Effetto Cassandra

Discussione sul collegamento fra emissioni e popolazione

Da “The Bulletin”. Traduzione di MR (via Population Matters)

Le Nazioni Unite prevedono che la popolazione globale, oggi di circa 7,4 miliardi, raggiungerà gli 11,2 miliardi nel 2100 (con l’Africa che fa la parte del leone nella quota di crescita). Per tutti coloro che sono preoccupati dal cambiamento climatico, questa è una prospettiva che fa pensare. Il mondo lotta già per limitare le emissioni di biossido di carbonio, quali sono quindi le prospettive della mitigazione climatica in un mondo col 50% di persone in più? Ma le proposte di rallentare la crescita della popolazione possono incontrare una dura resistenza. Il vero problema, dicono alcuni, è che il consumo di energia crescerà molto più rapidamente della popolazione (link a cura del traduttore) man mano che il mondo diventa più ricco – ed in ogni caso, le iniziative del passato di limitare la crescita della popolazione a volte hanno assunto forme sinistre. Sotto, esperti da Nigeria, Stati Uniti e Cina discutono queste questioni: i tentativi di limitare la crescita della popolazione sono un elemento legittimo della mitigazione climatica – e possono essere perseguiti senza esigere costi etici inaccettabili? 

Clima: un’altra ragione perché l’Africa rallenti la crescita della propria popolazione

Di Alex Ezeh

Ci sono quelli che percepiscono qualsiasi tentativo di limitare la crescita della popolazione come “controllo della popolazione”. Si tratta di un termine che evoca in modo raggelante l’intervento di stato coercitivo per controllare il comportamento riproduttivo individuale. I programmi di controllo della popolazione sono stati implementati di rado senza esigere costi etici inaccettabili. Ma c’è una grande differenza fra i programmi di controllo della popolazione coercitivi condotti dallo stato e i tentativi di rallentare la rapida crescita della popolazione. L’obbiettivo dei programmi di controllo della popolazione sono le azioni individuali. I tentativi di rallentare il tasso di crescita della popolazione, invece, lavorano all’interno dei contesti sociali e cercano di produrre un cambiamento volontario.

La dimensione e il consumo della popolazione sono fra i motori chiave del cambiamento climatico. Se ci sono 7 miliardi o 14 miliardi di persone sulla Terra conta a livello fondamentale per il clima. Ma la relazione fra popolazione e salute del pianeta non è lineare. Un bambino nato, diciamo, in Nord America avrà un’impronta di carbonio più pesante di quella che avrà la sua compagna d’età nata nell’Africa sub-sahariana. Le regioni con le impronte di carbonio più pesanti stanno sperimentando una crescita della popolazione più lenta delle altre regioni. Molti paesi – compresi Giappone e Russia e gran parte delle nazioni dell’Europa orientale – stanno sperimentando una crescita della popolazione negativa. Ma non è così per l’Africa sub-sahariana. Fra il 1950 ed il 2000, la popolazione della regione è cresciuta da meno di 180 milioni a più di 642 milioni. Solo a partire dal 2000, la popolazione della regione è aumentata della metà, fino a quasi 1 miliardo. Per il 2050 la popolazione dell’Africa sub-sahariana è prevista a più di 2,1 miliardi – e 50 anni dopo questo, la regione sarà la casa di una stima di 4 miliardi di persone. In questo scenario, due esseri umani su cinque nel 2100 saranno Africani sub-sahariani.

L’impronta di carbonio dell’Africa sub-sahariana è leggera. Ma la popolazione in rapida crescita della regione ha un impatto ambientale che è già molto evidente. Gli ecosistemi come la foresta pluviale tropicale si degradano rapidamente. Pratiche agricole inefficienti stanno creando cambiamenti dell’uso della terra indesiderabili. La biodiversità sta diminuendo. Tutti questi effetti sono attesi in intensificazione se la popolazione dell’Africa cresce come previsto. I politici africani si interessano al rapido tasso di crescita della popolazione dell’area – ma il cambiamento climatico non è in nessun modo la ragione principale di questo interesse. In Africa, l’aumento della domanda di servizi fondamentali – senza l’aumento di risorse per pagarli – può forzare le infrastrutture oltre la loro capacità. Ciò fa sembrare ogni successivo governo della regione meno efficace del regime che lo ha preceduto. L’educazione è un buon esempio dell’aumento della domanda di servizi pubblici. L’UNESCO stima che l’Africa sub-sahariana, per ottenere la copertura della scuola primaria e dell’inizio della secondaria entro il 2030, avrà bisogno di 2,1 milioni di insegnanti della scuola primaria in più e 2,5 milioni di insegnanti della scuola secondaria iniziale. Chiaramente, i leader politici dell’Africa sub-sahariana affrontano sfide enormi a causa della rapida crescita della popolazione.

I leader politici sono anche preoccupati dalla crescita della popolazione perché temono l’insicurezza e l’instabilità. Gli estremisti possono trovare adepti più facilmente in bacini più ampi – specialmente  in grandi bacini di giovani la cui educazione ridotta, le cui prospettive di impiego ridotte e la mancanza di opzioni, possono renderli disillusi. I leader hanno anche interesse per la popolazione a causa del potenziale di un cosiddetto “dividendo demografico” – cioè, un miglioramento nelle prospettive economiche di una nazione quando il suo rapporto fra età lavorativa e non lavorativa delle persone aumenta. Quindi non sorprende che quando i decisori politici africani considerano la crescita della popolazione, il cambiamento climatico non è centrale nel loro pensiero. Ma quale dovrebbe essere la preoccupazione a proposito dei 4 miliardi di africani che potrebbero esserci nel 2100? Il problema non è se l’Africa, un continente di più di 3 miliardi di ettari, ha abbastanza spazio per così tanta gente. Anche un’Africa con 4 miliardi di abitanti avrebbe di gran lunga meno persone per unità di terra abitabile di quanto l’India non ne abbia oggi. In realtà, la domanda chiave è questa: che tipo di persone sarebbero questi 4 miliardi di africani? Sarebbero africani poveri, malati, ignoranti che si calpestano l’un l’altro per scappare? O saranno africani sani, colti e produttivi e felici di vivere sul loro continente di nascita e che contribuiscono al progresso ed allo sviluppo regionale (e globale)? E soprattutto, come può l’Africa sub-sahariana trasformare il suo futuro demografico in qualcosa di gestibile, orientato allo sviluppo ed economicamente fattibile – rispettando pienamente le scelte riproduttive individuali?

Le nazioni africane possono cambiare le loro traiettorie demografiche e di sviluppo per il meglio se perseguono vigorosamente tre azioni politiche chiave. La prima è fornire accesso universale ai servizi di pianificazione famigliare, che hanno dimostrato di ridurre significativamente il numero di bambini nati anche in popolazioni povere, ignoranti e rurali. Un aumento di soli 15 punti percentuali nella diffusione dei contraccettivi è associata alla riduzione di un figlio nel numero di bambini nati per la donna media. Nell’Africa sub-sahariana, la crescente diffusione dei contraccettivi di 45 punti percentuali potrebbe ridurre il tasso totale di fertilità da 4,7 a 1,7, che porterebbe il tasso di crescita della popolazione della regione al di sotto dei livelli di ricambio. La seconda iniziativa politica chiave coinvolge tentativi di ritardare matrimonio e gravidanza. Restando tutto il resto uguale, una popolazione in cui le donne cominciano ad avere figli a 15 anni ha il 25% in più di persone dopo 60 anni di una popolazione in cui le donne hanno il loro primo figlio a 20 anni. Più viene ritardato il matrimonio di una ragazza, più opportunità ha per lo sviluppo personale – e meglio è per l’intero paese. Un terzo passo importante è espandere l’accesso delle ragazze all’educazione oltre il livello della scuola primaria. Le donne, se ricevono un’educazione ulteriore da ragazze, hanno meno figli. Ciò è stato dimostrato in modo consistente. Una migliore educazione fornisce anche migliori opportunità alle donne di guadagnarsi uno stipendio – esattamente ciò di cui hanno bisogno i paesi in via di sviluppo per ottenere lo sviluppo economico. Implementare queste tre iniziative politiche porterebbe a riduzioni più sostenibili, più durature e (cosa più importante) più veloci dei tassi di crescita della popolazione di quella che otterrebbe qualsiasi azione coercitiva di governo.

La prospettiva di 4 miliardi di africani nel 2100 può essere motivo di preoccupazione – o potrebbe ispirare impegno ad investire in opportunità educative per le ragazze, maggior accesso alla pianificazione famigliare e matrimoni ritardati. Questi passi sarebbero una trasformazione per il continente. Genererebbero sviluppo e promuoverebbero la crescita economica oltre alla riduzione del fardello demografico che contribuisce al cambiamento climatico. Ma mentre i tentativi africani di rallentare la crescita della popolazione contribuiranno alla salute del pianeta, non si deve dimenticare che i più grandi colpevoli nella corsa alla distruzione del pianeta sono i paesi che hanno le impronte di carbonio più pesanti. Servono iniziative globali e gli investimenti per sostenere i paesi africani mentre lavorano per ottenere un dividendo demografico – ma questo dev’essere abbinato a tentativi appropriati e complementari per mitigare il danno ambientale arrecato dai paesi che si aspettano una crescita della popolazione zero o persino negativa.

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Non possiamo più fare niente.

Intervista rilasciata da Dennis Meadows  a Rainer
Himmelfreundpointer pubblicata dalla rivista Format il 6 marzo 2013.

40 anni fa uscì uno dei libri più importanti del XX secolo: “I limiti della crescita”, patrocinato dal Club di Roma.   Nel libro non si previde la data del collasso della nostra civiltà, ma i 30 ricercatori coordinati dai coniugi Medaows dimostrarono che la crescita demografica e la crescita economica avrebbero condotto l’umanità al disastro qualunque fosse risultata essere la disponibilità di risorse.   Solo una rapida stabilizzazione della popolazione mondiale molto vicino ai tre miliardi di allora ed il passaggio ad un’economia stazionaria avrebbero potuto evitare la catastrofe.    Uno degli scenari pubblicati era definito “business as usual”, vale a dire cose probabilmente sarebbe accaduto se niente fosse cambiato nell’impostazione politico-economica globale.
In realtà, da allora, molte cose sono cambiate, ma la verifica di questo scenario sulla base dei dati reali ne ha confermato la validità con un grado di affidabilità stupefacente.

FORMAT: Signor Meadows, secondo il Club di Roma, stiamo adesso fronteggiando una crisi legata alla disoccupazione, una crisi da carenza di cibo, una crisi economica e finanziaria globale ed una crisi ecologica globale. Ognuno di queste è un segnale che qualcosa sta andando per il verso sbagliato. Cosa esattamente?

MEADOWS: Quello che sottolineavamo nel 1972 ne “I limiti della crescita”- e che è tutt’ora valido- è il semplice fatto che non è possibile una crescita fisica infinita in un pianeta finito. Arrivati ad un certo punto la crescita si ferma.  O la fermiamo noi, cambiando i nostri comportamenti, oppure sarà il pianeta a fermarla. 40 anni dopo, ci dispiace dirlo, non è stato ancora fatto niente.

FORMAT: Nei vostri 13 scenari la fine della crescita fisica – cioè dell’aumento della popolazione mondiale, della produzione di cibo e di qualsiasi altra cosa venga prodotta o consumata – inizia tra il 2010 ed il 2050.  La crisi finanziaria è parte di tutto ciò?

MEADOWS: Non sono situazioni paragonabili. Supponiamo di avere il cancro e che questo cancro causi febbre, mal di testa ed altri dolori. Non sono questi il problema reale, è il cancro il problema! Comunque, proviamo a curarne i sintomi. Nessuno spera di sconfiggere il cancro con quelle cure. I fenomeni come il cambiamento climatico o le carestie sono semplicemente sintomi della malattia di questo pianeta, il che ci riporta inevitabilmente alla fine della crescita.

FORMAT: Il cancro come metafora della crescita incontrollata?

MEADOWS: Sì. Le cellule sane ad un certo punto smettono di crescere. Le cellule cancerose proliferano finché non uccidono l’organismo. La popolazione e la crescita economica si comportano nello stesso modo. Ci sono solo due modi di ridurre la crescita dell’umanità: ridurre il tasso delle nascite od aumentare quello delle morti. Quale preferisci?

FORMAT: Nessuno vorrebbe dover scegliere.

MEADOWS: Neanch’io. In ogni caso abbiamo perso l’opportunità di scegliere. Lo farà il pianeta.

FORMAT: Come?

MEADOWS: Consideriamo il cibo. Facciamo i conti, valutiamo la quantità di cibo pro capite a partire dagli anni ’90. La produzione cresce, ma la popolazione cresce più rapidamente. Dietro ad ogni caloria di cibo che arriva sul piatto, ci sono dieci calorie di combustibili fossili utilizzate per produrlo, trasportarlo, immagazzinarlo, prepararlo e servirlo. Più diminuiscono le scorte di combustibili, più cresce il prezzo del cibo.

FORMAT: Dunque non è solo un problema distributivo?

MEADOWS: Certamente no. Se condividessimo tutto equamente, nessuno soffrirebbe la fame. Ma resta il fatto che abbiamo bisogno di fonti fossili come petrolio, gas o carbone per produrre cibo. E queste fonti si stanno esaurendo.  Nonostante vengano sfruttate nuove fonti come il gas o il petrolio da scisto, i picchi di petrolio e gas sono già superati. Questo pone una tremenda pressione sull’intero
sistema.

FORMAT: Secondo i vostri modelli sulla popolazione, nel 2050 saremmo all’incirca 9,5 miliardi, nonostante una stagnazione della produzione di cibo per i prossimi 30-40 anni.

MEADOWS: E questo significa che ci sarà una gran massa di persone povere.  Certamente più di metà dell’umanità. Oggi non possiamo nutrire a sufficienza una larga parte della popolazione mondiale. Tutte le risorse che conosciamo stanno calando. Ci si può immaginare dove porterà questa situazione. Ci sono troppi “se” nel futuro: “se” la gente diventerà più intelligente, “se” non ci saranno guerre, “se” faremo progressi tecnologici.
Siamo già al punto in cui non riusciamo a risolvere i problemi attuali, come potremo farcela tra 50 anni quando saranno più gravi?

FORMAT: E’ colpa del nostro modo di fare affari?

MEADOWS: Il nostro sistema economico e finanziario non è solo un mezzo per ottenere qualcosa. E’ uno strumento che abbiamo sviluppato e che riflette i nostri scopi e valori. La gente non si preoccupa del futuro, ma solo dei problemi contingenti. E’ per questo che abbiamo una crisi del debito così grave. Creare debito è l’opposto del preoccuparsi per il futuro.   Chiunque prenda un debito dice: non mi preoccupo di quello che avverrà. Quando per troppa gente il futuro non conta, si crea un sistema economico e finanziario che distrugge il futuro.  Puoi far pressione su questo sistema quanto vuoi ma finché non cambieranno i valori della gente, si andrà avanti nello stesso modo. Se dai un martello a qualcuno e questo lo utilizza per uccidere il suo vicino, non serve a niente cambiare il martello. Persino se gli riprendi il martello, quello rimane un potenziale assassino.

FORMAT: I sistemi che organizzano le modalità di coesistenza delle persone vanno e vengono.

MEADOWS: Ma l’uomo rimane lo stesso. Negli Stati Uniti, abbiamo un sistema nel quale è giusto che pochi siano immensamente ricchi e molti siano terribilmente poveri, fino alla fame. Se riteniamo che ciò sia accettabile, è difficile cambiare il sistema. I valori dominanti sono sempre gli stessi. Questi valori si riflettono enormemente nei cambiamenti climatici. A chi interessano?

FORMAT: All’Europa?

MEADOWS: Cina, Svezia, Germania, Russia e Stati Uniti hanno sistemi sociali differenti ma in ognuna di queste nazioni aumenta l’emissione di CO2, perché in realtà alla gente non importa. Il 2011 è stato l’anno record (l’intervista è del 2012, n.d.t.): lo scorso anno è stata prodotta più anidride
carbonica che nell’intera storia umana precedente, nonostante che si voglia che la produzione diminuisca.

FORMAT: Cos’è che va per il verso sbagliato?

MEADOWS: Scordatevi i dettagli. La formula base dell’inquinamento da CO2 è composta da quatto elementi. Primo: il numero di persone sulla Terra. Queste devono essere moltiplicate per i beni pro capite, ovvero quante automobili, case e mucche esistono a persona, ed abbiamo così lo “standard” di vita sulla Terra.    Questo va poi moltiplicato per il fattore d’energia consumata per unità di capitale,
per esempio quanta energia necessaria per produrre automobili, costruire case e per rifornire e nutrire le mucche. Ed infine, il tutto va moltiplicato per l’ammontare d’energia derivata da fonti fossili.

FORMAT: Approssimativamente tra l’80 e il 90%.

MEADOWS: Approssimativamente. Se vuoi che il carico di CO2 cali, l’intero risultato di questa moltiplicazione deve calare. Ma noi cosa facciamo?   Proviamo a ridurre la quantità d’energia fossile usando maggiormente fonti alternative come vento e sole. E lavoriamo per rendere più efficiente l’utilizzo d’energia, isolando meglio le case, rendendo i motori più efficienti e tutto il resto. Lavoriamo solo sugli aspetti tecnici ma trascuriamo del tutto il fattore relativo alla popolazione
e crediamo che il nostro standard di vita migliorerà o almeno rimarrà invariato. Ignoriamo la popolazione e gli elementi sociali dell’equazione, e ci focalizziamo totalmente sulla soluzione degli aspetti tecnici del problema. Falliremo, perché la crescita della popolazione e gli standard di vita sono molto più rilevanti di tutto quanto possiamo risparmiare con una migliore efficienza o con le energie alternative. Pertanto, le emissioni di CO2 continueranno a salire. Non ci sarà soluzione al problema dei cambiamenti climatici se non affronteremo i fattori sociali che ne sono alla base.

FORMAT: Vuoi dire che la Terra risolverà la situazione di propria iniziativa?

MEADOWS: I disastri sono il metodo del pianeta per risolvere i problemi. A causa del cambiamento climatico, i livelli del mare cresceranno perché si stanno sciogliendo i ghiacci polari. Specie dannose si diffonderanno in aree dove non hanno nemici naturali a sufficienza. L’aumento della temperatura comporta l’aumento di venti forti e tempeste, che a loro volta influenzano le precipitazioni: avremo più alluvioni e più siccità.

FORMAT: Per esempio?

MEADOWS: La terra dove ora è coltivato il 60% del frumento cinese, sarà troppo secca per l’agricoltura. Nello stesso momento, pioverà, ma in Siberia, e la terra sarà più fertile lì. Dunque ci sarà una grande migrazione dalla Cina alla Siberia. Quante volte l’ho già detto alla gente nelle mie conferenze in Russia! I più anziani sono interessati ma la élite giovane ha semplicemente detto “Che m’importa? Voglio soltanto esser ricco.”

FORMAT: Cosa fare?

MEADOWS: Se solo lo sapessi… Entriamo in un periodo che richiede enormi cambiamenti praticamente in tutto. Sfortunatamente, cambiare le nostre società o i sistemi di governo non è un processo rapido. Il sistema attuale non funziona comunque. Non ferma i cambiamenti climatici né previene le crisi finanziarie. I governi provano a risolvere i loro problemi stampando moneta, il che
quasi certamente porterà entro qualche anno ad un elevato tasso d’inflazione. E’ una fase molto pericolosa. So soltanto che la gente, soprattutto in periodi di incertezza, se deve scegliere tra libertà ed ordine, sceglie l’ordine. L’ordine non significa necessariamente giustizia o rispetto della legge, ma vita ragionevolmente sicura e treni in orario.

FORMAT: Hai paura della fine della democrazia?

MEADOWS: Vedo due trend. Da una parte, lo smembramento degli stati in unità più piccole, ad esempio in regioni come la Catalogna.  Da un’altra parte la creazione di un superpotere forte e centralizzato. Non uno stato ma una combinazione fascistoide di industria, polizia e militari. Forse in futuro avremo persino le due soluzioni in contemporanea. La democrazia è in effetti un esperimento socio-politico molto giovane. Ed attualmente non esiste. Produce soltanto crisi che non è in grado di risolvere. La democrazia non contribuisce attualmente alla nostra sopravvivenza. Il sistema collasserà dall’interno, non a causa di un nemico esterno.

FORMAT: Stai parlando del “Dramma dei beni comuni”

MEADOWS: E’ il problema fondamentale. Se in un villaggio chiunque può pascolare il suo gregge su un prato rigoglioso (aperto a tutti, N.d.T.) – chiamato in inglese arcaico “Commons” – entro poco tempo ne beneficeranno soprattutto quelli che scelgono di avere più bestiame. Ma se si va avanti in quel modo troppo a lungo, l’erba finisce e con quella tutto il bestiame.

FORMAT: Dunque si deve arrivare ad un accordo, per utilizzare al meglio il prato.   Questo potrebbe rappresentare il lato migliore della democrazia.

MEADOWS: Forse. Se il sistema democratico non riesce a risolvere il problema su scala globale, probabilmente potrebbe provarci una dittatura. Dopotutto, si tratta di questioni come il controllo della popolazione globale. Siamo da 300.000 anni sul pianeta e ci siamo organizzati in molti modi differenti. Quelli di maggior successo e più efficaci sono stati i sistemi tribali o di clan, non le dittature o le democrazie.

FORMAT: Un importante passo avanti tecnologico potrebbe salvare la Terra?

MEADOWS: Sì. Ma le tecnologie hanno bisogno di leggi, vendite, addestramento, persone che ci lavorano – vale quello che ho già detto poco fa.  Soprattutto, la tecnologia è solo un attrezzo come un martello o come il sistema finanziario neoliberista. Se i nostri valori sono sempre gli stessi, continueremo a sviluppare tecnologie che li soddisfano.

FORMAT: Tutto il mondo attualmente vede una possibile salvezza in una tecnologia verde e sostenibile.

MEADOWS: E’ una fantasia. Anche se ci impegnassimo per aumentare l’efficienza nell’utilizzo dell’energia in modo enorme, ancor più nell’uso di fonti rinnovabili e facessimo grandi sacrifici per limitare i nostri consumi, non avremmo virtualmente possibilità di allungare la vita al nostro sistema attuale. La produzione di petrolio si ridurrà di circa la metà nei prossimi 20 anni, nonostante
lo sfruttamento dell’olio da scisti o da sabbie bituminose. Tutto accade troppo rapidamente. Al di là del fatto si può guadagnare anche di più grazie alle energie alternative. Le turbine eoliche possono funzionare, senza aeroplani.
Il direttore della Banca Mondiale (più recentemente responsabile dell’industria aerea complessiva) mi ha spiegato che il problema del picco del petrolio non è discusso in quell’istituzione, è semplicemente tabù.   Chiunque ci provi in qualche modo o viene licenziato o trasferito. Dopotutto, il picco del petrolio distrugge la fiducia nella crescita. Dovresti cambiare tutto.

FORMAT: Specialmente nelle compagnie aeree dove la quota di combustibili fossili è molto alta.

MEADOWS: Esattamente. E’ per questo che l’era del trasporto aereo di massa a basso costo finirà presto. Se lo potranno permettere solo in grandi stati o imperi. Con molti soldi si potrà comprare energia – e causare mancanze di cibo, ma non si può sfuggire al cambiamento climatico, che colpisce i ricchi ed i poveri.

FORMAT: Hai qualche soluzione per queste terribili miserie?

MEADOWS: Dovrebbe cambiare la natura dell’uomo. Siamo tuttora programmati come 10.000 anni fa. Visto che uno dei nostri antenati poteva essere attaccato da una tigre, non si poteva preoccupare del futuro ma solo della propria sopravvivenza. La mia preoccupazione è che, per motivi genetici, non siamo adatti a fare i conti con problemi di lungo termine come i cambiamenti climatici. Fino a
che non impareremo a farlo, non ci sarà modo di risolvere problemi simili. Non c’è niente che possiamo fare. La gente dice sempre: “Dobbiamo salvare il pianeta”. No, non dobbiamo. Il pianeta si salverà in ogni modo da solo. L’ha già fatto. Talvolta gli ci vogliono milioni di anni, ma comunque ce la fa. Non dobbiamo preoccuparci del pianeta ma della razza umana.

Articolo già apparso sul n. 7 delle rivista online “Overshoot”. 

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Che ne è stato del ‘picco del petrolio’?

Da “Yale Climate Connections”. Traduzione di MR (via Luca Pardi)

La speculazione che una volta era onnipresente sull’imminenza del picco del petrolio è svanita. Ma per molti non è questione di se, ma di quando. 

San Francisco, California, 18 dicembre 2015 – Che ne è stato dell’idea del “picco del petrolio”? Dieci anni fa non si riusciva ad evitarlo nemmeno a provarci. Libri di James Howard Kunstler, Richard Heinberg, Kenneth Deffeyes ed altri avvertivano che la produzione mondiale di petrolio avrebbe inevitabilmente raggiunto il picco presto, sulla base di analisi simili a quelle del celebrato geologo M. King Hubbert, che ha previsto, nel 1956, che la produzione di petrolio statunitense avrebbe raggiunto il picco fra il 1965 e il 1970. Accidenti se non aveva ragione. Col presunto picco di produzione mondiale del petrolio, le economie nazionali si sono attaccate all’iniezione di petrolio direttamente nelle loro grandi arterie, poi hanno iniziato a declinare. Picco del petrolio non significa che il petrolio scompaia – ne rimarrebbe ancora la metà – solo che ne verrebbe prodotto di meno ogni anno andando avanti e le economie traumatizzate cadrebbero in uno stato permanente di recessione mentre i consumatori combatterebbero, tipo in Mad Max, per gli ultimi barili.


A parte che gli “eventi non si svolgono mai come ci si aspetta”, ha detto James Murray, un oratore in una sessione intitolata “Il picco del petrolio è morto e cosa significa per il cambiamento climatico?” all’incontro autunnale di AGU nella Città della Baia. La tecnologia è venuta in soccorso, sotto forma di fracking e della trivellazione direzionale tridimensionale. La produzione petrolifera statunitense è volata verso l’alto del 54% in soli cinque anni, da 3,3 miliardi di barili nel 2009 a 5,1 miliardi di barili nel 2014. Anche se la produzione mondiale di petrolio è aumentata solo del 8,5% in quel periodo, è stato sufficiente per impedirle di raggiungere il picco.

Il picco del petrolio è quindi ora un concetto datato o si trova ancora nel nostro futuro?

La seconda, dicevano gran parte degli esperti all’incontro AGU, mentre ammettevano di non aver previsto la rivoluzione tecnologica che ha permesso alla produzione di petrolio e gas degli Stati Uniti di volare nell’ultimo decennio. Quelle risorse sono comunque in quantità finite e il loro costo di estrazione aumenta una volta che i frutti più bassi vengono raccolti. Il petrolio è sceso a circa 35 dollari al barile a causa dei produttori di petrolio, affamati di petrolio non convenzionale da sabbie bituminose e gas da scisto, prodotti in modo eccessivo. Eppure non fanno ancora soldi, ha detto James Murray dell’Università di Washington. Il petrolio di scisto – ciò che l’industria chiama “thight shale” – “è redditizio per i trivellatori, gli hotel e i ristoranti, ma non per gli investitori”, ha detto. Il flusso di contante in questo settore è stato di 10 miliardi di dollari in rosso nel 2014, anche se ci è stato messo più denaro, pensa Murray, da parte di investitori alla disperata ricerca di investimenti, visto che la Federal Reserve mantiene i tassi di interesse estremamente bassi. Murray ha detto che il prezzo di pareggio del petrolio convenzionale è di 20 dollari a barile, ma di 75 dollari al barile per il petrolio di scisto. Quindi le società petrolifere si stanno tirando indietro: la produzione statunitense di petrolio sembra aver raggiunto il picco nel luglio del 2015 ed anche il bacino di scisto dei Eagle Ford in Texas e il giacimento di Bakken in Nord Dakota stanno riducendo. “Il mondo potrebbe essere vicino al picco della produzione di petrolio”, ha concluso Murray. Se questo è vero – e ad un certo punto in futuro probabilmente lo sarà – cosa implica questo per il cambiamento climatico?

L’impatto sul clima

I cambiamenti di temperatura e le emissioni di combustibili fossili sono inequivocabilmente collegati. Momento per momento, il cambiamento della temperatura globale media della superficie della Terra è proporzionale alla somma di tutte le emissioni di carbonio in quel momento. Questa “risposta del clima al carbonio” è di 1,5°C per trilione di tonnellate di carbonio emesso – equivalente a 0,4°C per trilione di tonnellate di biossido di carbonio emesso. Questa relazione ha consentito ai negoziatori al recente incontro della COP21 di Parigi di redigere un bilancio di carbonio: il mondo nel suo complesso può emettere altri 1.000 miliardi di tonnellate di biossido di carbonio se il cambiamento di temperatura deve raggiungere il picco a 2°C, ma solo altri 600 miliardi di tonnellate di biossido di carbonio per un tetto di 1,5°. Con le attuali emissioni mondiali di circa 36 miliardi di tonnellate all’anno, il bilancio di carbonio dà al mondo meno di altri 30 anni di emissioni “business-as-usual” se il riscaldamento deve raggiungere il massimo ad un comunque rischioso +2°C.

“Dobbiamo tenere un sacco di combustibili sottoterra”, ha detto Pete Peterson dell’Università della California di Santa Barbara. David Hughes, presidente del Global Sustainability Research di Calgary, ha evidenziato che “le riserve rimaste [di combustibili fossili] sono ampie, ma di minore qualità e richiedono più energia per essere prodotte”. Hughes ha stimato che più del 90% di quelle che nel settore sono conosciute come “fonti non convenzionali” – gas e petrolio di scisto e sabbie bituminose – “non sono recuperabili”. Hughes ha detto che lo scenario futuro RCP2.6 dell’IPCC – che rappresenta l’uso dei combustibili fossili più strettamente vincolato e che porta al riscaldamento più basso – “ipotizza comunque che  venga bruciato più petrolio di quanto la BP suggerisca che se ne possa recuperare e la stessa cosa vale per il gas naturale, ma non per il carbone”. (La BP pubblica una Statistical Review of World Energy annuale). Infatti, ha detto Hughes, ogni scenario dell’IPCC – che ne sono 4, chiamati Representative Concentration Pathways RCP (Percorsi Rappresentativi di Concentrazione) – ipotizza che siano bruciati più petrolio e gas di quanti la BP suggerisce che se ne possano recuperare. Lo scenario che porta al maggior riscaldamento, il RCP8.5, in realtà ipotizza che si possa bruciare più carbone di quanto se ne possa recuperare. Il RCP2.6 – lo scenario che ha la quantità minore di riscaldamento globale – conta a sua volta su 5,1 volte più riserve di uranio di quanto la BP stimi ce ne siano disponibili. Ma ipotizza anche che il mondo avrà emissioni di carbonio “negative” dal 2040 – il che significa prelevare biossido di carbonio dall’atmosfera e sequestrarlo. “Il solo modo di avere un qualcosa come Parigi”, ha concluso Hughes, “è quello di bruicare molti meno combustibili fossili”.

Lo scrittore Richard Heinberg, l’ultimo relatore del gruppo sul picco del petrolio AGU, ha seguito quella conclusione fino ad un punto che la maggior parte dei teorici del picco del petrolio credono: che il futuro porterà una recessione permanente e che “probabilmente non potremo far crescere l’economia usando meno energia”. “Potremmo dover imparare a tirare avanti senza crescita economica”, qualcosa che nessun politico vorrebbe sentire, figuriamoci di ammettere, ha detto Heinberg. “Il grande problema è che diamo la priorità alla crescita economica su tutto il resto”. Potrebbe essere il momento, ha detto, di misurare il progresso della civiltà in qualche altro modo, forse usando qualcosa sulla falsariga del Genuine Progress Indicator o dell’indicatore  spesso sbeffeggiato di Felicità Interna Lorda del Bhutan. Anche questa potrebbe essere una cosa che pochi politici vorrebbero sentire o ammettere.

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Gli scienziati dicono che secoli di fusione del ghiaccio polare sono ormai inevitabili

Da “Inside Climate News”. Traduzione di MR (via Skeptical Science/Climate Central)

“Se abbiamo un periodo di tempo prolungato a 2°C, probabilmente perderemo la Groenlandia e questo significa 7 metri di innalzamento del livello del mare”


Il villaggio di Ilulissat visto vicino agli iceberg che si sono staccati dal ghiacciaio Jakobshavn il 24 luglio 2013 a  Ilulissat, in Groenlandia. Un aumento del livello del mare significativamente maggiore si verificherà con la fusione delle calotte glaciali dell’Antartide Occidentale e della Groenlandia, gigantesche masse di ghiaccio che sono vulnerabili anche al minimo aumento della temperatura, dice un nuovo studio. Foto: Joe Raedle/Getty Images


Di Phil Mckenna

La fusione delle calotte di ghiaccio polare e dei ghiacciai di montagna probabilmente continuerà per migliaia di anni, causando un irreversibile innalzamento del livello del mare, anche se il riscaldamento globale venisse limitato a 2°C, secondo un nuovo rapporto pubblicato la scorsa settimana durante i negoziati sul clima di Parigi. I livelli del mare potrebbe salire da 4 a 10 metri o più a meno che non vengano intrapresi rapidamente passi di gran lunga più ambiziosi per ridurre le emissioni di gas serra, secondo il rapporto pubblicato dall’International Cryosphere Climate Initiative (ICCI), un’organizzazione di ricerca e politiche no profit con base a Burlington, nel Vermont. “Anche se fermassimo tutto il riscaldamento oggi e restassimo a questo livello, stiamo parlando di circa 1 metro  di innalzamento del livello del mare entro il 2300”, ha detto Pam Pearson, autrice principale del rapporto e direttrice del ICCI, che ha presentato le sue scoperte nelle attività collaterali dei colloqui di Parigi. “Le temperature che stiamo raggiungendo anche oggi, lasciando perdere ciò che accadrebbe fra due,tre o quattro decenni, potrebbero comportare cambiamenti che non saranno reversibili su una scala temporale umana”.


La scoperte mostrano che ottenere gli obbiettivi ambiziosi stabiliti con lo storico accordo di Parigi non sarà sufficiente per evitare un innalzamento del livello del mare catastrofico e gravi scarsità d’acqua in aree che dipendono dai ghiacciai. L’accordo climatico globale stabilisce un obbiettivo di riduzione delle emissioni di gas serra sufficiente a mantenere il riscaldamento globale “ben al di sotto” dei 2°C dal periodo preindustriale, stabilendo un limite preferibile di 1,5°C. La Terra si è già riscaldata di più di 0,8°C dagli anni 50 del 1800. “Ci troviamo in una zona a rischio molto alto a 2°C. Possiamo limitare questo rischio in qualche misura se teniamo la temperatura giù a 1,5°C, ma più bassa è, meglio è”, ha detto la Pearson. Anche se il successo potrebbe dirottare gli effetti peggiori del cambiamento climatico, non fermerebbe la fusione, secondo il ICCI.  “Una volta che il ghiaccio comincia a muoversi e cominciamo a perdere la massa, non c’è niente che in realtà possa fermarlo a meno che non si sia in grado di abbassare le temperature al di sotto dei livelli preindustriali”, ha detto la Pearson. “Gli impatti saranno momento per momento, ma saranno determinati in questo secolo”.

Il rapporto del ICCI è un sommario della più attuale comprensione della criosfera da parte degli scienziati, regioni del pianeta che sono ricoperte di ghiaccio e neve, ed è stato revisionato da più di due dozzine dei migliori esperti mondiali di criosfera. Parte della ragione della fusione delle calotte glaciali polari e dei ghiacciai è che il cambiamento climatico si sta verificando più rapidamente sulla criosfera che altrove. Parti dell’Artico, dell’Antartide e molte regioni montagnose si sono riscaldati due o tre volte più rapidamente del resto del pianeta, o da 2 a 3,5°C, secondo il rapporto. Un innalzamento del livello del mare significativamente maggiore avverrà con la fusione delle calotte glaciali dell’Antartide Occidentale e della Groenlandia,  gigantesche masse di ghiaccio che sono vulnerabili anche al minimo aumento della temperatura, dicono i ricercatori. “Se abbiamo un periodo di tempo prolungato a 2°C, probabilmente perderemo la Groenlandia e questo significa 7 metri di innalzamento del livello del mare”, ha detto la Pearson. “Se possiamo restare a 1,5°C, il rischio scende di parecchio”.

Potrebbe già essere troppo tardi per fermare la perdita della calotta glaciale dell’Antartide Occidentale. Se questa calotta glaciale fonde del tutto, i livelli del mare si innalzeranno da 4 a 6 metri. Con la perdita di entrambe le calotte glaciali, l’innalzamento del livello del mare sarà graduale, spalmato su centinaia di migliaia di anni, ha detto la Pearson. Man mano che le regioni polari si riscaldano, il permafrost, o terreno che rimane ghiacciato per tutto l’anno per secoli, si scioglierà rilasciando ulteriore biossido di carbonio. Anche se l’aumento della temperatura media globale viene tenuto a 1,5°C, il 30% del permafrost verrà perduto entro il 2100, comportando circa 50 gigatonnellate di emissioni di carbonio aggiuntive, secondo il rapporto. Un tale rilascio massiccio di carbonio nell’atmosfera renderebbe sempre più difficile limitare il riscaldamento globale a livelli relativamente sicuri. Possono essere emesse solo 275 gigatonnellate di carbonio in più da tutte le fonti, per mantenere il riscaldamento globale al di sotto del limite dei 2°C. I ghiacciai che scompaiono causeranno anche tremendi disagi sociali in regioni che dipendono da loro per l’acqua in estate, ha detto Frank Paul, un glaciologo dell’Università di Zurigo. Le aree aride come l’altipiano delle Ande e il bacino dell’Aksu-Tarim nell’Asia Centrale verrebbero colpiti in modo particolare, ha detto Paul. “In molte regioni, una risorsa d’acqua importante in estate scomparirà e ciò aumenterà il problema delle migrazioni anche di più di quanto lo sia adesso”, ha detto. “Senza l’acqua di fusione dei ghiacciai non sarebbero in grado di sfamare la popolazione. Conosciamo gli effetti quando le persone non hanno alcuna possibilità di coltivarsi il proprio raccolto”.

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Il tramonto del petrolio: edizione del 2015

Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR

Cari lettori,

nell’ultimo rapporto annuale della IEA, il World Energy Outlook (WEO), edizione del 2015 (rapporto che abbiamo già commentato per esteso in questo blog) abbiamo avuto la fortuna che la IEA ci lasciasse una tavola numerica sull’evoluzione della produzione di idrocarburi liquidi (quelli che, con un abuso semantico da anni viene chiamato “petrolio” o “tutti i liquidi del petrolio”) prevista per i prossimi 25 anni secondo il suo scenario centrale. E’ la tavola 3.5, che riproduco qui sotto:


Nei rapporti del 2012 e del 2014 la IEA ha dato ugualmente questi valori (be’, nel 2012 ha dato solo un grafico, il che mi ha obbligato a fare un lavoro da formichina per dedurre i numeri a partire da questo grafico). Ciò mi ha permesso di scrivere un post a testa su quale fosse, secondo la IEA, l’evoluzione prevedibile dell’energia lorda e di quella netta provenienti dal petrolio, utilizzando per questo certi parametri convenzionali per stimare il contenuto energetico di ogni categoria e i loro rispettivi EROEI (per ulteriori informazioni su questi parametri e la loro discussione, consultate il post “Il tramonto del petrolio”; nel post di quest’anno, per facilitare il confronto, tonerò ad usare quegli stessi parametri, nonostante siano possibili altre scelte più prudenti o più drastiche). I quei post offrivo anche una stima più realista di come evolverà l’energia netta proveniente dagli idrocarburi liquidi, una volta corretti i trucchi contabili più evidenti.

Quando ho pubblicato “Il tramonto del petrolio” nel 2012, questo ha causato una profonda impressione, visto che mostrava che, a suo modo, la IEA comunicava che c’erano problemi seri con il petrolio, anche se non si correggesse il trucco contabile più evidente. Con lo spirito di dare una certa tracciabilità alle previsioni della IEA, nel 2014 ho ripetuto l’analisi (nel 2013 non ho potuto, poiché non avevano presentato i dati) nel post “Il tramonto del petrolio: edizione del 2014”. Per questo stesso motivo, torno a ripetere l’analisi quest’anno. Non tornerò a discutere le ipotesi realizzate né la metodologia impiegata. Semplicemente, mostrerò i grafici risultanti nel punto più adatto del post e mi concentrerò nel confronto dei risultati di quest’anno con quelli dell’anno precedente.

Le categorie di produzione di idrocarburi liquidi che contemplo sono sei. Quattro di queste corrispondono al petrolio convenzionale, tre di greggio (“Giacimenti attualmente esistenti” – banda di colore nero – “Giacimenti da estrarre” – banda di colore azzurro celeste e “Giacimenti da scoprire” – banda di colore azzurro marino) ed una di “Liquidi del gas naturale” – banda porpora. Inoltre, includo altre due categorie non convenzionali: il petrolio leggero di roccia compatta (Light Tight Oil, LTO) – banda rossa – e il resto dei non convenzionali (di questi non suddivido, come fa la tavola 3.5, i petroli extra pesanti e il bitume) – banda gialla.

Ci sono due categorie in più nella tavola 3.5, non incluse esplicitamente sopra, che devono essere discusse.

La prima è quella che corrisponde al “Recupero migliorato di petrolio” (Enhanced Oil Recovery, EOR). La suddivisione della produzione dei petroli convenzionali che include la EOR come se fosse una categoria a parte è piuttosto artificiosa, poiché il declino terminale della produzione di petrolio greggio convenzionale si verifica a causa del rapido declino annuale dei giacimenti vecchi e ciò nonostante che sia proprio in questi giacimenti in cui si estrae in modo più massiccio la EOR. Per questa ragione, così come ho fatto nel 2014, nei calcoli che seguono assimilo i valori di EOR alla categoria di “Giacimenti attualmente in estrazione” o “Esistenti”.

L’altra categoria non esplicitata è quella corrispondente a “Guadagni di lavorazione”. Come abbiamo già spiegato nel primo post sul tramonto del petrolio, i cosiddetti “Guadagni di lavorazione” corrispondono agli incrementi di volume dei prodotti raffinati nelle raffinerie. L’idea è semplice: nella raffineria entra un barile di petrolio ma ne esce più di un barile di prodotti raffinati (benzina, gasolio, cherosene, catrame, ecc.). Anche se stessero contando questi “Guadagni di lavorazione” in termini energetici e non in volume (cosa dubbia, conoscendo la IEA), questi non corrispondono ad un guadagno netto di energia: il processo di raffinazione è un procedimento chimico-fisico e in esso, per forza di cose, si consuma energia, cosicché i prodotti risultanti contengono, per forza di cose, e per mera ragioni termodinamiche, meno energia di quella dei prodotti utilizzati in raffineria. I prodotti combustibili risultanti dalla raffinazione, a seconda del tipo di petrolio e dal processo utilizzato, possono effettivamente contenere più energia di quella del petrolio che è entrato in raffineria, ma questo è possibile soltanto perché nella raffineria non entra solo petrolio nel prodotto raffinato, ma anche grandi quantità di gas naturale, in parte per apportare calore e in parte per reagire chimicamente col petrolio, producendo nuove molecole più energetiche. Se si conta l’energia del petrolio e del gas naturale utilizzati si prova in modo banale che i prodotti risultanti contengono, per ogni barile di petrolio lavorato, meno energia di quella del petrolio e del gas naturale in entrata. Pertanto, contare i guadagni di lavorazione come un incremento dell’energia del petrolio è abbastanza falso, visto che l’incremento di energia dei prodotti raffinati lo sta apportando – e con una perdita considerevole – il gas naturale, il quale vien contato in una statistica a parte. Rimane notevole che nei rapporti annuali del 2013 e del 2014 la IEA abbia deciso di non includere questa categoria falsa dei “Guadagni di lavorazione” (anche se la tengono in conto nei rapporti mensili), assumendo che la sua inclusione aumenti una confusione interessata. Che nel 2015 recuperino questa categoria ci mostra quanto siano disperati nel dissimulare i problemi. In quello che segue, non mi prenderò il disturbo di conteggiare questa categoria senza senso.

Il grafico risultante della tavola 3.5 per l’evoluzione del volume di idrocarburi liquidi prodotti (esclusi i “Guadagni di lavorazione”) secondo la IEA è il seguente:

Evoluzione della produzione di idrocarburi liquidi in volume secondo il WEO 2015

La cosa che richiama l’attenzione di più di questo grafico rispetto a quello del 2014 (vedete più in basso) è che allora si stava ipotizzando che i “Giacimenti da estrarre” (la banda azzurro celeste) avrebbero vissuto una rapida ascesa nei prossimi anni e per questo nel grafico corrispondente al 2014 si vedeva un secondo picco di petrolio greggio (le tre bande inferiori sommate) nel 2015. Ora si sa già che non sarà così, ma che siamo al declino del petrolio greggio:

Evoluzione della produzione di idrocarburi liquidi in volume secondo il WEO 2014

Curiosamente, si finisce circa con lo stesso valore di petrolio di tutti i tipi prodotto nel 2030, grazie a piccola crescite mascherate nelle altre categorie (fatta eccezione per LTO).

Il grafico dell’energia lorda ci si presente in questo modo, quest’anno:

Evoluzione della produzione di idrocarburi liquidi in energia totale secondo il WEO 2015

da cui rispetto a quello del 2014 emerge solo la scomparsa della crescita rapida dei giacimenti da sviluppare:

Evoluzione della produzione di idrocarburi liquidi in energia totale secondo il WEO 2014

Gli scenari di energia netta seguono un corso prevedibile. Qui abbiamo quello del 2015:


Evoluzione della produzione di idrocarburi liquidi in energia netta secondo il WEO 2015

E qui quello del 2014:

Evoluzione della produzione di idrocarburi liquidi in energia netta secondo il WEO 2014

Infine, gli scenari di energia netta più realistici sono, nel 2015,


Evoluzione della produzione di idrocarburi liquidi in energia netta in uno scenario più realistico secondo il WEO 2015

Mentre nel 2014 era:

Evoluzione della produzione di idrocarburi liquidi in energia netta in uno scenario più realistico secondo il WEO 2014

Come vedete, molto simili fra loro, nonostante la differenza intorno al 2015, che converge praticamente allo steso valore di energia netta nel 2040 (di sicuro uno scenario per niente lusinghiero in cui l’energia netta del petrolio sarebbe decresciuta della metà nei prossimi 25 anni, anche se ci sono sempre scenari peggiori). Insomma, a prima vista e salvo anomalie nei giacimenti da sviluppare, le nostre conclusioni sono praticamente identiche a quelle del 2014.

Giustamente, la cosa interessante è esplorare queste piccole differenze fra i due scenari, visto che sono quelle che ci danno informazioni su quali variabili stanno adeguando di più nella IEA per tentare di mostrare che non ci sono problemi, poiché saranno proprio queste variabili quelle che ci indicano dove si trovano i problemi più gravi. In questo senso, risulta interessante confrontare la tavola 3.6 del WEO 2014, che riproduco di seguito, con la tavola 3.5 del WEO 2015 (che apre questo post):

La prima questione che richiama l’attenzione, dopo un po’ di analisi, è la modifica nei tassi di declino terminale nei “Giacimenti attualmente esistenti” da un anno all’altro. Si può stimare qual è il declino terminale “ufficiale” dei giacimenti in produzione a seconda di ogni WEO, semplicemente confrontando la produzione nel 2040 con la produzione nel 2020 (per i fanatici della matematica, la formula che utilizzo per determinare la percentuale annuale di declino della produzione, r, in funzione delle produzioni del 2020, P2020 e 2040, P2040, è  r=100.*[1-exp(log(P2040/P2020)/20)]. Il tasso di declino annuale risultante è sensibilmente diverso se si integra in queste cifre la EOR o meno; la tavola seguente riassume la situazione:

Come si vede, il declino terminale dei giacimenti esistenti nel 2015 è leggermente superiore nel WEO 2015. Per compensare una realtà sempre più scomoda, è stata aumentata la categoria della EOR e, se nel WEO 2014 si stimava che avrebbe raggiunto i 4,4 mb/g nel 2040, ora si crede che arriverà ai 5,8 mb/g nel 2040, cosa difficile da giustificare, visto che in un anno non si sono verificati progressi tecnologici che giustifichino un tale ottimismo. In realtà è piuttosto il contrario: ciò che si è osservato in questo ultimo anno è una diminuzione dello sforzo in esplorazione e sviluppo di nuovi giacimenti, frutto del disinvestimento che anticipavamo all’inizio del 2014, che era a sua volta conseguenza della cattiva situazione finanziaria del settore già di fronte alla caduta dei prezzi e che l’attuale situazione di prezzi bassi ha aggravato, nella misura in cui ci addentriamo nella spirale di distruzione della domanda – distruzione dell’offerta.

Il costante rimaneggiamento a cui la IEA sottopone la categoria del miglioramento del recupero, EOR, serve, come vedete, a camuffare un declino terminale dei giacimenti di petrolio esistenti sempre più evidente. Per cui, praticamente, la IEA sta arrotondando le cifre per far si che il declino terminale dei giacimenti esistenti (contando in essi la EOR) sia del 3,1% all’anno, quando la stessa IEA ha riconosciuto in diverse occasioni che è del 6% all’anno (nei grafici sugli scenari più realistici riportati sopra viene modificata la variazione annuale perché si adatti a questo 6%). E’ lo stesso affanno di camuffare il declino terminale dei giacimenti attualmente in produzione che ha causato il ritorno della famigerata categoria dei “Guadagni di lavorazione”.

Se avete visto la tavola 3.5 del WEO 2015, vedrete che ci forniscono i tassi di cambio, assoluti e annuali, di ogni categoria nella colonna di destra. Se avete guardato un po’ meglio, avrete visto che nonostante quanto sia fantasiosa l’evoluzione di alcune categorie di petrolio greggio convenzionale, se non fosse per il contributo dei liquidi del gas naturale, l’incremento del “petrolio convenzionale” sarebbe stato un decremento, una diminuzione. La IEA dipende in modo eccessivo dai liquidi del gas naturale per dissimulare il brutale crollo del petrolio greggio convenzionale e questo fa si che in questo WEO vengano incrementati di 1 mb/g in più nel 2040 rispetto a quanto pronosticato nel WEO 2014. Ma quasi il 90% di questi “Liquidi del gas naturale” sono butano e propano e anche se la loro introduzione nelle raffinerie allevia la domanda di petrolio per la produzione di plastiche (visto che il butano sostituisce la produzione di butilene e il propano quella del propilene), la cosa certa è che la produzione di plastiche è un significativo, anche se non maggioritario, 10% di tutto l’uso del petrolio greggio. I liquidi del gas naturale contengono anche una piccola percentuale di benzina naturale (prevalentemente pentani) che possono essere mescolati alla benzina convenzionale. E poco altro. Includere la produzione di liquidi del gas naturale come se fosse petrolio è chiaramente sproporzionato, visto che non tutto questo volume potrà essere sfruttato come sostituto del petrolio e non tutti i liquidi del gas naturale possono essere utilizzati negli stessi usi del petrolio.

L’ultima cosa che vorrei evidenziare dal confronto della produzione di petroli per tipologia nel WEO 2015 rispetto a quello del 2014 è la diversa evoluzione del LTO. Nel 2014 il miraggio del fracking abbagliava ancora con la sua luminosità e si scommetteva che nel momento del suo massimo splendore, il LTO avrebbe dato 6,6 mb/g. Nel 2015, con il naufragio del fracking sempre più evidente, la IEA riconosce che il LTO non supererà mai i 5,5 mb/g. In realtà, fanno ancora i timidi: in questo momento la produzione di LTO negli Stati Uniti, che è giunta ad essere di circa 4 mb/g nel marzo di quest’anno, sta già scendendo verso i 3,5 mb/a (in soli 9 mesi), con tonfi tanto sonori come quelli di Eagle Ford, di circa il 30% (alcuni degli “esperti” che pullulano nei media dovrebbero prenderne atto, se non vogliono passare per matti: per tutti questi esperti, con affetto e come sempre, la nostra guida).

Riassumendo: l’analisi dei dati della IEA sulla produzione di petrolio per tipologia ci mostra, coerentemente con gli ultimi rapporti annuali, una diminuzione dell’energia netta del petrolio che probabilmente sarà molto più pronunciata di quanto viene già anticipato dai dati grezzi della IEA, se si correggono semplicemente certi trucchi evidenti. Dall’altro lato, l’impegno della IEA per dissimulare il declino sempre, più acuto, della produzione di petrolio convenzionale, sta diventando molto complicato, visto che ogni volta restano meno categorie in cui rifugiarsi (per esempio, con il naufragio del LTO) e questo probabilmente è ciò che ha fatto recuperare l’infausta idea dei “guadagni di lavorazione”. Ad un certo punto dei prossimi anni, con un declino sempre più forte, in un ambiente di forte disinvestimento e di conflittualità crescente nei paesi produttori, la IEA si vedrà obbligata a riconoscere che la situazione è molto più dura di quanto non vogliano ammettere. Il problema è che allora sarà molto più difficile reagire adeguatamente, soprattutto vedendo l’attuale corso degli avvenimenti.

Saluti.
AMT

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Picco del petrolio: è quello vero?

Da “Cassandra’s Legacy”. Traduzione di MR

Art Berman riporta nel suo blog gli ultimi dati della IEA. Questi dati rivelano una grande quantità di informazioni su quanto è successo nei mercati petroliferi durante gli ultimi due anni circa. Tutta la cosa sembra essere finita fuori controllo, con tutti che pompano il più possibile, preoccupandosi solo di danneggiare i concorrenti e senza troppa preoccupazione circa il disastro generale causato dalla sovrapproduzione. L’eccesso ha stimolato la domanda, ma solo debolmente. Il risultato è stato il collasso del prezzo del petrolio, che osserviamo ancora oggi.

Ora sembra che il mercato stia lentamente riequilibrando lo squilibrio. La domanda sta crescendo e l’offerta sembra aver raggiunto il picco a luglio 2015. In pochi mesi, potremmo tornare ad una situazione in cui la domanda corrisponde all’offerta e a quel punto vedremo salire di nuovo i prezzi. Probabilmente vedremo la produzione scendere e l’intero sistema ritroverà un qualche tipo di equilibrio, almeno per un po’. Di certo l’elemento principale dell’adeguamento è il declino della produzione dagli scisti statunitensi (immagine da Ron Patterson).

Il picco di luglio è “il” picco di tutti i combustibili liquidi? Non possiamo ancora dirlo, ciò che possiamo dire è che il periodo di abbondanza di petrolio ha fatto un danno enorme all’industria. Forse stiamo iniziando proprio adesso il declino terminale dell’industria petrolifera mondiale. Ma dobbiamo ancora aspettare per esserne sicuri. Gli americani, pare, amano i cicli di espanmsione e contrazione e, se i prezzi salgono ancora, potrebbero voler mettere ancora soldi nell’industria dello scisto. La sola cosa sicura è che i combustibili fossili devono andarsene, prima o poi.

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Il collasso dalla produzione di petrolio di scisto

Da “srsroccoreport.com”. Traduzione di MR (via Maurizio Tron)

Non dobbiamo più aspettare il collasso del petrolio di scisto statunitense, è già iniziato. Sfortunatamente, è una cattiva notizia per il governo statunitense e per l’economia interna. Il crollo della produzione petrolifera interna metterà a dura prova il sistema finanziario fortemente basato sul debito nei prossimi anni.

Secondo il recente Rapporto sulla Produttività delle Trivellazioni della Energy Information Agency (EIA), la produzione di petrolio di scisto dei principali giacimenti è prevista in declino di 116.000 barili al giorno nel gennaio 2016. Anche se la produzione di petrolio di scisto complessiva statunitense è prevista in calo del 12% dal suo picco del marzo 2015, uno dei giacimenti più grandi in Texas è in calo di un esorbitante 30%:

Il Giacimento di Petrolio di Scisto di Eagle Ford in Texas ha raggiunto il picco a 1,7 milioni di barili al giorno (mb/g) nel marzo del 2015 ed è previsto in in discesa a 1,2 mb/g per il prossimo mese (gennaio 2016). Di nuovo, così dice il Rapporto sulla Produttività delle Trivellazioni della EIA che basa le sue cifre su stime. Tuttavia, si potrebbero verificare dei declini persino maggiori in alcuni di quei giacimenti, nel momento in cui escono i dati reali nei mesi seguenti.

Per Eagle Ford essere in calo del 30% (più di 500.000 barili al giorno) in meno di un anno… E’ UNA COSA GROSSA. Avevo avvertito dell’arrivo del collasso della produzione del petrolio di scisto statunitense da più di un anno, ormai. L’idea che gli Stati Uniti sarebbero diventati energeticamente indipendenti ora è MORTA DI SICURO.
Ecco il grafico che mostra la produzione dei 4 principali giacimenti statunitensi di petrolio di scisto:

La produzione totale statunitense di petrolio di scisto per gennaio 2016 è prevista essere di 4,67 mb/g, in calo dal picco di 5,3 mb/g del marzo 2015. Si tratta di un declino di 630.000 barili al giorno dal picco.

Ecco i dati dei singoli giacimenti di petrolio di scisto dal picco:

Eagle Ford = -510.000 barili al giorno
Bakken = -140.000 b/g
Niobrara = -142.000 b/g
Permian = +144.000 b/g

La produzione petrolifere del Permian è in aumento in confronto agli altri giacimenti di petrolio di scisto perché una grande percentuale del giacimento consiste in pozzi di petrolio convenzionale. Pertanto, le società nel Permiano stanno ancora aggiungendo pozzi convenzionali, che è il motivo per cui la produzione continua ad aumentare.

Ecco un grafico di Jean Laherrere sul picco e il declino della produzione petrolifera del Nord Dakota (Bakken):

Se la produzione di petrolio di scisto statunitense ha già visto un declino del 12% nella produzione complessiva, allora le previsioni per Bakken (il Nord Dakota mostrato sopra) molto probabilmente si avvereranno. Il che significa che la produzione complessiva di petrolio di scisto statunitense potrebbe crollare del 80-90% entro il 2025. Sarebbe davvero una brutta notizia per la Fed e per il Tesoro statunitense.

Il governo statunitense non sarà più in grado di comprare petrolio straniero con dollari o Buoni del Tesoro statunitensi. Se consideriamo il collasso della produzione petrolifera statunitense e il crollo delle importazioni petrolifere, l’economia statunitense sarà in un mondo di dolore entro il 2020… ed in cattive acque entro il 2025.

Questa è la stessa ragione per cui credo che l’oro e l’argento fisico siano i beni migliori da possedere in questo periodo. Perché? Perché il valore della maggior parte dei beni cartacei e fisici (come l’edilizia) collasserà insieme alla produzione petrolifera statunitense.

Per coloro che pensano che il solare e l’eolico ci salveranno… potete DIMENTICARLO. Presto pubblicherò un articolo sul perché solare ed eolico sono vicoli ciechi e non devono essere contati per fornire al mondo una grande percentuale di produzione energetica affidabile.

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LA SOVRAPPOPOLAZIONE È UN PROBLEMA ?

di Jacopo Simonetta

Articolo tratto da  “Overshoot n. 7”, Bollettino dell’Associazione Rientrodolce. 

Le parole hanno un significato e da come si usano si può capire come funziona la mente di chi parla o scrive.

Prendiamone una che oggi si incontra spessissimo: problema.

In pratica, quando una determinata situazione viene definita “un problema” s’intende dire che è una cosa più o meno spiacevole, magari anche pericolosa, ma che opportune azioni possono, almeno in teoria, ricondurre il tutto entro l’alveo della normalità (altro termine su cui ci sarebbe molto da dire).
Dunque è questo che intendiamo quando diciamo che la sovrappopolazione è un problema?  Se si, vuol dire che ci devono essere delle azioni atte a risolverlo, questo problema; altrimenti utilizzeremmo altri termini come, ad esempio, “catastrofe”.

Ma che vuol dire “catastrofe”? Comunemente, lo sappiamo, indica un evento improvviso, tale da provocare danni molto elevati, anche irreparabili.
In un contesto scientifico, indica più genericamente un cambiamento molto rapido e consistente nell’andamento di una funzione. Un modo molto asettico di indicare eventi che, spesso, hannoconseguenze devastanti, perlomeno alla scala dimensionale cui ci si sta riferendo.

Insomma, riferito alla realtà quotidiana di tutti noi, vogliono dire la stessa cosa, ma il significato scientifico ci interessa perché si porta dietro la spiegazione di come avviene la formazione di una catastrofe. Impariamo così che se gli effetti sono repentini, le cause, al contrario, si accumulano silenziosamente per un periodo anche molto lungo, senza che succeda praticamente niente.  Ed è proprio questa dilazione degli effetti rispetto alle cause che impedisce un tempestivo adattamento, provocando quindi effetti dirompenti.

Ad esempio, se, un poco per volta, si accumula un carico eccessivo su una trave di legno, un osservatore accorto avrà modo di vedere che pian piano si flette, vi compaiono fenditure caratteristiche e nel silenzio si udirà scricchiolare.  Ci sarà quindi il tempo per spostare i mobili. Viceversa, se si eccede nel caricare una trave di cemento armato, non si vedranno segni di sorta finché un giorno, all’improvviso, la trave cederà di schianto.  E se vi capita di sentire scricchiolare una trave di questo tipo, non pensate ai mobili, ma a scappare perché è già troppo tardi.

Considerando che i principali effetti della sovrappopolazione sono l’aumento della disoccupazione, l’incremento dei flussi migratori, lo sgretolamento delle strutture sociali, la distruzione di ecosistemi, la perdita di biomassa e di biodiversità, l’erosione dei suoli ed altri simili, non credo che ci sia molto bisogno di dilungarsi sul fatto che la trave stia scricchiolando molto forte e non da adesso.

Ma potremmo forse fare qualcosa per evitare il peggio che incombe?

In effetti, fin dagli anni ’60 del ‘900, quando la tendenza demografica è diventata evidente, c’è stato un fiorire di proposte, perlopiù concentrate sulla riduzione delle nascite, ma non hanno funzionato.  A livello globale, la curva demografica reale ha ricalcato quasi perfettamente quella prevista negli scenari “business as usual”.

In parte perché solo alcuni paesi hanno ridotto sufficientemente la natalità ed anche questi troppo lentamente. Ma soprattutto perché l’aumento vertiginoso della popolazione è dipeso prevalentemente dalla riduzione della mortalità, un fatto direttamente correlato con l’aumento delle produzioni agricole ed al miglioramento dei servizi sanitari più o meno in tutto il mondo.

Sicuramente le due conquiste della modernità più universalmente apprezzate. Ma conquiste direttamente dipendenti dal tipo di sviluppo economico che abbiamo avuto, poiché solo questo tipo e questo livello di crescita economica poteva mettere a disposizione le immani risorse necessarie ad un tale sviluppo della scienza e dell’industria medico-farmaceutica, così come per l’industrializzazione dell’agricoltura, lo sviluppo dei trasporti ecc.

Sappiamo per esperienza che crescita economica significa maggiori opportunità di guadagno, oltre che più beni e più servizi da acquistare. E’ intuitivo che ciò favorisca sia la natalità che la longevità; dunque la crescita demografica.   E’ invece molto meno evidente che, alle lunghe, proprio il perdurare della crescita demografica finisca con l’erodere l’economia. Eppure tutti sanno ( o dovrebbero sapere) che una famiglia deve scegliere se pagare l’università al figlio, acquistare una macchina nuova, andare in vacanza in un albergo di lusso o mettere al mondo un altro bambino. Semplicemente perché non ci sono risorse sufficienti per fare tutte queste cose contemporaneamente, a meno che non si guadagni di più.   Ma guadagnare di più significa per l’appunto crescita economica.

E, malgrado la frenesia di governi, banche, imprenditori ecc. la semplice verità è che i presupposti per la crescita economica non ci sono più. Al di la dei trucchi contabili, l’occidente è in recessione da quasi 20 anni oramai; ed il resto del mondo, alla spicciolata, ci segue.

Andamento di PIL, debito federale e borsa negli USA. I dati del PIL,
 corretto 
dalle manipolazioni contabili, sono tratti da John Williams,
”Shadow Government 
Statistics”)

In estrema sintesi, crescita demografica e crescita economica si rinforzano vicendevolmente, ma fra le due è la crescita economica che fa aggio sull’altra perché, se l’economia si contrae, la mortalità inevitabilmente sale,  mentre la natalità può sia aumentare che diminuire a seconda di molti fattori,
principalmente il livello d’autonomia decisionale delle donne in seno alla società.

Dunque: esiste una soluzione del problema? Secondo me, dipende da cosa chiamiamo “soluzione”. Se intendiamo dire che esiste un modo per riportare l’umanità in equilibrio con le superstiti risorse del pianeta in maniera non traumatica, direi certamente: NO.

Qualunque intervento anche solo teoricamente adottabile dalle pubbliche autorità non sortirebbe effetti sensibili prima di alcuni decenni, mentre gli effetti della contrazione economica si stanno già facendo sentire in alcuni paesi e, con ogni probabilità, cominceranno a farsi sentire su scala globale nel giro di 10-20 anni da adesso.   Dunque molto prima ed in modo, purtroppo, molto più rapido.

Insomma, per una volta è vero il detto “il problema è la soluzione”, ma ciò non significa che siamo eticamente autorizzati a stare a guardare la fine della nostra civiltà con le mani in mano, magari sogghignando “io l’avevo detto”.  Al contrario, è proprio quando la barca affonda che bisogna darsi maggiormente da fare.

Per cominciare, ridurre la natalità non sarà certamente sufficiente a riportare la situazione entro i limiti di sostenibilità, ma può fare moltissimo per ridurre il carico di sofferenza collettiva nel prossimo futuro.   Soprattutto, può dare un contributo cruciale nel flettere la curva della popolazione abbastanza in fretta da permettere agli ecosistemi di recuperare abbastanza da poter assicurare una vita decente ai discendenti dei superstiti.

Del pari, studiare ogni possibile modo per ridurre i propri impatti personali e collettivi sul pianeta, ben lungi dall’essere inutile, aiuterà a guadagnare tempo, lenire almeno un poco le situazioni più disperate e, soprattutto, elaborare i presupposti per la nascita di una civiltà futura molto diversa da quella attuale.

Per non parlare dell’urgenza di elaborare e sperimentare forme di aggregazione sociale e forme di economia di sussistenza preadattati, entro i limiti del possibile, alle condizioni socio-economiche e politiche probabili nel futuro a medio termine.

Un altro campo d’azione sterminato è occuparsi di trasmettere ai posteri almeno una parte dell’immenso patrimonio d’arte e scienza che abbiamo generato e accumulato attraverso secoli. E’ estremamente improbabile che le civiltà del futuro abbiano a disposizione i mezzi che abbiamo avuto noi, semplicemente perché le risorse necessarie non esistono più. Ma proprio per questo dovremmo preoccuparci, forse ancor più che di qualunque altra cosa, di proteggere questo nostro straordinario prezioso patrimonio dalla distruzione dei decenni venturi. Abbiamo ben visto di quali danni siano capaci gruppi di fanatici: quali saranno le conseguenze degli inevitabili e drastici tagli ai bilanci di università, musei, biblioteche, eccetera?

Infine, non dobbiamo dimenticare mai che se poco può essere fatto per lenire la durezza dei tempi a venire, moltissimo possiamo invece fare per rendere tali tempi molto, ma molto peggiori.  Il dilagare di nazionalismi e fanatismi di ogni sorta, il diffondersi di pensieri del tipo “ci vorrebbe un uomo forte” o “si stava meglio quando si stava peggio” e simili, sono tutti dei “dejà vu” in altre epoche di profonda crisi, che dovrebbero metterci all’erta.

Mantenersi impermeabili a questi richiami e cercare di contrastarli dovrebbe essere una delle occupazioni quotidiane di chi desidera dare il suo piccolo contributo ad una decrescita che, se non sarà felice, si può sperare che sia almeno “passabile”.  Evitando di farne l’incubo che, apparentemente, sempre più persone stanno cercando di materializzare.   Perlopiù per lo spasmodico desiderio di evitare l’inevitabile, quasi che fosse possibile riportare indietro l’orologio delle storia ad epoche in cui, è vero, si viveva meglio di oggi.   Ma è proprio in quelle epoche che abbiamo stoltamente sovraccaricato le strutture vitali del pianeta. Tornare indietro non servirebbe quindi a nulla; meno male che non è possibile.

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Il collasso della società mediterranea nell’Età del Bronzo: perché continuiamo a non capire le ragioni del collasso della civiltà

Da “Resource Crisis”. Con considerazioni introduttive e a seguito di Bodhi Paul Chefurka dalla sua pagina FB. Traduzione di MR

Il mondo è stato preda di una “catastrofe da uso eccessivo da parte degli umani” negli ultimi 65 anni, sin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. La situazione è stata compresa chiaramente circa dal 1970, negli ultimi 45 anni. In quel periodo abbiamo visto l’erosione dei sistemi naturali nel mondo a tassi accelerati. Ora, è vero che non capiamo pienamente il collasso sociale, come evidenzia il professor Ugo Bardi in questa sua recensione:

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Il collasso della società mediterranea nell’Età del Bronzo: perché continuiamo a non capire il collasso della civiltà


Eric Cline ha scritto un libro eccellente sulla fine dell’Età del Bronzo nell’area mediterranea ma, sfortunatamente, non arriva ad una conclusione definita circa le ragioni del collasso. Cline suggerisce che “diversi fattori di stress” hanno lavorato insieme per assicurare la fine di questa civiltà. Ma questo è davvero deludente, a dir poco. E’ come un giallo in cui, alla fine, ci viene detto che il killer della Signora in Rosso avrebbe potuto essere il professor Plum, la signora Peacock, la signora White, il reverendo Green o il colonnello Mustard ma, realmente, sembra che l’abbiano accoltellata tutti insieme, simultaneamente. 

Immaginate una squadra di archeologi che vivono fra tremila anni. Lavorano agli scavi delle vestigia di un’antica civiltà della costa orientale del Mar Mediterraneo, una regione i cui antichi abitanti chiamavano “Siria”. Gli archeologi scoprono prove chiare che la civiltà siriana è collassata in corrispondenza di una serie di disastri: una grave siccità, una guerra civile, la distruzione delle città da parte di incendi, invasori stranieri, una riduzione della popolazione ed altro. Le prove di questo evento sono chiare, ma ma cosa le ha causate esattamente? I nostri futuri archeologi sono sconcertati, sospettano che ci sia una singola ragione per questa coalescenza di disastri, ma non riescono a trovare prove di quale possa essere stata. Uno di loro propone che potrebbe aver avuto a che fare col fatto che gli antichi siriani stavano estraendo qualcosa del sottosuolo e lo usavano come fonte di energia. Ma, senza dati affidabili sulle tendenze di produzione, non sono in grado di provare che l’esaurimento del petrolio è stata la causa fondamentale del collasso siriano.


Qualcosa di simile sta avvenendo oggi agli archeologi che cercano di capire le ragioni del collasso della civiltà del mediterraneo della fine del secondo millennio AC, la fine dell’Età del Bronzo. Abbiamo prove archeologiche di una civiltà brillante e prosperosa: palazzi, opere d’arte, commercio, metallurgia ed altro. Ma abbiamo anche prove che questa civiltà ha avuto una fine violenta: ci sono tracce di incendi che hanno distrutto palazzi e città, ci sono prove di siccità e carestie ed alcune popolazioni che vivono nella regione, gli Ittiti per esempio, sono scomparsi per sempre dalla storia. Ma cosa ha causato il collasso? E’ una domanda molto difficile.

Il libro di Cline è una buona prova di quanto sia difficile capire questo fenomeno. Un capitolo intero, l’ultimo, è dedicato ad esplorare le ragioni del collasso, ma non arriva a nessuna conclusione definitiva. Come avviene quasi sempre quando si discute di collasso sociale, vediamo diverse ragioni proposte che si ammucchiano: alcuni esperti preferiscono le cause esterne: invasioni, siccità, terremoto, vulcani o cose simili. Altri perseguono le cause interne: ribellioni, declino istituzionale, lotte politiche ed altro. E alcuni, compreso lo stesso Cline, preferiscono una combinazione di cause diverse. Cline scrive:

“Probabilmente non c’è stata una sola forza o innesco, piuttosto un numerosi e diversi fattori di stress, ognuno dei quali ha spinto le persone a reagire in modi diversi per adattarsi alla situazione mutevole (o situazioni)… una serie di fattori di stress piuttosto che uno singolo è pertanto una cosa vantaggiosa nello spiegare il collasso alla fine della Tarda Età del Bronzo”.

Esaminando questo problema, un punto fondamentale è che le società sono sistemi complessi e devono essere capite come tali. Sfortunatamente, la conoscenza dei sistemi complessi non ha ancora permeato lo studio del collasso sociale, come è ampiamente dimostrato dalla discussione dell’ultimo capitolo del libro di Cline. Diversi autori hanno apparentemente cercato di spiegare il collasso dell’Età del Bronzo in termini di quella che chiamano “teoria della complessità”. Ma ho paura che non abbiano capito molto bene la teoria. Solo come esempio, nel libro leggiamo una frase presa dal lavoro di Ken Dark che recita “Più un sistema è complesso, più è soggetto al collasso”. Ora, questo è semplicemente sbagliato se viene applicato alle organizzazioni umane come sistemi complessi, come aziende o civiltà. E non c’è bisogno di essere degli esperti in sistemi complessi per notare che i sistemi molto grandi e complessi tendono ad essere più resilienti di quelli piccoli. Confrontante, per esempio, la IBM col grande numero di società di nuova formazione nelle in tecnologie dell’informazione che appaiono e rapidamente scompaiono. Quindi non si può semplicemente invocare la “complessità” come feticcio per spiegare tutto, come osserva correttamente Cline nel libro.

Molta della confusione in quest’area è emersa dalla variabilità della definizione di “sistema complesso.” Non c’è solo un tipo di sistema complesso, che ne sono diversi (ed è una cosa che ci si aspetta visto che sono, di fatto, complessi!). Un tipo di sistema complesso che ha avuto molto successo nell’immaginario popolare è la “pila di sabbia” proposta da Bak, Tang e Wissental, un modello che mostra una serie di collassi piccoli e grandi. Il problema è che il modello della pila di sabbia è valido per alcuni sistemi ma non per altri. Funziona bene per quei sistemi che hanno soltanto interazioni semplici e a breve termine: il sistema finanziario, per esempio. Ma non funziona affatto per i sistemi che basano la loro complessità su retroazioni stabilizzanti: le civiltà, per esempio. La differenza dovrebbe essere chiara: il sistema finanziario non è mai stato costruito con l’idea che debba essere stabile. Per una civiltà o una grande azienda è vero il contrario, entrambe hanno un sacco di retroazioni progettate per mantenerle stabili o, se preferite, “resilienti”. Le grandi organizzazioni spesso sono più resilienti di quelle piccole semplicemente perché possono permettersi più retroazioni di stabilizzazione.

Cosa può abbattere un sistema complesso stabilizzato con delle retroazioni, quindi? La risposta è “una forzante che sia sufficientemente forte”. Il termine “forzante” viene usato nello studio della dinamica dei sistemi ed ha lo stesso significato del “fattore di stress” impiegato da Cline nella sua discussione. Una forzante è un fattore esterno che altera il sistema e lo costringe ad adattarsi cambiando alcuni dei propri parametri. Se la forzante è davvero forte, l’adattamento può assumere la forma di una rapida e disastrosa riduzione di complessità. E’ ciò che chiamiamo “collasso”. Così, comincia ad apparire chiaro che le civiltà tendono a collassare perché perdono l’accesso alle risorse che le hanno create ed hanno loro permesso di esistere, spesso in conseguenza di uno sfruttamento eccessivo. Più e più volte, le civiltà sono state abbattute dall’erosione del suolo e dalla perdita di produttività agricola. Poi, alcune civiltà sono collassate a causa dell’esaurimento delle risorse minerali che le hanno create, un esempio è il collasso del moderno Stato siriano e stavo descrivendo all’inizio del post. Un altro esempio è il collasso dell’Impero Romano. Questi ha mostrato molti sintomi che potremmo chiamare “fattori di stress”: ribellioni, corruzione, guerre, invasioni, spopolamento ed altro. Ma tutti avevano origine da una causa principale: l’esaurimento delle miniere d’oro della Spagna che hanno privato il governo imperiale del suo sistema di controllo fondamentale: le monete d’oro e argento.

A questo punto, possiamo concludere che, molto probabilmente, non c’è mai stata una combinazione di fattori di stress paralleli che hanno abbattuto la Civiltà dell’Età del Bronzo. Piuttosto, c’è stato qualche fattore fondamentale che ha generato le varie catastrofi che osserviamo oggi attraverso i ritrovamenti archeologici. Il problema è che non sappiamo quale sia stata questa forzante. Ci sono elementi che mostrano che il cambiamento climatico ha giocato un ruolo, ma ci mancano prove sufficienti per essere sicuri che quella sia stata “la” causa del collasso. Così, forse è stato l’esaurimento dei minerali che ha abbattuto questa civiltà? Forse, e possiamo osservare come il termine che definisce questa età è “bronzo”, e per avere bronzo bisogna legare rame e stagno. E sappiamo che c’era tanto rame disponibile nelle miniere dell’area mediterranea, ma niente stagno, questo doveva essere trasportato attraverso vie di rifornimento lunghe e probabilmente precarie dalle regioni che oggi chiamiamo Serbia, o forse dal Caucaso. Se i popoli dell’Età del Bronzo usavano il bronzo come moneta, la loro rete commerciale sarebbe stata malamente sconvolta da qualsiasi interruzione delle fornitura di stagno. Per cui potrebbe essere stata distrutta dall’equivalente di una crisi finanziaria.

Anche se non possiamo giungere ad una conclusione definitiva, la storia della civiltà dell’Età del Bronzo è parte della fascinazione che sentiamo per il tema del collasso della civiltà. E’ una fascinazione che deriva dal fatto che potremmo vedere la nostra civiltà “occidentale” iniziare proprio ora la sua fase finale di collasso, dopo avere gravemente esaurito le sue fonti di energia e generato la disastrosa disgregazione dell’ecosistema che chiamiamo “cambiamento climatico”. Nel nostro caso, a differenza delle civiltà di molto tempo fa, abbiamo tutti i dati di cui abbiamo bisogno per capire cosa sta succedendo. Ma non capiamo ancora il collasso.

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Commenti di Paul Chefurka

Naturalmente ci sono tante di prove delle cause dei collassi del passato. Non solo la civiltà mediterranea dell’Età del Bronzo e l’Impero Romano, ma tante altre, piccole e grandi:

  • L’Antico Egitto (siccità estese)
  • La civiltà della Valle dell’Indo (possibile cambiamento climatico, possibili cambiamenti tettonici al corso del fiume)
  • La Groenlandia Norvegese (cambiamento climatico, danno ambientale, perdita di partner commerciali, riluttanza irrazionale a mangiare pesce, vicini ostili e grande indisponibilità ad adattarsi di fronte al collasso sociale)
  • Isola di Pasqua (una società che ha collassato per intero a causa del danno ambientale)
  • I polinesiani dell’Isola di Pitcairn (danno ambientale e perdita di partner commerciali)
  • Gli Anasazi del Nord America sudoccidentale (danno ambientale e cambiamento climatico)
  • I Maya dell’America Centrale (danno ambientale, cambiamento climatico e vicini ostili)

Jared Diamond elenca 12 problemi ambientali che l’umanità di oggi ha di fronte. I primi otto hanno contribuito storicamente al collasso di società passate:

1. Deforestazione e distruzione dell’habitat
2. Problemi legati al suolo (erosione, salinizzazione e perdite di fertilità)
3. Problemi di gestione dell’acqua
4. Eccesso di caccia
5. Eccesso di pesca
6. Effetti di specie introdotte sulle specie native
7. Sovrappopolazione
8. Aumento dell’impatto pro capite delle persone

Inoltre, Diamond dice che quattro nuovi fattori potrebbero contribuire all’indebolimento e al collasso delle società presenti e future:

9. Cambiamento climatico antropogenico
10. Accumulo di tossine nell’ambiente
11. Carenze energetiche
12. Uso totale della capacità fotosintetica della Terra da parte degli esseri umani

Il problema di base in tutti tranne uno dei fattori di Diamond che portano al collasso è la  sovrappopolazione relativa alla capacità di carico praticabile dell’ambiente (in contrapposizione all’ideale teorico). Il solo fattore non collegato alla sovrappopolazione è l’effetto dannoso dell’introduzione accidentale o intenzionale di una specie non nativa in una regione.

Diamond dichiara anche che “sarebbe assurdo affermare che il danno ambientale dev’essere un grande fattore in tutti i collassi: il collasso dell’Unione Sovietica è un moderno contro-esempio e la distruzione di Cartagine da parte di Roma nel 146 AC è uno antico. Ovviamente è vero che fattori militari o economici di per sé possano essere sufficienti”.

Ecco qua un elenco (molto parziale) di cosa è successo di recente:

► Il 99% dei rinoceronti sono spariti dal 1914.
► Il 97% delle tigri sono sperite dal 1914.
► Il 90% dei leoni spariti dal 1993.
► Il 90% delle tartarughe marine andate dal 1980.
► Il 90% delle farfalle Monarca andate dal 1995.
► Il 90% dei grandi pesci dell’oceano andati dal 1950.
► L’80% del krill antartico andato dal 1975.
► L’80% dei gorilla occidentali andati dal 1955.
► Il 60% degli elefanti delle foreste andati dal 1970.
► Il 50% della grande barriera corallina andato dal 1985.
► Il 50% del numero degli spermatozoi umani andati dal 1950.
► Il 50% delle specie di uccelli delle foreste se ne saranno andati.
► Il 40% delle giraffe andate dal 2000.
► Il 40% del fitoplancton oceanico andato dal 1950.
► Il plancton oceanico declina del 1% all’anno, cioè il 50% sparito in 70 anni, più del 1% e’ probabile.
► L’acidificazione dell’oceano raddoppia entro il 2050, triplica entro il 2100.
► Il 30% degli uccelli marini andati dal 1995.
► Il 70% degli uccelli marini andati dal 1950.
► Il 28% degli animali terrestri andati dal 1970.
► Il 28% di tutti gli animali marini andati dal 1970.
► 10,000 anni fa gli esseri umani e il bestiame erano un mero 0,01% della biomassa vertebrata di terra ed aria.
► Gli esseri umani e il bestiame ora sono il 97% della biomassa vertebrata di terra ed aria.
► I nostri terreni di coltura e pascolo hanno causato l’80% delle estinzioni di tutte le specie vertebrate di terra.
► 1,000,000 di esseri umani, netti, vengono aggiunti alla terra ogni 4 giorni e mezzo.
► Dobbiamo produrre più cibo nei prossimi 50 anni di quanto ne abbiamo prodotto negli ultimi 10.000 messi insieme.
► Ci servono 6 milioni di ettari di nuovo terreno agricolo ogni anno per i prossimi 30 anni per fare questo.
► Perdiamo 12 milioni di ettari di terreno agricolo ogni anno a causa di tassi di degrado del suolo, esaurimento e perdita.
► All’umanità rimangono solo 60 anni di agricoltura con gli attuali tassi di degrado mondiale del suolo.
► Abbiamo già superato il picco mondiale dei tassi di crescita della produzione di grano, soia, mais, legno e pesce nel 2006.
► IMPORTANTE: Tutte le strategie di mitigazione, sequestro ed adattamento del IPCC ipotizzano che sia disponibile p-i-ù terreno agricolo.
► In 10 anni, 4 miliardi di persone saranno a corto di acqua potabile, 2 miliardi saranno gravemente a corto di acqua potabile.
► Un miliardo di esseri umani ora camminano per un miglio ogni giorno per l’acqua potabile.
► Esseri umani e bestiame mangiano il 40% della produzione annuale di clorofilla terrestre.
► Stiamo finendo i fosfati convenienti ed accessibili.

Quindi ricapitoliamo.

  • Sappiamo che le civiltà possono collassare, perché ne abbiamo le prove storiche.
  • Sappiamo che la maggior parte di quei collassi hanno avuto come causa prossima la sovrappopolazione umana e l’eccesso di attività relativa alla capacità dei loro ambienti di affrontare le conseguenze. 
  • Sappiamo che una situazione simile si è sviluppata su una scala globale dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. 
  • Abbiamo creato la civiltà più grande, complessa, interconnessa, stabilizzata da retroazioni della storia del mondo, di diversi ordini di grandezza. 
  • Tuttavia, nel processo, abbiamo creato fattori di stress potenti quanto i meccanismi di retroazione che gli resistono.
  • Sappiamo che i campanelli d’allarme suonano dal 1970, eppure è stato fatto poco per liberare dallo stress i sistemi planetari dai quali dipendiamo. 


Date tutte queste prove che ora sono visibili nello specchietto retrovisore – nessuna delle quali è molto difficile da trovare, capire o connettere – mi attengo alla mia diagnosi di deficit cognitivi necessari per ignorare, negare o minimizzare gli eventi e le loro probabili conseguenze. Quei difetti cognitivi comprendono una catena strettamente legata di negazionismo, dissonanza cognitiva e ragionamento motivato.

Questa catena di disfunzioni sottende il pensiero di tutto il partito repubblicano americano, gran parte dell’industria dei combustibili fossili e, francamente, molti dei cosiddetti ambientalisti sulla scena pubblica. I fatti sono così schiaccianti, le conseguenze così brutali e le azioni necessarie per evitare la peggiore delle conseguenze così impensabili, che una tale ritirata dalla ragione è del tutto incomprensibile.

Tuttavia, anche se fosse comprensibile, una tale ritirata dalla ragione è ugualmente un monumentale atto di codardia intellettuale e morale.

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