte del mito della Chimera si debba ricercare nella antica  mitologia dell’Asia orientale. Non è impossibile che una fonte possa essere la storia di Inanna ed Ebih.

A parte queste storie, i mostri-montagna sono rari nelle tradizioni a livello mondiale. Alcune montagne sono state certamente importanti in termini religiosi, come il Monte Olimpo per gli antichi Greci e il Monte Fuji in Giappone, fino a tempi relativamente recenti. Tuttavia non sono stati deificati nel ruolo dato ad Ebih nella storia che stiamo qui discutendo. Possiamo trovare sporadici mostri di pietra nella moderna fiction. Per esempio in “Lo Hobbit” di J.R.R. Tolkien (1937) possiamo leggere la descrizione di mostri di pietra che si lanciano giganteschi massi l’uno contro l’altro. Altri mostri ctonici di fantasia appaiono in ambienti come i giochi di ruolo. In generale, tuttavia, possiamo dire che una trama descrivibile come “Dio combatte la montagna” è molto rara sia nella tradizione antiche che moderna. E’ quindi quasi impossibile usarla come base per il metodo comparativo di interpretazione del mito di Inanna ed Ebih.

A questo punto potremmo provare a classificare il mito di Inanna ed Ebih come un esempio del tema generico dell’eroe brillante che combatte un orribile mostro. Ci sono molti di miti antichi e moderni basati su questa idea. Tuttavia, una tale interpretazione tralascia alcuni degli elementi che rendono così enigmatica la sconfitta di Ebih. Perché il mostro è una montagna? Perché fa arrabbiare così tanto Inanna? Quali sono le ragioni della lite di Inanna con gli altri dei? E’ chiaro che c’è qualcosa di più in questa storia che la costituisce oltre al tradizionale conflitto eroe/mostro.

Una diversa linea di interpretazione del mito viene riportata da Delnero (2). E’ basata sull’idea che la storia sia, in realtà, una rappresentazione del conflitto esistente al tempo dell’autrice, Enheduanna, fra elementi Accadici e Sumeri della civiltà Mesopotamica. E’ risaputo che un tale conflitto è esistito ed altri poemi di Enheduanna potrebbero riferirsi ad esso. Per esempio, in “nin-me-sarra,” “La signora dalle virtù splendenti”, Enheduanna sembra descrivere una insurrezione che la porta ad essere cacciata via dal proprio tempio. L’interpretazione riportata dalla Meador (p. 181) è che gli insorti fossero condotti da un uomo di nome Lugalanne, o Lugalanna, probabilmente di origine etnica Sumera, contro il re Accadico del tempo, Naram-Sin, il nipote di Enheduanna. (3).

Chiaramente c’è qualcosa in queste interpretazioni e la violenza che pervade i testi di Enheduanna potrebbero essere un riflesso della violenza che caratterizzava i suoi tempi. Tuttavia, rimane il problema che “Inanna ed Ebih” rimane così astratto nella caratterizzazione dei suoi protagonisti che se descrive realmente un conflitto locale dei tempi di Enheduanna, non è chiaro quale parte debba essere identificata con quale elemento del mito. Forse questa interpretazione era chiara agli antichi Sumeri, ma di questo si potrebbe ragionevolmente dubitare.

La Meador (3) fornisce una interpretazione più profonda della storia, vedendo il poema come una versione precedente del mito biblico del giardino dell’Eden, con Inanna che rappresenta l’equivalente Sumero di Eva/Lilith. Mentre, nella Bibbia, Eva viene punita per le sue azioni, nel mito Sumero Inanna prende l’iniziativa e rifiuta di sottomettersi al padre-Dio, distruggendo l’Eden nel processo. La Meador vede la storia anche come un riflesso di un antico conflitto fra un pantheon dominato dalle donne, con Inanna nel ruolo della Dea Madre, e un pantheon emergente dominato dai maschi, con An come figura paterna che domina gli altri Dei. Questo conflitto è evidente in diverse altre storie mitologiche Sumere ed Accadiche in cui, per esempio, Inanna è contrapposta a suo fratello Gilgamesh. Si tratta di una interpretazione molto interessante in quanto comporta che “Inanna ed Ebih” sia collegata ad altri miti antichi, forse risalenti a tempi pre-letterati. Questo sembra essere accennato nel testo, quando si dice che Inanna (nella traduzione delle Meador) “indossava i vestiti degli antichi Dei” (3). Attinger (5) e pettinato 86) chiamano esplicitamente questi “Antichi Dei” “Enul ed Enŝar” che potrebbero essere, infatti, Dei di un’era più antica (10) (p. 53).

Tuttavia, anche questo modo di vedere il mito non spiega il significato di alcuni elementi. Per esempio, se questa è la storia di un conflitto fra una Dea Madre e un Dio Padre, qul è esattamente il ruolo della montagna Ebih?

Un modo diverso di vedere questo mito è il modo “euemeristico” o “razionalistico”, che consistono nella spiegazione del mito in termini di fenomeni naturali. Questo modo di interpretare i miti antichi era più popolare nel passato di quanto lo sia oggi, ma non è mai passato di moda. Tuttavia, i ricercatori moderni tendono ad essere molto più cauti nello spiegare (alcuni potrebbero dire “spiegar via”) gli elementi di storie complesse in banali fenomeni fisici. Quando Servio ha detto che la Chimera era un vulcano, potrebbe avere inteso che gli antichi erano così ingenui da scambiare un vulcano per un leone, ma questo, naturalmente, è improbabile, a dire poco. Piuttosto, gli antichi stavano affrontando gli stessi fenomeni fisici che affrontiamo noi e, per loro, descrivere una tempesta di fulmini in termini di azioni compiute da un Dio di nome Zeus era un modo di renderle coerenti coi loro strumenti culturali e mentali. Noi facciamo la stessa cosa in tempi moderni quando ascriviamo certi eventi ad entità astratte e forse sovrannaturali, la cui esistenza può essere ragionevolmente messa in dubbio (vedi, per esempio, “il libero mercato”).

Riguardo ai miti Sumeri/Accadici, spiegazioni naturalistiche sono state proposte da Jacobsen (11), anche se non specificamente per la storia di Inanna ed Ebih. Tuttavia, se esaminiamo la storia alla luce di una possibile spiegazione razionalistica, vediamo immediatamente come la distruzione della montagna suggerisca una catastrofe ecologica causata dalla deforestazione e dall’eccessivo pascolo.

Nel mito, la montagna di Ebih viene descritta come un luogo lussureggiante: ci sono frutti sospesi nei sui giardini rigogliosi. Ci sono alberi magnifici, leoni, tori selvaggi e i cervi sono abbondanti, proprio come i tori selvaggi e l’erba. Poi, vediamo Inanna che attacca la montagna col fuoco e con un pioggia di pietre. In un altro poema di Enheduanna, tradotto dalla Meador col titolo di “La signora dal grande cuore” (3), leggiamo alcune strofe che potrebbero riferirsi alla lotta di inanna contro Ebih:

Essa riduce la montagna a spazzatura,sparpagliando i detriti dall’alba al tramonto,la sferza con grandi pietre, e la montagna, come vaso d’argilla si sgretola e così la sua grandezza essa scioglie la montagna in una vasca di grasso di pecora.

Ci vuole poca immaginazione per vedere che il poema possa riferirsi al degrado del suolo sui pendii di una montagna, trasformato in fango che scivola a valle. I terreni di montagna sono particolarmente sensibili all’erosione del suolo e il problema è particolarmente grave nei climi caldi soggetti ad episodi di forti piogge e inframmezzate da periodi siccitosi, come nel caso del clima del Mediterraneo e del Medio Oriente.

La Mesopotamia è una terra pianeggiante, ma i suoi abitanti commerciavano legno ed altri beni forestali attivamente. Oggi, gran parte delle catene montuose del Nord Africa e del Medio oriente sono degradate ed erose a vari gradi. Ma non era così in tempi antichi e sarà sufficiente osservare in che modo le montagne del Libano fossero una fonte di legname per gli antichi Sumeri (come riportato nel mito di Gilgamesh ed Enkidu), mentre in tempi moderni queste regioni sono quasi completamente deforestate ed erose (12). Dai dati disponibili (13), sembra chiaro che le montagne della regione di Zagros, alla quale probabilmente fa riferimento la storia di “Inanna ed Ebih”, era ancora piena di foreste al tempo dei Sumeri, ma è anche chiaro che la deforestazione era già in corso. Un processo lento che ha portato alla condizione attuale di grave degrado ambientale (14).

Gli antichi conoscevano il problema del degrado del suolo. McNeill e Viniwarter (15) hanno riassunto diversi elementi della questione, riferendo che già nel 2000 AC, cioè in un periodo non lontano da quello di Enheduanna, gli agricoltori contadini del Medio oriente avevano già sviluppato alcuni modi per combattere l’erosione del suolo. Riportano anche come gli scrittori Romani, come Varro, avessero un forte interesse per la qualità del suolo e per la necessità di evitare l’erosione. E’ anche ben noto che Platone , in “Crizia” (IV secolo prima di Cristo), descrive l’erosione e il degrado delle montagne della Grecia. Un interessante documento preindustriale su questo problema è stato scritto da Matteo Biffi Tolomei intorno alla fine del XVIII secolo (16). Il documento racconta del tentativo di conservare la copertura forestale sugli Appennini in Toscana e di come il tentativo sia fallito dopo molto dibattito fra coloro che si definivano il partito “moderno” (in favore del teglio degli alberi) e il partito “vecchio” (in favore, invece, del mantenimento della copertura forestale). Questo conflitto di qualche secolo fa non è inquadrato in termini religiosi, ma in esso possiamo forse vedere un riflesso del conflitto molto più antico del tempo dei Sumeri che potrebbe essere riflesso a sua volta nella storia di Inanna ed Ebih.

3. Conclusione religione come modo di interpretare il mondo.

La religione al tempo dei Sumeri era certamente qualcosa di molto diverso dal modo in cui la intendiamo oggi. Tuttavia, alcuni elementi del concetto di religione sono comuni a tutte le sue forme (vedi per esempio Thorkild Jacobsen (11) per un racconto esaustivo delle caratteristiche e dello sviluppo storico della visione religiosa del mondo dei Sumeri). Una visione religiosa del mondo potrebbe vedere oltre il semplice vantaggio a breve termine di una azione (tagliare alberi), per notare gli svantaggi a lungo termine (erosione del suolo). Oggi, possiamo vedere questo tipo di approccio nella recente enciclica papale sul cambiamento climatico (17) e sulla dichiarazione islamica sul cambiamento climatico globale (18). Potrebbe essere stato così anche per la storia di Inanna che “punisce” la montagna di nome Ebih, una cosa che potrebbe essere interpretata come la distruzione degli esseri umani che non sono stati abbastanza attenti da conservare e sostenere il loro ecosistema.

Riferimenti

1. Kramer SN. Sumerian Aythology: Uno studio delle conquista spirituali e letterarie nel terzo millennio prima di Cristo. Memoirs of. Philadelphia: American Philosophical Society; 1944.
2. Delnero P. Inanna ed Ebih e la tradizione degli scriba. Un’eredità culturale comune: studi sulla Mesopotamia e il mondo biblico in onore di Barry L Eichler [Internet]. CDL Press; 2011 [citato l’8 agosto 2015]. Disponibile presso: https://www.academia.edu/1908001/Inana_and_Ebih_and_the_Scribal_Tradition
3. Meador B. Inanna, Signora dal cuore più grande: poemi della somma sacerdotessa Enheduanna [Internet]. Austin (Texas): University of Austin Press; 2000 [citato il 3 agosto 2015]. Disponibile presso: https://books.google.it/books?hl=en&lr=&id=B45PvLlj3ogC&oi=fnd&pg=PR3&dq=inanna+and+ebih&ots=PCrv4Pptzm&sig=2nUOlV-Ef5ewoPe-dNMa-pzfv_A
4. Black JA, Cunningham G, Fluckiger-Hawker E, Robson E, Zólyomi G. Inanaa ed Ebih: traduzioni [Internet]. Corpus elettronico della letteratura Sumera. [citato il 3 agosto 2015]. Disponibile presso: http://etcsl.orinst.ox.ac.uk/section1/tr132.htm
5. Attinger P. Inanna ed Ebih. Periodico di assiriologia ed archeologia [Internet]. 1998;88:164–95. Disponibile presso: http://www.degruyter.com/dg/viewarticle/j$002fzava.1998.88.issue-2$002fzava.1998.88.2.164$002fzava.1998.88.2.164.xml
6. Pettinato G. Mitologia sumerica [Internet]. Torino: UTET; 2001 [citato il 9 agosto 2015]. Disponibile presso: https://books.google.it/books/about/Mitologia_sumerica.html?id=JoMRAQAAIAAJ&pgis=1
7. Levi-Strauss C. Mito e significato. Londra: Routledge & Kegan Paul, U.K; 1978.
8. Karahashi F. Combattere la montagna: alcune osservazioni sul mito Sumero di Inanna e Ninurta*. J Near East Stud [Internet]. 2004 [citato il 3 agosto 2015];63(2):111–8. Disponibile presso: http://www.jstor.org/stable/10.1086/422302
9. Bardi U. Il Libro della Chimera. Firenze, Italia: Polistampa; 2008.
10. Espak P. Alcuni sviluppi antichi dell’elenco di Dei e del pantheon Sumeri.In: Kanmerer T, editor. Identità e società nelle regioni dell’antico mediterraneo orientale [Internet]. Munster: Ugarit-Verlag; 2011 [citato il 23 agosto 2015]. Disponibile presso: https://www.academia.edu/1466135/Some_Early_Developments_in_Sumerian_God-Lists_and_Pantheon
11. Jacobsen T. I tesori dell’oscurità: storia della religione mesopotamica [Internet]. 1978 [citato il 9 agosto 2015]. Disponibile presso: https://books.google.it/books/about/The_Treasures_of_Darkness.html?id=bZT57A8ioCkC&pgis=1
12. Mikesell MW. La deforestazione di monte Libano. Geogr Rev [Internet]. 1969;59(1):1–28. Disponibile presso: http://www.jstor.org/stable/213080
13. Rowton MB. Le foreste dell’antica Asia Occidentale. J Near East Stud [Internet]. 1967;26(4):261–177. Disponibile presso: http://www.jstor.org/stable/543595
14. Pswarayi-Riddihough I. Foreste in Medio Oriente e Nord Africa: rassegna di implementazione, Volumi 23-521 [Internet]. World Bank Publications; 2002 [citato il 9 agosto 2015]. 56 p. Disponibile presso: https://books.google.com/books?id=TqTJdyForfkC&pgis=1
15. McNeill JR, Winiwarter V. Romper ela zolla: specie umana, storia e suolo. Science [Internet]. 2004 Jun 11 [citato il 18 agosto 2015];304(5677):1627–9. Disponibile presso: http://www.sciencemag.org/content/304/5677/1627.full
16. Biffi Tolomei M, Clauser F. Una tragedia ecologica del ’700. Firenze, Italia: Libreria Editrice Fiorentina; 2004. 64 p.
17. Laudato si’ [Internet]. [citato l’11 agosto 2015]. Disponibile presso: http://w2.vatican.va/content/francesco/en/encyclicals/documents/papa-francesco_20150524_enciclica-laudato-si.html
18. Dichiarazione Islamica sul Cambiamento Climatico Globale [Internet]. [citato il 23 agosto 2015]. Disponibil presso: http://islamicclimatedeclaration.org/islamic-declaration-on-global-climate-change/

more

Ancora sull’EROEI della guerra.

di Jacopo Simonetta

Evoluzione della produzione di idrocarburi liquidi
in energia nettaecondo WEO 2014

In un recente post  Turiel ha affrontato un tema particolarmente scabroso: l’EROEI della guerra moderna.

La guerra è un fenomeno molto complesso che accompagna la nostra specie fin dal suo apparire e forse anche prima, visto che si verificano guerre fra i nostri cugini scimpanzé. Sull’argomento sono stati versati ettolitri di inchiostro, oltre che di sangue, ma l’aspetto evocato a Turiel è originale ed interessante.

Tralasciando tutti gli altri aspetti delle questione, si concentra infatti sull’efficienza energetica dei conflitti, un aspetto indagato da pochi.  Non  pretende, ovviamente, che questo sia l’aspetto principale del problema, ma fa presente che aumenterà di rilevanza in un mondo in cui la disponibilità di energia è destinata fatalmente a diminuire.       Anzi, forse sta già diminuendo.  

Turiel discute il problema dei costi energetici della guerra sulla base di una sua classificazione dei conflitti, basata sullo scopo dei medesimi, specificando che molte altre classificazioni sono possibili.    In questo post, mi propongo quindi di cogliere il suo invito ed affrontare a mia volta la questione, proponendo una classificazione basata invece sui mezzi impiegati.   Penso possa essere utile per rilanciare la discussione avviata da Turiel.

Elencherò le categorie per ordine decrescente di dissipazione di energia.

1 – Convenzionale ad alta intensità simmetrica.   Lo scontro diretto di due stati di potenza circa pari che impiegano aviazione, mezzi corazzati e tutto l’arsenale moderno.   Un esempio relativamente recente è stata la guerra Iran -Iraq.   Abbiamo visto come i danni non si limitino alla zona del fronte, ma riguardino l’intero sistema-paese: infrastrutture, economia, popolazione e molto altro.   Nel caso in cui fossero coinvolte grandi potenze (USA, Russia e Cina), l’entità delle distruzioni sarebbe immensa.

2 – Convenzionale ad alta intensità asimmetrica.   Lo scontro diretto fra stati di potenza assai diversa.    Un esempio tipico è stata la guerra del Kouwait (1990).    Il risultato è scontato e rapido, ma con una dissipazione di energia che Luca Mercalli ha provato a quantificare, sia pure in maniera molto, molto prudente.  Il livello di distruzione dello sconfitto è molto elevato e difficilmente recuperabile nel contesto attuale e futuro.

3 – Non convenzionale alta intensità asimmetrica.   Conflitti che oppongono stati che impiegano mezzi e metodi convenzionali ad organizzazioni che impiegano tecniche di guerriglia e terrorismo (imboscate, attentati, ecc.).   Spesso proseguono indefinitamente per l’impossibilità di entrambi i contendenti ad eliminare l’avversario per ragioni militari o politiche.  Il caso più lampante di questo tipo è la guerra isrelo-palestinese.   Sono pochi i casi in cui una guerra di questo tipo si è conclusa con una vittoria netta.   In Afghanistan vinsero i Mujaheddin dopo molti anni di guerra, ma questo non risolse minimamente la crisi del paese.   A Shri Lanka il governo schiacciò definitivamente la rivolta Tamil massacrando in pochi giorni circa 20.000 persone, indiscriminatamente miliziani, civili ed ostaggi.

4 – Convenzionale a bassa intensità simmetrica.   Forze regolari od assimilabili si affrontano con armi leggere ed artiglieria da campagna (indicativamente fino a 155 mm).   Il ricorso a carri armati, aviazione ed elicotteri da combattimento è marginale.   Di solito sono cose che vanno molto per le lunghe o perché nessuna delle parti ha i mezzi per prevalere, o perché ci sono motivi politici per mantenere basso il livello di scontro.   Un esempio attuale è il conflitto ucraino, fatte salve le due occasioni in cui l’intervento diretto di reparti corazzati russi ha elevato il livello di scontro, ma solo per il tempo strettamente necessario ad ottenere un risultato strategico importante.

5 – Convenzionale a bassa intensità asimmetrica.   Situazione simile a quella vista per il caso 2 (Convenzionale ad alta intensità asimmetrica).   Anche in questo caso la disparità di forze rende scontato il risultato, ma con un molto minore impiego di mezzi pesanti ed aviazione, quindi con una minore dissipazione di energia e un più basso livello di distruzione.   Esempi recenti sono stati la guerra Russia-Georgia e l’offensiva NATO contro la Serbia.

6 – Non convenzionale ad alta intensità simmetrica.   Si tratta di conflitti che oppongono organizzazioni paramilitari o stati di pari forza, ma che non impiegano i mezzi della guerra classica, bensì quelli della guerriglia e del terrorismo.   Comportano l’uso di armi leggere ed esplosivo, autobonba, eccetera.    Il consumo di energia è limitato, mentre il numero di morti ed il livello di distruzione può essere elevato.   Soprattutto generano grandi flussi di fuggiaschi.   Casi attuali di questo genere sono gli scontri fra milizie avverse in Siria e Iraq; negli anni ’90 è avvenuto nella ex-Jugoslavia.

7 – Non convenzionale bassa intensità asimmetrica.   Oppone forze di tipo convenzionale a milizie, ma con un limitato ricorso a mezzi energivori anche da parte del contendente più forte.    Visti i limitati mezzi a disposizione, solitamente sono situazioni che si trascinano molto a lungo.   Un caso particolare di questo tipo è stata la guerra tra Marocco e Fronte Polisario.   Teoricamente ancora in corso, è stata vinta dal Marocco grazie ad un uso offensivo delle fortificazioni campali (i famigerati “muri”) ed al modificarsi del contesto internazionale.

8 – Non convenzionale bassa intensità simmetrica.   Simile al caso 7, ma con minori consumi per la scarsezza delle forze in campo.    Sono di questo tipo molti conflitti civili di cui neanche si parla sulla stampa internazionale.   Possono ciò nondimeno generare notevoli flussi di fuggiaschi, come nel caso di molti conflitti africani (Somalia, Congo, Ruanda, Sudan, fra gli altri).   I mezzi impiegati sono perlopiù armi leggere, autobomba e camionette armate, ma anche armi bianche.

E’ evidente che i conflitti ad alta intensità sono quelli che comportano la massima dissipazione di energia.    Molto indicativamente, i mezzi corazzati consumano 2-3 litri al chilometro, i blindati circa la metà; un aereo da combattimento circa 15.000 litri di cherosene all’ora.    A questo si devono aggiungere l’energia contenuta nelle munizioni, i consumi dell’immenso apparato logistico necessario per mantenere operative truppe corazzate ed aviazione.   Per confronto, i pick-up armati che costituiscono il nerbo della motorizzazione nei conflitti a bassa intensità consumano circa 10 litri per 100 km.

A ciò dobbiamo aggiungere la dissipazione dell’energia incorporata negli oggetti e negli edifici che vengono danneggiati, oltre che l’informazione (intesa in senso termodinamico) che viene distrutta.

E’ ovvio che da tutti questi punti di vista, i consumi di energia sono tanto maggiori, quanto più imponenti i mezzi impiegati.   E’ vero che il contendente che dispone di una maggiore energia e tecnologia ha perdite inferiori, ma solo nel caso di guerre asimmetriche.

Inoltre, nel contesto energetico del prossimo futuro, diventerà sempre più difficile, per non dire impossibile, rimediare ai danni operati dalla guerra.    Un esempio a mio avviso lampante, è il confronto fra la guerra del Kuwait (1990) e quella Irachena (2003).   A seguito della prima, l’industria petrolifera dell’emirato, sistematicamente distrutta dalle truppe in fuga di Saddam Hussein, fu ricostruita in meno di un anno.   A seguito della seconda, i danni prodotti dall’embargo e dalla guerra sono stati riparati solo in parte, malgrado gli enormi interessi coinvolti.   Certo hanno giocato anche altri fattori, ma i pianificatori politici dovrebbero cominciare a pensare alle infrastrutture industriali attuali come a dei beni non sostituibili, in caso di danni gravi.

A titolo di esempio dei livelli di dissipazione energetica oggi impiegati nei conflitti, vorrei citare il rapporto dell’ONU che ha tirato le somme della guerra che ha opposto Israele ad Hamas nel 2014. In 51 giorni le forze israeliane hanno condotto 6000 missioni aeree e sparato 50.000 colpi da terra.   Con ciò hanno demolito una trentina di tunnel usati dal nemico e numerose installazioni e depositi, ma niente che non possa essere sostituito con gli appoggi internazionali di cui ad oggi gode Hamas che, comunque, continua a controllare la striscia di Gaza.   Almeno in parte irreparabili risultano invece i danni fatti alle abitazioni ed alle installazioni civili anche se, bisogna dire, a Gaza la distinzione fra i siti militari e civili è particolarmente fluida.  I morti palestinesi sono stati pare 2.200, di cui circa metà civili. Da parte loro, i miliziani Hamas hanno ucciso nei combattimenti casa per casa 67 militari israeliani. Contemporaneamente, hanno sparato sulle città nemiche 4.881 razzi di vario calibro e 1.753 colpi di mortaio per uccidere 7 civili e fare dei buchi per terra.

La domanda è:  A parte ogni considerazione etica e l’evidente follia politica di entrambi i contendenti, a che scopo tutto ciò?   E poi: Per quanto tempo pensiamo di poterci ancora permettere questo genere di lussi?   Mai come oggi, la guerra è stata un pessimo affare per tutti coloro che vi partecipano.

Rimangono due tipi di guerra, al momento solo potenziali: la guerra nucleare e la guerra batteriologica.   La prima è solo un’ipotesi, ma consistente vista l’ampiezza e la diffusione degli arsenali.   In un’ipotetica guerra di questo tipo, l’impiego di energia da parte delle truppe sarebbe relativamente limitato, visto che i mezzi impiegati sarebbero solo gli ordigni in questione ed i loro vettori.   Viceversa, vi sarebbe un’immensa dissipazione di energia incorporata nelle città e nelle infrastrutture distrutte che, in qualunque futuro prevedibile, nessuno sarebbe mai più in grado di ricostruire.

La guerra batteriologia non dovrebbe essere neppure una possibilità, visto che ad oggi nessuna forza armata dispone di questo tipo di armi.   Ma sono molti i paesi che dispongono della possibilità di costruirne.   Una possibilità anche in futuro, visto che si tratta di armi relativamente economiche da realizzare ed usare.

Da un punto di vista strettamente funzionale, è paradossale che, in un mondo sempre più strettamente minacciato da sovrappopolazione e carenza energetica, le maggiori potenze abbiano deciso di mantenere le armi convenzionali (che diverranno progressivamente inutilizzabili) e quelle nucleari (in grado di distruggere definitivamente ogni economia avanzata).  Mentre, hanno rinunciato alle armi batteriologiche che uccidono le persone senza danneggiare strutture e risorse.   In altre parole, l’unico modo razionale di condurre una guerra oggi e nel prossimo futuro.

E, per favore, non ci dicano che è stato per motivi etici.   Sarebbe molto difficile dimostrare che diffondere epidemia sia meno crudele che bombardare o decapitare la gente.   Semmai il contrario poiché, passata un’epidemia per quanto terribile, i sopravvissuti si ritrovano in un mondo sostanzialmente integro a non in mezzo a macerie, magari radioattive.

Un’istantanea che, mi pare, descriva meglio di mille parole il risultato assurdo,
oltre che inumano, degli attuali metodi di guerra.

more

Ancora sull’EROEI della guerra.

di Jacopo Simonetta

Evoluzione della produzione di idrocarburi liquidi
in energia nettaecondo WEO 2014

In un recente post  Turiel ha affrontato un tema particolarmente scabroso: l’EROEI della guerra moderna.

La guerra è un fenomeno molto complesso che accompagna la nostra specie fin dal suo apparire e forse anche prima, visto che si verificano guerre fra i nostri cugini scimpanzé. Sull’argomento sono stati versati ettolitri di inchiostro, oltre che di sangue, ma l’aspetto evocato a Turiel è originale ed interessante.

Tralasciando tutti gli altri aspetti delle questione, si concentra infatti sull’efficienza energetica dei conflitti, un aspetto indagato da pochi.  Non  pretende, ovviamente, che questo sia l’aspetto principale del problema, ma fa presente che aumenterà di rilevanza in un mondo in cui la disponibilità di energia è destinata fatalmente a diminuire.       Anzi, forse sta già diminuendo.  

Turiel discute il problema dei costi energetici della guerra sulla base di una sua classificazione dei conflitti, basata sullo scopo dei medesimi, specificando che molte altre classificazioni sono possibili.    In questo post, mi propongo quindi di cogliere il suo invito ed affrontare a mia volta la questione, proponendo una classificazione basata invece sui mezzi impiegati.   Penso possa essere utile per rilanciare la discussione avviata da Turiel.

Elencherò le categorie per ordine decrescente di dissipazione di energia.

1 – Convenzionale ad alta intensità simmetrica.   Lo scontro diretto di due stati di potenza circa pari che impiegano aviazione, mezzi corazzati e tutto l’arsenale moderno.   Un esempio relativamente recente è stata la guerra Iran -Iraq.   Abbiamo visto come i danni non si limitino alla zona del fronte, ma riguardino l’intero sistema-paese: infrastrutture, economia, popolazione e molto altro.   Nel caso in cui fossero coinvolte grandi potenze (USA, Russia e Cina), l’entità delle distruzioni sarebbe immensa.

2 – Convenzionale ad alta intensità asimmetrica.   Lo scontro diretto fra stati di potenza assai diversa.    Un esempio tipico è stata la guerra del Kouwait (1990).    Il risultato è scontato e rapido, ma con una dissipazione di energia che Luca Mercalli ha provato a quantificare, sia pure in maniera molto, molto prudente.  Il livello di distruzione dello sconfitto è molto elevato e difficilmente recuperabile nel contesto attuale e futuro.

3 – Non convenzionale alta intensità asimmetrica.   Conflitti che oppongono stati che impiegano mezzi e metodi convenzionali ad organizzazioni che impiegano tecniche di guerriglia e terrorismo (imboscate, attentati, ecc.).   Spesso proseguono indefinitamente per l’impossibilità di entrambi i contendenti ad eliminare l’avversario per ragioni militari o politiche.  Il caso più lampante di questo tipo è la guerra isrelo-palestinese.   Sono pochi i casi in cui una guerra di questo tipo si è conclusa con una vittoria netta.   In Afghanistan vinsero i Mujaheddin dopo molti anni di guerra, ma questo non risolse minimamente la crisi del paese.   A Shri Lanka il governo schiacciò definitivamente la rivolta Tamil massacrando in pochi giorni circa 20.000 persone, indiscriminatamente miliziani, civili ed ostaggi.

4 – Convenzionale a bassa intensità simmetrica.   Forze regolari od assimilabili si affrontano con armi leggere ed artiglieria da campagna (indicativamente fino a 155 mm).   Il ricorso a carri armati, aviazione ed elicotteri da combattimento è marginale.   Di solito sono cose che vanno molto per le lunghe o perché nessuna delle parti ha i mezzi per prevalere, o perché ci sono motivi politici per mantenere basso il livello di scontro.   Un esempio attuale è il conflitto ucraino, fatte salve le due occasioni in cui l’intervento diretto di reparti corazzati russi ha elevato il livello di scontro, ma solo per il tempo strettamente necessario ad ottenere un risultato strategico importante.

5 – Convenzionale a bassa intensità asimmetrica.   Situazione simile a quella vista per il caso 2 (Convenzionale ad alta intensità asimmetrica).   Anche in questo caso la disparità di forze rende scontato il risultato, ma con un molto minore impiego di mezzi pesanti ed aviazione, quindi con una minore dissipazione di energia e un più basso livello di distruzione.   Esempi recenti sono stati la guerra Russia-Georgia e l’offensiva NATO contro la Serbia.

6 – Non convenzionale ad alta intensità simmetrica.   Si tratta di conflitti che oppongono organizzazioni paramilitari o stati di pari forza, ma che non impiegano i mezzi della guerra classica, bensì quelli della guerriglia e del terrorismo.   Comportano l’uso di armi leggere ed esplosivo, autobonba, eccetera.    Il consumo di energia è limitato, mentre il numero di morti ed il livello di distruzione può essere elevato.   Soprattutto generano grandi flussi di fuggiaschi.   Casi attuali di questo genere sono gli scontri fra milizie avverse in Siria e Iraq; negli anni ’90 è avvenuto nella ex-Jugoslavia.

7 – Non convenzionale bassa intensità asimmetrica.   Oppone forze di tipo convenzionale a milizie, ma con un limitato ricorso a mezzi energivori anche da parte del contendente più forte.    Visti i limitati mezzi a disposizione, solitamente sono situazioni che si trascinano molto a lungo.   Un caso particolare di questo tipo è stata la guerra tra Marocco e Fronte Polisario.   Teoricamente ancora in corso, è stata vinta dal Marocco grazie ad un uso offensivo delle fortificazioni campali (i famigerati “muri”) ed al modificarsi del contesto internazionale.

8 – Non convenzionale bassa intensità simmetrica.   Simile al caso 7, ma con minori consumi per la scarsezza delle forze in campo.    Sono di questo tipo molti conflitti civili di cui neanche si parla sulla stampa internazionale.   Possono ciò nondimeno generare notevoli flussi di fuggiaschi, come nel caso di molti conflitti africani (Somalia, Congo, Ruanda, Sudan, fra gli altri).   I mezzi impiegati sono perlopiù armi leggere, autobomba e camionette armate, ma anche armi bianche.

E’ evidente che i conflitti ad alta intensità sono quelli che comportano la massima dissipazione di energia.    Molto indicativamente, i mezzi corazzati consumano 2-3 litri al chilometro, i blindati circa la metà; un aereo da combattimento circa 15.000 litri di cherosene all’ora.    A questo si devono aggiungere l’energia contenuta nelle munizioni, i consumi dell’immenso apparato logistico necessario per mantenere operative truppe corazzate ed aviazione.   Per confronto, i pick-up armati che costituiscono il nerbo della motorizzazione nei conflitti a bassa intensità consumano circa 10 litri per 100 km.

A ciò dobbiamo aggiungere la dissipazione dell’energia incorporata negli oggetti e negli edifici che vengono danneggiati, oltre che l’informazione (intesa in senso termodinamico) che viene distrutta.

E’ ovvio che da tutti questi punti di vista, i consumi di energia sono tanto maggiori, quanto più imponenti i mezzi impiegati.   E’ vero che il contendente che dispone di una maggiore energia e tecnologia ha perdite inferiori, ma solo nel caso di guerre asimmetriche.

Inoltre, nel contesto energetico del prossimo futuro, diventerà sempre più difficile, per non dire impossibile, rimediare ai danni operati dalla guerra.    Un esempio a mio avviso lampante, è il confronto fra la guerra del Kuwait (1990) e quella Irachena (2003).   A seguito della prima, l’industria petrolifera dell’emirato, sistematicamente distrutta dalle truppe in fuga di Saddam Hussein, fu ricostruita in meno di un anno.   A seguito della seconda, i danni prodotti dall’embargo e dalla guerra sono stati riparati solo in parte, malgrado gli enormi interessi coinvolti.   Certo hanno giocato anche altri fattori, ma i pianificatori politici dovrebbero cominciare a pensare alle infrastrutture industriali attuali come a dei beni non sostituibili, in caso di danni gravi.

A titolo di esempio dei livelli di dissipazione energetica oggi impiegati nei conflitti, vorrei citare il rapporto dell’ONU che ha tirato le somme della guerra che ha opposto Israele ad Hamas nel 2014. In 51 giorni le forze israeliane hanno condotto 6000 missioni aeree e sparato 50.000 colpi da terra.   Con ciò hanno demolito una trentina di tunnel usati dal nemico e numerose installazioni e depositi, ma niente che non possa essere sostituito con gli appoggi internazionali di cui ad oggi gode Hamas che, comunque, continua a controllare la striscia di Gaza.   Almeno in parte irreparabili risultano invece i danni fatti alle abitazioni ed alle installazioni civili anche se, bisogna dire, a Gaza la distinzione fra i siti militari e civili è particolarmente fluida.  I morti palestinesi sono stati pare 2.200, di cui circa metà civili. Da parte loro, i miliziani Hamas hanno ucciso nei combattimenti casa per casa 67 militari israeliani. Contemporaneamente, hanno sparato sulle città nemiche 4.881 razzi di vario calibro e 1.753 colpi di mortaio per uccidere 7 civili e fare dei buchi per terra.

La domanda è:  A parte ogni considerazione etica e l’evidente follia politica di entrambi i contendenti, a che scopo tutto ciò?   E poi: Per quanto tempo pensiamo di poterci ancora permettere questo genere di lussi?   Mai come oggi, la guerra è stata un pessimo affare per tutti coloro che vi partecipano.

Rimangono due tipi di guerra, al momento solo potenziali: la guerra nucleare e la guerra batteriologica.   La prima è solo un’ipotesi, ma consistente vista l’ampiezza e la diffusione degli arsenali.   In un’ipotetica guerra di questo tipo, l’impiego di energia da parte delle truppe sarebbe relativamente limitato, visto che i mezzi impiegati sarebbero solo gli ordigni in questione ed i loro vettori.   Viceversa, vi sarebbe un’immensa dissipazione di energia incorporata nelle città e nelle infrastrutture distrutte che, in qualunque futuro prevedibile, nessuno sarebbe mai più in grado di ricostruire.

La guerra batteriologia non dovrebbe essere neppure una possibilità, visto che ad oggi nessuna forza armata dispone di questo tipo di armi.   Ma sono molti i paesi che dispongono della possibilità di costruirne.   Una possibilità anche in futuro, visto che si tratta di armi relativamente economiche da realizzare ed usare.

Da un punto di vista strettamente funzionale, è paradossale che, in un mondo sempre più strettamente minacciato da sovrappopolazione e carenza energetica, le maggiori potenze abbiano deciso di mantenere le armi convenzionali (che diverranno progressivamente inutilizzabili) e quelle nucleari (in grado di distruggere definitivamente ogni economia avanzata).  Mentre, hanno rinunciato alle armi batteriologiche che uccidono le persone senza danneggiare strutture e risorse.   In altre parole, l’unico modo razionale di condurre una guerra oggi e nel prossimo futuro.

E, per favore, non ci dicano che è stato per motivi etici.   Sarebbe molto difficile dimostrare che diffondere epidemia sia meno crudele che bombardare o decapitare la gente.   Semmai il contrario poiché, passata un’epidemia per quanto terribile, i sopravvissuti si ritrovano in un mondo sostanzialmente integro a non in mezzo a macerie, magari radioattive.

Un’istantanea che, mi pare, descriva meglio di mille parole il risultato assurdo,
oltre che inumano, degli attuali metodi di guerra.

more

Una recensione del libro di Ugo Bardi "I limiti dello sviluppo rivisitati"

Dal blog di Badiale e Tringali

Pubblico una recensione ad un libro di Ugo Bardi del 2011, che solo recentemente ho avuto l’occasione di leggere.

(M.B.)

Ugo Bardi. The Limits to Growth Revisited, Springer 2011

Ugo Bardi insegna presso il Dipartimento di Chimica dell’Università di Firenze. Gestisce il blog“effetto risorse” e da tempo si occupa dei problemi del “picco del petrolio”. In questo libro ripercorre la storia del famoso testo commissionato dal Club di Roma a un gruppo di studiosi del MIT e uscito nel 1972 con il titolo “The Limits to Growth” (d’ora in poi LTG; in italiano “I Limiti dello Sviluppo”).

Bardi ricostruisce il percorso intellettuale che ha portato al libro, ma soprattutto fa la storia dei dibattiti successivi alla sua pubblicazione. Si tratta di una storia piuttosto interessante, che si può sostanzialmente dividere in tre fasi: un grande successo iniziale, seguito da aspre critiche che portarono, a partire più o meno dagli anni 90, all’oscuramento delle tematiche e delle impostazioni teoriche sviluppate nel testo, e infine una ripresa di interesse in tempi recenti. 
La rassegna di questi dibattiti, svolta da Bardi in vari capitoli del libro, è assai accurata, ed è finalizzata a far meglio comprendere al lettore, proprio grazie al confronto con i critici di LTG, il senso delle tesi fondamentali del libro. Bardi spazza subito via dal tavolo le critiche basate su fondamentali equivoci. Le più note in questo senso sono quelle che accusano lo studio di grossolani errori di previsione. Bardi risponde facilmente che LTG presentava non “una previsione” ma una serie di “scenari”, cioè differenti insiemi di previsioni dipendenti dalle possibili azioni umane nel futuro.Le cosiddette “previsioni sbagliate” su cui ponevano l’attenzione i critici di LTG erano ottenute semplicemente pescando alcuni dati dentro ad uno di questi scenari, dimenticando che appunto si trattava solo di uno scenario possibile fra i tanti delineati dallo studio stesso. Questa osservazione ci porta ad un altro tipo di discussione critica, più avveduta, che Bardi prende in considerazione. 
L’obiezione potrebbe infatti essere non più quella dell’erroneità di LTG, ma quella della sua inutilità: se in sostanza non fa previsioni precise, perché offre piuttosto una “batteria” di possibili previsioni, dipendenti dalle azioni umane, a che serve? La risposta di Bardi, che mi sembra condivisibile, è che lo studio non intendeva fornire previsioni numeriche precise sull’evoluzione dell’economia mondiale nei prossimi decenni (compito probabilmente impossibile), ma piuttosto individuare alcune linee di tendenza generali, che potessero indicare alle forze politiche e sociali prospettive abbastanza chiare per indirizzare l’azione politica. Bardi rileva infatti che, anche senza offrire previsioni numericamente precise, i vari “scenari” concordano nel mostrare che un certo tipo qualitativo di evoluzione appare sostanzialmente inevitabile, in mancanza di radicali cambiamenti della nostra organizzazione politica ed economica. In (quasi) tutti gli scenari delineati in LTG appare un crollo della produzione e della popolazione dopo un periodo di crescita simile all’attuale. Il “quasi” indica appunto che tale crollo si può evitare solo in uno scenario che preveda un deciso intervento umano di correzione degli attuali squilibri.
Abbiamo detto che in tempi recenti si è notata una ripresa di interesse nei confronti di LTG, collegata fra l’altro alle successive versioni dello studio (l’ultima è del 2004, ed è apparsa in italiano nel 2006 col titolo “I nuovi limiti dello sviluppo”). Naturalmente, questo non significa che le conclusioni dello studio siano accettate da tutti gli studiosi, o anche solo dalla maggioranza. Il dibattito infatti prosegue. Ma almeno, stando al resoconto di Bardi, sembra che siano superate le incomprensioni che hanno segnato, e un po’, diciamo, “rovinato” il dibattito nei decenni precedenti. Secondo la ricostruzione di Bardi, oggi si tende a riconoscere che l’andamento effettivo delle variabili considerate in LTG, nei quattro decenni seguiti alla prima pubblicazione, ha seguito nella sostanza l’andamento previsto in uno degli scenari delineati all’epoca. Quindi l’obiezione sul fatto che le previsioni di LTG fossero “sbagliate” sembra per il momento aver perso efficacia. La discussione si è spostata su altri piani, a mio parere più interessanti. Si tratta dei temi discussi nei capitoli 8 e 9 del libro, dedicati allo stato attuale del dibattiti sull’esaurimento delle risorse minerali e sul ruolo della tecnologia. La tesi più significativa, fra coloro che rifiutano le conclusioni di LTG, è infatti quella che sostiene il ruolo centrale dello sviluppo tecnologico, e ritiene che il difetto fondamentale di LTG sia appunto quello di non tenerne conto. Secondo i sostenitori di questa tesi, lo sviluppo tecnologico permetterà di sfruttare altre risorse (energetiche, minerarie) quando le attuali saranno esaurite. In questo senso si può sostenere la tesi, che suona certo paradossale alle orecchie di chi si sia formato su testi come LTG, secondo la quale “le risorse naturali sono infinite”. Essa deve appunto essere intesa nel senso che lo sviluppo scientifico e tecnologico metterà a disposizione sempre nuove risorse quando quelle usuali saranno esaurite. Per capirci, il petrolio non era una risorsa energetica nel primo Ottocento: lo è diventato quando è stata sviluppata la tecnologia che permetteva di sfruttarlo. Allo stesso modo, nuove tecnologie permetteranno di far diventare “risorse” aspetti della realtà naturale che attualmente non lo sono. 
È ragionevole questa prospettiva? Bardi la discute a partire dal problema delle risorse minerarie non energetiche, come i metalli. Come è noto, essi sono diffusi ovunque, ma solo in pochi luoghi hanno la concentrazione sufficiente per rendere redditizia l’estrazione. Una possibile versione della tesi che stiamo discutendo, quella cioè che “le risorse naturali sono infinite”, potrebbe allora consistere nell’argomentare che l’esaurimento delle miniere redditizie porterà all’aumento del prezzo dei metalli, e questo a sviluppi tecnologici che renderanno redditizia l’estrazione del minerale a concentrazioni minori di quelle attualmente necessarie, cosicché la risorsa in questione tornerà ad essere estratta.
Il problema di questo schema, nota però Bardi, è quello dell’energia necessaria per l’estrazione, al diminuire della concentrazione. Il rapporto fra queste due grandezze è grossomodo quello della proporzionalità inversa: cioè, se il minerale da estrarre presenta una concentrazione dimezzata, occorre il doppio dell’energia, se la concentrazione si riduce ad un terzo occorre il triplo dell’energia, e così via. Se questa relazione si mantiene stabile al variare delle tecnologie, appare chiaro che l’estrazione di minerali da depositi sempre più poveri troverà un limite nella disponibilità dell’energia (e nei suoi costi). Il problema si sposta allora, appunto, alla disponibilità dell’energia. Il punto essenziale sta nel fatto che per l’estrazione di risorse energetiche sembrano valere principi analoghi. Il concetto di EROEI (Energy Return On Energy Invested), detto anche EROI, serve appunto a precisare questo punto. Esso è definito come il rapporto fra l’energia ottenuta in un processo di estrazione (di petrolio, per esempio) e l’energia consumata per l’estrazione. Indica cioè il “guadagno energetico” del processo di estrazione. Ovviamente, l’estrazione ha senso solo quando l’EROEI è maggiore di uno. Non è facile il calcolo preciso dell’EROEI, come nota lo stesso Bardi altrove, ma sembra comunque che la tendenza sia verso una sua lenta diminuzione, almeno per quella che è attualmente la principale fonte energetica, il petrolio (a questo proposito di veda anche il capitolo 6, pagg. 77-85, del libro di di Luca Pardi “Il paese degli elefanti”, edizioni LUCE, in particolare a pag.81). Questa lenta diminuzione pare essere avvenuta nonostante gli indubbi progressi tecnologici nelle tecniche di estrazione del petrolio. Tali sviluppi, cioè, possono sì rendere possibile estrarre petrolio “non convenzionale” come lo shale oil, ma non invertono la tendenza alla diminuzione dell’EROEI. In questo modo sembra che ci stiamo avvicinando, indipendentemente dagli sviluppi tecnologici, al punto in cui per estrarre un barile di petrolio occorrerà consumare un barile di petrolio, e a quel punto ovviamente il petrolio, per quanto abbondante possa ancora essere, cesserà di essere una risorsa energetica. 
Se queste tendenze venissero confermate in futuro, sarebbe lecito un certo scetticismo nei confronti della tesi che “le risorse naturali sono infinite”. Verrebbe invece corroborata la tesi generale che la nostra organizzazione sociale sta entrando in una fase di “rendimenti decrescenti”, rendendo quindi necessaria una “grande transizione” ad una diversa organizzazione sociale. Queste tesi sono ormai sostenute da diverse voci: per un inquadramento generale, si veda il libro di Mauro Bonaiuti “La grande transizione”, Bollati Boringhieri 2013. Si tratta di temi rispetto ai quali c’è urgente bisogno di un dibattito razionale serio e approfondito e per chi voglia continuare, anche da posizioni diverse, nella pratica del dibattito razionale, il testo di Bardi è senz’altro di grande aiuto.

more

Una recensione del libro di Ugo Bardi "I limiti dello sviluppo rivisitati"

Dal blog di Badiale e Tringali

Pubblico una recensione ad un libro di Ugo Bardi del 2011, che solo recentemente ho avuto l’occasione di leggere.

(M.B.)

Ugo Bardi. The Limits to Growth Revisited, Springer 2011

Ugo Bardi insegna presso il Dipartimento di Chimica dell’Università di Firenze. Gestisce il blog“effetto risorse” e da tempo si occupa dei problemi del “picco del petrolio”. In questo libro ripercorre la storia del famoso testo commissionato dal Club di Roma a un gruppo di studiosi del MIT e uscito nel 1972 con il titolo “The Limits to Growth” (d’ora in poi LTG; in italiano “I Limiti dello Sviluppo”).

Bardi ricostruisce il percorso intellettuale che ha portato al libro, ma soprattutto fa la storia dei dibattiti successivi alla sua pubblicazione. Si tratta di una storia piuttosto interessante, che si può sostanzialmente dividere in tre fasi: un grande successo iniziale, seguito da aspre critiche che portarono, a partire più o meno dagli anni 90, all’oscuramento delle tematiche e delle impostazioni teoriche sviluppate nel testo, e infine una ripresa di interesse in tempi recenti. 
La rassegna di questi dibattiti, svolta da Bardi in vari capitoli del libro, è assai accurata, ed è finalizzata a far meglio comprendere al lettore, proprio grazie al confronto con i critici di LTG, il senso delle tesi fondamentali del libro. Bardi spazza subito via dal tavolo le critiche basate su fondamentali equivoci. Le più note in questo senso sono quelle che accusano lo studio di grossolani errori di previsione. Bardi risponde facilmente che LTG presentava non “una previsione” ma una serie di “scenari”, cioè differenti insiemi di previsioni dipendenti dalle possibili azioni umane nel futuro.Le cosiddette “previsioni sbagliate” su cui ponevano l’attenzione i critici di LTG erano ottenute semplicemente pescando alcuni dati dentro ad uno di questi scenari, dimenticando che appunto si trattava solo di uno scenario possibile fra i tanti delineati dallo studio stesso. Questa osservazione ci porta ad un altro tipo di discussione critica, più avveduta, che Bardi prende in considerazione. 
L’obiezione potrebbe infatti essere non più quella dell’erroneità di LTG, ma quella della sua inutilità: se in sostanza non fa previsioni precise, perché offre piuttosto una “batteria” di possibili previsioni, dipendenti dalle azioni umane, a che serve? La risposta di Bardi, che mi sembra condivisibile, è che lo studio non intendeva fornire previsioni numeriche precise sull’evoluzione dell’economia mondiale nei prossimi decenni (compito probabilmente impossibile), ma piuttosto individuare alcune linee di tendenza generali, che potessero indicare alle forze politiche e sociali prospettive abbastanza chiare per indirizzare l’azione politica. Bardi rileva infatti che, anche senza offrire previsioni numericamente precise, i vari “scenari” concordano nel mostrare che un certo tipo qualitativo di evoluzione appare sostanzialmente inevitabile, in mancanza di radicali cambiamenti della nostra organizzazione politica ed economica. In (quasi) tutti gli scenari delineati in LTG appare un crollo della produzione e della popolazione dopo un periodo di crescita simile all’attuale. Il “quasi” indica appunto che tale crollo si può evitare solo in uno scenario che preveda un deciso intervento umano di correzione degli attuali squilibri.
Abbiamo detto che in tempi recenti si è notata una ripresa di interesse nei confronti di LTG, collegata fra l’altro alle successive versioni dello studio (l’ultima è del 2004, ed è apparsa in italiano nel 2006 col titolo “I nuovi limiti dello sviluppo”). Naturalmente, questo non significa che le conclusioni dello studio siano accettate da tutti gli studiosi, o anche solo dalla maggioranza. Il dibattito infatti prosegue. Ma almeno, stando al resoconto di Bardi, sembra che siano superate le incomprensioni che hanno segnato, e un po’, diciamo, “rovinato” il dibattito nei decenni precedenti. Secondo la ricostruzione di Bardi, oggi si tende a riconoscere che l’andamento effettivo delle variabili considerate in LTG, nei quattro decenni seguiti alla prima pubblicazione, ha seguito nella sostanza l’andamento previsto in uno degli scenari delineati all’epoca. Quindi l’obiezione sul fatto che le previsioni di LTG fossero “sbagliate” sembra per il momento aver perso efficacia. La discussione si è spostata su altri piani, a mio parere più interessanti. Si tratta dei temi discussi nei capitoli 8 e 9 del libro, dedicati allo stato attuale del dibattiti sull’esaurimento delle risorse minerali e sul ruolo della tecnologia. La tesi più significativa, fra coloro che rifiutano le conclusioni di LTG, è infatti quella che sostiene il ruolo centrale dello sviluppo tecnologico, e ritiene che il difetto fondamentale di LTG sia appunto quello di non tenerne conto. Secondo i sostenitori di questa tesi, lo sviluppo tecnologico permetterà di sfruttare altre risorse (energetiche, minerarie) quando le attuali saranno esaurite. In questo senso si può sostenere la tesi, che suona certo paradossale alle orecchie di chi si sia formato su testi come LTG, secondo la quale “le risorse naturali sono infinite”. Essa deve appunto essere intesa nel senso che lo sviluppo scientifico e tecnologico metterà a disposizione sempre nuove risorse quando quelle usuali saranno esaurite. Per capirci, il petrolio non era una risorsa energetica nel primo Ottocento: lo è diventato quando è stata sviluppata la tecnologia che permetteva di sfruttarlo. Allo stesso modo, nuove tecnologie permetteranno di far diventare “risorse” aspetti della realtà naturale che attualmente non lo sono. 
È ragionevole questa prospettiva? Bardi la discute a partire dal problema delle risorse minerarie non energetiche, come i metalli. Come è noto, essi sono diffusi ovunque, ma solo in pochi luoghi hanno la concentrazione sufficiente per rendere redditizia l’estrazione. Una possibile versione della tesi che stiamo discutendo, quella cioè che “le risorse naturali sono infinite”, potrebbe allora consistere nell’argomentare che l’esaurimento delle miniere redditizie porterà all’aumento del prezzo dei metalli, e questo a sviluppi tecnologici che renderanno redditizia l’estrazione del minerale a concentrazioni minori di quelle attualmente necessarie, cosicché la risorsa in questione tornerà ad essere estratta.
Il problema di questo schema, nota però Bardi, è quello dell’energia necessaria per l’estrazione, al diminuire della concentrazione. Il rapporto fra queste due grandezze è grossomodo quello della proporzionalità inversa: cioè, se il minerale da estrarre presenta una concentrazione dimezzata, occorre il doppio dell’energia, se la concentrazione si riduce ad un terzo occorre il triplo dell’energia, e così via. Se questa relazione si mantiene stabile al variare delle tecnologie, appare chiaro che l’estrazione di minerali da depositi sempre più poveri troverà un limite nella disponibilità dell’energia (e nei suoi costi). Il problema si sposta allora, appunto, alla disponibilità dell’energia. Il punto essenziale sta nel fatto che per l’estrazione di risorse energetiche sembrano valere principi analoghi. Il concetto di EROEI (Energy Return On Energy Invested), detto anche EROI, serve appunto a precisare questo punto. Esso è definito come il rapporto fra l’energia ottenuta in un processo di estrazione (di petrolio, per esempio) e l’energia consumata per l’estrazione. Indica cioè il “guadagno energetico” del processo di estrazione. Ovviamente, l’estrazione ha senso solo quando l’EROEI è maggiore di uno. Non è facile il calcolo preciso dell’EROEI, come nota lo stesso Bardi altrove, ma sembra comunque che la tendenza sia verso una sua lenta diminuzione, almeno per quella che è attualmente la principale fonte energetica, il petrolio (a questo proposito di veda anche il capitolo 6, pagg. 77-85, del libro di di Luca Pardi “Il paese degli elefanti”, edizioni LUCE, in particolare a pag.81). Questa lenta diminuzione pare essere avvenuta nonostante gli indubbi progressi tecnologici nelle tecniche di estrazione del petrolio. Tali sviluppi, cioè, possono sì rendere possibile estrarre petrolio “non convenzionale” come lo shale oil, ma non invertono la tendenza alla diminuzione dell’EROEI. In questo modo sembra che ci stiamo avvicinando, indipendentemente dagli sviluppi tecnologici, al punto in cui per estrarre un barile di petrolio occorrerà consumare un barile di petrolio, e a quel punto ovviamente il petrolio, per quanto abbondante possa ancora essere, cesserà di essere una risorsa energetica. 
Se queste tendenze venissero confermate in futuro, sarebbe lecito un certo scetticismo nei confronti della tesi che “le risorse naturali sono infinite”. Verrebbe invece corroborata la tesi generale che la nostra organizzazione sociale sta entrando in una fase di “rendimenti decrescenti”, rendendo quindi necessaria una “grande transizione” ad una diversa organizzazione sociale. Queste tesi sono ormai sostenute da diverse voci: per un inquadramento generale, si veda il libro di Mauro Bonaiuti “La grande transizione”, Bollati Boringhieri 2013. Si tratta di temi rispetto ai quali c’è urgente bisogno di un dibattito razionale serio e approfondito e per chi voglia continuare, anche da posizioni diverse, nella pratica del dibattito razionale, il testo di Bardi è senz’altro di grande aiuto.

more

I sussidi ai combustibili fossili: più di cinquemila miliardi di dollari!

Da “triplepundit.com”. Traduzione di MR (via Daryl Hannah – sì, quella di Blade Runner)

Di Andrew Burger

Le aziende di combustibili fossili beneficeranno della somma di 5,3 trilioni di dollari nel 2015 da parte dei sussidi energetici governativi. E’ più di tutta la spesa dei governi del mondo in sanità, secondo la nuova ricerca del Fondo Monetario Internazionale (FMI).


La nuova stima del FMI dei sussidi energetici al netto delle imposte rivela che i sussidi federali ai combustibili fossili “sono drammaticamente più alti di quanto stimato precedentemente ed è previsto che rimangano alti”. I risultati sono contenuti in un documento del FMI dal titolo “Quanto sono vasti i sussidi energetici globali?”

Arrivato in anticipo rispetto alla conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico di Parigi del dicembre prossimo, la stima del FMI evidenzia il potenziale dei governi di ridurre significativamente le emissioni di gas serra e i loro componenti e capi di governo devono tuttavia agire ancora in modo decisivo per mettere fine ai sussidi ai combustibili fossili – nonostante gli appelli in atto da parte di una vasta area dell’opinione pubblica – e alle organizzazioni del settore privato.

Una nuova stima “scioccante” dei sussidi governativi ai combustibili fossili

Il FMI definisce “scioccanti” la stima drammaticamente più alta dei sussidi governativi ai combustibili fossili, ha scritto il Guardian. “L’enorme somma”, inoltre, “è in gran parte dovuta agli inquinatori che non pagano i costi imposti ai governi dall’inquinamento dell’aria così come alle persone di tutto il mondo colpite da alluvioni, siccità e tempeste alimentate dal cambiamento climatico”.

Commentando lo studio del FMI, Lord Nicholas Stern, economista climatico alla London School of Economics, ha detto al Guardian: Questa analisi molto importante infrange il mito che i combustibili fossili sono economici mostrando quanto sia enorme il loro costo reale. Non esiste giustificazione per questi enormi sussidi ai combustibili fossili, che distorcono i mercati e danneggiano le economie, in particolare nei paesi più poveri”. 

Stern ha sottolineato che anche questa nuova stima drammaticamente più alta dei sussidi governativi ai combustibili fossili sottostima in modo significativo il veri costi complessivi della nostra dipendenza da combustibili fossili. “Una stima più completa dei costi causati dal cambiamento climatico mostrerebbe  sussidi impliciti ai combustibili fossili sono molto maggiori persino di quanto suggerisca questo rapporto”.

Gli autori del rapporto del FMI evidenziano i costi sostenuti dalla società come conseguenza dei sussidi ai combustibili fossili:

  • I sussidi energetici danneggiano l’ambiente, causando più morti premature attraverso al locale inquinamento dell’aria, esacerbando la congestione del traffico ed altri effetti collaterali negativi dell’uso di veicoli ed aumentando le concentrazioni ci gas serra atmosferici; 
  • I sussidi energetici impongono grandi costi fiscali, che devono essere finanziati da una qualche combinazione di maggior debito pubblico, carichi fiscali maggiori e l’esclusione di spesa pubblica potenzialmente produttiva (per esempio, su salute, educazione ed infrastrutture). Tutto questo può essere un peso sulla crescita economica; 
  • I sussidi energetici scoraggiano gli investimenti necessari in efficienza energetica, rinnovabili e infrastrutture energetiche ed aumentano la vulnerabilità dei paesi alla volatilità internazionale dei prezzi dell’energia;  
  • I sussidi energetici sono un modo altamente inefficiente di fornire sostegno alle famiglie a basso reddito, visto che gran parte dei benefici dei sussidi energetici vengono tipicamente acquisiti dalle famiglie ricche. 

I ricercatori del FMI si sono focalizzati sui sussidi al consumo al netto delle tasse, nel produrre questo rapporto. I sussidi al consumo al netto delle tasse, spiega il FMI, “aumentano quando i prezzi al consumo sono al di sotto dei costi di fornitura più una tassa per riflettere il danno ambientale ed una tassa aggiuntiva applicata a tutti i beni di consumo per aumentare gli introiti governativi”.

Il 2014 è stato l’anno più caldo mai registrato, secondo le organizzazioni nazionali di ricerca climatica del mondo, e i primi tre mesi del 2015 hanno messo la temperatura media globale sulla buona strada per stabilire un nuovo record annuale. Il motore principale, le emissioni di gas serra antropogeniche, continuano ad aumentare nonostante i migliori sforzi di ridurle.

I governi, e le società complessivamente, trarrebbero un grande beneficio se i sussidi ai combustibili fossili venissero eliminati, ha concluso il FMI. “Questi sussidi riflettono principalmente il prezzo troppo basso da un punto di vista interno (piuttosto che globale), quindi anche una riforma unilaterale del prezzo è nell’interesse stesso dei paesi”, secondo il rapporto del FMI. “Gli impatti fiscali, ambientali e di welfare potenziali di una riforma dei sussidi energetici sono sostanziali”.

Secondo il rapporto del FMI, eliminare i sussidi ai combustibili fossili produrrebbe un 20% di riduzione delle emissioni di gas serra a livello mondiale. “Mettere fine ai sussidi taglierebbe anche il numero di morti premature causate da inquinamento dell’aria del 50% – circa 1,6 milioni di vite all’anno”, secondo il servizio del Guardian. 

Mettere fine ai sussidi ai combustibili fossili aggiungerebbe anche una spinta sostanziale all’innovazione, alla creazione di lavoro e allo sviluppo economico sostenibile “verde”, sottolinea il FMI. Farlo sarebbe un grande passo verso il raggiungimento degli obbiettivi stabiliti dalla comunità delle nazioni nel Millennium Development Goals e nel Sustainable Development Goal dell’ONU.

Immagini: 1), 2) FMI, “Quanto sono vasti i sussidi energetici globali?”; 3) ONU

Foto di presentazione: Flickr/Tim Evanson

more

I sussidi ai combustibili fossili: più di cinquemila miliardi di dollari!

Da “triplepundit.com”. Traduzione di MR (via Daryl Hannah – sì, quella di Blade Runner)

Di Andrew Burger

Le aziende di combustibili fossili beneficeranno della somma di 5,3 trilioni di dollari nel 2015 da parte dei sussidi energetici governativi. E’ più di tutta la spesa dei governi del mondo in sanità, secondo la nuova ricerca del Fondo Monetario Internazionale (FMI).


La nuova stima del FMI dei sussidi energetici al netto delle imposte rivela che i sussidi federali ai combustibili fossili “sono drammaticamente più alti di quanto stimato precedentemente ed è previsto che rimangano alti”. I risultati sono contenuti in un documento del FMI dal titolo “Quanto sono vasti i sussidi energetici globali?”

Arrivato in anticipo rispetto alla conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico di Parigi del dicembre prossimo, la stima del FMI evidenzia il potenziale dei governi di ridurre significativamente le emissioni di gas serra e i loro componenti e capi di governo devono tuttavia agire ancora in modo decisivo per mettere fine ai sussidi ai combustibili fossili – nonostante gli appelli in atto da parte di una vasta area dell’opinione pubblica – e alle organizzazioni del settore privato.

Una nuova stima “scioccante” dei sussidi governativi ai combustibili fossili

Il FMI definisce “scioccanti” la stima drammaticamente più alta dei sussidi governativi ai combustibili fossili, ha scritto il Guardian. “L’enorme somma”, inoltre, “è in gran parte dovuta agli inquinatori che non pagano i costi imposti ai governi dall’inquinamento dell’aria così come alle persone di tutto il mondo colpite da alluvioni, siccità e tempeste alimentate dal cambiamento climatico”.

Commentando lo studio del FMI, Lord Nicholas Stern, economista climatico alla London School of Economics, ha detto al Guardian: Questa analisi molto importante infrange il mito che i combustibili fossili sono economici mostrando quanto sia enorme il loro costo reale. Non esiste giustificazione per questi enormi sussidi ai combustibili fossili, che distorcono i mercati e danneggiano le economie, in particolare nei paesi più poveri”. 

Stern ha sottolineato che anche questa nuova stima drammaticamente più alta dei sussidi governativi ai combustibili fossili sottostima in modo significativo il veri costi complessivi della nostra dipendenza da combustibili fossili. “Una stima più completa dei costi causati dal cambiamento climatico mostrerebbe  sussidi impliciti ai combustibili fossili sono molto maggiori persino di quanto suggerisca questo rapporto”.

Gli autori del rapporto del FMI evidenziano i costi sostenuti dalla società come conseguenza dei sussidi ai combustibili fossili:

  • I sussidi energetici danneggiano l’ambiente, causando più morti premature attraverso al locale inquinamento dell’aria, esacerbando la congestione del traffico ed altri effetti collaterali negativi dell’uso di veicoli ed aumentando le concentrazioni ci gas serra atmosferici; 
  • I sussidi energetici impongono grandi costi fiscali, che devono essere finanziati da una qualche combinazione di maggior debito pubblico, carichi fiscali maggiori e l’esclusione di spesa pubblica potenzialmente produttiva (per esempio, su salute, educazione ed infrastrutture). Tutto questo può essere un peso sulla crescita economica; 
  • I sussidi energetici scoraggiano gli investimenti necessari in efficienza energetica, rinnovabili e infrastrutture energetiche ed aumentano la vulnerabilità dei paesi alla volatilità internazionale dei prezzi dell’energia;  
  • I sussidi energetici sono un modo altamente inefficiente di fornire sostegno alle famiglie a basso reddito, visto che gran parte dei benefici dei sussidi energetici vengono tipicamente acquisiti dalle famiglie ricche. 

I ricercatori del FMI si sono focalizzati sui sussidi al consumo al netto delle tasse, nel produrre questo rapporto. I sussidi al consumo al netto delle tasse, spiega il FMI, “aumentano quando i prezzi al consumo sono al di sotto dei costi di fornitura più una tassa per riflettere il danno ambientale ed una tassa aggiuntiva applicata a tutti i beni di consumo per aumentare gli introiti governativi”.

Il 2014 è stato l’anno più caldo mai registrato, secondo le organizzazioni nazionali di ricerca climatica del mondo, e i primi tre mesi del 2015 hanno messo la temperatura media globale sulla buona strada per stabilire un nuovo record annuale. Il motore principale, le emissioni di gas serra antropogeniche, continuano ad aumentare nonostante i migliori sforzi di ridurle.

I governi, e le società complessivamente, trarrebbero un grande beneficio se i sussidi ai combustibili fossili venissero eliminati, ha concluso il FMI. “Questi sussidi riflettono principalmente il prezzo troppo basso da un punto di vista interno (piuttosto che globale), quindi anche una riforma unilaterale del prezzo è nell’interesse stesso dei paesi”, secondo il rapporto del FMI. “Gli impatti fiscali, ambientali e di welfare potenziali di una riforma dei sussidi energetici sono sostanziali”.

Secondo il rapporto del FMI, eliminare i sussidi ai combustibili fossili produrrebbe un 20% di riduzione delle emissioni di gas serra a livello mondiale. “Mettere fine ai sussidi taglierebbe anche il numero di morti premature causate da inquinamento dell’aria del 50% – circa 1,6 milioni di vite all’anno”, secondo il servizio del Guardian. 

Mettere fine ai sussidi ai combustibili fossili aggiungerebbe anche una spinta sostanziale all’innovazione, alla creazione di lavoro e allo sviluppo economico sostenibile “verde”, sottolinea il FMI. Farlo sarebbe un grande passo verso il raggiungimento degli obbiettivi stabiliti dalla comunità delle nazioni nel Millennium Development Goals e nel Sustainable Development Goal dell’ONU.

Immagini: 1), 2) FMI, “Quanto sono vasti i sussidi energetici globali?”; 3) ONU

Foto di presentazione: Flickr/Tim Evanson

more