Effetto Cassandra

Laudato si, un commento tardivo.

di Jacopo Simonetta

L’enciclica “Laudato sì” ha sollevato notevole interesse ed una ridda di commenti pro e contro.    Io penso di accodarmi tardivamente per due motivi.    Il primo che la lettura ha richiesto tempo e fatica, malgrado abbia studiato solo il riassunto ufficiale in sole 63 pagine.  Diciamo che il testo non è propriamente scorrevole.   Il secondo motivo è che mi ci vuole tempo per riflettere.

Un primo punto che credo non sia stato sufficientemente considerato da molti commentatori è che le encicliche sono testi complessi che devono assolvere a numerose funzioni contemporaneamente.  Sono documenti politici funzionali sia alla politica internazionale del Vaticano, sia alla sua politica interna.   Ma sono anche documenti destinati ai sacerdoti di ogni ordine e grado per indirizzarne l’azione pastorale.    Infine sono destinati ai fedeli con il duplice scopo di  indirizzarne l’azione e la spiritualità, ma anche con quello di aggiornare via via le posizioni della Chiesa al divenire del mondo e della cultura.

Relativamente alla politica internazionale, penso che  lo scopo principale dell’enciclica fosse quello di influenzare i lavori della COP 21, creando delle difficoltà a quelli che hanno fatto naufragare le 20 conferenze precedenti: americani e cinesi in primis.

Relativamente  alla politica interna, secondo me, l’enciclica va invece  vista nel quadro assai complesso dello scontro in seno alla Chiesa fra un ala più conservatrice ed una più “terzomondista”.    Soprattutto, mi pare evidente un tentativo di mediazione fra la tradizione della curia romana ed il movimento “Teologia della Liberazione”   profondamente radicato in gran parte dell’unico continente compattamente cattolico e diffuso fra i Gesuiti sudamericani.

Per quanto attiene, invece alla funzione pastorale del documento, direi che contiene esattamente quel che poteva contenere.   Richiama ad una maggiore attenzione e cura verso il creato, ribadendo il ruolo unico e sovrano dell’uomo, unico fra le creature ad avere un’anima partecipe della natura divina.    Anzi, è proprio da questo primato dell’uomo che deriva la sua responsabilità di accorto gestore della creazione.

Questa parte del documento richiama la necessità di un dialogo costruttivo fra tutte le religioni, ma contemporaneamente stigmatizza ogni possibile deriva animista, panteista o comunque paganeggiante nel rapporto fra uomo e  creato.   Non per nulla, Terra è scritto con la maiuscola una sola volta, all’inizio, nella citazione del Cantico delle Creature da cui l’enciclica trae il nome.    In tutto i resto del documento è scritta con la minuscola malgrado si tratti del nome proprio del nostro Pianeta e non penso che sia per sbadataggine.

Insomma si raccomanda un rapporto mistico con la natura (con la minuscola) in quanto opera e dono di Dio, ma facendo bene attenzione e non confonderla con la Natura (con la maiuscola)!  Il dialogo interreligioso va bene, ma ci sono evidentemente dei limiti.

Parimenti sarebbe stato sorprendente se il testo non avesse colto l’occasione per ribadire una serie di punti chiave per la chiesa: dall’aborto al matrimonio omosessuale e numerosi altri punti particolarmente importanti per chi scrive.  Primo fra tutti il fatto che, come specificato al punto 50 e ribadito più volte altrove, la sovrappopolazione è solo una fantasia malata di alcuni.   Il numero di umani sul pianeta, si afferma, non ha niente a che fare con la crisi ecologica a livello globale.   Viceversa, si spiega, la sovrappopolazione esiste eccome a livello di singoli paesi, in particolare asiatici ed africani, ma non è questa una responsabilità loro, bensì dell’umanità intera.    Un punto di importanza politica fondamentale perché serve a sostenere che la migrazione di massa da un paese e da un continente all’altro è un diritto umano che deve essere garantito.

Si può essere d’accordo o meno con tutto questo, ma non si può certo pretendere che il capo spirituale dei cattolici scriva qualcosa rinnegando 2.000 anni di dottrina.   Tanto per cominciare, perché è lecito presumere che il Papa sia sinceramente cattolico.

Sul piano ecologico, il testo mostra un indubbio pregio, rappresentato dal ripetuto richiamo non solo al clima, ma anche all’importanza fondamentale della biodiversità e della sua conservazione.   A parer mio i termini sono ancora deboli, in rapporto a quanto sta accadendo, ma sono comunque più forti di quelli che si trovano nella maggioranza dei documenti politici.

In generale, vengono affermate cose perfettamente in linea con le conoscenze scientifiche e si fanno raccomandazioni di grandissimo buon senso.    Ma ci sono due aspetti strutturali all’intero documento che lo rendono profondamente incoerente.

Il primo è già stato citato ed ampiamente commentato da altri: la pretesa assenza di una componente demografica nella crisi globale.  

I secondo è l’asse portante dell’intero documento e viene ribadito in quasi tutti i 246 punti in cui è articolato. Cioè, il fatto che chi abusa della natura (minuscola) abusa contestualmente dei poveri e viceversa.     Insomma si stabilisce un’identità assoluta fra gli interessi degli ecosistemi e quelli dei poveri.   Per l’appunto in linea con le posizioni di buona parte del clero sudamericano, anche quando non aderisce del tutto alla “Teologia della Liberazione”.    Ne consegue che i ricchi ed i potenti hanno la responsabilità di garantire contemporaneamente lo sviluppo economico dei poveri e la conservazione del Pianeta.    Due cose che, si sostiene,  non solo sono compatibili, ma addirittura sono sinergiche, essendo lo sviluppo dei popoli il miglior sistema per garantire la conservazione della Biosfera.

Una posizione che forse è sincera da parte del Papa, ma che contrasta diametralmente con quanto oggi sappiamo del nostro Pianeta.    Il miglioramento delle condizioni di vita delle persone è infatti la principale forzante che spinge sia l’incremento della popolazione, sia quello dei consumi pro-capite.   A molti questa cosa darà fastidio, ma la formula empirica

Impatto = (Popolazione x PIL/capita x tecnologia)

pur essendo molto indicativa, è concettualmente corretta.    

Se ne deduce che, teoricamente, un aumento del numero e del tenore di vita dei poveri potrebbe  essere compensato da una drastica riduzione nei consumi dei ricchi.   Ma come si era reso conto Malthus già due secoli or sono, ciò sarebbe utile esclusivamente a condizione che la popolazione si stabilizzasse (ai suoi tempi, oggi dovrebbe necessariamente diminuire).    Con numeri dell’ordine di quelli attuali, probabilmente c’è  la possibilità di nutrire tutti, ma certamente non quella di, contemporaneamente, salvaguardare il clima e la biodiversità.

 In altre parole, l’attuale smisurata iniquità distributiva, che non ha alcun precedente storico, è effettivamente una calamità, oltre che un assurdo.    Ma l’equità distributiva si dovrebbe cercare non nel diritto dei poveri ad avere una vita migliore, bensì nel dovere dei ricchi ad averne una molto peggiore.    E non è questo che viene detto in un testo che raccomanda la parsimonia, ma in cui la parola “sviluppo” ricorre quasi due volte per pagina.

Tutto questo, devo dire era sostanzialmente quello che pensavo di trovare e che ho trovato nel documento.    Più interessante a mio avviso è quello che non c’è.  In un recentissimo libro, “Insostenibile”  di Igor Giussani,  l’autore centra un aspetto fondamentale del fallimento del movimento ambientalista nel suo insieme.   Il fatto cioè di non essere stato capace di costruire una narrativa alternativa abbastanza potente da competere con la popolarità della mitologia progressista, concrezionata nell’inconscio dell’umanità intera da decenni, quando non da secoli, di propaganda.

In assenza di una mitologia alternativa altrettanto potente, come pretendere che le persone accettino di buon grado i sacrifici necessari per salvare i propri discendenti ed il Pianeta?    E chi meglio di uno dei principali capi spirituali del mondo avrebbe potuto colmare questa lacuna?    Tanto più che, in questo, il Pontefice avrebbe avuto un vantaggio considerevole.   Che io sappia, il cuore della mistica cristiana è infatti il tema del peccato e della redenzione.   Questo sarebbe il principale insegnamento di Cristo che, secondo la Chiesa, ha immolato sé stesso sulla Croce per riuscire a farcelo capire.   Ma di tutto ciò nell’enciclica non c’è la benché minima traccia.

Eppure sappiamo bene che passeremo i prossimi cento anni a pagare gli errori che abbiamo commesso nei due secoli precedenti.   Ed in buona misura è proprio il rifiuto di questa semplice verità che impedisce ai governi ed alle persone di pensare in termini costruttivi.   Non possiamo trovare niente di utile finché continueremo a cercare una cosa impossibile, cioè un modo per salvare uno stile di vita agiato (chi lo ha) o di conquistarlo (chi non lo ha).   Dove per agiato si intende mangiare a sazietà tutti i giorni ed avere un tetto sicuro sulla testa.    Certo a qualcuno capiterà, forse a molti, ma non a tutti.    La Natura (maiuscola) non fa sconti a nessuno ed i debiti aperti con la Biosfera saranno necessariamente pagati con gli interessi.

Ora, cosa di meglio della mistica del peccato, della penitenza e della redenzione potrebbe aiutare i cristiani ad accettare questa realtà?    Un passaggio fondamentale, credo, perché consentirebbe alle persone di cambiare punto di vista, farsi una ragione delle proprie calamità ed elaborare risposte costruttive, entro i limiti del possibile.   Ma soprattutto potrebbe aiutare chi viene travolto dagli eventi a non essere travolto anche dalla Disperazione e dall’Ira (maiuscole, sono due dei 7 Peccati Capitali!)

Certo, qualcuno griderà all’ “Oppio dei popoli”, ma se così anche fosse, chi soffre davvero non disprezza gli analgesici.

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400 anni di esplosione demografica

Da “The Conversation”. Traduzione di MR (via Population Matters)

Di James Cridland

Per quasi tutti i 200.000 anni di storia della nostra specie, la relazione dell’uomo con la Terra non è stata diversa da quella di qualsiasi altro animale. Tutta la loro energia veniva fornita direttamente dal Sole. La luce del Sole catturata dalle piante usando la fotosintesi veniva convertita in cibo e combustibile. Mangiavano radici, frutti e cereali (ed animali che mangiavano a loro volta radici, frutti e cereali) per fornire ai loro corpi energia. Bruciavano legna per tenersi al caldo e grasso per far luce di notte.

Era una strategia di successo per la sopravvivenza e in decine di migliaia di anni la popolazione umana si è diffusa su sei continenti. Tuttavia, parte di questo ciclo solare naturale, c’era un limite al numero di persone che il loro stile di vita poteva sostenere e il numero totale di abitanti fluttuava al di sotto dei 500 milioni e dipendeva da malattie, guerre e fornitura di cibo.

Poi, 350 anni fa, tutto è cambiato. Abbiamo iniziato a integrare il nostro fabbisogno energetico con carbone e petrolio (gli esseri umani hanno usato il carbone dalla preistoria, ma non su larga scala). Si trattava ancora di energia proveniente dai raggi del Sole, ma in questo caso raggi vecchi di milioni di anni. In meno di due secoli la popolazione umana è esplosa, raddoppiando in dimensione fino ad 1 miliardo di persone. Da allora ha continuato a crescere, ma il tasso di cambiamento è aumentato significativamente. Ci sono voluti 100.000 anni per raggiungere il primo miliardo di persone. Oggi stiamo aggiungendo un miliardo ulteriore ogni 12 anni. Il risultato è un enorme pressione su tutte le risorse naturali. Negli ultimi due decenni assisteremo ad aumenti enormi della domanda di energia, cibo ed acqua – una tempesta perfetta.

Confronto delle stime della popolazione mondiale. La crescita è rallentata – ma è ancora non sostenibile. Max Roser / OurWorldInData, CC BY-SA

Questo è il nostro quarto secolo di crescita esponenziale della popolazione. In passato, gli esseri umani hanno affrontato la combustione di raggi solari fossilizzati sotto forma di carbone, petrolio e gas e espandendo la quantità di terra in regime di coltivazione o usando più fertilizzanti prodotti artificialmente. Ma quelle soluzioni non funzionano semplicemente più, non ultimo a causa del cambiamento climatico antropogenico causato dal rilascio di biossido di carbonio dalla combustione di quei combustibili fossili. Le riserve che ci rimangono di raggi solari fossilizzati sono più difficili da ottenere e stiamo finendo acqua dolce e posti nuovi da coltivare. Un nuovo studio di miei colleghi ha scoperto che un terzo delle terre coltivabili del mondo sono state perse per inquinamento ed erosione negli ultimi 40 anni.

Guardando al futuro, la domanda chiave non è semplicemente: “quante persone ci saranno?” ma piuttosto “come vivranno?”.

Nel 2012, la Royal Society ha cercato di affrontare questo problema in una pubblicazione chiamata Le persone e il pianeta. La conclusione franca di questo rapporto è stata che nelle economie sviluppate e in quelle emergenti, il consumo ha raggiunto livelli insostenibili e deve essere ridotto immediatamente. Il rapporto sostiene che l’aumento della popolazione “comporterà la riduzione o la trasformazione radicale del consumo materiale dannoso, delle emissioni e l’adozione di tecnologie sostenibili. Questo cambiamento è cruciale per assicurare un futuro sostenibile per tutti”.

Ci siamo passati già molte volte prima. Tutta la storia umana è essenzialmente la storia – anche se di solito su scala locale – della crescita della popolazione e della competizione per le risorse. Sin dai tempi antichi le guerre sono state combattute per la terra, l’acqua, il cibo, i combustibili, i metalli ed altro capitale naturale, mentre molte civiltà hanno anche subito la distruzione in conseguenza di malattie, carestie e scarsità.

I ricercatori hanno analizzato 2.000 anni di dati climatici cinesi ed hanno scoperto periodi turbolenti in corrispondenza con anni di siccità. La battaglia di Oroi-Jalatu, 1756.

Dove abbiamo superato queste sfide in passato sono invariabilmente ingegnosità ed innovazione che hanno fornito la soluzione. E ci serviranno quelle stesse qualità in abbondanza, perché non abbiamo mai dovuto affrontare problemi di questa grandezza in precedenza, né su scala globale.

Raggiungere questo obbiettivo è possibile e realistico, ma non sarà facile.

Non avverrà per caso e porterà cambiamenti per tutti noi, sia nel modo in cui viviamo sia in quello che consumiamo. E’ senza dubbio la sfida più grande della nostra epoca.

Questa affermazione non intende rimpicciolire l’impatto del cambiamento climatico, ma le ripercussioni del riscaldamento globale dureranno decenni; abbiamo del tempo per adattarci e rispondere alle conseguenze. Al contrario stiamo già vivendo coi risultati della crescita esplosiva della popolazione: aumento del prezzo dei combustibili e cibo, guerre, immigrazione, carestia, mancanza di energia ed incertezza economica.

Questi problemi colpiscono tutti noi e sono tutti una conseguenza diretta dell’aggiunta di un milione di persone alla popolazione mondiale ogni cinque giorni.

I grandi problemi di solito necessitano soluzioni radicali, ma ci sono motivi veri per essere ottimisti. Fondamentalmente, dobbiamo riconnettere l’economia globale col Sole e vivere sulla base dei nostri mezzi, proprio come facevamo in passato. Catturare una sola ora di luce solare che raggiunge la Terra – una piccola percentuale del potenziale della nostra stella – soddisferebbe il nostro fabbisogno energetico globale per un anno intero.

Sfruttare la potenza del Sole ci permetterà di soddisfare il fabbisogno in aumento di cibo ed energia della popolazione mondiale nel contesto di un clima incerto e di un cambiamento ambientale globale.

Le strade sostenibili verso la sicurezza energetica ed alimentare possono essere trovate, ma il tempo è essenziale. E il tempo stringe.

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Quanto siamo vicini al riscaldamento planetario “pericoloso”?

Da “Huffington Post”. Traduzione di MR

Di Michael E. Mann 

Sulla scia del Summit sul clima della COP21 a Parigi (vedete questo pezzo recente dell’Huffington Post per il mio punto di vista sull’accordo), diverse domande importanti rimangono senza risposta. Prendiamo per esempio l’impegno raggiunto dalle 197 nazioni partecipanti per limitare il riscaldamento al di sotto del livello “pericoloso” di 2°C in relazione al periodo preindustriale  (trascurando al momento l’obbiettivo cui si aspira di un limite sostanzialmente inferiore di 1,5°C riconosciuto in vista del pericolo posto nei confronti delle isole-nazioni sul livello del mare). La domanda sorge immediatamente: quanto tempo abbiamo prima di raggiungere la zona di pericolo? Quanto siamo vicini al limite dei 2°C?

E’ stato ampiamente detto che il 2015 sarà il primo anno in cui le temperature sono salite di 1°C al di sopra del periodo preindustriale. Ciò potrebbe far sembrare che abbiamo ancora un bel po’ di margine prima di infrangere il limite dei 2°C. Ma l’affermazione è sbagliata. Abbiamo superato 1°C di riscaldamento più di un decennio fa. Il problema è che qui, ed altrove, è stato invocato un punto di partenza inappropriato per definire il “preindustriale”. Il riscaldamento è stato misurato in relazione alla media sulla seconda metà del XIX secolo (1850-1900). In altre parole, l’anno base usato implicitamente per definire le condizioni preindustriali è il 1875. la via di mezzo dell’intervallo. Eppure la rivoluzione industriale e l’aumento delle concentrazioni del CO2 atmosferico  ad esso associato, sono iniziati più di un secolo prima. Sfortunatamente, persino l’IPCC è caduto vittima di questa convenzione problematica nel suo ultimo (il quindo) rapporto di valutazione. Il grafico chiave (Fig. 1 sotto) nel Summary for Policy Makers (SPM) del rapporto misura le emissioni antropogeniche (leggi generate dall’uomo) nette di carbonio e il riscaldamento relativo che ci si può attendere. Sia le emissioni sia il riscaldamento sia le misure sono relative ad un punto di partenza nel 1870.

Fig 1. Riscaldamento vs. emissioni cumulative di vari scenari di emissione dell’IPCC. Fonte: V Rapporto di Valutazione dell’IPCC.

I vari scenari di emissione futuri si chiamano “RCP” (Representative Concentration Pathways) e riflettono le varie ipotesi riguardo ai nostri tentativi futuri di limitare le emissioni di carbonio. Lo scenario “RCP 2.6” (blu scuro), il più aggressivo degli scenari (dal punto di vista della decelerazione delle emissioni di carbonio), corrisponde a limitare le emissioni nette di carbonio a circa 3.000 Gigatonnellate (3 trilioni di tonnellate) di CO2. Abbiamo già bruciato circa 2.000 Gigatonnellate, leggi abbiamo speso due terzi del nostro “bilancio di carbonio” apparente.

Ottenere quei limiti nelle emissioni limiterebbe a sua volta le concentrazioni massime di CO2 atmosferico a sole 450 ppm. Il livelli preindustriali erano a circa 280 ppm. Gli attuali livelli sono appena sopra le 400 ppm ed aumentano di circa 2,1 ppm all’anno. A quel ritmo, raggiungeremo le 450 ppm in poco più di due decenni. Così ovviamente dobbiamo ridurre le nostre emissioni di carbonio rapidamente se vogliamo evitare di superare la soglia delle 450 ppm.
Il grafico dell’IPCC suggerisce che mantenere le emissioni nette di CO2 al di sotto dei 3 trilioni di tonnellate – e quindi stabilizzare le concentrazioni massime di CO2 al di sotto delle 450 ppm – probabilmente manterebbe il riscaldamento al di sotto del limite “pericoloso” dei 2°C. Sfortunatamente, quella conclusione è eccessivamente ottimistica perché, ancora, si affida all’uso di una base di partenza artificialmente calda e troppo recente per la definizione le periodo preindustriale.

Per capire meglio il problema, considerate questo grafico (Fig. 2 sotto) da un articolo che io ed i miei colleghi abbiamo pubblicato sul Journal of Climate dell’ American Meteorological Society già nel 2013.

Fig 2. Riscaldamento serra (in °C) come stimato dai modelli climatici dell’IPCC (Fonte: Schurer et al (2013)).

Il grafico mostra il riscaldamento dell’Emisfero Nord (in °C) causato dai soli gas serra antropogenici (GHG), come stimato da diversi modelli climatici usati dal V rapporto di valutazione dell’IPCC (la curva nera – la “media multi-modello” è la media di tutte le simulazioni climatiche che sono state fatte). Il grafico è stato annotato per indicare il riscaldamento osservato dal 1800 al 1900. E’ evidente che circa 0,3°C di riscaldamento serra sono già avvenuti nel 1900 e circa 0,2°C di riscaldamento nel 1870. Anche se potrebbe sembrare una quantità di riscaldamento trascurabile, essa ha implicazioni significative per la sfida che affrontiamo nello stabilizzare il riscaldamento al di sotto dei 2°C, senza parlare degli 1,5°C, come vedremo in seguito.

Vale la pena osservare, incidentalmente, che questo grafico confuta un’asserzione fatta di recente dal bastian contraria del cambiamento climatico Judith Curry del Georgia Tech durante le sue osservazioni ad una recente audizione del Senato dove è apparsa come testimone su invito del candidato alla presidenza e negazionista del cambiamento climatico Ted Cruz (R-TX). All’audizione la Curry ha bizzarramente affermato che l’aumento delle temperature degli ultimi 200 anni “non sono causate dagli esseri umani” e che non sono i gas serra industriali a causare l’aumento della temperatura ma qualcos’altro. Esaminando il grafico sopra possiamo vedere che l’affermazione è falsa in modo trasparente.

Ora consideriamo le implicazioni che tutto questo ha nella definizione del limite di interferenza pericolosa col clima. Nel mio articolo su Scientific American dello scorso anno, “La Terra supererà la soglia del pericolo climatico nel 2036”, ho esaminato questo stesso argomento usando una serie di simulazioni di modelli climatici in cui “la sensitività di equilibrio del clima” (ECS) del modello (quanto riscaldamento si osserva aggiungendo un raddoppio di concentrazioni di CO2 una volta che il clima si allinea all’aumento) era varia. I risultati sono mostrati nella Fig. 3 sotto.

Fig 3. Riscaldamento serra (in °C) come stimato dai modelli climatici dell’IPCC (Fonte: Scientific American (2014)).

In queste simulazioni ho usato un periodo di base dal 1750 al 1850 per definire la base di partenza della temperatura media preindustriale. Come possiamo vedere dalla Fig. 2, ci sono poche prove di riscaldamento serra in questo periodo iniziale. Mi sono concentrato sull’Emisfero Nord dove sono disponibili i dati per estendere significativamente le registrazioni così indietro nel tempo (questo è stato basato sull’uso della serie di dati del “Berkeley Earth Surface Temperature”, che risale al 1750 DC; i dettagli dei dati, il codice, ecc. sono forniti qui). Ci sono diverse cose da osservare nella Fig. 3. Per prima cosa, usando la più appropriata base di partenza preindustriale 1750-1850, vediamo che la temperatura media dell’Emisfero Nord (la curva grigia deformata) è già aumentata di circa 1,2°C. Le temperature hanno superato 1°C al di sopra dei livelli preindustriali per gran parte del decennio. Quindi il 2015 ovviamente non sarà la prima volta che questo è avvenuto, nonostante gli articoli di stampa che sostengono il contrario.

Ma torniamo alla discussione del riscaldamento planetario pericoloso. Nel pezzo, ho sostenuto che un valore di ECS di 3°C (per esempio dove 3°C di riscaldamento del globo risultino alla fine da un aumento delle concentrazioni di CO2 dal livello preindustriale di 280 ppm ad un livello di 560 ppm) è più probabile, date le varie linee di prova scientifica. Per questo valore di ECS ho mostrato che limitare le concentrazioni di CO2 a 450 ppm (curva arancione tratteggiata nella Fig. 3) limiterebbe di fatto il riscaldamento a circa 2°C rispetto al periodo preindustriale. Problema risolto? Non proprio…

Mentre il riscaldamento serra diminuirebbe, la cessazione della combustione di carbone (se dovessimo davvero tagliare tuta la combustione di combustibili fossili) significherebbe una scomparsa degli inquinanti di zolfo riflettenti (“aerosol”) prodotti dalla combustione sporca del carbone. Questi inquinanti hanno un effetto raffreddante a livello locale che ha compensato una percentuale sostanziale di riscaldamento serra, in particolare nell’Emisfero Nord. Quel raffreddamento scomparirebbe alla svelta, aggiungendo circa 0.5°C al riscaldamento netto. Se teniamo conto di questo fattore (curva arancione a puntini), il riscaldamento per la stabilizzazione a 450 ppm ora si vede avvicinarsi ai 2,5°C, ben oltre il limite “pericoloso”. Infatti, le concentrazioni di CO2 ora devono essere mantenute al di sotto delle 405 ppm (dove ci troveremo in meno di 3 anni con gli attuali tassi di emissione) per evitare un riscaldamento di 2°C (curva blu a puntini).

Quindi evidentemente non ci rimane un 1/3 del bilancio totale di carbonio da spendere, come implicito nell’analisi dell’IPCC. Abbiamo già speso la stragrande maggioranza del bilancio per rimanere al di sotto dei 2°C. E che dire della stabilizzazione a 1,5°C? Siamo già scoperti.

Più ritardiamo riduzioni rapide della combustione di combustibili fossili, più avremo bisogno di compensare le emissioni di carbonio di troppo sequestrando il carbonio atmosferico, o attraverso progetti massicci di riforestazione o tecnologie di ‘geoingegneria’ come la “cattura diretta dell’aria”, che comporta il risucchiare letteralmente CO2 dall’atmosfera (sarebbe costoso, ma l’alternativa – permettere un pericoloso riscaldamento del pianeta o implementare altri schemi di geoingegneria potenzialmente pericolosi – sarebbe di gran lunga più costosa).

Riassumiamo. Siamo già vicini ad un riscaldamento netto di 1,2°C dell’Emisfero Nord rispetto ad una vera base di partenza preindustriale. Se dovessimo improvvisamente fermare la combustione di combustibili fossili (ed altre attività umane che generano emissioni di carbonio), il riscaldamento serra cesserebbe [la cosa interessante è che questa in realtà è una conseguenza di due fattori compensanti: c’è il riscaldamento futuro in cantiere causato dalla risposta lenta del riscaldamento dell’oceano ai gas serra, il cosiddetto “riscaldamento già impegnato”. A compensare questo potenziale di riscaldamento aggiuntivo futuro, tuttavia, c’è il fatto che l’oceano comincia ad assorbire CO2 dall’atmosfera, abbassando le concentrazioni di CO2. Un lavoro recente ha sostenuto che questi due fattori essenzialmente si cancellano a vicenda]. Tuttavia, vedremmo un altro riscaldamento di 0.5°C dovuto alla scomparsa degli inquinanti di zolfo, producendo 1,2°C + 0,5°C = 1,7°C di riscaldamento totale, pericolosamente prossimo al limite dei 2°C.

Quindi qual è il concetto di fondo? Be’, in realtà ci troviamo molto più vicini al livello di riscaldamento pericoloso di 2°C di quanto molti esperti riconoscano. Eppure c’è ancora speranza di limitare il riscaldamento a 2°C, nonostante le affermazioni del contrario da parte di alcuni (vedete anche questa risposta).

Farlo richiederebbe una rapida decarbonizzazione della nostra economia e, forse, l’implementazione di strategie e tecnologie per rimuovere il carbonio dall’atmosfera. Se decidiamo che 2°C costituiscono comunque un riscaldamento eccessivo e perseguiamo un obbiettivo inferiore, la sfida è più in salita. Ridurre le emissioni e basta non sarebbe adeguato e il sequestro del carbonio atmosferico sarà cruciale.

Possiamo farlo. No, dobbiamo farlo.

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Cambiamenti climatici, altro che pausa: il 2015 è stato l’anno della grande accelerazione

Da “Il Fatto Quotidiano” del 25 Gennaio 2016

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Docente presso la Facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali dell’Università di Firenze
Nasa-Bardi
Immagine della Nasa (http://data.giss.nasa.gov/gistemp/)
Il 2015 è stato l’anno che ha definitivamente messo a tacere tutte le chiacchiere sulla “pausa” nel riscaldamento globale. Non solo la pausa non c’è più (posto che ci sia mai stata), ma siamo davanti aun’accelerazione stupefacente del riscaldamento globale: 0,13 gradi in più rispetto al 2014. Se per caso continuasse così, in 10 anni avremmo raggiunto e superato quei famosi “due gradi in più” che l’accordo ottenuto alla conferenza COP21 di Parigi si era proposto di non superare assolutamente. Ovviamente, non è detto che il riscaldamento continui a questi ritmi nei prossimi anni, ma non lo possiamo nemmeno escludere (e qualcuno l’aveva già predetto).
E ora? C’è chi si consola dicendo, “ma i satelliti…..” Sì, i satelliti sono diventati improvvisamente popolari dopo che si è visto indicano aumenti di temperature non così drammatici come quelli visti sui termometri, ma l’aumento lo vedono anche loro. E poi ci sono quelli che gridano all’imbroglio, che gli scienziati hanno alterato i dati. E questi sono proprio quelli che fino ad oggi straparlavano di “pausa” basandosi proprio sul lavoro di quegli scienziati che oggi, improvvisamente, sono diventati degli imbroglioni. Questi si fidano degli scienziati solo quando i loro risultati sono quello che fa piacere a loro. Anche quelli che profetizzavano un’imminente era glaciale sembrano essersi zittiti.
Eppure, possiamo ancora agire per fermare ilcambiamento climatico. Ma il nostro governo sembra essere affaccendato in altre faccende. A parte continuare l’impresa inutile e costosa di cercare di strizzare fuori ancora qualche po’ di gas dall’Adriatico, il governo sta facendo tutto il possibile peraffossare l’industria rinnovabile italiana, una delle armi principali che abbiamo contro il riscaldamento globale. Così, a pagina 35 del rapporto di Ecomondo e della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile troviamo scritto che:
“Anche le implicazioni occupazionali di questa crisi sono pesantemente negative. Già nel 2013 l’Italia, con circa 95 mila occupati diretti e indiretti, aveva fatto segnare un saldo negativo rispetto al 2011 di ben 27 mila posti di lavoro (-22%). Anche in questo caso è il fotovoltaico ad avere la performance peggiore rispetto al 2011, con -82%, seguito dai biocombustibili (-40%), solare termico e geotermico (entrambi con -11%). Non disponiamo ancora dei dati occupazionali del 2014, ma, dato il crollo dei nuovi impianti, è realistico attendersi anche un ulteriore forte calo dell’occupazione nel settore.”
Se avessimo affidato la gestione della crisi climatica al califfo dell’Isis non avremmo potuto far peggio di così. In ogni caso, se vi era parso che l’estate del 2015 fosse stata tremendamente calda, ora aspettatevi ben di peggio per il 2016.

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Speranza ed ottimismo.

Giorni fa un mio carissimo amico, esasperato dal mio pertinace pessimismo, mi ha rimproverato citando la battuta di un film.   “C’è sempre speranza”, dichiara l’eroe per rincuorare i suoi alla vigilia di un’impari battaglia.   

Questo mi ha riproposto per l’ennesima volta la domanda su cosa sia la Speranza e se questa sia diversa dall’ottimismo.  .  Una questione che credo possa interessare anche altri, visti i tempi che corrono.   Ho quindi condotto in proposito una breve indagine, che propongo a voi, senza pretese di rigore teologico e psicologico.
Nella ben nota versione di Esiodo, Pandora è una bambola di insuperabile bellezza e pari stupidità che, disobbedendo a Zeus, apre il famoso vaso in cui il Re degli Dei aveva racchiuso tutti i mali che affliggono l’umanità.  Appena la donna, per mera curiosità, socchiude il coperchio la Fatica, la Malattia, la Guerra assieme a tutte le altre calamità fuggono e, da allora, infestano il mondo.   Solo rimase, un fondo al vaso, la Speranza. 

Messo in questi termini, il mito non è altro che una divertente favola maschilista, riciclata poi da innumerevoli autori.    Ma c’è un dettaglio molto intrigante:   La speranza rimane, ma era anch’essa nel vaso.   Dunque si tratta di un balsamo per lenire gli inevitabili mali, oppure del peggiore fra essi?    In effetti, si potrebbe argomentare che, di solito, è per migliorare il proprio stato che gli uomini creano le tragedie destinate e travolgerli.
Ma esistono altre varianti di questa storia.   Comparando altre versioni del mito (diffuse in diverse aree della tradizione indo-europea) ed al materiale iconografico, in particolare le figure sui vasi, si può arguire una versione molto più arcaica ed interessante.    Secondo questa ricostruzione, Pandora sarebbe un’Epifania di Gaja, nel suo aspetto di generosa donatrice di frutti.   Ed il famigerato vaso sarebbe quello ove gli Dei conservano il Nettare: la bevanda divina che conferisce loro l’immortalità.   Uno dei Titani, nel caso Epimeteo, sarebbe riuscito a rubare il vaso a beneficio della sua stirpe.  

Per evitare la catastrofe, Pandora scende sulla Terra, seduce Epimeteo e, mentre questi è distratto, recupera il vaso riportandolo sull’Olimpo.   Ma Pandora ebbe pietà della condizione umana, resa misera dalla fame, la fatica, la malattia e la morte.    Così lasciò loro la Speranza.  
   
Non sono in grado di giudicare la validità di tale ricostruzione di cui non ritrovo neppure la citazione bibliografica, ma la ritengo comunque interessante per noi.    Secondo questa versione, infatti, la Speranza sarebbe una divinità secondaria che la pietà della Grande Madre ha concesso agli umani affinché potessero meglio sopportare la loro sorte.   Ma come generalmente avviene con la mitologia arcaica, anche in questa versione il significato rimane ambiguo.  

La Speranza consente infatti agli uomini di tollerare le loro inevitabili sofferenze.   Ma non è chiaro se ciò avviene perché li aiuta a comprendere il significato profondo del loro soffrire, o semplicemente perché li inganna, lasciando loro immaginare che le loro miserie un giorno termineranno?   Non è chiaro, insomma, se la Speranza sia una chiave di saggezza o un “oppio dei popoli” ante litteram.

Un dubbio dissipato, credo, dalla tradizione cristiana secondo cui la Speranza è una delle tre virtù teologali, cioè le tre virtù che “sono il pegno della presenza e dell’azione dello Spirito Santo nelle facoltà dell’essere umano”. Vale a dire le virtù supreme, capaci di fare di un uomo un santo.    Ma attenzione, la Speranza cristiana si accompagna inscindibilmente con la Fede e la Carità.   Queste tre virtù costituiscono, insomma, una trinità che ha senso solo nella sua completezza.  E questo comincia a darci qualche indicazione sulla differenza profonda fra Speranza ed ottimismo.   
Secondo il catechismo, la Speranza è infatti il desiderio di accedere al regno dei Cieli mediante la Grazia Divina; cosa che ha senso solo se tutt’uno con la Fede.  Cioè la ferma convinzione circa la verità assoluta della Rivelazione.    La Carità, infine è l’incondizionato amore per Dio e per il prossimo in quanto manifestazione di Lui.
Volendo laicizzare il concetto, oserei proporre che la Speranza sia l’essere disponibili a soffrire in funzione di uno scopo più alto.   Insomma essere pronti al peggio, in nome e per conto del meglio.   La Fede, al di fuori della dottrina, direi che sia l’incrollabile fiducia nel fatto che il mondo abbia senso e sia retto da leggi inviolabili.   Il famoso “Il Vecchio non gioca a dadi col mondo” di Einstein.   La Carità infine, per i non cristiani potrebbe corrispondere all’empatia, cioè alla capacità di percepire come proprie la sofferenza e la gioja altrui.  
In entrambe le versioni, cristiana e laica, comunque la Speranza non consiste nel “pensare positivo”, bensì nella capacità di presagire il peggio e sopportarlo, nella certezza che non sia inutile.  Il soldato che resta indietro per coprire la ritirata dei suoi compagni non si aspetta di cavarsela, ma spera che la sua morte valga a salvare loro.  L’attivista che si fa arrestare dalla polizia di uno stato dispotico, non pensa di cavarsela a buon mercato.   Al contrario sa molto bene a cosa va incontro e lo fa a ragion veduta perché spera che questo, un giorno, valga la libertà di altri.   Più quotidianamente, i genitori che rinunciano alle vacanze per pagare gli studi del figlio hanno un atteggiamento analogo. Certo la Speranza può benissimo contemplare anche la vittoria e la salvezza, ma comunque non sottovaluta le difficoltà ed è cosciente della scarsa probabilità di successo.
Non a caso, Il contrario della Speranza  è la Disperazione.  Cioè il sentimento di fallimento ed inutilità totale e definitiva che può condurre le persone all’autodistruzione.   Cioè esattamente il sentimento che facilmente pervade gli ottimisti posti alla prova dei loro errori di valutazione.

 

Ma procediamo.   Secondo la tradizione gnostica, le Virtù teologali non sarebbero tre, bensì quattro, aggiungendosi la Conoscenza (o Saggezza a seconda delle traduzioni).    Vale a dire la comprensione, migliore possibile, delle leggi del Fato che plasmano il destino di tutti gli esseri viventi.   In questa variante, la Speranza, per essere veramente tale, presuppone quindi anche la conoscenza e la comprensione delle leggi di Natura.   Esattamente quelle che solitamente ci dicono cosa non è possibile che accada. 
Facciamo un esempio d’attualità:  pensare che dalla COP21 sarebbero uscite decisioni realmente impattanti sul futuro del clima era certamente una manifestazione di ottimismo.   Chiunque si fosse preso la briga di informarsi circa le retroazioni in atto nel clima e le cause del fallimento delle precedenti 20 conferenze non poteva avere dubbi.   Ciò nondimeno è possibile sperare che da tanto fumo esca un piccolo arrosto.  Qualche iniziativa che, certo, non cambierà il destino del pianeta, ma potrebbe essere utile nel difficile futuro che ci aspetta.

Oppure dimostra Speranza chi , ad esempio, pianta alberi su di un terreno brullo, sapendo che hanno il 90% di probabilità di morire molto giovani.   Perché è vero che il sistema Terra ha un disperato bisogno di alberi e che qualcuno di questi potrebbe crescere abbastanza da dare un contributo infinitesimo, ma reale.   
Comunque, il mondo è  infinitamente più complesso di quanto non lo conosciamo e potrebbero quindi accadere molte cose in grado di ridurre drasticamente le emissioni nel giro di anni o pochi decenni.   Ad esempio una serie di guerre o, più probabilmente, una crisi economica globale di portata mai vista.   Si possono immaginare anche altri scenari, ma poco importa perché, sicuramente, ciò che effettivamente accadrà non sarà niente che abbiamo ipotizzato prima.   Ma se è possibile che il cambiamento climatico rimanga entro limiti che rendono possibile la civiltà, non è invece possibile che ciò accada senza che l’umanità paghi un tributo immenso di sofferenza ai propri errori.
  
Per tornare alla tradizione classica, direi che quando Ulisse lascia l’isola di Calipso, lo fa sorretto dalla Speranza.   Per tentare di raggiungere la sua famiglia e la sua Patria affronta consapevolmente dei pericoli mortali, rinunciando all’amore di una ninfa, ad ogni agio e perfino all’immortalità.   
Viceversa, i proci che continuano a bagordeggiare, sordi e ciechi a tutti gli avvertimenti, erano ottimisti.   In fondo, Ulisse non si era più visto da 10 anni, come potevano pensare che quel vecchio che con due cazzotti  aveva spacciato il più grosso bullo dell’isola fosse il celebre guerriero?    E si sapeva anche allora che àuguri ed indovini passavano il tempo a “gufare”.   Si vede che, anche allora, pensare positivo era di moda, perlomeno in certi ambienti.
Insomma, penso che Speranza ed ottimismo facilmente convivono e, in parte, si confondono fra loro, ma rimane a mio avviso una differenza profonda fra di essi.  La Speranza direi che contenga in sé qualcosa di intrinsecamente eroico, tant’è che matura e si forgia nelle difficoltà.   Al contrario, l’ottimismo mi pare sia il frutto di un passato particolarmente fortunato che si suppone continui indefinitamente nel futuro. 
L’ottimismo è stupido, la speranza è una virtù  (Michel Schneider)

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Il cambiamento climatico e la catastrofe della cacca di cavallo

Da “Cassandra’s Legacy”. Traduzione di MR

Ripensando a questo post, scritto due settimane fa per il mio blog in inglese, mi viene in mente che se gli “scettici” si sono ridotti a criticare la scienza del clima sulla base della cacca di cavallo di un secolo fa, veramente non hanno più argomenti

Una delle ragioni del successo delle automobili nel sostituire i cavalli è stata che le automobili non si lasciavano dietro rifiuti solidi. Ci è voluto quasi un secolo per capire che i gas di scarico dei veicoli a motore sono di gran lunga più tossici ed inquinanti di qualsiasi cosa che il di dietro di un cavallo possa produrre (Sopra, una pubblicità di una automobile del 1898).

Il successo della conferenza sul clima di Parigi potrebbe essere stata solo parziale, ma ha sicuramente gettato in un certo scompiglio il partito anti-scienza. Per esempio, alla National Review, non sono stati in grado di criticare l’accordo di Parigi con qualcosa di meglio della vecchia storiella della “catastrofe del letame di cavallo”, (vedete qui per l’origine della storia). Il loro recente articolo su questo tema si intitola “Perché il cambiamento climatico non conterà niente fra 20 anni” ed è scritto da Josh Gelernter. Non contiene nulla di nuovo, ma è un pezzo astuto e ben scritto che merita un po’ di attenzione.

L’argomentazione centrale del testo deriva dal problema dell’inquinamento da letame di cavallo nel XIX secolo. Gelernter cita Michael Crichton e dice:

Che problemi ambientali avrebbero previsto gli uomini nel 1900 per il 2000? Dove prendere abbastanza cavalli e cosa fare con tutto quel letame. “L’inquinamento da cavalli era così forte nel 1900”, ha detto Crichton.”e quanto ci si aspettava che diventasse un secolo dopo nel 1900 con così tante persone in più che andavano a cavallo?” 

Da qui, il testo prosegue elencando i molti cambiamenti che abbiamo visto da allora sostenendo che oggi è impossibile prevedere come sarà la tecnologia fra 100 anni da adesso e che fra 20 anni il cambiamento climatico non sarà più un problema.

Nel modo in cui è scritto il testo, la tesi di Gelernter sembra reggere, ma se si esamina in dettaglio, diventa un castello di sabbia di fronte all’alta marea. Fondamentalmente, l’esempio del letame di cavallo è portato ben oltre la sua importanza. Chricton probabilmente aveva ragione quando ha detto che “l’inquinamento da cavalli era forte nel 1900”, ma non ci sono prove del fatto che qualcuno lo considerasse una catastrofe in divenire o che l’abbia estrapolato in un futuro remoto: non esisteva niente di analogo al nostro IPCC, diciamo un IPMC (International Panel on the Manure Catastrophe).

Poi, il letame di cavallo potrebbe essere stato sgradevole per i nasi delicati degli abitanti di città, ma non è mai stato tossico, non ha mai distrutto l’ecosistema e poteva essere sempre tolto di mezzo da un numero sufficiente di persone armate di scopa. L’importanza esagerata data a questa storia potrebbe derivare da un fattoide che si può facilmente trovare nel web che sostiene (in varie versioni) che “Scrivendo sul Times di Londra nel 1894, uno scrittore ha stimato che fra 50 anni ogni strada di Londra sarà sepolta sotto 2 metri e mezzo di letame”. Ho cercato di trovare la fonte di questa affermazione, ma non sembra che esista. Si tratta, molto probabilmente, solo di una leggenda, come indicato dalla genericità dell’attribuzione ad “uno scrittore” come autore.

A parte l’esagerazione dell’importanza dell’inquinamento da letame, tutta la tesi dell’articolo della National Review si regge su una logica molto traballante. Il primo problema è che, anche se le automobili sembravano molto più pulite dei cavalli, più tardi si sarebbe scoperto che le emissioni dei tubi di scarico di un’automobile sono di gran lunga più pericolosi di qualsiasi cosa possa fuorisuscire dal di dietro di un cavallo. E persone armate di scope non possono fare niente contro l’inquinamento gassoso. Visto in questi termini, le automobili sono un classico caso di una soluzione che peggiora il problema: si può soltanto rabbrividire al pensiero di cosa ci potrebbe portare la prossima “soluzione” tecnologica all’inquinamento delle automobili (e ci sono già delle preoccupazioni riguardo al fatto che in convertitori catalitici delle automobili potrebbero fare un danno inaspettato alla salute umana).

L’altro problema della tesi di Gelernter è una fallacia logica fondamentale. Questa logica sostiene, “c’erano problemi di inquinamento in passato. Questi problemi non ci sono più oggi. Pertanto, il problema del cambiamento climatico di oggi non esisterà più in futuro”. Questa è una fallacia di eccesso di estrapolazione a volte conosciuto come “la fallacia del tacchino (turkey fallacy)”. “Immaginate di essere un tacchino, poi osservate gli esseri umani che vi hanno dato da mangiare tutti i giorni dal giorno in cui siete nati. Quindi estrapolate nel futuro e concludete che gli esseri umani continueranno a darvi da mangiare per sempre. Poi arriva il giorno del Ringraziamento…” Così, il fatto che siamo stati in grado di risolvere alcuni problemi di inquinamento in passato (o, perlomeno, che crediamo di essere stati in grado di risolvere) non significa che saremo sempre in grado di risolverli tutti.

A parte la logica ballerina, la caratteristica interessante del pezzo di Gelernter è quanto sia estremo. E’ basato sulla fede dall’inizio alla fine: tutta la tesi è un inno alla tecnologia che risolverà tutti i problemi come ha sempre fatto in passato. Nello spettro delle attuali visioni del futuro, questa si trova all’estremo opposto di quella della “estinzione umana a breve termine” di Guy McPherson. Entrambe implicano di non dover far nulla per prepararsi al futuro. Entrambe non permettono alcun “piano B” in caso il futuro dovesse rivelarsi diverso da quanto ipotizzato.

Tutto questo è veramente sconsiderato, a dir poco. Ci sono sicuramente modi che possono rendere il cambiamento climatico generato dall’uomo un problema obsoleto (comprese grandi innovazioni tecnologiche, ma anche, per esempio, una guerra nucleare). Ma ci sono anche un sacco di possibilità che il cambiamento climatico possa rivelarsi essere un grande disastro non mitigato, come è già. Così, se non si vuole affrontare il destino dei tacchini nel giorno del ringraziamento, è meglio abbracciare una posizione flessibile ed evitare di cadere nella trappola generata da estremi opposti. Il futuro spesso ci sorprende, ma è meglio se ci prepariamo ad accoglierlo.

(h/t Alex Sorokin)

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Cataclismi dal Polo Nord al Sud America

Da “The Washington Post”. Traduzione di MR (via Michael Mann)

L’innalzamento delle acque costringe a chiudere le strade e ad abbandonare le case. 


Di Darryl Fears e Angela Fritz

Dal tetto del mondo fino a quasi il fondo, un meteo anomalo e senza precedenti ha fatto lievitare le temperature nell’Artico, sferzato il Regno Unito con venti da uragano e generato grandi alluvioni in Sud America.


La stessa tempesta che si è abbattuta sugli Stati Uniti meridionali con tornado mortali e che ha sommerso il Midwest, causando una perdita di vite ancora maggiore, ha continuato verso l’Artico. L’aria sub-tropicale spinta fin lassù ora si trova sopra l’Islanda e, su quello che dovrebbe essere un Polo Nord a temperature di molto sotto allo zero, mercoledì le temperature sembravano raggiungere il punto di fusione – più di 50°C al di sopra della norma. Era più caldo che a Chicago.

In precedenza, solo due volte l’Artico è stato così caldo in inverno. Gli abitanti dell’Islanda si stanno preparando all’eventualità che le condizioni peggiorino di molto mentre una delle tempeste più forti mai registrate irrompa nel Nord Atlantico. Questo “ciclone bomba” raro è arrivato con venti improvvisi di 110 km/h ed onde che hanno sferzato la costa.
Migliaia di miglia a sud, al centro dell’America Latina, le precipitazioni alimentate dall’enorme evento de El Niño nell’Oceano Pacifico hanno inzuppato aree di Paraguay, Argentina, Brasile e Uruguay.

In quella che viene descritta come la peggiore alluvione in mezzo secolo, più di 160.000 persone sono scappate dalle loro case. Il fiume Paraguay in quella nazione si trova a pochi centimetri dal superamento dei suoi argini e il fiume Uruguay in Argentina si trova di 14 metri al di sopra della norma, secondo un servizio della BBC News.

Le drammatiche tempeste stanno concludendo un anno di meteo da record a livello globale, col mese di luglio che è stato misurato come il mese più caldo mai registrato e il 2015 che sta per diventare l’anno più caldo.

Sia in alto che in basso, la costa orientale degli Stati Uniti questo mese chiuderà come il dicembre più caldo di sempre. In gran parte del Nordest fino al Canada, le temperatura a Natale sono salite fino ai 20°C – ingannando cespugli ed alberi fino a a farli fiorire in molte zone. Nell’area di Washington, la forsizia, le azalee e persino le ciliegie all’improvviso si sono trovate in piena fioritura.

“Vedo questa cosa come un doppio smacco”, ha detto Michael Mann, un professore di meteorologia alla Penn State University in una email. “El Niño . . . è un fattore, il cambiamento climatico e il riscaldamento globale antropogenici sono un altro. Mettiamoli insieme ed abbiamo aumenti drammatici di alcuni tipi di eventi di meteo estremi”.

L’impatto è sempre più devastante.

Nel Missouri inzuppato di pioggia, dove sono morte più di una dozzina di persone a causa dell’alluvione, il governatore Jay Nixon (democratico) ha dichiarato lo stato di emergenza.
Quasi due dozzine di argini lungo il fiume Mississippi sono considerati a rischio e le previsioni parlano di livelli record o prossimi al record per quanto riguarda il fiumi e gli affluenti che lo alimentano. Quasi 450 livelli di fiumi da lunedì hanno raggiunto il livello di alluvione, secondo la Geological Survey statunitense.

Dall’Illinois al Texas, dal 26 dicembre sono caduti da 15 a 30 cm di pioggia. Sono stati stabiliti dozzine di nuovi limiti delle precipitazioni nell’ultimo fine settimana, in alcuni casi raddoppiando o triplicando i record precedenti.

I fiumi stanno salendo a livelli pericolosi e storici nel Midwest dopo che piogge battenti hanno spazzato l’area. Gli abitanti di Illinois, Missouri e Arkansas hanno documentato le loro esperienze dell’alluvione. (Jenny Starrs/The Washington Post)
Alluvioni fluviali da “grandi a storiche” sono previste fino a domenica a St. Louis, secondo il Servizio Meteorologico Nazionale. Si prevede che il fiume Mississippi, che passa nel cuore della città, superi di 4 metri il livello di alluvione – uno dei primi tre livelli di sempre. 
E a valle, a Chester nell’Illinois, il fiume è probabile che raggiunga poco meno dei 15 metri del livello della Grande Alluvione del 1993 – che, come racconta l’Ufficio di Idrologia del NOAA, “ha semplicemente sopraffatto tutti e tutto”. 
La cosa più rimarchevole dell’alluvione di questa settimana in tutta la parte centrale della nazione non è la dimensione, ma la tempistica. In circostanze normali, questo grado di alluvioni invernali non è possibile perché non c’è sufficiente umidità nell’aria invernale fredda per sostenere tali precipitazioni complessive. 
Anche se i livelli dei fiumi cominceranno a scendere durante il fine settimana, le acque alluvionali continueranno a scendere a valle sul Mississippi fino a metà gennaio. Li incontreranno il deflusso delle piogge eccessive nel sudest. Memphis, Vicksburg, nel Missouri e Baton Rouge, in Louisiana, sono tutte pronte per una alluvione significativa. 
In Inghilterra, Scozia e Irlanda del Nord, le scene sono state simili per gran parte di questa settimana man mano che le tempeste hanno reso il mese il dicembre più umido in alcune aree. Centinaia di persone sosno state evacuate a York, dove la furia delle acque ha portato via con sé le auto. Sono state necessarie operazioni di soccorso per salvare alcuni residenti dalle proprie case allagate e per portare cibo e forniture mediche ad altri. 
Le case dello Yorkshire sono rimaste senzza energia elettrica e il crollo di linee telefoniche ha interrotto i servizi telefonici. La BBC News ha detto che 100 persone hanno passato la notte di martedì in baracche di solito usate per ospitare il personale di guardia alla regina durante le visite in Scozia. 
Ben G. Kopec, un ricercatore dell’Università di Dartmouth che di recente è stato autore di uno studio su come la perdita del ghiaccio artico contribuisce alle precipitazioni, mercoledì ha riconosciuto che è impossibile sapere nello specifico cosa stia causando i cambiamenti meteorologici radicali. 
Eppure le temperature piacevolmente calde dell’Artico sono eccezionalmente rare a dicembre, quando il ghiaccio marino di solito si espande in un clima insopportabilmente freddo, di modo che possa durare fino ai mesi più caldi. “Queste temperature stanno impedendo al ghiaccio marino di aumentare e stabilizzarsi per i mesi estivi”, quando è necessario come controbilanciamento alla radiazione solare e per compensare il riscaldamento, ha detto Kopec. 
Se gli ultimi eventi possano o meno essere collegati al cambiamento climatico rimarrà un punto di domanda finché non potrà essere condotta una ricerca, ha detto Jeff Masters, il meteorologo fondatore del sito meteo Weather Underground.
“Abbiamo problemi a fare quel collegamento in tempo reale, perché abbiamo problemi a estrapolare la variabilità naturale dalle forzanti antropogeniche”ha detto Masters mercoledì. “E’ davvero difficile dire scientificamente che è questo che sta succedendo”. 
Eppure, dopo decenni di studi ed analisi degli estremi meteorologici, Masters pensa che il passaggio sia ovvio. “Non è questo il clima in cui sono cresciuto”, ha detto. “Non vedevamo questo tipo di meteo nel XX secolo. Si tratta semplicemente di una continuazione del meteo pazzo che abbiamo visto finora nel XXI secolo”. 
Al momento, gli schemi sono aggravati da El Niño, un ciclo naturale di acqua molto calda lugo il Pacifico equatoriale. Questi tipicamente innesca forti piogge in alcune aree e caldo fuori stagione in altre. In qualche misura, El Niñodi quest’anno è già il più forte mai registrato.  
Nicola Maxey, un addetto stampa del servizio meteorologico nazionale del Regno Unito, il Met Office, ha anche osservato che è “ancora troppo presto per dire con certezza” se il cambiamento climatico globale abbia prodotto le precipitazioni record di dicembre.
Tuttavia, ha aggiunto via email, “tutte le prove, dalla fisica di base alla nostra comprensione  dei sistemi meteorologici, suggeriscono che potrebbe esserci un collegamento”.
Chelsea Harvey ha contribuito a questo articolo.

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La fusione dei ghiacci minaccia miliardi di persone

Da “Voice of America”. Traduzione di MR 


Pastori che pascolano i loro Yak nelle praterie dell’altipiano tibetano nella contea di Nagu, in Tibet, il 6 luglio del 2006.

Di Yeshi Dorje 
Con le temperature che aumentano 4 volte più velocemente che in qualsiasi altro posto in Asia, l’altipiano tibetano potrebbe presto perdere gran parte dei sui ghiacciai e permafrost, alterando le forniture di acqua in tutta l’Asia, dicono alcuni scienziati cinesi. Da tempo famoso come “il tetto del mondo”, l’altipiano tibetano ha più o meno la dimensione dell’Europa occidentale e fornisce acqua a quasi 2 miliardi di persone in Asia come fonte di diversi grandi fiumi, compresi Yangze, Mekong, Saluen (Gyalmo Ngulchu), Indo, Brahmaputra e Fiume Giallo. Ma a causa dell’impatto del cambiamento climatico, i ghiacciai si stanno ritirando rapidamente, le praterie si stanno a loro volta ritirando man mano che la desertificazione si espande, le precipitazioni della regione sono diventate irregolari, nei grandi fiumi i livelli delle acque stanno crollando e il permafrost sta fondendo. La fusione dei ghiacciai tibetani, la più grande massa di acqua dolce congelata al di fuori delle regioni polari, è collegata a molte conseguenze ambientali localmente e globalmente, comprese le ondate di calore in Europa, secondo alcuni studi. 
Ritiro dei ghiacci
I funzionari cinesi stimano che il Tibet abbia il 14,5% della massa totale dei ghiacciai del mondo. Mentre ci sono teorie diverse su cosa stia causando la fusione dei ghiacciai, i ricercatori sono concordi che il ritmo sia impressionante. 

L’altipiano tibetano sullo sfondo della catena himalaiana, visto in volo sul Nepal.
L’agenzia di stampa di stato cinese Xinhua ha scritto ad aprile che scompare una media di 247 kmq di ghiacciai ogni anno e che sono scomparsi circa 7.600 kmq di ghiacciai, o circa il 18% del totale, dagli anni 50. Zhang Mingxing, un funzionario cinese che che guida la Tibet Mountaineering Administration, ha detto che il ghiacciaio al campo base dell’Everest, a 5.200 metri sul livello del mare, è già scomparso. “Non ci sono [rimaste] altro che pietre” è stato citato dalla Xinhua. Una precedente ricerca cinese di sostanze all’interno dei ghiacciai tibetani indicava che il carbonio dall’incendio di foreste, delle colture e dalle stufe da cucina dall’India hanno causato la fusione. Mentre questi potrebbero essere fattori che contribuiscono, gli scienziati dicono che l’aumento globale delle temperature è indiscutibilmente la causa primaria. I tibetani dicono che c’è stato un cambiamento drastico delle temperature dagli anni 80. Un tibetano che vive negli Stati uniti che di recente è tornato a Lhasa ha espresso shock vedendo l’impatto climatico sull modo di vestire delle persone. “Quando vivevo a Lhasa, era molto raro che le persone potessero andarsene in giro in maglietta”, ha detto l’uomo, che ha chiesto che il suo nome rimanesse nascosto. “Ora le persone vanno in giro in pantaloncini!” Il National Geographic nel 2010 ha scritto che un ghiacciaio si stava ritirando di circa 300 metri all’anno, la lunghezza di una campo da football statunitense. Già nel 2009, l’importante glaciologo cinese Qin Dahe diceva che i ghiacciai sull’altipiano tibetano stavano fondendo più rapidamente che in altre parti del mondo. Sul breve termine, ha avvertito, la fusione innescherà più alluvioni e smottamenti. Sul lungo termine: “le forniture d’acqua della regione saranno in pericolo”. Alcuni ricercatori hanno predetto che gran parte dei ghiacciai himalayani saranno scomparsi fra 20 anni.

Fabbisogno d’acqua
Quei ghiacciai che si contraggono alimentano alcuni dei fiumi più grandi che corrono lungo Cina, India, Pakistan, Bangladesh, Laos, Thailandia, Vietnam e Cambogia. “L’acqua è la risorsa più importante che possiede questa regione, la regione comune di Tibet, parte della Cina, India, Buthan e tutto questo”, ha detto R. Rangachari, studioso onorario del Centro Indiano per la ricerca Politica ed ex segretario del ministro delle risorse idriche indiano. “L’acqua è la chiave per rimuovere la povertà, generare elettricità, agricoltura, eccetera”, ha detto al servizio tibetano di VOA. Un ex ricercatore del cambiamento climatico dell’altipiano tibetano dell’Accademia delle Scienza Cinese, che ha parlato in modo anonimo, ha detto che il deflusso glaciale diminuito ha già ridotto i livelli d’acqua dello Yangtze e del Fiume Giallo. “Le sorgenti di ogni grande fiume provengono dall’altopiano tibetano e c’è un minore afflusso d’acqua verso quei fiumi”, ha detto. Il ministro della risorse idriche cinese nel 2013 ha annunciato che almeno 28.000 piccoli fiumi sono improvvisamente scomparsi in Cina nel 2011. Mentre Pechino non ha citato le cause specifiche, il ricercatore anonimo ha detto che il riscaldamento dell’altipiano tibetano era perlomeno in parte il responsabile. “Un’altra ragione importante è la fusione del permafrost”, che porta al drenaggio sotterraneo dell’acqua, ha detto. “Come quando si ha una spugna spessa”. L’ultima ricerca condotta dall’Accademia delle Scienze Cinese ha previsto che più dell’80% del permafrost dell’altipiano tibetano potrebbe essere scomparso entro il 2100 e che quasi il 40% di esso scomparirebbe in un “futuro prossimo”. 
Aumento del rischio di conflitti
I cambiamenti apparenti dell’altipiano tibetano hanno fatto sorgere preoccupazione sul potenziale di conflitti per sicurezza idrica nella regione, in particolare fra Cina ed India. Per mitigare l’impatto ambientale, la Cina ha portato avanti la costruzione di dighe lungo i fiumi che discendono dall’altopiano tibetano, nonostante le lamentele delle nazioni che stanno a valle che hanno bisogno dell’acqua. Di fatto, il Saluen rimane il solo fiume tibetano che non è stato ancora interrotto da grandi dighe. Il fiume Yarlung Tsangpo del Tibet, che alimenta il fiume Brahmaputra in India, recentemente ha visto la costruzione di una sola diga. 
Vista del fiume Saluen da un piccolo villaggio thailandese-Karen, Tha Tafang, sul lato thailandese del fiume il 17 novembre del 2014.
Secondo Rangachari, l’India prende i problemi idrici molto sul serio. “Nessuno vuole cedere i propri diritti per far qualcosa – [specialmente] ciò che sta facendo l’altro”, ha detto. “I confini politici possono essere creati dall’uomo, ma la geografia è creata da Dio”. I tibetani chiedono un intervento internazionale ed attenzione per l’altipiano, descrivendo l’acqua come il petrolio del futuro, una risorsa non rinnovabile per cui le persone potrebbero combattere. “Il Tibet è molto importante perché molti esperti dicono che le guerre prima venivano combattute per la terra, ma oggigiorno vengono combattute per l’energia e presto ci saranno guerre per l’acqua”, ha detto Lobsang Sangay, capo dell’amministrazione tibetana in esilio. Il governo tibetano in esilio ha lanciato una campagna per chiedere una maggiore attenzione ecologica per “il tetto del mondo” alla COP21, il summit climatico di Parigi del 30 novembre-11 dicembre. A settembre, il leader spirituale tibetano in esilio, il Dalai Lama, ha a sua volta chiesto alla comunità internazionale di porre una maggiore attenzione ai cambiamenti ambientali che hanno luogo nella sua terra natale. “Questa è una preoccupazione per oltre 1 miliardo di vite umane”, ha detto il Dalai Lama in un messaggio video.

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Le ultime grandi aree di natura incontaminata dall’Asia all’Amazzonia sono minacciate

Da “Independent”. Traduzione di MR

C’è la finanza internazionale dietro ai piani per spianare aree incontaminate da Sumatra al Serengeti

Di Steve Connor


Autisti su una statale che passano attraverso terra deforestata lungo una autostrada federale. Getty Images 

Le ultime aree di natura incontaminata – dall’Asia all’Amazzonia – sono minacciate da un programma di costruzione di strade senza precedenti da parte di banche di sviluppo aggressive che hanno poco interesse nel proteggere il mondo naturale, ha avvertito un importante scienziato ambientale. La costruzione di enormi infrastrutture e strade sono al centro di enormi progetti di sviluppo in tutto il mondo, giustificati come tentativi vitali di aiutare i più poveri a raggiungere uno standard di vita più alto. Gli scienziati affermano che stiamo vivendo nell’era più esplosiva dell’espansione di strade ed infrastrutture della storia umana – dalle pianure del Serengeti alle foreste pluviali di Sumatra. Entro il 2050, stimano che ci saranno ulteriori 25 milioni di km di nuove strade asfaltate a livello globale, sufficienti a fare il giro della Terra 600 volte. Circa il 90% di queste nuove strade verranno costruite nel mondo in via di sviluppo e molte di queste porteranno ai primi tagli in profondità in aree di foresta pluviale tropicale incontaminata per strade di servizio per nuove miniere e dighe idroelettriche in alcuni dei luoghi più remoti della Terra.

Camion che trasporta illegalmente tronchi vicino alla Riserva di Arariboia in Brasile (Getty Images)

Tuttavia, l’esperienza insegna che le prime strade segnano l’inizio della fine degli habitat naturali in cui vengono costruite, secondo William Laurance, un insigne professore di ricerca in sostenibilità ambientale all’Università James Cook di Cairns, in Australia. “La migliore analogia che possa usare è che la deforestazione si comporta come un cancro. Quando viene costruita la prima strada in un’area forestale naturale, la deforestazione tende a diffondersi in modo contagioso lungo il percorso stradale”, ha detto il professor Laurance. “L’esempio che cito spesso è la prima strada ad essere stata costruita in Amazzonia, che originariamente collegava la città di Belem con Brasilia, la capitale nazionale”, ha detto. “E’ iniziata con un sottile taglio di rasoio attraverso la foresta, ma oggi è diventata uno squarcio di 400 km di larghezza di distruzione della foresta attraverso l’Amazzonia orientale. “A causa di tali realtà, la sola vera soluzione per limitare gli impatti delle strade è quella di “evitare il primo taglio” – mantenere le strade fuori da aree naturali, aree protette e da quello che rimane di ecosistemi rari”, ha aggiunto. Durante il suo periodo come scienziato che lavorava in Amazzonia, il professor Laurance ha visto in che modo la costruzione di strade ha innescato una distruzione ambientale molto più ampia. In Amazzonia, circa il 95% della distruzione della foresta è avvenuta entro i 5 km da una strada e per ogni km di strada legale ce n’erano altri 3 di strade illegali che partivano da questa, ha detto.

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“In gran parte delle nazioni in via di sviluppo lo stato di diritto, specialmente in remote aree di frontiera, è limitato. In questi contesti le strade tendono ad aprire un vaso di Pandora di problemi ambientali – come deforestazione illegale, disboscamento, incendi, bracconaggio, estrazione mineraria e speculazione terriera”, ha detto il professor Laurance. “Viviamo nell’era più drammatica di espansione delle strade e delle infrastrutture della storia umana. Le ultime aree selvagge del mondo che sopravvivono – Amazzonia, bacino del Congo, Siberia, aree boreali del Canada – ora vengono penetrate e fatte a pezzi dalle strade. Abbiamo già attraversato il Rubicone in questo senso”, ha detto. “Per fare un esempio che non riguardi i tropici, le foreste dell’Alberta in Canada, ora hanno 800.000 km di strade e la rete di strade sta aumentando di 25.000 km all’anno”, ha aggiunto. La foresta pluviale del Congo sta vacillando a causa di una “baldoria” di costruzione di strade con più di 50.000 km di strade spianate nella foresta, che hanno portato con sé taglialegna e bracconieri, ha detto. Nel solo ultimo decennio, ciò ha portato all’uccisione di circa due terzi degli elefanti della foresta che hanno vissuto in sicurezza fra gli alberi per millenni da parte dei bracconieri.

Le banche internazionali stanno aiutando a finanziare alcuni dei 29 “corridoi di sviluppo” che attraverseranno da un capo all’alto l’Africa sub-sahariana, aprendo molti luoghi selvaggi ed inaccessibili a pressioni umane come contrabbando di avorio, disboscamento e commercio di carne selvatica. “Eppure molti economisti guarderebbero queste tendenze e applaudirebbero”, ha detto il professor Laurance. “Dicono che il mondo in via di sviluppo si sta semplicemente sviluppando e noi dobbiamo sostenere questo”. Laurance ha citato i 60-70 trilioni di dollari che si spenderanno in nuove infrastrutture dalle nazioni del G20 nei prossimi 15 anni. “Questa cifra impressionante verrà da diverse fonti, come partenariati pubblico-privato, fondi pensione, aiuti bilaterali e grandi banche di sviluppo. Questa sarà la più grande transazione finanziaria della storia umana e gli impatti ambientali faranno tremare la Terra”, ha detto il professor Laurance. Ci sono modi per minimizzare l’impatto dello sviluppo di infrastrutture, per esempio usando le vie d’acqua esistenti per il trasporto piuttosto che costruire le prime strade o concentrandosi sul miglioramento delle strade in aree già insediate. Ma il professor Laurance crede che le preoccupazioni ambientali vengano messe da parte nella foga di sfruttare le risorse naturali. E’ particolarmente preoccupato da due banche di sviluppo, la nuova Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB) di proprietà cinese e con sede a Pechino e la Brazilian Development Bank (BNDES). Entrambe le banche presumibilmente operano con standard ambientali diversi da quelli delle banche di sviluppo tradizionali, ha affermato.

La mia preoccupazione è che la AIIB e la BNDES costringeranno i loro creditori tradizionali ad allentare le loro preoccupazioni ambientali e sociali per rimanere competitive”, ha detto. “La BNDES ha finanziato una gamma di progetti di infrastrutture altamente dannose, in particolare alcune enormi dighe amazzoniche che hanno allagato vaste aree di foresta e promosso una valanga di strade collegate e la costruzione di linee elettriche e deforestazione”, ha spiegato. “A proposito della AIIB, in realtà non ha ancora iniziato a funzionare, ma due cose sono chiare. Primo, è enormemente capitalizzata, specialmente dalla Cina – che già possiede almeno la metà della capitalizzazione della Banca Mondiale e del FMI”, ha detto. “La Cina è stata famosa per aver dato una bassa priorità alle preoccupazioni ambientali e sociali nei suoi molteplici rapporti internazionali. In quei sensi tende ad essere agnostica – lasciando affrontare queste queste preoccupazioni ai governi locali. Tutto ciò di cui si interessa è ottenere le risorse naturali che desidera, in qualsiasi modo sia necessario”. Quest’anno, Francia e Germania hanno deciso di seguire l’esempio del Regno Unito diventando membri della Banca condotta dalla Cina, la AIIB, cosa che ha scioccato gli altri paesi, compresi gli Stati Uniti che vedo la banca come una rivale della Banca Mondiale dominata dall’occidente.

Un portavoce della BNDES ha detto di avere una “serie di meccanismi” progettati per valutare i progetti che vanno dalla “analisi meticolosa di ogni impatto sociale ed ambientale in ogni progetto che riceve sostegno finanziario, per finanziare investimenti che generino benefici diretti, per migliorare la qualità ambientale e per ridurre le disuguaglianze sociali e regionali nel paese”. La AIIB non ha risposto ad una richiesta di commento. I critici sostengono che i nuovi membri europei daranno alla AIIB la credibilità che non merita. Tuttavia, altri hanno suggerito che la gran Bretagna ed altre nazioni occidentali potrebbero lavorare dall’interno per cercare di rafforzare gli standard ambientali della banca – anche se la vastità del finanziamento di sviluppo della banca significherà indubitabilmente una maggiore costruzione di strade in aree di natura incontaminata. “Il solo modo in cui vedrei un vero cambiamento di rotta è se le nazioni come Regno Unito, Germania, Francia, Australia e Nuova Zelanda hanno il coraggio e l’influenza di assumere una posizione forte e di chiedere salvaguardie sociali ed ambientali”, ha detto il professor Laurance. “Ma lo faranno? E se lo facessero, la Cina darebbe retta? Ho i miei dubbi”.

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