Effetto Cassandra

Il declino della produzione di petrolio negli Stati Uniti

Da “reuters”. Traduzione di MR (via Cristiano Bottone)

Di Dmitry Zhdannikov e Ron Bousso


Una pompa in funzione in un pozzo preso in affitto dalla Devon Energy Production Company vicino a Guthrie, Oklahoma nel settembre 2015.REUTERS/NICK OXFORD

Alcuni dirigenti petroliferi martedì hanno avvertito di un declino “drammatico” della produzione statunitense che potrebbe spianare la strada ad una futura impennata dei prezzi se la domanda di combustibili aumenta.

I delegati della conferenza Oil and Money a Londra, un incontro annuale di funzionari esperti di petrolio, hanno detto che i prezzi mondiali del petrolio sono stati troppo bassi per sostenere la produzione di petrolio da scisto, la maggiore aggiunta alla produzione mondiale dell’ultimo decennio.

“Stiamo per assistere ad un declino molto drammatico della crescita della produzione statunitense”, ha detto alla conferenza l’ex capo dell’azienda petrolifera EOG Resources, Mark Papa.
Papa, ora partner della compagnia di investimento Riverstone Holdings LLC, ha detto che la produzione mondiale di petrolio questo mese sarà in stallo e comincerà a declinare dall’inizio del prossimo anno. Papa ha detto che la ragione principale di questo declino sarebbe una mancanza di finanziamento bancario per i nuovi sviluppi dello scisto.

I dati ufficiali mostrano che in tutti gli Stati Uniti la produzione ha già cominciato a declinare dopo un picco di 9,6 milioni di barili al giorno (bag) ad aprile, anche se la produzione in alcune grandi aree di scisto, compreso il Nord Dakota, è stata mantenuta finora stabile. La EIA martedì prevede che la produzione potrebbe scendere a circa 8,6 milioni di barili al giorno il prossimo anno.

Fino a quest’anno, la produzione statunitense di petrolio stava crescendo al tasso più rapido mai registrato, aggiungendo 1 milione di bag di nuova offerta all’anno grazie all’introduzione di nuove tecniche di trivellazione che hanno liberato petrolio e gas dalle formazioni di scisto.

Ma i prezzi del petrolio si sono quasi dimezzati durante l’ultimo anno a causa dell’eccesso di offerta in un calo che si è accentuato dopo che l’OPEC nel 2014 ha cambiato strategia per proteggere la propria quota di mercato contro i produttori a più alto costo, piuttosto che tagliare la produzione per far aumentare i prezzi come ha fatto in passato.

L’indice di riferimento del Brent greggio è aumentato del 5%, o 2,50 dollari al barile, a 51,75 dollari martedì mentre gli investitori digerivano le notizie dalla conferenza di Londra. Ha raggiunto un picco negli ultimi anni oltre i 115 dollari al barile nel giugno del 2014.

Il grande salto

Il dirigente capo della Royal Dutch Shell Plc era d’accordo, dicendo che i produttori statunitensi di petrolio faticano a rifinanziare le loro attività, mentre i prezzi rimangono così bassi, portando ad una minore produzione in futuro.

“I produttori ora stanno cercando del nuovo contante per sopravvivere e probabilmente lotteranno per averlo”, ha detto Ben van Beurden. Più a lungo termine, c’è un rischio che i livelli più bassi della produzione globale possano portare ad un’impennata dei prezzi del petrolio. Se i prezzi rimanessero bassi per un lungo periodo e la produzione di petrolio fuori dall’OPEC e quella degli Stati Uniti declinasse a causa degli tagli della spesa di capitale, non rimarrebbe alcuna capacità significativa di risparmio nel sistema.

“Ciò potrebbe causare un picco verso l’alto dei prezzi, dando inizio ad un nuovo ciclo di forte crescita della produzione di petrolio di scisto negli Stati Uniti e di conseguente volatilità”, ha detto van Beurden.

Adam Sieminski, amministratore della statunitense EIA, a margine della conferenza ha detto ai giornalisti che l’industria petrolifera statunitense aveva reagito ai prezzi più bassi migliorando la propria produttività.

Non può durare per sempre

“Ora stiamo vedendo i limiti perlomeno sul breve termine, e stanno iniziando a condizionare la produzione”, ha detto Sieminski. “Vedremo (il declino della produzione petrolifera statunitense) protrarsi fino alla prossima estate”.

Il segretario generale dell’OPEC , Abdullah al-Badri, ha detto che l’offerta di petrolio dei produttori non OPEC potrebbe essere zero o negativa nel 2016 a causa del minore flusso di investimento dall’alto.

Ma Papa ha detto che se i prezzi del greggio leggero statunitense tornassero a 75 dollari al barile, la produzione di petrolio statunitense riprenderebbe a crescere di circa 500.000 bag – o circa metà dei tassi di crescita record osservati negli ultimi cinque anni.

“Vedo gli Stati Uniti come dei produttori in crescita a lungo termine”, ha detto. “Se prevalgono i prezzi bassi del petrolio, allora la correzione dei prezzi sarà molto più severa”.

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Il declino della produzione di petrolio negli Stati Uniti

Da “reuters”. Traduzione di MR (via Cristiano Bottone)

Di Dmitry Zhdannikov e Ron Bousso


Una pompa in funzione in un pozzo preso in affitto dalla Devon Energy Production Company vicino a Guthrie, Oklahoma nel settembre 2015.REUTERS/NICK OXFORD

Alcuni dirigenti petroliferi martedì hanno avvertito di un declino “drammatico” della produzione statunitense che potrebbe spianare la strada ad una futura impennata dei prezzi se la domanda di combustibili aumenta.

I delegati della conferenza Oil and Money a Londra, un incontro annuale di funzionari esperti di petrolio, hanno detto che i prezzi mondiali del petrolio sono stati troppo bassi per sostenere la produzione di petrolio da scisto, la maggiore aggiunta alla produzione mondiale dell’ultimo decennio.

“Stiamo per assistere ad un declino molto drammatico della crescita della produzione statunitense”, ha detto alla conferenza l’ex capo dell’azienda petrolifera EOG Resources, Mark Papa.
Papa, ora partner della compagnia di investimento Riverstone Holdings LLC, ha detto che la produzione mondiale di petrolio questo mese sarà in stallo e comincerà a declinare dall’inizio del prossimo anno. Papa ha detto che la ragione principale di questo declino sarebbe una mancanza di finanziamento bancario per i nuovi sviluppi dello scisto.

I dati ufficiali mostrano che in tutti gli Stati Uniti la produzione ha già cominciato a declinare dopo un picco di 9,6 milioni di barili al giorno (bag) ad aprile, anche se la produzione in alcune grandi aree di scisto, compreso il Nord Dakota, è stata mantenuta finora stabile. La EIA martedì prevede che la produzione potrebbe scendere a circa 8,6 milioni di barili al giorno il prossimo anno.

Fino a quest’anno, la produzione statunitense di petrolio stava crescendo al tasso più rapido mai registrato, aggiungendo 1 milione di bag di nuova offerta all’anno grazie all’introduzione di nuove tecniche di trivellazione che hanno liberato petrolio e gas dalle formazioni di scisto.

Ma i prezzi del petrolio si sono quasi dimezzati durante l’ultimo anno a causa dell’eccesso di offerta in un calo che si è accentuato dopo che l’OPEC nel 2014 ha cambiato strategia per proteggere la propria quota di mercato contro i produttori a più alto costo, piuttosto che tagliare la produzione per far aumentare i prezzi come ha fatto in passato.

L’indice di riferimento del Brent greggio è aumentato del 5%, o 2,50 dollari al barile, a 51,75 dollari martedì mentre gli investitori digerivano le notizie dalla conferenza di Londra. Ha raggiunto un picco negli ultimi anni oltre i 115 dollari al barile nel giugno del 2014.

Il grande salto

Il dirigente capo della Royal Dutch Shell Plc era d’accordo, dicendo che i produttori statunitensi di petrolio faticano a rifinanziare le loro attività, mentre i prezzi rimangono così bassi, portando ad una minore produzione in futuro.

“I produttori ora stanno cercando del nuovo contante per sopravvivere e probabilmente lotteranno per averlo”, ha detto Ben van Beurden. Più a lungo termine, c’è un rischio che i livelli più bassi della produzione globale possano portare ad un’impennata dei prezzi del petrolio. Se i prezzi rimanessero bassi per un lungo periodo e la produzione di petrolio fuori dall’OPEC e quella degli Stati Uniti declinasse a causa degli tagli della spesa di capitale, non rimarrebbe alcuna capacità significativa di risparmio nel sistema.

“Ciò potrebbe causare un picco verso l’alto dei prezzi, dando inizio ad un nuovo ciclo di forte crescita della produzione di petrolio di scisto negli Stati Uniti e di conseguente volatilità”, ha detto van Beurden.

Adam Sieminski, amministratore della statunitense EIA, a margine della conferenza ha detto ai giornalisti che l’industria petrolifera statunitense aveva reagito ai prezzi più bassi migliorando la propria produttività.

Non può durare per sempre

“Ora stiamo vedendo i limiti perlomeno sul breve termine, e stanno iniziando a condizionare la produzione”, ha detto Sieminski. “Vedremo (il declino della produzione petrolifera statunitense) protrarsi fino alla prossima estate”.

Il segretario generale dell’OPEC , Abdullah al-Badri, ha detto che l’offerta di petrolio dei produttori non OPEC potrebbe essere zero o negativa nel 2016 a causa del minore flusso di investimento dall’alto.

Ma Papa ha detto che se i prezzi del greggio leggero statunitense tornassero a 75 dollari al barile, la produzione di petrolio statunitense riprenderebbe a crescere di circa 500.000 bag – o circa metà dei tassi di crescita record osservati negli ultimi cinque anni.

“Vedo gli Stati Uniti come dei produttori in crescita a lungo termine”, ha detto. “Se prevalgono i prezzi bassi del petrolio, allora la correzione dei prezzi sarà molto più severa”.

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RIVOLUZIONE E CONTRORIVOLUZIONE VERDE.

di Jacopo Simonetta

L’Expò si prepara a chiudere i battenti e con essa si chiude la festa mondiale dell’industria agro-alimentare nata da quella che fu chiamata “Rivoluzione Verde”.   Un momento idoneo per chiedersi cosa sia stata e come ha condizionato la storia dell’umanità.   Personalmente, ritengo infatti finora che se ne sia ampiamente sottovalutata l’importanza e per spiegarmi farò qualche passo indietro.

La prima vera “rivoluzione” che ha interessato la nostra specie non ha un nome e posso quindi battezzarla “Rivoluzione Narrativa”.   Consistette nello sviluppo di un linguaggio complesso e del pensiero simbolico.   Richiese probabilmente circa 50.000 anni e fece di noi l’unica specie capace di concepire e raccontare storie, avventure, miti, teorie scientifiche e quant’altro.

La seconda fu la ben nota “Rivoluzione Agricola” (o “Neolitica”) che iniziò circa 10 – 12.000 anni fa e prese molto, molto approssimativamente un paio di millenni.   Consistette nell’addomesticamento di alcune specie di piante ed animali e nel passaggio da un’economia basata sulla caccia e la raccolta dei prodotti spontanei ad un’economia basata sull’agricoltura e la pastorizia.
La terza fu la “Rivoluzione Industriale” che, in estrema sintesi, consistette nell’applicazione dell’energia fossile alle manifatture.   Nel giro di un secolo dominava il mondo e nel giro di due era divenuta un fenomeno globale.

La quarta è stata la “Rivoluzione Verde” e molti di noi sono abbastanza vecchi da averla vista di persona.   Sostanzialmente è consistita nell’applicazione dell’energia fossile alla produzione agricola, trasformandola in qualcosa di strutturalmente molto simile all’industria nel giro di una ventina d’anni appena.

Norman Borlaug

In effetti, i prodromi di questo fatale tornante risalgono al primo dopoguerra, quando in Europa e Stati Uniti si cominciarono ad usare in agricoltura i nitrati ed i trattori inizialmente prodotti a scopo militare.   Poi, negli anni ’30 e ’40, alcuni scienziati si preoccuparono di raccogliere in tutto il mondo piante eduli e di utilizzare le moderne conoscenze scientifiche per selezionare da queste delle nuove varietà ibride, molto più produttive.   Probabilmente i due più importanti furono l’americano Norman Borlaug ed il russo Nikolai Vavilov.   Il primo insignito del premio Nobel nel 1970, il secondo morto di fame in carcere per ordine di Stalin, nel 1943.

Nikolai Vavilov

Entrambi, e migliaia di altri fra ricercatori e tecnici, avevano lo scopo comune di “sfamare il mondo”, come già allora si diceva.   Ne avevano ben donde: nei venti anni precedenti milioni di persone erano morte di fame, soprattutto in Russia, India e Cina.    Certo molti fattori avevano concorso a determinare queste tragedie, ma solo un folle avrebbe potuto ignorare che il numero di bocche cominciava, già allora, a soverchiare le capacità produttive dei sistemi agricoli tradizionali in parecchie zone del mondo.

La Guerra mondiale fece passare perfino le carestie in secondo piano, malgrado abbia contribuito a crearne alcune delle peggiori.   Ma il flagello non si fermò con la fine delle ostilità e negli anni ‘60 e ’70 decine di milioni di persone continuarono a morire di fame:  soprattutto in Cina (1959 – 1961), in Congo (1960-61), In India (1965 – 66); In Etiopia (1973-74) ed in Bangladesh (1974).   Per citare solo le maggiori.

In quegli stessi anni cominciavano ad emergere i primi seri dubbi sulla sostenibilità dell’intero sistema economico mondiale e della stessa umanità contemporanea.   Le parole “sovrappopolazione”, “limiti alla crescita” e simili erano sulla bocca di tutti.   Lo spettro del reverendo Malthus aleggiava su tutto ciò che all’epoca si scriveva e si diceva, ma il lavoro cominciato trent’anni prima in Europa, Messico ed USA era oramai maturo per essere messo in pratica su scala globale.   Nel giro di pochi anni quella che fu definita la “modernizzazione” dell’agricoltura portò un aumento delle produzioni agricole ad ettaro compreso fra il doppio ed il triplo, mentre lo sviluppo dei trasporti su grandi distanze permise per la prima volta lo spostamento di migliaia di tonnellate di derrate dai luoghi dove ve n’era eccedenza a quelli dove erano carenti.

Di conseguenza, il numero di persone malnutrite diminuì dal 35% dell’umanità, alla metà degli anni ’60, a poco più del 15% nel 2005, mentre la popolazione mondiale raddoppiava di netto.   Nel frattempo, vere carestie colpirono solo il Sahel e la Nord Korea.   Lo spettro di Malthus fu sbaragliato dai fatti e l’idea che vi fossero dei limiti alle possibilità di sviluppo del genere umano fu archiviata sotto l’etichetta “cassandrate” fra l’entusiasmo generale.

Ma già dagli anni ’30, qualcuno aveva cominciato ad avere dei dubbi sugli effetti nel tempo di questo approccio.   Dubbi che l’esperienza non fece che confermare:

Le nuove varietà sono produttive solo se si utilizza l’intera gamma di prodotti fitosanitari e fertilizzanti previsti, altrimenti danno meno delle varietà antiche.   Le proprietà nutritive dei prodotti sono peggiorate, generando diffusi problemi di salute.   L’uso e l’abuso di concimi inorganici ha provocato la moltiplicazione dei parassiti, la destrutturazione dei suoli e l’inquinamento delle acque del mondo intero.   I pesticidi non riescono più a contenere il pullulamento di parassiti ed infestanti sempre più resistenti, mentre rendono tossici suoli ed acque, spedendo milioni di persone a cimitero non più per fame, ma per cancro.   L’irrigazione ha desertificato e salato vaste regioni, inaridito l’intero pianeta.   La meccanizzazione pesante ha fabbricato centinaia di milioni di disoccupati, mentre ha destrutturato ed eroso i suoli agricoli.    Il commercio internazionale ha creato rapporti di dipendenza sempre più perversi che non di rado sfociano in fenomeni di vera schiavitù o peggio; in ogni caso, nel gioco del mercato gli agricoltori sono risultati perdenti.   Intere civiltà contadine sono state spazzate via per fare spazio a distese desolate da una parte, favelas dall’altra.

Persone denutrite (dati FAO 2010).
 In numero assoluto a sinistra, in percentuale a destra.

E nel frattempo la quantità di gente malnutrita ha ripreso a salire rapidamente sia in numero assoluto che in percentuale, mentre a fronte di uno sforzo produttivo in crescita esponenziale, la produzione di cibo rimane sostanzialmente stazionaria.   Se vere carestie in corso non ce ne sono, sommosse per l’eccessivo prezzo del pane abbondano e, non di rado, contribuiscono a precipitare interi stati nel caos.   In rapporto alla popolazione, la disponibilità di cibo è dunque tornata a diminuire ed il fantasma di Malthus torna ad infestare le notti di quanti sono in grado di pensare al domani.

Dunque il bilancio è positivo o negativo?   Anziché esprimere un giudizio, è interessante gettare uno sguardo alla termodinamica dei sistemi produttivi.   Il successo della Rivoluzione Industriale è dipeso dalla sostituzione di risorse energetiche rinnovabili, ma disperse come flussi d’acqua e di aria, muscoli animali ed umani, con risorse energetiche infinitamente più concentrate, versatili ed economiche: carbone, ma soprattutto petrolio; secondariamente gas.

Con tecniche molto diverse, abbiamo fatto esattamente lo stesso con la Rivoluzione Verde: l’insieme di tecniche adottate ha permesso all’uomo di utilizzare l’energia fossile per produrre cibo.   Se, infatti, analizziamo il flusso di energia attraverso un agro-ecosistema pre-rivoluzione troviamo che vi è un’unica fonte di energia: il sole.   Anche il lavoro muscolare i uomini ed animali proveniva infatti dal cibo cresciuto sul podere grazie alla luce solare.

La medesima analisi fatta su di un agro-ecosistema industrializzato ci mostra che ogni Kcal di cibo che arriva nei piatti richiede la dissipazione di 10-15 Kcal di energia fossile.   Fino a 40, nel caso di filiere complesse come quella dei surgelati.

Da Gail Tverberg

In pratica, noi oggi mangiamo principalmente petrolio e, secondariamente, metano e rocce.   Tutto il resto serve a rendere questi materiali digeribili.   Ma sappiamo che il picco del greggio è alle nostre spalle (2005 per la precisione), mentre il picco di tutte le forme di energia è circa adesso.

  Dunque il flusso di energia fossile che ha permesso all’umanità di passare da 3 miliardi a quasi 8 sta rallentando e sempre di più lo farà negli anni a venire.   Cosa mangeremo?

In pratica, la Rivoluzione Verde ci ha permesso di barare, aumentando la capacità di carico del pianeta, ma solo per poche decine di anni, poi tornerà la normalità.   Il che presumibilmente significa un rapido ritorno sotto la soglia dei 3 miliardi e probabilmente meno.   A meno che…
Già da alcuni decenni sta maturando in molti ambienti qualcosa che si propone di essere una vera e propria “Controrivoluzione Verde”.   In estrema sintesi, l’idea e la pratica sono di abbandonare l’energia fossile con tutto l’armamentario chimico e meccanico dell’agricoltura contemporanea per sostituirlo con una vasta gamma di tecniche più o meno nuove che vanno dalla Biodinamica, alla Permacoltura, all’Orticoltura Sinergica e numerose altre.

Un vasto numero di esperienze e di studi confermano la validità di un simile approccio, perlomeno ad una scala aziendale o locale.   Se poi questi metodi siano in grado di alimentare le megalopoli del mondo resta da dimostrare, ma di sicuro ci sono ampi spazi per una loro molto maggiore diffusione e sviluppo.   Nelle intenzioni di chi le divulga c’è la certezza , o perlomeno la speranza, che in tal modo si possano nutrire gli 8 o 9 miliardi di persone prossime venture senza desertificare il Pianeta e senza sfruttare nuove forme di energia.

A ben vedere, delle quattro Rivoluzioni precedenti, solo le ultime due hanno comportato l’uso di una fonte supplementare di energia.   Le precedenti hanno invece ottenuto una maggiore efficienza nello sfruttamento di quello che già si usava.   Ora ci si propone, con buoni argomenti, di replicare l’impresa aumentando l’efficienza nello sfruttamento del sole, dei suoli e dell’acqua in misura tale da poter archiviare perfino il petrolio.   Possibile che si possa ottenere un risultato di così vasta portata?   Forse, ma ciò che mi stupisce è che nessuno si pone la questione di cosa succederebbe se quest’utopia diventasse realtà.

Senza Rivoluzione Narrativa gli umani sarebbero rimasti meno di un milione nel mondo.   Senza quella agricola saremmo rimasti intorno a 5-6 milioni.   Senza Rivoluzione Industriale saremmo rimasti meno di un miliardo sul tutto il Pianeta.   E senza Rivoluzione Verde saremo ancora 3 miliardi o forse un po’ meno.   Se davvero la “Rivoluzione Bio” avesse il successo sperato, non osserveremo forse lo stesso identico fenomeno avvenuto nei casi precedenti?   Aumento della disponibilità di cibo, quindi aumento della popolazione e nuova crisi ad un livello più alto di stress sul sistema planetario?
Tutte le popolazioni animali aumentano finquando il numero dei morti non eguaglia quello dei nati.   Finora, aumentare la disponibilità di cibo è servito ad aumentare il numero di bocche, rilanciando questo gioco terribile per un altro giro.   Alzando però la posta, rappresentata dalla percentuale di Biosfera e di umanità che dovranno morire per ristabilire l’equilibrio.
I fattori limitanti sono quella cosa odiosa che, uccidendo gli individui, garantiscono la sopravvivenza delle popolazioni e degli ecosistemi.

Ci sarebbe, in teoria, una scappatoia.   Sarebbe infatti possibile rimuovere un fattore limitante (ad es. la fame) senza conseguenze nefaste a condizione che ne subentri subito un altro che impedisca comunque alla popolazione di crescere.   Cioè esattamente quello che era stato prospettato, a suo tempo, dai programmatori della Rivoluzione Verde: aumentare la produzione di cibo era una soluzione A CONDIZIONE che, contemporaneamente, si riuscisse a stabilizzare la popolazione sui livelli di allora o poco più.

Altrimenti, fu detto, l’intera operazione si sarebbe risolta in un disastro di proporzioni inimmaginabili.   All’epoca si pensava di poterci arrivare tramite uno stretto controllo delle nascite, ma è andata diversamente.

Ora stiamo cercando di rilanciare alzando la posta.   Abbiamo una vasta gamma di tecniche che forse possono nutrire 8 o 9 miliardi di persone anche a fronte di una ridotta disponibilità di energia fossile. OK, ma se funzionasse, come eviteremo di diventare 10 o 12 miliardi?

Se non si risponde a questa domanda in maniera credibile e continuiamo a pensare in termini di massima produzione siamo magari dei bravi agricoltori, ma non stiamo facendo nessuna contro-rivoluzione.

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RIVOLUZIONE E CONTRORIVOLUZIONE VERDE.

di Jacopo Simonetta

L’Expò si prepara a chiudere i battenti e con essa si chiude la festa mondiale dell’industria agro-alimentare nata da quella che fu chiamata “Rivoluzione Verde”.   Un momento idoneo per chiedersi cosa sia stata e come ha condizionato la storia dell’umanità.   Personalmente, ritengo infatti finora che se ne sia ampiamente sottovalutata l’importanza e per spiegarmi farò qualche passo indietro.

La prima vera “rivoluzione” che ha interessato la nostra specie non ha un nome e posso quindi battezzarla “Rivoluzione Narrativa”.   Consistette nello sviluppo di un linguaggio complesso e del pensiero simbolico.   Richiese probabilmente circa 50.000 anni e fece di noi l’unica specie capace di concepire e raccontare storie, avventure, miti, teorie scientifiche e quant’altro.

La seconda fu la ben nota “Rivoluzione Agricola” (o “Neolitica”) che iniziò circa 10 – 12.000 anni fa e prese molto, molto approssimativamente un paio di millenni.   Consistette nell’addomesticamento di alcune specie di piante ed animali e nel passaggio da un’economia basata sulla caccia e la raccolta dei prodotti spontanei ad un’economia basata sull’agricoltura e la pastorizia.
La terza fu la “Rivoluzione Industriale” che, in estrema sintesi, consistette nell’applicazione dell’energia fossile alle manifatture.   Nel giro di un secolo dominava il mondo e nel giro di due era divenuta un fenomeno globale.

La quarta è stata la “Rivoluzione Verde” e molti di noi sono abbastanza vecchi da averla vista di persona.   Sostanzialmente è consistita nell’applicazione dell’energia fossile alla produzione agricola, trasformandola in qualcosa di strutturalmente molto simile all’industria nel giro di una ventina d’anni appena.

Norman Borlaug

In effetti, i prodromi di questo fatale tornante risalgono al primo dopoguerra, quando in Europa e Stati Uniti si cominciarono ad usare in agricoltura i nitrati ed i trattori inizialmente prodotti a scopo militare.   Poi, negli anni ’30 e ’40, alcuni scienziati si preoccuparono di raccogliere in tutto il mondo piante eduli e di utilizzare le moderne conoscenze scientifiche per selezionare da queste delle nuove varietà ibride, molto più produttive.   Probabilmente i due più importanti furono l’americano Norman Borlaug ed il russo Nikolai Vavilov.   Il primo insignito del premio Nobel nel 1970, il secondo morto di fame in carcere per ordine di Stalin, nel 1943.

Nikolai Vavilov

Entrambi, e migliaia di altri fra ricercatori e tecnici, avevano lo scopo comune di “sfamare il mondo”, come già allora si diceva.   Ne avevano ben donde: nei venti anni precedenti milioni di persone erano morte di fame, soprattutto in Russia, India e Cina.    Certo molti fattori avevano concorso a determinare queste tragedie, ma solo un folle avrebbe potuto ignorare che il numero di bocche cominciava, già allora, a soverchiare le capacità produttive dei sistemi agricoli tradizionali in parecchie zone del mondo.

La Guerra mondiale fece passare perfino le carestie in secondo piano, malgrado abbia contribuito a crearne alcune delle peggiori.   Ma il flagello non si fermò con la fine delle ostilità e negli anni ‘60 e ’70 decine di milioni di persone continuarono a morire di fame:  soprattutto in Cina (1959 – 1961), in Congo (1960-61), In India (1965 – 66); In Etiopia (1973-74) ed in Bangladesh (1974).   Per citare solo le maggiori.

In quegli stessi anni cominciavano ad emergere i primi seri dubbi sulla sostenibilità dell’intero sistema economico mondiale e della stessa umanità contemporanea.   Le parole “sovrappopolazione”, “limiti alla crescita” e simili erano sulla bocca di tutti.   Lo spettro del reverendo Malthus aleggiava su tutto ciò che all’epoca si scriveva e si diceva, ma il lavoro cominciato trent’anni prima in Europa, Messico ed USA era oramai maturo per essere messo in pratica su scala globale.   Nel giro di pochi anni quella che fu definita la “modernizzazione” dell’agricoltura portò un aumento delle produzioni agricole ad ettaro compreso fra il doppio ed il triplo, mentre lo sviluppo dei trasporti su grandi distanze permise per la prima volta lo spostamento di migliaia di tonnellate di derrate dai luoghi dove ve n’era eccedenza a quelli dove erano carenti.

Di conseguenza, il numero di persone malnutrite diminuì dal 35% dell’umanità, alla metà degli anni ’60, a poco più del 15% nel 2005, mentre la popolazione mondiale raddoppiava di netto.   Nel frattempo, vere carestie colpirono solo il Sahel e la Nord Korea.   Lo spettro di Malthus fu sbaragliato dai fatti e l’idea che vi fossero dei limiti alle possibilità di sviluppo del genere umano fu archiviata sotto l’etichetta “cassandrate” fra l’entusiasmo generale.

Ma già dagli anni ’30, qualcuno aveva cominciato ad avere dei dubbi sugli effetti nel tempo di questo approccio.   Dubbi che l’esperienza non fece che confermare:

Le nuove varietà sono produttive solo se si utilizza l’intera gamma di prodotti fitosanitari e fertilizzanti previsti, altrimenti danno meno delle varietà antiche.   Le proprietà nutritive dei prodotti sono peggiorate, generando diffusi problemi di salute.   L’uso e l’abuso di concimi inorganici ha provocato la moltiplicazione dei parassiti, la destrutturazione dei suoli e l’inquinamento delle acque del mondo intero.   I pesticidi non riescono più a contenere il pullulamento di parassiti ed infestanti sempre più resistenti, mentre rendono tossici suoli ed acque, spedendo milioni di persone a cimitero non più per fame, ma per cancro.   L’irrigazione ha desertificato e salato vaste regioni, inaridito l’intero pianeta.   La meccanizzazione pesante ha fabbricato centinaia di milioni di disoccupati, mentre ha destrutturato ed eroso i suoli agricoli.    Il commercio internazionale ha creato rapporti di dipendenza sempre più perversi che non di rado sfociano in fenomeni di vera schiavitù o peggio; in ogni caso, nel gioco del mercato gli agricoltori sono risultati perdenti.   Intere civiltà contadine sono state spazzate via per fare spazio a distese desolate da una parte, favelas dall’altra.

Persone denutrite (dati FAO 2010).
 In numero assoluto a sinistra, in percentuale a destra.

E nel frattempo la quantità di gente malnutrita ha ripreso a salire rapidamente sia in numero assoluto che in percentuale, mentre a fronte di uno sforzo produttivo in crescita esponenziale, la produzione di cibo rimane sostanzialmente stazionaria.   Se vere carestie in corso non ce ne sono, sommosse per l’eccessivo prezzo del pane abbondano e, non di rado, contribuiscono a precipitare interi stati nel caos.   In rapporto alla popolazione, la disponibilità di cibo è dunque tornata a diminuire ed il fantasma di Malthus torna ad infestare le notti di quanti sono in grado di pensare al domani.

Dunque il bilancio è positivo o negativo?   Anziché esprimere un giudizio, è interessante gettare uno sguardo alla termodinamica dei sistemi produttivi.   Il successo della Rivoluzione Industriale è dipeso dalla sostituzione di risorse energetiche rinnovabili, ma disperse come flussi d’acqua e di aria, muscoli animali ed umani, con risorse energetiche infinitamente più concentrate, versatili ed economiche: carbone, ma soprattutto petrolio; secondariamente gas.

Con tecniche molto diverse, abbiamo fatto esattamente lo stesso con la Rivoluzione Verde: l’insieme di tecniche adottate ha permesso all’uomo di utilizzare l’energia fossile per produrre cibo.   Se, infatti, analizziamo il flusso di energia attraverso un agro-ecosistema pre-rivoluzione troviamo che vi è un’unica fonte di energia: il sole.   Anche il lavoro muscolare i uomini ed animali proveniva infatti dal cibo cresciuto sul podere grazie alla luce solare.

La medesima analisi fatta su di un agro-ecosistema industrializzato ci mostra che ogni Kcal di cibo che arriva nei piatti richiede la dissipazione di 10-15 Kcal di energia fossile.   Fino a 40, nel caso di filiere complesse come quella dei surgelati.

Da Gail Tverberg

In pratica, noi oggi mangiamo principalmente petrolio e, secondariamente, metano e rocce.   Tutto il resto serve a rendere questi materiali digeribili.   Ma sappiamo che il picco del greggio è alle nostre spalle (2005 per la precisione), mentre il picco di tutte le forme di energia è circa adesso.

  Dunque il flusso di energia fossile che ha permesso all’umanità di passare da 3 miliardi a quasi 8 sta rallentando e sempre di più lo farà negli anni a venire.   Cosa mangeremo?

In pratica, la Rivoluzione Verde ci ha permesso di barare, aumentando la capacità di carico del pianeta, ma solo per poche decine di anni, poi tornerà la normalità.   Il che presumibilmente significa un rapido ritorno sotto la soglia dei 3 miliardi e probabilmente meno.   A meno che…
Già da alcuni decenni sta maturando in molti ambienti qualcosa che si propone di essere una vera e propria “Controrivoluzione Verde”.   In estrema sintesi, l’idea e la pratica sono di abbandonare l’energia fossile con tutto l’armamentario chimico e meccanico dell’agricoltura contemporanea per sostituirlo con una vasta gamma di tecniche più o meno nuove che vanno dalla Biodinamica, alla Permacoltura, all’Orticoltura Sinergica e numerose altre.

Un vasto numero di esperienze e di studi confermano la validità di un simile approccio, perlomeno ad una scala aziendale o locale.   Se poi questi metodi siano in grado di alimentare le megalopoli del mondo resta da dimostrare, ma di sicuro ci sono ampi spazi per una loro molto maggiore diffusione e sviluppo.   Nelle intenzioni di chi le divulga c’è la certezza , o perlomeno la speranza, che in tal modo si possano nutrire gli 8 o 9 miliardi di persone prossime venture senza desertificare il Pianeta e senza sfruttare nuove forme di energia.

A ben vedere, delle quattro Rivoluzioni precedenti, solo le ultime due hanno comportato l’uso di una fonte supplementare di energia.   Le precedenti hanno invece ottenuto una maggiore efficienza nello sfruttamento di quello che già si usava.   Ora ci si propone, con buoni argomenti, di replicare l’impresa aumentando l’efficienza nello sfruttamento del sole, dei suoli e dell’acqua in misura tale da poter archiviare perfino il petrolio.   Possibile che si possa ottenere un risultato di così vasta portata?   Forse, ma ciò che mi stupisce è che nessuno si pone la questione di cosa succederebbe se quest’utopia diventasse realtà.

Senza Rivoluzione Narrativa gli umani sarebbero rimasti meno di un milione nel mondo.   Senza quella agricola saremmo rimasti intorno a 5-6 milioni.   Senza Rivoluzione Industriale saremmo rimasti meno di un miliardo sul tutto il Pianeta.   E senza Rivoluzione Verde saremo ancora 3 miliardi o forse un po’ meno.   Se davvero la “Rivoluzione Bio” avesse il successo sperato, non osserveremo forse lo stesso identico fenomeno avvenuto nei casi precedenti?   Aumento della disponibilità di cibo, quindi aumento della popolazione e nuova crisi ad un livello più alto di stress sul sistema planetario?
Tutte le popolazioni animali aumentano finquando il numero dei morti non eguaglia quello dei nati.   Finora, aumentare la disponibilità di cibo è servito ad aumentare il numero di bocche, rilanciando questo gioco terribile per un altro giro.   Alzando però la posta, rappresentata dalla percentuale di Biosfera e di umanità che dovranno morire per ristabilire l’equilibrio.
I fattori limitanti sono quella cosa odiosa che, uccidendo gli individui, garantiscono la sopravvivenza delle popolazioni e degli ecosistemi.

Ci sarebbe, in teoria, una scappatoia.   Sarebbe infatti possibile rimuovere un fattore limitante (ad es. la fame) senza conseguenze nefaste a condizione che ne subentri subito un altro che impedisca comunque alla popolazione di crescere.   Cioè esattamente quello che era stato prospettato, a suo tempo, dai programmatori della Rivoluzione Verde: aumentare la produzione di cibo era una soluzione A CONDIZIONE che, contemporaneamente, si riuscisse a stabilizzare la popolazione sui livelli di allora o poco più.

Altrimenti, fu detto, l’intera operazione si sarebbe risolta in un disastro di proporzioni inimmaginabili.   All’epoca si pensava di poterci arrivare tramite uno stretto controllo delle nascite, ma è andata diversamente.

Ora stiamo cercando di rilanciare alzando la posta.   Abbiamo una vasta gamma di tecniche che forse possono nutrire 8 o 9 miliardi di persone anche a fronte di una ridotta disponibilità di energia fossile. OK, ma se funzionasse, come eviteremo di diventare 10 o 12 miliardi?

Se non si risponde a questa domanda in maniera credibile e continuiamo a pensare in termini di massima produzione siamo magari dei bravi agricoltori, ma non stiamo facendo nessuna contro-rivoluzione.

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L’ineluttabile irreversibilità del Progresso

di Bodhi Paul Chefurka
traduzione di Stefano Ceccarelli

La realtà del danno che stiamo infliggendo alle altre creature viventi, a noi stessi e al nostro pianeta sta diventando più evidente, a più persone, ogni giorno. Eppure, nonostante i più grandi sforzi di coloro che si sono destati di fronte alla incombente calamità, nulla sembra fare molta differenza. Perché si sta rivelando così difficile correggere i nostri errori e smascherare il nostro “progresso”?
Come vado dicendo in varie occasioni, sia che si guardi al solo livello delle istituzioni sociali umane, o che si prosegua guardando alla psicologia evolutiva o finanche alla termodinamica, come ho tentato di fare, la risposta sembra essere la stessa. I cicli di retroazione positiva che guidano la crescita umana sembrano contenere un meccanismo interno unidirezionale che impedisce loro di essere regolati.

Possiamo chiamarlo Trappola del Progresso, Circolo Vizioso, Determinismo Infrastrutturale, istinto di sopravvivenza, dissipazione termodinamica o Destino Manifesto, ciò è irrilevante. Tutte queste definizioni sono semplicemente diverse sembianze dello stesso fenomeno: l’irreversibilità. C’è una buona ragione per la quale la natura ha reso questo meccanismo unidirezionale così difficile da scardinare. Senza di esso, saremmo stati sbattuti fuori dal gioco dai concorrenti, e non saremmo qui oggi – nel bene e/o nel male.

Dei singoli individui possono talvolta sconfiggere questa unidirezionalità e ricostituire il proprio personale progresso, ma per quanto ne so i gruppi non possono fare altrettanto. Ciò che è peggio è che più persone vi sono in un gruppo sociale, più strettamente il meccanismo ci vincola alla ruota della crescita. Se guardiamo attentamente, possiamo vedere questo effetto nelle nostre comunità e in particolar modo nelle nostre nazioni. Quando poi il ‘gruppo’ è composto da 7,3 miliardi di persone, legate insieme dai moderni sistemi di comunicazione nel “villaggio globale” di Marshall McLuhan, il suo effetto è virtualmente inevitabile, eccetto che per un numero molto piccolo di individui. Per ironia, anche quei fortunati fuggitivi sono destinati in qualche misura ad essere grati ai frutti amari del moderno progresso. Ad esempio, provate a disconnettervi dalla rete senza avere un’ascia con voi!

So che molti non sono d’accordo con me su questo. Spero che avranno ragione, e che io possa alla fine essere visto solo come un duro vecchio cinico, piuttosto che come il realista che temo di essere.

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L’ineluttabile irreversibilità del Progresso

di Bodhi Paul Chefurka
traduzione di Stefano Ceccarelli

La realtà del danno che stiamo infliggendo alle altre creature viventi, a noi stessi e al nostro pianeta sta diventando più evidente, a più persone, ogni giorno. Eppure, nonostante i più grandi sforzi di coloro che si sono destati di fronte alla incombente calamità, nulla sembra fare molta differenza. Perché si sta rivelando così difficile correggere i nostri errori e smascherare il nostro “progresso”?
Come vado dicendo in varie occasioni, sia che si guardi al solo livello delle istituzioni sociali umane, o che si prosegua guardando alla psicologia evolutiva o finanche alla termodinamica, come ho tentato di fare, la risposta sembra essere la stessa. I cicli di retroazione positiva che guidano la crescita umana sembrano contenere un meccanismo interno unidirezionale che impedisce loro di essere regolati.

Possiamo chiamarlo Trappola del Progresso, Circolo Vizioso, Determinismo Infrastrutturale, istinto di sopravvivenza, dissipazione termodinamica o Destino Manifesto, ciò è irrilevante. Tutte queste definizioni sono semplicemente diverse sembianze dello stesso fenomeno: l’irreversibilità. C’è una buona ragione per la quale la natura ha reso questo meccanismo unidirezionale così difficile da scardinare. Senza di esso, saremmo stati sbattuti fuori dal gioco dai concorrenti, e non saremmo qui oggi – nel bene e/o nel male.

Dei singoli individui possono talvolta sconfiggere questa unidirezionalità e ricostituire il proprio personale progresso, ma per quanto ne so i gruppi non possono fare altrettanto. Ciò che è peggio è che più persone vi sono in un gruppo sociale, più strettamente il meccanismo ci vincola alla ruota della crescita. Se guardiamo attentamente, possiamo vedere questo effetto nelle nostre comunità e in particolar modo nelle nostre nazioni. Quando poi il ‘gruppo’ è composto da 7,3 miliardi di persone, legate insieme dai moderni sistemi di comunicazione nel “villaggio globale” di Marshall McLuhan, il suo effetto è virtualmente inevitabile, eccetto che per un numero molto piccolo di individui. Per ironia, anche quei fortunati fuggitivi sono destinati in qualche misura ad essere grati ai frutti amari del moderno progresso. Ad esempio, provate a disconnettervi dalla rete senza avere un’ascia con voi!

So che molti non sono d’accordo con me su questo. Spero che avranno ragione, e che io possa alla fine essere visto solo come un duro vecchio cinico, piuttosto che come il realista che temo di essere.

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Il paguro costretto a vivere in un tappo di dentifricio: sempre peggio l’inquinamento da plastica della Terra

Da “Daily Mail”. Traduzione di MR (via Population Matters)

  •  Un recente studio suggerisce che l’oceano contiene otto milioni di tonnellate di rifiuti
  •  E’ abbastanza per riempire quattro borse della spesa ogni 30 cm di linea di costa sulla Terra
  •  L’immagine, presa a Cuba, è solo una di una serie di immagini scioccanti che mostrano la  portata dell’inquinamento da plastica sulla Terra

Di Ellie Zolfagharifard

Questo paguro senza casa è ricorso alluso di un tappo di dentifricio per proteggere il suo corpo. E’ una scena straziante che rivela la dura realtà dell’inquinamento da plastica e di quello che sta facendo alle creature marine della Terra. Secondo stime recenti, l’oceano contiene otto milioni di tonnellate di rifiuti – abbastanza da riempire cinque borse della spesa ogni 30 cm di linea di costa sul pianeta.

Senza casa e disperato, questo paguro è ricorso all’uso di un tappo di dentifricio per proteggere il suo corpo. Quest’immagine è stata caricata dall’utente di Reddit Hscmidt dopo che la sua fidanzata ha individuato il piccolo paguro che si aggirava su una spiaggia a Cuba
L’immagine è stata caricata dall’utente di Reddit, Hscmidt, dopo che la sua fidanzata ha individuato il piccolo paguro che si aggirava su una spiaggia a Cuba. I paguri usano conchiglie usate come riparo e per dare ai loro corpi soffici una protezione in più dai predatori. I paguri hanno spesso la necessità di trovarsi nuovi ripari, di solito sotto forma di altre conchiglie, man mano che crescono. “All’inizio ho pensato che fosse carino, ma poi mi sono reso conto di cosa significhi realmente”, ha scritto un utente di Reddit riguardo all’immagine. 
I paguri usano conchiglie usate come riparo e per dare ai loro corpi soffici una protezione in più dai predatori. I paguri hanno spesso la necessità di trovarsi nuovi ripari, di solito sotto forma di altre conchiglie, man mano che crescono
Lo scorso anno, un orribile immagine di un piccolo di albatross, morto su una spiaggia nel Pacifico settentrionale, ha evidenziato la scala del problema globale. Gli scienziati pensano che le dozzine di tappi di bottiglia, reti da pesca e plastica spezzettata che erano nel suo stomaco siano state date all’uccello dai suoi genitori. 
“Sulla Terra siamo giunti al punto in cui gli esseri umani hanno creato così tanti rifiuti che la natura ora ha iniziato ad inserirli nel suo ciclo di vita quotidiano”. 

Ecco come l’inquinamento plastico sta devastando la vita marina
La scala completa della minaccia alla vita selvaggia da parte dei rifiuti plastici che inquinano i mari è stata spiegata in uno studio di riferimento a febbraio. Lo studio ha scoperto che quasi 400 specie marine sono a rischio a causa delle tonnellate di sacchetti per la spesa, reti da pesca ed altri rifiuti gettati negli oceani ogni anno. Pulcinella di mare, tartarughe, foche e balene sono fra le creature che hanno ingoiato o sono rimaste intrappolate nelle borse di plastica. Lo studio ha scoperto che molte della gran parte delle creature marine a rischio di estinzione ora sono minacciate. Foche monache delle Hawaii, balene franche nordatlantiche, pinguini africani e tartarughe carretta sono rimasti impigliati in corde, sono soffocati in sacchetti di plastica o hanno inghiottito tappi di bottiglia. Il problema è aumentato di quasi il 50% rispetto allo studio precedente portato a termine nel 1997, hanno detto scienziati britannici.

Circa 8 milioni di tonnellate di bottiglie di plastica, sacchetti, giocattoli ed altri rifiuti plastici finiscono negli oceani del mondo ogni anno. A causa della difficoltà di stabilire la quantità esatta, dal momento che gran parte di essa è sprofondata, gli scienziati dicono che la cifra potrebbe essere di 12,7 milioni di tonnellate che inquinano l’oceano ogni anno. Trasportati dalle correnti marine, questi rifiuti si agglomerano in cinque enormi “isole di rifiuti” che girano intorno ai maggiori vortici oceanici del mondo. Il mese scorso, la NASA ha creato una visualizzazione di questo inquinamento evidenziando la portata alla quale l’umanità sta rovinando gli oceani con questi rifiuti. La dottoressa Jenna Jambeck, dell’Università della Georgia, negli Stati Uniti, ha detto che stiamo per essere “sommersi dai nostri rifiuti”. La squadra ha anche avvertito che questo “oceano di plastica” può danneggiare la vita marina. Le tartarughe possono scambiare i sacchetti di plastica per meduse e mangiarli. I sacchetti intasano quindi i loro stomaci, causando la loro morte per fame.
Circa 8 milioni di tonnellate di bottiglie di plastica, sacchetti, giocattoli ed altri rifiuti plastici finiscono negli oceani del mondo ogni anno. A causa della difficoltà di stabilire la quantità esatta, dal momento che gran parte di essa è sprofondata, gli scienziati dicono che la cifra potrebbe essere di 12,7 milioni di tonnellate che inquinano l’oceano ogni anno


Più di metà della plastica che finisce negli oceani proviene da cinque paesi: Cina, Indonesia, Filippine, Vietnam e Sri Lanka

Gli uccelli marini spesso scambiano la plastica galleggiante per cibo; oltre il 90% delle procellarie artiche trovate morte intorno al Mare del Nord hanno plastica nei loro stomaci. Si teme anche che mangiare pesce che abbia consumato plastica possa danneggiare la nostra salute. Lo scorso anno, una immagine orribile di un piccolo di albatross, morto su una spiaggia nel Pacifico settentrionale, ha evidenziato la scala del problema globale. Gli scienziati pensano che le dozzine di tappi di bottiglia, reti da pesca e plastica spezzettata che erano nel suo stomaco siano state date all’uccello dai suoi genitori. Fra il 2010 e il 2025, potrebbero essere gettate nell’oceano circa 155 milioni di tonnellate di plastica – abbastanza da riempire 100 sacchetti ogni 30 cm di linea di costa. Ammassati l’uno sull’altro, i sacchetti creerebbero un muro di rifiuti alto 30 metri. La Cina guida la lega dgli inquinatori da plastica, contribuendo con 3,5 milioni di tonnellate all’anno, o quasi un quarto del totale, [si è detto] alla conferenza annuale dell’Associazione Americana per il Progresso della Scienza, sentita lo scorso anno. Il coautore Roland Geyer, professore associati di ecologia industriale all’Università della California di Santa Barbara, ha detto: “la rimozione su larga scala dei detriti plastici marini non sarà economico e molto probabilmente non fattibile. Ciò significa che dobbiamo impedire che la plastica finisca negli oceani attraverso una migliore gestione dei rifiuti, più riuso e riciclo, migliore progettazione dei prodotto e miglior sostituzione dei materiali”. 

Chi butta via di più? Più di metà della plastica che finisce negli oceani proviene da cinque paesi: Cina, Indonesia, Filippine, Vietnam e Sri Lanka. Il solo paese occidentale nell’elenco dei primi 20 inquinatori plastici sono gli stati Uniti al n° 20. Gli Stati Uniti e l’Europa non stanno gestendo tanto male i loro rifiuti raccolti, quindi i rifiuti plastici che provengono da quei paesi sono dovuti ai rifiuti gettati in giro. Mentre la Cina è responsabile di 2,4 milioni di tonnellate di plastica, quasi il 28% del totale mondiale, gli Stati uniti contribuiscono per 77.000 tonnellate. 

Fra il 2010 e il 2025, potrebbero essere gettate nell’oceano circa 155 milioni di tonnellate di plastica – abbastanza da riempire 100 sacchetti ogni 30 cm di linea di costa. Ammassati l’uno sull’altro, i sacchetti creerebbero un muro di rifiuti alto 30 metri


La scala completa della minaccia alla vita selvaggia da parte dei rifiuti plastici che inquinano i mari è stata spiegata in uno studio di riferimento a febbraio. Lo studio ha scoperto che quasi 400 specie marine sono a rischio a causa delle tonnellate di sacchetti per la spesa, reti da pesca ed altri rifiuti gettati negli oceani ogni anno

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Il paguro costretto a vivere in un tappo di dentifricio: sempre peggio l’inquinamento da plastica della Terra

Da “Daily Mail”. Traduzione di MR (via Population Matters)

  •  Un recente studio suggerisce che l’oceano contiene otto milioni di tonnellate di rifiuti
  •  E’ abbastanza per riempire quattro borse della spesa ogni 30 cm di linea di costa sulla Terra
  •  L’immagine, presa a Cuba, è solo una di una serie di immagini scioccanti che mostrano la  portata dell’inquinamento da plastica sulla Terra

Di Ellie Zolfagharifard

Questo paguro senza casa è ricorso alluso di un tappo di dentifricio per proteggere il suo corpo. E’ una scena straziante che rivela la dura realtà dell’inquinamento da plastica e di quello che sta facendo alle creature marine della Terra. Secondo stime recenti, l’oceano contiene otto milioni di tonnellate di rifiuti – abbastanza da riempire cinque borse della spesa ogni 30 cm di linea di costa sul pianeta.

Senza casa e disperato, questo paguro è ricorso all’uso di un tappo di dentifricio per proteggere il suo corpo. Quest’immagine è stata caricata dall’utente di Reddit Hscmidt dopo che la sua fidanzata ha individuato il piccolo paguro che si aggirava su una spiaggia a Cuba
L’immagine è stata caricata dall’utente di Reddit, Hscmidt, dopo che la sua fidanzata ha individuato il piccolo paguro che si aggirava su una spiaggia a Cuba. I paguri usano conchiglie usate come riparo e per dare ai loro corpi soffici una protezione in più dai predatori. I paguri hanno spesso la necessità di trovarsi nuovi ripari, di solito sotto forma di altre conchiglie, man mano che crescono. “All’inizio ho pensato che fosse carino, ma poi mi sono reso conto di cosa significhi realmente”, ha scritto un utente di Reddit riguardo all’immagine. 
I paguri usano conchiglie usate come riparo e per dare ai loro corpi soffici una protezione in più dai predatori. I paguri hanno spesso la necessità di trovarsi nuovi ripari, di solito sotto forma di altre conchiglie, man mano che crescono
Lo scorso anno, un orribile immagine di un piccolo di albatross, morto su una spiaggia nel Pacifico settentrionale, ha evidenziato la scala del problema globale. Gli scienziati pensano che le dozzine di tappi di bottiglia, reti da pesca e plastica spezzettata che erano nel suo stomaco siano state date all’uccello dai suoi genitori. 
“Sulla Terra siamo giunti al punto in cui gli esseri umani hanno creato così tanti rifiuti che la natura ora ha iniziato ad inserirli nel suo ciclo di vita quotidiano”. 

Ecco come l’inquinamento plastico sta devastando la vita marina
La scala completa della minaccia alla vita selvaggia da parte dei rifiuti plastici che inquinano i mari è stata spiegata in uno studio di riferimento a febbraio. Lo studio ha scoperto che quasi 400 specie marine sono a rischio a causa delle tonnellate di sacchetti per la spesa, reti da pesca ed altri rifiuti gettati negli oceani ogni anno. Pulcinella di mare, tartarughe, foche e balene sono fra le creature che hanno ingoiato o sono rimaste intrappolate nelle borse di plastica. Lo studio ha scoperto che molte della gran parte delle creature marine a rischio di estinzione ora sono minacciate. Foche monache delle Hawaii, balene franche nordatlantiche, pinguini africani e tartarughe carretta sono rimasti impigliati in corde, sono soffocati in sacchetti di plastica o hanno inghiottito tappi di bottiglia. Il problema è aumentato di quasi il 50% rispetto allo studio precedente portato a termine nel 1997, hanno detto scienziati britannici.

Circa 8 milioni di tonnellate di bottiglie di plastica, sacchetti, giocattoli ed altri rifiuti plastici finiscono negli oceani del mondo ogni anno. A causa della difficoltà di stabilire la quantità esatta, dal momento che gran parte di essa è sprofondata, gli scienziati dicono che la cifra potrebbe essere di 12,7 milioni di tonnellate che inquinano l’oceano ogni anno. Trasportati dalle correnti marine, questi rifiuti si agglomerano in cinque enormi “isole di rifiuti” che girano intorno ai maggiori vortici oceanici del mondo. Il mese scorso, la NASA ha creato una visualizzazione di questo inquinamento evidenziando la portata alla quale l’umanità sta rovinando gli oceani con questi rifiuti. La dottoressa Jenna Jambeck, dell’Università della Georgia, negli Stati Uniti, ha detto che stiamo per essere “sommersi dai nostri rifiuti”. La squadra ha anche avvertito che questo “oceano di plastica” può danneggiare la vita marina. Le tartarughe possono scambiare i sacchetti di plastica per meduse e mangiarli. I sacchetti intasano quindi i loro stomaci, causando la loro morte per fame.
Circa 8 milioni di tonnellate di bottiglie di plastica, sacchetti, giocattoli ed altri rifiuti plastici finiscono negli oceani del mondo ogni anno. A causa della difficoltà di stabilire la quantità esatta, dal momento che gran parte di essa è sprofondata, gli scienziati dicono che la cifra potrebbe essere di 12,7 milioni di tonnellate che inquinano l’oceano ogni anno


Più di metà della plastica che finisce negli oceani proviene da cinque paesi: Cina, Indonesia, Filippine, Vietnam e Sri Lanka

Gli uccelli marini spesso scambiano la plastica galleggiante per cibo; oltre il 90% delle procellarie artiche trovate morte intorno al Mare del Nord hanno plastica nei loro stomaci. Si teme anche che mangiare pesce che abbia consumato plastica possa danneggiare la nostra salute. Lo scorso anno, una immagine orribile di un piccolo di albatross, morto su una spiaggia nel Pacifico settentrionale, ha evidenziato la scala del problema globale. Gli scienziati pensano che le dozzine di tappi di bottiglia, reti da pesca e plastica spezzettata che erano nel suo stomaco siano state date all’uccello dai suoi genitori. Fra il 2010 e il 2025, potrebbero essere gettate nell’oceano circa 155 milioni di tonnellate di plastica – abbastanza da riempire 100 sacchetti ogni 30 cm di linea di costa. Ammassati l’uno sull’altro, i sacchetti creerebbero un muro di rifiuti alto 30 metri. La Cina guida la lega dgli inquinatori da plastica, contribuendo con 3,5 milioni di tonnellate all’anno, o quasi un quarto del totale, [si è detto] alla conferenza annuale dell’Associazione Americana per il Progresso della Scienza, sentita lo scorso anno. Il coautore Roland Geyer, professore associati di ecologia industriale all’Università della California di Santa Barbara, ha detto: “la rimozione su larga scala dei detriti plastici marini non sarà economico e molto probabilmente non fattibile. Ciò significa che dobbiamo impedire che la plastica finisca negli oceani attraverso una migliore gestione dei rifiuti, più riuso e riciclo, migliore progettazione dei prodotto e miglior sostituzione dei materiali”. 

Chi butta via di più? Più di metà della plastica che finisce negli oceani proviene da cinque paesi: Cina, Indonesia, Filippine, Vietnam e Sri Lanka. Il solo paese occidentale nell’elenco dei primi 20 inquinatori plastici sono gli stati Uniti al n° 20. Gli Stati Uniti e l’Europa non stanno gestendo tanto male i loro rifiuti raccolti, quindi i rifiuti plastici che provengono da quei paesi sono dovuti ai rifiuti gettati in giro. Mentre la Cina è responsabile di 2,4 milioni di tonnellate di plastica, quasi il 28% del totale mondiale, gli Stati uniti contribuiscono per 77.000 tonnellate. 

Fra il 2010 e il 2025, potrebbero essere gettate nell’oceano circa 155 milioni di tonnellate di plastica – abbastanza da riempire 100 sacchetti ogni 30 cm di linea di costa. Ammassati l’uno sull’altro, i sacchetti creerebbero un muro di rifiuti alto 30 metri


La scala completa della minaccia alla vita selvaggia da parte dei rifiuti plastici che inquinano i mari è stata spiegata in uno studio di riferimento a febbraio. Lo studio ha scoperto che quasi 400 specie marine sono a rischio a causa delle tonnellate di sacchetti per la spesa, reti da pesca ed altri rifiuti gettati negli oceani ogni anno

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Quello che la Exxon sapeva del cambiamento climatico

Da  “The New Yorker”. Traduzione di MR (via Skeptical Science)

Di Bill McKibben

Pompe di benzina Exxon e Mobil, New York 1979. Due anni prima, secondo un nuovo rapporto, gli scienziati della Exxon hanno detto alla società che il loro prodotto principale contribuiva al riscaldamento globale. Foto di Brian Alpert/Keystone/Hulton Archive/Getty

Mercoledì mattina, i giornalisti di InsideClimate News (ICN), un sito Web che ha vinto il Premio Pulitzer per i suoi servizi sulle perdite di petrolio, ha pubblicato la prima dispensa di una denuncia i più parti che apparirà nei prossimi mesi. I documenti che hanno raccolto e le interviste che hanno fatto agli impiegati in pensione ed ai funzionari mostrano che, già nel 1977, la Exxon (ora ExxonMobil, una delle società più grandi del pianeta) sapeva che il proprio prodotto principale avrebbe scaldato disastrosamente il pianeta. Ciò non ha impedito alla società di passare da allora decenni a organizzare le campagne di disinformazione e negazione che hanno rallentato  – forse fatalmente – la risposta del pianeta al riscaldamento globale.


Naturalmente, c’è la sensazione per cui si presumeva già che fosse così. Tutti coloro che hanno fatto attenzione sapevano del cambiamento climatico ormai da decenni. Ma risulta che la Exxon non solo “sapeva” del cambiamento climatico: ha condotto parte della ricerca originale. Negli anni settanta e ottanta del secolo scorso, la società ha assunto scienziati di punta che hanno lavorato fianco a fianco  coi ricercatori universitari e il Dipartimento dell’Energia, persino attrezzando una delle petroliere della società con sensori speciali e inviandola in una spedizione per raccogliere letture di CO2 sull’oceano. Nel 1977, uno scienziato esperto della Exxon di nome James Black è stato, secondo i suoi stessi appunti, in gradoo di dire al comitato di gestione della società che c’era un “consenso scientifico generale” che quelllo che allora veniva definito effetto serra era causato principalmente dal CO2 prodotto dall’uomo. Un anno dopo, parlando ad un pubblico anche più vasto all’interno della società, ha detto che la ricerca indicava che se avessimo raddoppiato la quantità di biossido di carbonio nell’atmosfera del pianeta avremmo aumentato le temperature di 2-3°C. Corrisponde quasi al punto in cui si trova il consenso scientifico oggi. “Il pensiero attuale”, ha scritto Black nel sommario, “sostiene che l’uomo ha una finestra temporale di 5-10 anni prima che la necessità di prendere decisioni difficili che riguardano cambiamenti nelle strategie energetiche possa diventare cruciale”. Quei numeri erano a loro volta quasi corretti. E’ stato esattamente 10 anni dopo – dopo un decennio in cui gli scienziati della Exxon hanno continuato a fare ricerca climatica sistematica, che ha mostrato, come dice un rapporto interno, che fermare “il riscaldamento globale richiederebbe grandi riduzioni nella combustione di combuastibili fossili” – che lo scienziato della NASA James hansen ha portato il cambiamento climatico ad un pubblico più vasto dicendo, ad un’audizione al Congresso del giugno 1988, che il pianeta si stava già scaldando. E come ha risposto la Exxon? Dicendo che la sua ricerca indipendente sosteneva le scoperte di Hansen? Cambiando il focus della società  verso la tecnologia rinnovabile?

Non è andata così. La Exxon ha invece rispsoto aiutando ad approntare o finanziare campagne di negazionismo climatico estreme (In un post in risposta al rapporto del ICN, la società ha detto che dai documenti è stato fatto “cherry picking” per “distorcere la nostra storia di ricerca scientifica climatica pionieristica” e di sforzi per ridurre le emissioni). La società ha lavorato coi veterani dell’industria del tabacco per cercare di infondere il dubbio nel dibattito climatico. Lee Raymond, che è diventato AD della Exxon nel 1993 – ed è stato dirigente di lungo corso durante il decennio in cui la Exxon ha studiato la scienza del clima – ha tenuto una discorso chiave ad un gruppo di capi cinesi e di dirigenti dell’industria petrolifera nel 1997, alla vigilia dei negoziati di Kyoto. Ha detto loro che il globo si stava raffreddando e che l’azione governativa per limitare le emissioni di carbonio “sfida il buon senso”. Negli ultimi anni è diventato così caldo (la Denuncia di ICN ha coinciso con l’uscita dei dati che mostrano che l’estate appena trascorsa è stata la più calda della storia registrata negli Stati Uniti), che non ha più senso negarlo. Il successore di Raymond, Rex Tillerson, ha accettato a malincuore il cambiamento climatico come reale, ma lo ha definito come un “problema ingegneristico”. A maggio, ad un incontro di azionisti, ha preso in giro l’energia rinnovabile e ha detto che “la razza umana ha quest’enorme capacità di affrontare le avversità”, il che sarebbe tornato utile in caso di “meteo inclemente” che “potrebbe essere indotto, ma anche no, dal cambiamento climatico”.

L’influenza dell’industria petrolifera è essenzialmente immutata, persino adesso. L’Amministrazione Obama può aver lasciato a piedi Big Coal, ma il più ricco Big Oil quest’estate ha ottenuto il permesso di trivellare nell’Artico. Washington presto potrebbe concedere i diritti per le trivellazioni in mare lungo la costa atlantica, mettendo fine ad un divieto di lunga duratas sulle esportazioni di petrolio. Tutte queste misure aiutano ad alimentare il flusso di carbonio diretto nell’atmosfera – il flusso di carbonio di cui la Exxon sapeva già quasi quaranta anni fa che sarebbe stato probabilmente disastroso.

Siamo diventati così assuefatti a questo tipo di potere corporativo che il rapporto di ICN hanno ricevuto un’attenzione relativamente ridotta. La grande notizia del giorno sui social media è venuta di Irving, in Texas, dove un poliziotto ha ammanettato un giovane musulmano per aver portato la sua sveglia fatta in casa a scuola. Per tutto il giorno la gente ha twittato #iostoconahmed, e giustamente. E’ stupendo vedere il potere del mondo creato da Internet puntare la luce su ingiustizia specifiche (e in questo caso raccontare). C’è un direttore ed un capo della polizia ad Irving che probabilmente penserà in modo diverso la prossima volta. Ma abbiamo disperatamente bisogno dello stesso tipo di concentrazione sugli abusi di lunga durata e di fondo delle grandi corporazioni. Si da il caso che anche la Exxon abbia sede ad Irving, in Texas.

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Quello che la Exxon sapeva del cambiamento climatico

Da  “The New Yorker”. Traduzione di MR (via Skeptical Science)

Di Bill McKibben

Pompe di benzina Exxon e Mobil, New York 1979. Due anni prima, secondo un nuovo rapporto, gli scienziati della Exxon hanno detto alla società che il loro prodotto principale contribuiva al riscaldamento globale. Foto di Brian Alpert/Keystone/Hulton Archive/Getty

Mercoledì mattina, i giornalisti di InsideClimate News (ICN), un sito Web che ha vinto il Premio Pulitzer per i suoi servizi sulle perdite di petrolio, ha pubblicato la prima dispensa di una denuncia i più parti che apparirà nei prossimi mesi. I documenti che hanno raccolto e le interviste che hanno fatto agli impiegati in pensione ed ai funzionari mostrano che, già nel 1977, la Exxon (ora ExxonMobil, una delle società più grandi del pianeta) sapeva che il proprio prodotto principale avrebbe scaldato disastrosamente il pianeta. Ciò non ha impedito alla società di passare da allora decenni a organizzare le campagne di disinformazione e negazione che hanno rallentato  – forse fatalmente – la risposta del pianeta al riscaldamento globale.


Naturalmente, c’è la sensazione per cui si presumeva già che fosse così. Tutti coloro che hanno fatto attenzione sapevano del cambiamento climatico ormai da decenni. Ma risulta che la Exxon non solo “sapeva” del cambiamento climatico: ha condotto parte della ricerca originale. Negli anni settanta e ottanta del secolo scorso, la società ha assunto scienziati di punta che hanno lavorato fianco a fianco  coi ricercatori universitari e il Dipartimento dell’Energia, persino attrezzando una delle petroliere della società con sensori speciali e inviandola in una spedizione per raccogliere letture di CO2 sull’oceano. Nel 1977, uno scienziato esperto della Exxon di nome James Black è stato, secondo i suoi stessi appunti, in gradoo di dire al comitato di gestione della società che c’era un “consenso scientifico generale” che quelllo che allora veniva definito effetto serra era causato principalmente dal CO2 prodotto dall’uomo. Un anno dopo, parlando ad un pubblico anche più vasto all’interno della società, ha detto che la ricerca indicava che se avessimo raddoppiato la quantità di biossido di carbonio nell’atmosfera del pianeta avremmo aumentato le temperature di 2-3°C. Corrisponde quasi al punto in cui si trova il consenso scientifico oggi. “Il pensiero attuale”, ha scritto Black nel sommario, “sostiene che l’uomo ha una finestra temporale di 5-10 anni prima che la necessità di prendere decisioni difficili che riguardano cambiamenti nelle strategie energetiche possa diventare cruciale”. Quei numeri erano a loro volta quasi corretti. E’ stato esattamente 10 anni dopo – dopo un decennio in cui gli scienziati della Exxon hanno continuato a fare ricerca climatica sistematica, che ha mostrato, come dice un rapporto interno, che fermare “il riscaldamento globale richiederebbe grandi riduzioni nella combustione di combuastibili fossili” – che lo scienziato della NASA James hansen ha portato il cambiamento climatico ad un pubblico più vasto dicendo, ad un’audizione al Congresso del giugno 1988, che il pianeta si stava già scaldando. E come ha risposto la Exxon? Dicendo che la sua ricerca indipendente sosteneva le scoperte di Hansen? Cambiando il focus della società  verso la tecnologia rinnovabile?

Non è andata così. La Exxon ha invece rispsoto aiutando ad approntare o finanziare campagne di negazionismo climatico estreme (In un post in risposta al rapporto del ICN, la società ha detto che dai documenti è stato fatto “cherry picking” per “distorcere la nostra storia di ricerca scientifica climatica pionieristica” e di sforzi per ridurre le emissioni). La società ha lavorato coi veterani dell’industria del tabacco per cercare di infondere il dubbio nel dibattito climatico. Lee Raymond, che è diventato AD della Exxon nel 1993 – ed è stato dirigente di lungo corso durante il decennio in cui la Exxon ha studiato la scienza del clima – ha tenuto una discorso chiave ad un gruppo di capi cinesi e di dirigenti dell’industria petrolifera nel 1997, alla vigilia dei negoziati di Kyoto. Ha detto loro che il globo si stava raffreddando e che l’azione governativa per limitare le emissioni di carbonio “sfida il buon senso”. Negli ultimi anni è diventato così caldo (la Denuncia di ICN ha coinciso con l’uscita dei dati che mostrano che l’estate appena trascorsa è stata la più calda della storia registrata negli Stati Uniti), che non ha più senso negarlo. Il successore di Raymond, Rex Tillerson, ha accettato a malincuore il cambiamento climatico come reale, ma lo ha definito come un “problema ingegneristico”. A maggio, ad un incontro di azionisti, ha preso in giro l’energia rinnovabile e ha detto che “la razza umana ha quest’enorme capacità di affrontare le avversità”, il che sarebbe tornato utile in caso di “meteo inclemente” che “potrebbe essere indotto, ma anche no, dal cambiamento climatico”.

L’influenza dell’industria petrolifera è essenzialmente immutata, persino adesso. L’Amministrazione Obama può aver lasciato a piedi Big Coal, ma il più ricco Big Oil quest’estate ha ottenuto il permesso di trivellare nell’Artico. Washington presto potrebbe concedere i diritti per le trivellazioni in mare lungo la costa atlantica, mettendo fine ad un divieto di lunga duratas sulle esportazioni di petrolio. Tutte queste misure aiutano ad alimentare il flusso di carbonio diretto nell’atmosfera – il flusso di carbonio di cui la Exxon sapeva già quasi quaranta anni fa che sarebbe stato probabilmente disastroso.

Siamo diventati così assuefatti a questo tipo di potere corporativo che il rapporto di ICN hanno ricevuto un’attenzione relativamente ridotta. La grande notizia del giorno sui social media è venuta di Irving, in Texas, dove un poliziotto ha ammanettato un giovane musulmano per aver portato la sua sveglia fatta in casa a scuola. Per tutto il giorno la gente ha twittato #iostoconahmed, e giustamente. E’ stupendo vedere il potere del mondo creato da Internet puntare la luce su ingiustizia specifiche (e in questo caso raccontare). C’è un direttore ed un capo della polizia ad Irving che probabilmente penserà in modo diverso la prossima volta. Ma abbiamo disperatamente bisogno dello stesso tipo di concentrazione sugli abusi di lunga durata e di fondo delle grandi corporazioni. Si da il caso che anche la Exxon abbia sede ad Irving, in Texas.

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