Effetto Cassandra

Un “buon Antropocene”?

Da “Decline of the Empire”. Traduzione di MR (via Alexander Ač)

Di Dave Cohen

Ieri ho letto Cosa sta causando le epidemie fungine mortali nell’ecosistema mondiale? di Elizabeth Kolbert (Environment 360, 18 gennaio 2015). La parola “antropocene” non appare nel rapporto della Kolbert, ma è di questo che si occupa il rapporto. Considera le cause delle recenti epidemie fungine.

Eppure sorge la domanda: perché ora? Perché stiamo assistendo ad un numero crescente di malattie fungine della vita selvaggia? Gli esperti offrono due spiegazioni possibili, entrambe le quali potrebbero essere valide.

Ecco le due spiegazioni, leggete l’articolo della Kolbert per i dettagli.

La prima è l’aumento del commercio globale e dei viaggi globali. Fra il 1990 e il 2013, la portata in tonnellate trasportate via nave è più che raddoppiata, fino ad oltre 9 miliardi di tonnellate. Durante lo stesso periodo, i passeggeri dei voli aerei sono triplicati, fino a più di 3 trilioni di miglia percorsi dai passeggeri. Man mano che l’enorme volume del commercio globale e dei viaggi globali aumenta, allo stesso modo aumenta il numero delle opportunità di diffusione di patogeni di ogni specie. Siccome i funghi non hanno bisogno di un ospite per sopravvivere, potrebbero essere particolarmente adatti ai viaggi intercontinentali. E quando un patogeno viene liberato in un nuovo ambiente, i risultati possono essere spettacolarmente 

“Stiamo spostando più cose”, ha detto Jeffrey Lorch, un microbiologo del Centro Nazionale per la Salute della Vita Selvaggia del USGS (United States Geological Survey) di madison, in Wisconsin. E anche se ci potrebbe essere un po’ più di regolamentazione rispetto a prima, non si può monitorare tutto accuratamente per assicurarsi che non ci sia dentro un patogeno, specialmente quando non sappiamo nemmeno che qualcosa è un patogeno. Quindi questo è un grande 

Il movimento di beni e persone ha quasi certamente giocato un ruolo in diversi scoppi di malattie fungine recenti… [casi documentati]

E la seconda ragione delle epidemie fungine?

E questo, a sua volta, indica un’altra possibile risposta alla domanda “perché ora”. Le malattie fungine tendono ad essere opportunistiche; negli esseri umani, di solito colpiscono coloro che hanno un sistema immunitario compromesso. Il cambiamento climatico, la perdita di habitat, l’inquinamento da metalli pesanti, la competizione da parte di specie invasive – sono solo alcune delle forze che potrebbero ridurre la resistenza degli animali. 

“Penso che sia molto probabile che l’habitat in generale sia degradato e quindi ci sono problemi più grandi con le malattie”, ha detto Tim James, un professore di ecologia e biologia evoluzionistica all’Università del Michigan e curatore associato dei funghi per l’erbario della stessa università. “E’ tutto più stressato”. 

Fisher, dell’Imperial College, ha osservato che movimento e stress possono verificarsi insieme. Quando le persone trasportano animali in giro per il mondo, spesso gli animali soffrono. Se sono portatori di un qualche tipo di patogeno, quel patogeno è probabile che prosperi. Ciò significa che le specie importate sono atte a portare carichi di patogeni particolarmente pesanti.  

“C’è questo enorme commercio di animali domestici e questi animali sono malsani”, ha detto Fisher. “Quindi c’è questo meccanismo di movimento, ma ci sono anche ospiti più suscettibili ed amplificati”. Che la spiegazione sia più movimento o più stress, o – molto probabilmente – entrambi, lo schema, sfortunatamente, sembra probabile che vada avanti.  

“Man mano che un singolo corpo si indebolisce o si ammala a causa di ogni sorta di processo, è più probabile che si prenda una malattia infettiva”, ha osservato Allender dell’Università dell’Illinois di Urbana-Champaign. “Quindi la stessa cosa sta per accadere negli ecosistemi. I funghi sono molto efficienti e sono quelli che emergono. Ma penso che finché non cominciamo ad investire molta energia per gurdare dentro i nostri ecosistemi e valutare i componenti degli stessi, le possibilità che emergano malattie infettive continueranno ad aumentare”. [il saggio termina]

Entrambi fattori i che condizionano le epidemie fungine nella vita selvaggia – 1) spostiamo cose/esseri viventi che lo vogliano o no e 2) abbiamo degradato l’ambiente in generale – sono caratteristiche del mondo dominato dall’uomo (l’antropocene). In precedenza, non è mai successo in un periodo geologico che le specie potessero spostarsi su questo pianeta a destra e a manca senza limitazioni. Ora gli esseri umani stanno facendo gli spostamenti per i loro scopi e lo hanno fatto per secoli. Questo ha una lunga serie di effetti distruttivi, che la Kolbert documenta con una certa estensione.

Qui a DOTE, noi (io ed i miei lettori) abbiamo una visione negativa di sviluppi come questo. Coma ha tweettato una volta la Kolbert in risposta alla ricerca di un “buon” antropocene da parte di Andrew Revkin, [ci sono] 2 parole che probabilmente non dovrebbero essere usate in sequenza: “Buono” ed “antropocene”.

Eppure, in modo caratteristico, gli esseri umani continuano a cercare un “buon” antropocene. La Boston Review di recente ha ospitato un forum di discussione sul libro di Jedediah Purdy La Nuova Natura. (Seguite questi link per approfondire) Purdy cerca anche un “buon” Antropocene (democraticizzato), anche se lo fa in modo più riflessivo di quanto abbia fatto Revkin.

Mi è piaciuta questa parte della risposta di Anna Tsing all’argomento iniziale di Purdy. La sua risposta parla anche delle devastanti epidemie fungine che stanno avvenendo ora in tutto il mondo.

Molti commentatori continuano a riporre le loro speranze in più ingegneria, più capitalismo e più eccezionalismo umano – in altre parole, un “buon Antropocene”. I sostenitori più striduli del buon Antropocene – gli ecomodernisti – sostengono che l’attenzione per l’ecologia debba soddisfare esclusivamente i sogni umani di profitto e controllo. Si oppongono ad altre visioni ed obbiettivi come anti-moderni. Purdy porta nella discussione un occhio critico ed una visione più egualitaria del buon Antropocene, ma la sua proposta conserva il desiderio, improbabile da soddisfare, di vedere l’uomo moderno responsabile. E’ tempo di battersi per un “Antropocene breve”, vale a dire ad adoperarsi per aggrapparsi ai grovigli interrazziali, internazionali ed interspecie che rendono le nostre vite, umane e non umane, possibili.  

Come ha consigliato Audre Lorde, “Gli strumenti del padrone non smantelleranno mai la casa del padrone”. Più piantagioni, per esempio, non risolveranno i problemi causati dalle piantagioni. Le piantagioni, infatti, sono elementi importanti e il commercio industriale delle piante ha fatto riprodurre e diffondere patogeni che minacciano anche quelle piante più felici di vivere con gli esseri umani. Consideriamo la malattia di nome morte improvvisa delle quercie, che sta distruggendo i boschi artificiali in California. E’ causata da una muffa dell’acqua, una Fitoftora, che è stata introdotta ripetutamente, probabilmente attraverso il commercio industriale florovivaistico. La produzione industriale florovivaistica ha diffuso la malattia ed ha aumentato la sua virulenza attraverso l’ibridazione di ceppi un tempo isolati. Come avverte il botanico Oliver Rackham: “Le catastrofi non sono necessariamente anormali… E’ il ritmo delle catastrofi – una ogni qualche anno al posto di una per millennio – che importa”. E continua, “Globalizzare la piantagione di alberi tende inevitabilmente a globalizzare le malattie degli alberi”.  

Rackham offre un programma chiaro per fermare l’aumento della virulenza della Fitoftora: la deindustrializzazione del commercio florovivaistico. Mostra come la cura dei boschi sia incompatibile con la spedizione di suolo e semenze intorno al mondo alla velocità e sulla scala degli attuali standard commerciali. Questa è una pratica pericolosa che non ha vantaggi pratici: uccide gli alberi locali famigliari che sono gli oggetti commerciali più comuni.  

Questo esempio indica il pensiero emergente sulle possibilità di programmi strategici di deindustrializzazione e decrescita che potrebbero partecipare ai coordinamenti multispecie delle ecologie dell’Olocene  – vale a dire, quelle in cui gli esseri umani e le altre specie continuano a condividere condizioni comuni per prosperare. E mentre è importante cominciare con le specificità, c’è una storia grossa qui.

Fin qui tutto bene. Le cose diventano acide ora perché la Tsing continua a parlare degli effetti terribili della “Guerra Fredda” (!) sul dominio umano della Terra.

Nella seconda metà del XX secolo, la Guerra fredda ha sponsorizzato una corsa  verso il sogno della modernità. Ogni megadiga del XX secolo è stata progettata per essere più alta di quella precedente – non necessariamente per irrigazione, energia elettrica o controllo delle alluvioni, ma piuttosto perché facendo così si permetteva a sviluppatori e nazioni di promuovere sé stessi come elementi di successo nel gioco. In questo processo, i progetti modernisti che cambiavano la terra sono stati naturalizzati come il solo modo per gli esseri umani di abitare la terra. Altre alternative, come le dighe piccole, un’antica pratica volgare, venivano denigrate come retrograde ed improduttive. La “grande accelerazione” dopo il 1950, con le sue caratteristiche curve a J che collegano i sistemi mondiali ai sistemi terrestri, sono in gran parte il risultato della corsa della Guerra Fredda verso il sogno della modernità. 

Mobilitarsi per un Antropocene breve significa smantellare questa corsa, gran parte della quale ha dato un contributo minimo al benessere di qualsiasi tipo… 

Gli esseri umani non possono più “smantellare” questa corsa di quanto possano colonizzare Marte, anche se alcuni credono che possano fare entrambe le cose. I comportamenti della Guerra Fredda hanno radici profonde nel comportamento della nostra specie in decine di migliaia di anni. Ci troviamo quasi alla fine di un’infelice curva esponenziale. La Guerra Fredda è avvenuta quasi letteralmente ieri.

L’Antropocene sarà “breve” come desidera la Tsing, ma non perché gli esseri umani hanno esercitato scelte sagge (per esempio) per fermare la diffusione di malattie fungine  deindustrializzando il commercio florovivaistico. Il commercio florovivaistico andrà avanti proprio come ha fatto finché le condizioni rendono lo status quo impossibile o molto difficili da mantenere.
Quindi il “buon” Antropocene non esiste. A questo punto, sappiamo tanto (per esempio, che ha portato ad epidemie fungine nella natura selvaggia). Ancora peggio, non sembra che un “buon” Antropocene possa essere creato tramite un’azione umana intenzionale. Perché questo accada in qualche modo possiamo solo immaginare, gli esseri umani dovrebbero comportarsi in modi mai osservati fino ad oggi. Non trattenete il respiro aspettando che accada.

more

Parte il progetto europeo MEDEAS

Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR 

di Antonio Turiel

Cari lettori,

nella giornata di oggi e domani l’Istituto di Scienze del Mare del CSIC ospita la riunione iniziale del progetto MEDEAS. MEDEAS (acronimo di Modelling Energy system Development under Environmental And Socioeconomic constraints – Modellizzazione dello sviluppo del sistema energetico nei limiti ambientali e socioeconomici) è un progetto europeo finanziato nel segno dello schema Orizzonte 2020 di finanziamento della ricerca europea. Questo progetto è coordinato dalla mia istituzione, più nello specifico dal mio collega Jordi Solé.

Da parte dell’Istituto di Scienze del Mare in questo progetto partecipano anche Antonio García-Olivares, Joaquim Ballabrera, Emilio García e il sottoscritto. Altre due istituzioni spagnole partecipano a questo progetto: CIRCE (Alicia Valero, fra gli altri) e l’Università di Valladolid (Luis Javier Miguel ha preso l’iniziativa, ma partecipano anche vecchie conoscenze come Margarita Mediavilla e Carlos de Castro). Gli altri partners sono il Consorzio Interuniversitario Italiano di Scienza e Tecnologia dei Materiali (Ugo Bardi), il Centro per le fonti di energie rinnovabili ed il risparmio energetico, l’Università di Masaryk, l’Università Anglia Ruskin, Sdruzhenie Chernomorski Izsledovatelski Energien Tsentar, l’Istituto Internazionale per l’Analisi Applicata dei Sistemi, Amici della Terra – Repubblica Ceca, l’Agenzia Austriaca per l’Energia e Blue4You.

L’obbiettivo di MEDEAS, come indica il suo stesso titolo, è creare strumenti adeguati per assistere la progettazione di politiche che favoriscano la transizione del sistema energetico europeo verso uno nuovo basato sull’energia rinnovabile. Per questo, il principale obbiettivo di MEDEAS è quello di produrre un modello socioeconomico, il modello MEDEAS, che possa essere adattato per studiare diversi scenari e percorsi verso la transizione. Il modello MEDEAS sarà programmato in codice aperto (Python) per facilitare il suo uso da parte di diversi agenti sociali ed economici e si baserà sul modello WoLiM, sviluppato dal Gruppo di Dinamica dei Sistemi dell’Università di Valladolid. Il modello MEDEAS sarà un modello di dinamica dei sistemi che introdurrà nuove variabili oltre a quelle abitualmente considerate, di modo che possa fornire una diagnosi più dettagliata di cosa implica l’implementazione di un percorso piuttosto di un altro, soprattutto in determinati aspetti socioeconomici (come l’evoluzione della disoccupazione e della disuguaglianza, per esempio) non sempre descritti nei modelli.

MEDEAS implica un grande sforzo di coordinamento fra la compilazione di dati che serviranno a definire e verificare la sensibilità del modello, il progetto del modello in sé (confrontato anche con alcuni modelli già esistenti) e la valutazione dei diversi scenari. MEDEAS è una proposta ambiziosa per creare un nuovo modello che vada oltre ai modelli attuali, in particolare essendo sufficientemente flessibile da accettare scenari di tipo molto diverso e che permetterà di realizzare un’analisi dettagliata tanto su scala paneuropea quanto a livello di alcuni paesi. Dato il mio coinvolgimento nel progetto e il suo interesse per le questioni di cui si discute qui, nel corso dei prossimi 4 anni della sua durata informerò da questa pagina riguardo ai progressi rilevanti di MEDEAS.

MEDEAS giunge in tempo per tentare di fornire alcune risposte in un mondo in cui le domande sul proprio futuro si moltiplicano. Rimanete sintonizzati: attendiamo notizie di MEDEAS.

Saluti.
AMT

more

Niente inverno nell’Artico nel 2016 – La NASA registra il gennaio più caldo mai registrato

Da “robertscribbler.com”. Traduzione di MR (via Alexander Ač)

Gli scienziati sono atterriti e dovremmo esserlo anche noi. Il calore globale e specialmente le anomalie della temperatura estremamente alte che abbiamo visto nell’Artico durante il mese scorso sono del tutto senza precedenti. E’ mostruosamente strano. E a questo osservatore particolare sembra che la stagionalità del nostro mondo stia cambiando. Ciò di cui siamo testimoni, a questo punto, sembra l’inizio della fine dell’inverno così come lo conosciamo.

Gennaio più caldo mai registrato – Ma l’Artico è semplicemente fuori da ogni limite

Chiunque osservi l’Artico – dagli scienziati, agli ambientalisti, agli specialisti delle minacce emergenti, agli appassionati di meteo e clima, alle persone normali stravolti dallo stato in rapida dissoluzione del nostro sistema climatico globale – dovrebbero essere molto, molto preoccupati. Le emissioni umane di gas serra – che ora spingono livelli di CO2 al di sopra delle 405 ppm ed aggiungono una serie di gas che intrappolano il calore – sembra che stia rapidamente spingendo il mondo verso il caldo. Ed a scaldarsi più rapidamente in uno dei luoghi assolutamente peggiori immaginabili: l’Artico.

Gennaio 2016 non è stato solo il mese di gennaio più caldo mai registrato nei 136 anni di dati sul clima globale della NASA. Gennaio non ha solo mostrato l’anomalia di temperatura più alta dalla media di un singolo mese – +1,13°C al di sopra della linea di base del XX secolo della NASA e circa +1,38 al di sopra delle medie degli anni 80 del 1800 (solo un timodo 0,12°C al di sotto della soglia pericolosa degli 1,5°C). Ma ciò che abbiamo osservato nella distribuzione globale di queste temperature record è stato bizzarro ed inquietante.

(Un mondo da caldo record a gennaio mostra il caldo estremo dell’Artico. La mappa dell’anomalia della temperatura globale della NASA suggerisce che il caldo tropicale – provocato da un El Niño da record – ha viaggiato verso nord fino all’Artico attraverso la debolezza del Jet Stream sull’America Nordoccidentale  e l’Europa Occidentale. Fonte dell’immagine – NASA GISS).

Anche se il mondo è stato caldo nel suo insieme – con il calore de El Niño a dominare le zone tropicali – gli estremi più alti al di sopra della temperatura media si sono concentrati proprio sul tetto del mondo. Lì, nelle terre dell’Artico del ghiaccio perenne e del permafrost che ora fondono – sulla Siberia, sul Canada Settentrionale, sul nord della Groenlandia e in tutta l’area  dell’Oceano Artico  al di sopra del 70° parallelo di latitudine nord – le temperature sono state in media fra i 4 ed i 13 gradi celsius al di sopra della norma. Ciò fra i 7 ed i 23 gradi fahrenheit più alte del normale per il periodo straordinario di un intero mese.

E più a nord ci si spinge, più si trova calore. Al di sopra della linea del 80° parallello di latitudine nord, le medie delle temperature dell’intera regione hanno raggiunto i 7,4°C oltre la norma. Per questa area dell’Artico, si tratta circa della stessa differenza tipica che intercorre fra gennaio ed aprile (aprile è di circa 8°C più caldo di gennaio in un anno normale). Quindi ciò che abbiamo visto non ha assolutamente precedenti – per l’intero mese di gennaio 2016, le temperature sono state quelle della primavera artica.

(Da gennaio a febbraio 2016, la regione del 80° parallelo nord di latitudine ed ulteriormente a nord ha sperimentato le sue condizioni più calde mai registrate. Le temperature sono rimaste in una gamma fra i -25 e i -15°C nella zona – una serie di temperature più tipiche di fine aprile. Fonte dell’immagine: NOAA).

E per l’inverno 2016 è possibile che l’Artico possa non averne le condizioni tipiche. Per la prima metà di febbraio si è visto questo calore record di tipo primaverile estendersi fino ad oggi, secondo il NOAA. E’ come se le zone più fredde dell’Emisfero Settentrionale non abbiano ancora avuto l’inverno – come se le spaventosa tempesta che ha portato le temperature dell’Artico a livelli record durante la fine di dicembre abbia, dal suo arrivo, inceppato il termometro a livelli di temperatura tipici di aprile e lo abbia bloccato lì.

Il calore de El Niño è collegato al Polo

Perché tutto questo è così terribile? Sarebbe negativo se fosse solo un caso che il calore nell’Artico portasse proprio alla fusione sempre più rapida dei ghiacciai – spingendo i mari a sollevarsi di centimetri, pollici e piedi. Sarebbe piuttosto negativo se il riscaldamento polare si amplificasse man mano che il ghiaccio bianco sulla terraferma o sopra l’oceano si ritira – trasformando una superficie che riflette il calore in un tratto blu scuro, verde e marrone che assorbe calore. Sarebbe molto straordinariamente negativo se tale calore portasse anche alla fusione del permafrost – peggiorando ulteriormente il riscaldamento antropogenico liberando 1.300 miliardi di tonnellate di carbonio e infine trasferendone metà nell’atmosfera. E sarebbe piuttosto negativo se tutto il calore extra nell’Artico cominciasse ad interferire col meteo dell’Emisfero Settentrionale – alterando il flusso del Jet Stream. Portando a fronti che producono siccità molto persistenti e depressioni che producono tempeste.

(Onde di grande ampiezza nel Jet Stream – una sopra l’America Nordoccidentale  ed una seconda sull’Europa – trasferiscono il calore delle latitudini più basse nell’Artico durante un anno di El Niño il 7 febbraio 2016. Man mano che l’amplificazione polare si è avviata a nuovi estremi durante la registrazione dei mesi caldi di dicembre e gennaio, è sembrato che la capacità de El Niño’di rafforzare il Jet Stream e quindi di separare il calore equatoriale dal Polo più freddo sia stata compromessa. Fonte dell’immagine: Earth Nullschool).

Tristemente, questi eventi non sono più solo ipotetici. Il ghiaccio marino si sta ritirando. Il permafrost sta fondendo. I ghiacciai stanno fondendo. E il flusso del Jet Stream sembra indebolirsi.

Ma se tutto questo calore polare che si accumula a causa dell’uso umano dei combustibili fossili avesse un altro effetto ancora? E se quella pietra calda gettata nel fiume della circolazione atmosferica che chiamiamo El Niño potesse in qualche modo trasferire il suo accumulo di calore tropicale fino al Polo? E se il flusso del Jet Stream nell’Emisfero Settentrionale fosse diventato così debole che persino un riscaldamento ai tropici dovuto ad El Niño con una forza da record non potesse accelerarlo significativamente (attraverso un aumento del differenziale di calore fra l’Equatore ed il Polo)? E se quelle nuove zone di fronte si allungassero fino all’Artico – spingendo calore tropicale nell’estremo nord durante gli eventi de El Niño? Durante i periodi in cui il globo, nel suo complesso, è più caldo che mai? Durante un periodo in cui il calore e l’umidità alla superficie dell’Oceano Pacifico stava sperimentando un nuovo picco a causa di una combinazione di riscaldamento antropogenico e de El Niño che tocca il vertice del ciclo di variabilità naturale?

E se, in qualche modo, il picco del calore tropicale potesse correre dall’Equatore al Polo?

Ciò che vedremmo è quindi un’accelerazione dei pericolosi cambiamenti dell’Artico descritti sopra. Ciò che vedremmo è un accoppiamento della amplificazione polare legata al riscaldamento globale col massimo della scala della variabilità naturale del calore rappresentata da El Niño. E, visto il non inverno nell’Artico rappresentato dal primo mese e mezzo del 2016, sembra che sia proprio questo che abbiamo appena sperimentato.

Gli scienziati sono atterriti. Be, dovrebbero. Tutti noi dovremmo.

Collegamenti:

NASA GISS
NOAA
Scientists are Floored By What’s Happening in the Arctic Right Now
Warm Arctic Storm to Unfreeze the North Pole
Clima del Polo Nord
The Arctic Sea Ice Blog
Impacts of Sea Ice Loss
Earth Nullschool
Jennifer Francis sull’Impatto del riscaldamento dell’Artico sul Jet Stream
h/t TodaysGuestIs

more

Avere figli è terribile per l’ambiente, quindi non ne avrò

Da “The Washington Post”. Traduzione di MR (via Population Matters)

L’esplosione della popolazione e il cambiamento climatico sono collegati. Voglio fare la mia parte 

Di Erica Gies 

(iStock)

“Hai dei bambini?”

E’ una domanda che mi hanno ripetutamente fatto nei miei viaggi, in quanto ovunque le culture celebrano i bambini e la capacità delle donne di farli. Io no, né lo pianifico, per ragioni sia personali sia ambientali. Ma non volendo innescare uno scambio imbarazzante, di solito nicchio con un “non ancora”. Ho trovato difficile giocare in anticipo riguardo alla mia scelta, perché citare la sovrappopolazione è stata una pericolosa area di conversazione. Dopo tutto, la maggior parte delle culture hanno tradizioni fondate in una qualche versione del “crescete e moltiplicatevi” biblico.

Ma esortazioni del genere sono venute molto prima che la popolazione mondiale si impennasse nel XX secolo da 1,6 miliardi nel 1990 ai 6,1 miliardi del 2000, prima che il cambiamento climatico cominciasse a fondere i ghiacciai che forniscono acqua potabile a miliardi di persone. Oggi, i livelli del mare aumentano, minacciando coloro che vivono nelle città costiere e rendendo salate le falde acquifere. L’insicurezza idrica causata in parte dalla pressione della popolazione ha un ruolo nei conflitti armati, come nella guerra che sta decimando la Siria. Stiamo spingendo le altre specie verso l’estinzione ad un ritmo 1.000 volte più alto di quello pre-umano, cosa che è sicuro che ci condizionerà in modi che non comprendiamo ancora.

Gli ottimisti tecnologici sono convinti che l’ingegno umano ci salverà, come la Rivoluzione Verde ha raddoppiato i rendimenti agricoli. Ma mentre le persone stanno lavorando per rendere le attività umane più sostenibili, aumentare la popolazione vanifica il loro impatto. Considerate i requisiti di efficienza degli elettrodomestici in California, che hanno ridotto il loro uso di energia solo al 25% di quello di 40 anni fa. Sfortunatamente la popolazione della California è quasi raddoppiata in quel periodo, quindi il consumo di elettricità si è spostato di poco. Altri sostengono che il consumo è un problema più grande della popolazione. Dopotutto, l’impatto di carbonio di un bambino nato negli Stati Uniti (compresi i suoi discendenti) è più di 160 volte l’impatto di un bambino nato in Bangladesh. Tuttavia, popolazione e consumo sono collegati. La storia mostra che la rapida crescita della popolazione di solito è seguita da un periodo di aumento di consumo pro capite come quella che stiamo vedendo ora in Cina. Inoltre, la globalizzazione sta portando espansione urbana, proprietà di automobili, una mentalità usa e getta e una dieta con più carne per miliardi di consumatori in più che attualmente non se lo possono permettere. E alla fine, le azioni per rendere verde lo stile di vita di qualcuno sono meno efficaci dell’avere meno bambini. Una donna americana che guida un’automobile che consuma meno, che migliora l’efficienza energetica della propria casa, che ricicla e fa cambiamenti dello stile di vita simili risparmierebbe 486 tonnellate di CO2 durante il corso della sua vita, mentre scegliere di avere un figlio di meno ne farebbe risparmiare 9.441 tonnellate.

Se non riduciamo il nostro numero in modo proattivo, lo farà la natura al posto nostro, in modo duro ed improvviso, attraverso malattie, carestie, siccità, super tempeste o guerre. Non sostengo una politica mondiale del “figlio unico” o sterilizzazioni autoritarie. Piuttosto, la chiave per ridurre la popolazione è l’educazione delle ragazze e l’accesso al controllo delle nascite. Ciò è stato piuttosto efficace in paesi sviluppati e in paesi in via di sviluppo, come Thailandia e Vietnam, stanno cominciando a mostrare a loro volta tassi di fertilità in declino. Ma abbiamo ancora bisogno di un cambiamento degli atteggiamenti sociali. Le persone si comportano come se la mia scelta sia pericolosamente sovversiva ed una minaccia. Famiglia, amici ed stranieri mi hanno detto che sono egoista. Che non so cosa mi perdo. Che lo rimpiangerò quando sarò vecchia e nessuno si prenderà cura di me. Che in qualche modo sono manchevole perché amo il mio gatto piuttosto che un bambino. Che sono ipocrita perché anche il mio gatto ha un’impronta ecologica. Ma l’americano medio contribuisce per 17 tonnellate all’anno di carbonio nell’atmosfera. E, mentre non conosco effettivamente l’impronta ecologica del mio gatto, questo avrà una vita più breve di quella di un bambino, di sicuro non procreerà e non avrà l’abitudine di guidare, volare, riscaldare la casa o comprare apparecchiature elettroniche che richiedono molte risorse.

Ho scritto per la prima volta della mia decisione nel 2011, quando ho notato che che la popolazione mondiale era raddoppiata nel corso della mia vita, fino a 7 miliardi. Mentre alcune risposte sono state negative, comprese persone che mi hanno detto che mi devo uccidere (quindi se stavate pensando di farlo, non ce n’è bisogno!), altre persone mi hanno ringraziata per aver articolato i loro punti di vista. Molti non sono occidentali, come l’uomo di 29 anni che ha detto che la lotta per la sopravvivenza nell’India sovrappopolata lo ha portato a decidere di non avere figli, un punto di vista che è un anatema per la sua famiglia. “A differenza dell’occidente dove non avere figli è visto come un atto di egoismo”, ha scritto, “gli indiani pensano a questo come ad un fallimento personale completo”. Nel suo trattato classico “Sulla libertà”, John Stuart Mill ha sostenuto che il tuo diritto di fare ciò che vuoi finisce nel punto in cui questo viola i diritti di qualcun altro. Direi che, data la nostra popolazione estrema, avere più di due figli, il livello di sostituzione di una coppia, lede la libertà altrui utilizzando la loro parte di risorse. Eppure, gli incentivi del governo sono asimmetrici, offrendo riduzioni delle tasse per la riproduzione, penalizzando pertanto le persone senza figli. Questo deve cambiare. Le persone senza figli biologici possono dare ancora molto alla generazione successiva. L’adozione fornisce l’amore necessario e la stabilità ad un bambino che c’è già. Sono stata adottata, come lo sono stati due dei miei nipoti. E in anni recenti sono diventata una madre adottiva di due bambini intelligenti, caldi e divertenti. E’ un ruolo illuminante ed impegnativo, che mi spinge a crescere mentre mi sforzo di essere un’influenza positiva sulle loro vite. Quando considero il loro futuro e il pianeta sano di cui hanno bisogno per prosperare, spero che continueremo a passare ad una maggiore accettazione sociale del fatto di non avere figli, a migliori politiche di governo e un’educazione più diffusa per le donne come percorso soft per ridurre il nostro numero. Per una qualità di vita ottimale, dobbiamo essere di meno.

more

Un tempo inarrestabili, le sabbie bituminose sono al collasso

Da “Resilience”. Traduzione di MR 

Di Ed Struzik, pubblicato originariamente da Yale Environment 360

L’industria delle sabbie bituminose canadesi è in crisi a causa che i prezzi del petrolio che crollano, i progetti di oleodotti vengono cancellati e i nuovi governi dello stato di Alberta e di Ottawa promettono di affidarsi di meno a questa fonte energetica altamente inquinante. E’ l’inizio della fine del colosso delle sabbie bituminose?

Nell’estate del 2014, quando il petrolio veniva venduto a 114 dollari al barile, l’industria delle sabbie bituminose dell’Alberta si basava ancora fiduciosamente sulle precedenti previsioni secondo le quali avrebbe quasi triplicato la produzione netro il 2035. Le società come Suncor, Statoil, Syncrude, Royal Dutch Shell ed Imperial Oil Ltd. Investivano centinaia di miliardi di dollari in nuovi progetti per estrarre il bitume spesso ed altamente inquinante.

Addocchiando questo boom petrolifero, il primo ministro canadese Stephen Harper ha detto di essere sicuro che l’oleodotto Keystone XL  — “una follia”, secondo le sue parole – sarebbe stato costruito, con o senza l’approvazione del presidente Obama. Keystone, che porterebbe il greggio della sabbie bituminose dall’Alberta alle raffinerie lungo il Golfo del Messico, era cruciale se il bitume dei nuovi progetti di sabbie bituminose volevano trovare una strada per il mercato.

Che differenza fanno 18 mesi. Il prezzo del petrolio oggi è crollato a circa 30 dollari al barile, ben al di sotto del punto di pareggio dei produttori di sabbie bituminose, ed il valore del dollaro canadese è crollato nettamente. Il presidente Obama ha ucciso il progetto Keystone XL a novembre ed una opposizione convinta ha finora fermato i tentativi di costruire oleodotti che porterebbero il greggio delle sabbie bituminose verso le coste atlantiche e pacifiche canadesi.

Ugualmente terribili per l’industria delle sabbie bituminose sono gli sviluppi politici nell’Alberta ed in Canada. A maggio, gli elettori dell’Alberta hanno cacciato il premier conservatore ed eletto un governo di centrosinistra. Il nuovo premier, Rachel Notley, è impegnata per fare qualcosa di significativo per il cambiamento climatico e rivedere il pagamento delle royalty di petrolio e gas  alla provincia, che sono fra le più basse del mondo.

Ad ottobre, gli elettori canadesi hanno mandato via harper e il suo Partito Conservatore ed eletto il liberale Justin Trudeau come primo ministro. Il mese scorso, Trudeau ha promesso di non essere un “fan degli oleodotti” e ha detto che avrebbe tenuto conto delle emissioni di gas serra nel valutare i progetti di oleodotti. Trudeau ha segnalato che è arrivata una nuova era quando ha detto al World Economic Forum di Davos, in Svizzera, “Il mio predecessore voleva che conosceste il Canada per le sue risorse. I voglio che conosciate i canadesi per la nostra intraprendenza”.

Anche se potrebbe non essere il momento di alzare la bandiera bianca della resa a Fort McMurray, il capitale delle sabbie bituminose nel nord dell’Alberta, l’industria sta improvvisamente attraversando una tempesta perfetta  che gli analisti dicono dicono abbia alterato significativamente le sue prospettive. Mark Jaccard, un professore di energia sostenibile all’Università Simon Fraser di Vancouver che è stato AD della Commissione sui Servizi della Columbia Britannica, non è il solo a suggerire che a causa delle preoccupazioni sul cambiamento climatico ed i prezzi bassi, l’era dei megaprogetti delle sabbie bituminose potrebbe esser giunto alla fine.

“Ciò non è buono per le risorse petrolifere ad alto costo, come le sabbie bituminose”, dice Jaccard. “E sei i grandi paesi come Stati Uniti, Cina ed Unione Europea continuano la loro modesta spinta climatica, ci saranno ulteriori sfide per le fonti petrolifere ad alte emissioni, come le sabbie bituminose”.

Peter Tertzakian, capo economista energetico e direttore di gestione della multinazionale finanziaria ARC concorda, dicendo che l’industria delle sabbie bituminose deve diventare più piccola, più pulita e più efficiente se vuole essere un attrice significativa in futuro.

“Anche prima che crollo del prezzo del petrolio c’era una tendenza nell’investimento in petrolio e gas – che fosse per grandi multinazionali o singoli investitori – a rifuggire progetti che ripagavano sul lungo periodo con molti rischi non quantificabili che sono anche caratterizzati da costi di capitale molto alti”, ha detto Tertzakian all’Alberta Oil Magazine a settembre. “Le sabbie bituminose devono competere per il capitale con tutti gli altri tipi di progetti petroliferi che ci sono là fuori… Il vecchio paradigma delle baracche per 4.000 uomini e lunghi periodi di costruzione è finito”.

Altri esperti di energia ed ambiente abbracciano una visione anche più oscura, dicendo che date che l’espansione costante dell’energia rinnovabile ed un’azione internazionale più concertata per rallentare il riscaldamento globale, le sabbie bituminose ad alta intensità di carbonio potrebbero contrarsi e scomparire nei prossimi decenni.

“Nell’ambito del regno della sanità mentale, penso le sabbie bituminose siano finite”, dice David Schindler, il quale, come limnologo ed ecologo all’Università dell’Alberta ha giocato un ruolo chiave nel costringere le sabbie bituminose a cambiare il modo in cui monitorano e comunicano l’inquinamento di aria ed acqua. “Col loro prodotto che ora è così a buon mercato, stanno operando ben al di sotto del costo, cercando soltanto disperatamente di recuperare parte dell’enorme investimento di partenza piuttosto che vederlo andare tutto in fumo”. Ha previsto che l’industria sarà oggetto di una fusione importante finché rimarranno uno o due giganti dalle tasche piene. Ma, ha aggiunto, “Alla fine dovranno cadere anche loro. Nuovi investimenti? No, a meno che gli investitori non siano dei completi idioti”.

Schindler ed altri scienziati e conservatori hanno richiamato l’attenzione sulla distruzione ambientale su larga scala che ha accompagnato l’estrazione delle sabbie bituminose, che comporta lo scavo di pozzi alla profondità di 76 metri per estrarre sabbie ricche di petrolio. Negli ultimi quattro decenni, le operazioni per le sabbie bituminose hanno distrutto approssimativamente 482 kmq di habitat di foresta boreale e paludi. Vengono usate grandi quantità di acqua nel processo di estrazione e l’industria ha creato 112 kmq di bacini di decantazione tossici che devono ancora essere bonificati. L’estrazione e la raffinazione del greggio da sabbie bituminose crea anche emissioni di gas serra significativamente maggiori – le stime partono da un 37% o più – rispetto alla produzione di greggio convenzionale.

Molte aziende hanno già concesso di non avere futuro in un regime economico e regolamentato che premi i minori costi e le minori emissioni e penalizzi i grandi inquinatori. Secondo la Wood Mackenzie, una società di consulenza energetica, 800.000 barili al giorno di progetti di sabbie bituminose sono stati ritardati negli ultimi 18 mesi. Ciò significa 16 nuovi progetti che sono stati messi in attesa o cancellati. La CNOOC, che di recente ha sospeso la produzione nel suo impianto di produzione di sabbie bituminose di Long Lake, secondo le testimonianze è una delle diverse altre società che cerca i modi per salvare le sabbie bituminose.

Persino l’Associazione Canadese dei produttori di Petrolio (CAPP) ha fatto marcia indietro rispetto alle previsioni rosee sull’espansione delle sabbie bituminose. Nel 2013, ha previsto che la produzione di sabbie bituminose sarebbe aumentata da circa 2 milioni di barili al giorno a 5,2 milioni di barili al giorno entro il 2030. Nel 2015, la CAPP ha ridotto la produzione stimata di sabbie bituminose per il 2030 a 4 milioni di barili al giorno. La produzione di sabbie bituminose potrebbe scendere anche più in basso, dicono gli analisti.

A rendere le cose peggiori per l’industria è il fatto che ci sono pochi segni che i prezzi ritorneranno a 60-80 dollari al barile, punto di pareggio per molte società, in tempi brevi. La IEA prevede che i prezzi del petrolio potrebbero non tornare nella gamma degli 80 dollari al barile fino agli anni 20 del 2000 e che la crescita successiva sarà “perlomeno tiepida fino agli anni 40”.

Se fosse così, solo le società più grandi e più ricche avranno introiti sufficienti di riserva per attraversare l’attuale tempesta. Potrebbe essere questo il motivo per cui la  Canadian Oil Sands Ltd abbia recentemente acconsentito ad una assimilazione da parte di Suncor e il perché è probabile che altre società si fondano.

Un altro problema di esistenza per l’industria delle sabbie bituminose è che i progetti di oleodotti come Keystone e Northern Gateway – che trasporterebbero il petrolio da sabbie bituminose ai porti dell’Oceano Pacifico – sono morti o condannati a morte. Altri progetti di oleodotti come il Trans Mountain e Energy East stanno incontrando una forte opposizione da parte dei capi aborigeni canadesi, dai premier delle provincie e dai funzionari comunali, compresi 82 sindaci del Qebec, che in gennaio hanno espresso la loro opposizione all’oleodotto Energy East, che trasporterebbe il greggio delle sabbie bituminose ai porti del Canada atlantico.

Jaccard ed alcuni altri analisti non stanno ancora per togliere dal conto le sabbie bituminose. Dice che il conflitto in Arabia Saudita o nel Medio oriente potrebbe tagliare la produzione ed aumentare i prezzi del petrolio. Un tentativo flebile a lungo termine di rallentare il cambiamento climatico potrebbe anche far ben sperare per le sabbie bituminose, dice Jaccard. Jaccard crede anche che alcune delle società di sabbie bituminose più grandi sono ricche ed innovative a sufficienza da superare le sfide tecnologiche che affrontano avendo a che fare con le emissioni di carbonio ed altre sfide del cambiamento climatico, come la carenza prevista delle quantità massicce di acqua di fiume necessarie per separare il petrolio dalle sabbie.

Un jolly in tutto ciò sono i sussidi governativi generosi e i diritti stracciati necessari per mantenere a galla le sabbie bituminose. Questi sussidi potrebbero declinare o scomparire man mano che l’Alberta ed i governi canadesi fanno slittare le loro priorità ed aumentano il sostegno ad eolico, solare e gas naturale non solo per soddisfare i propri obbiettivi di riduzione delle emissioni di CO2, ma anche per stimolare l’economia.

Secondo un rapporto del 2014 condotto da Clean Energy Canada,la crescita dell’energia rinnovabile ha prodotto più posti di lavoro dell’industria delle sabbie bituminose. L’impiego diretto nel settore dell’energia pulita – che comprende idroelettrico così come eolico, solare e biomasse – è stato di 23.700 osti di lavoro, di fronte alle 22.000 persone impiegate nelle sabbie bituminose, secondo il rapporto.

“La domanda interessante quindi è come evolvono le società di sabbie bituminose ed oleodotti”, dice  Dan Woynillowicz, direttore delle politiche di Clean Energy Canada? “Alcune sono diventate degli attori nel campo delle energie rinnovabili e, anche se si tratta di una piccola parte dei loro affari attuali, in realtà sono alcuni fra i più grandi sviluppatori di energie rinnovabili in Canada. Come è, per queste società, continuare a transitare dall’essere una società di combustibili fossili ad essere una società energetica con beni fossili e rinnovabili e poi ad una società di energia rinnovabile?”

Anche se e quando i prezzi del petrolio si riprendono, l’industria delle sabbie bituminose continuerà a vedere una competizione costante non solo dai progetti di energia rinnovabile, ma anche dal boom del petrolio prodotto da fratturazione idraulica delle formazioni di scisto negli Stati Uniti.

Schindler, il limnologo che è stato il critico di lungo periodo dell’industria potrebbe sbagliare prevedendo che Fort McMurray “sarà il prossimo Butte, in Montana, con molte case sbarrate e che ai contribuenti saranno rimasti con un sacco di bacini di decantazione tossici e terre sfruttate, desolate e non bonificabili in mano”. Ma non sbaglia nell’evidenziare che gli abitanti dell’Alberta sono realmente spaventati dal futuro della loro industria dell’energia un tempo indomita.

Simon Dyer, il direttore regionale associato dell’Alberta all’Istituto Pembina, che agisce come cane da guardia dell’industria dell’energia, dica che il recente piano del governo dell’Alberta di limitare le emissioni di carbonio delle sabbie bituminose a 100 megatonnellate entro il 2030, dalle 70 megatonnellate di oggi, è un chiaro segno che una robusta espansione della produzione non è prevista.

“Non è chiaro che gli abitanti dell’Alberta e i canadesi sappiano che il tipo di espansione che ci è stato promesso diversi anni fa non si verificherà”, dice. “Non succederà”.

more

Cosa? Io preoccuparmi del picco del petrolio?

Da “artberman.com”. Traduzione di MR

Postato su The Petroleum Truth Report il 27 dicembre 2015

Di Art Berman

Il Congresso la settimana scorsa ha messo fine al divieto di esportazione di petrolio greggio degli Stati Uniti. Apparentemente non c’è più una ragione strategica per conservare il petrolio perché la produzione da scisto ha reso di nuovo grande l’America, O perlomeno questa è la storia che i politici allergici alla realtà e i loro elettori preferiscono. La legge di politica e conservazione energetica del 1975 (EPCA) che ha proibito l’esportazione di petrolio greggio è stata la cosa più prossima ad una politica energetica che gli Stati Uniti abbiano mai avuto. La legge è stata approvata dopo che il prezzo del petrolio è aumentato da 21 dollari a 51 dollari (in dollari del 2015) in un mese (il gennaio del 1974) a causa dell’embargo arabo sul petrolio.

La EPCA non ha solo proibito l’esportazione di petrolio greggio ma ha anche istituito la Riserva Petrolifera Strategica. Entrambe le misure erano intese a mantenere più petrolio internamente per rendere gli Stati Uniti meno dipendenti dalla importazioni petrolifere. E’ stato stabilito un limite di velocità nazionale di 90 km/h per spingere alla conservazione ed è stata fondata la IEA per controllare meglio e prevedere la fornitura globale di petrolio e le tendenze della domanda. Soprattutto, il divieto di esportazione riconosceva il declino dell’offerta interna e l’aumento delle importazioni che avevano reso vulnerabile la nazione alla disgregazione economica. La sua abrogazione, la scorsa settimana, suggerisce che non c’è più alcun rischio associato alla dipendenza da petrolio straniero.


Cosa, io preoccupato?

La rivoluzione del tight oil ha riportato la produzione di petrolio greggio degli Stati uniti quasi al suo picco di 10 milioni di barili al giorno (mb/g) del 1970 e le importazioni sono scese nell’ultimo decennio (Figura 1).

Figura 1. Produzione di petrolio greggio statunitense, importazioni nette e consumo. EIA e Labyrinth Consulting Services, Inc.

Ma oggi gli Stati Uniti importano il doppio del petrolio (il 97% rispetto al 1974!. Nel 2015, gli Stati Uniti hanno importato 6,8 mb/g di petrolio greggio (netti) in confronto ai soli 3,5 mb/g dei tempi dell’embargo arabo sul petrolio (Tavola 1).

Tavola 1. Confronto delle importazioni statunitensi di petrolio, produzione e consumo fra il 1974 (embargo arabo sul petrolio) e 2015 (oggi). Fonte: EIA e Labyrinth Consulting Services, Inc.

La produzione di petrolio greggio oggi è maggiore del 7%, ma il consumo è aumentato di più di 16 mb/g, un aumento del 32%. Ai tempi dell’embargo, il consumo era di soli 12 mb/g. Quindi il consumo è aumentato di un terzo e le importazioni sono raddoppiate, ma non abbiamo più bisogno di pensare in modo strategico alla fornitura di petrolio perché la produzione è un po’ più alta? Siamo di gran lunga più vulnerabili economicamente e dipendenti da petrolio straniero oggi di quanto lo fossimo quando l’esportazione di petrolio è stata vietata 40 anni fa.

Cosa, io preoccupato?

Figura 2. Alfred E. Neuman. Fonte: moneyandmarkets.com

Picco del petrolio

Mentre il mondo era concentrato su una offerta eccessiva di petrolio e sul crollo dei prezzi negli ultimi 18 mesi, la produzione di liquidi mondiale ha raggiunto il picco nell’agosto del 2015 a circa 97 mb/g (Figura 3).

Figura 3. Produzione mondiale di liquidi convenzionali e non convenzionali. Fonte: EIA, Drilling Info, Statistics Canada e Labyrinth Consulting Services, Inc.

La produzione media giornaliera di 95,5 mb/g nel 2015 supera la previsione della Prospettiva Annuale per l’Energia della EIA per il 2015 (aprile 2015) di 2,6 mb/g! La produzione di petrolio convenzionale ha raggiunto il picco nel gennaio 2011 a circa 86,2 mb/g (Figura 3) e la produzione convenzionale non OPEC ha raggiunto il picco nel novembre 2010 a 49,8 mb/g (Figura 4).

 Figura 4. Produzione mondiale di liquidi convenzionali e non convenzionali che mostra la produzione OPEC e non OPEC. Fonte: EIA, Drilling Info, Statistics Canada eLabyrinth Consulting Services, Inc.

Non è importante se questo è il picco massimo di produzione mondiale o no. E’ un segnale della tendenza che deve essere riconosciuta e compresa nel nostro nuovo paradigma in evoluzione sull’offerta di petrolio. Il picco della produzione di petrolio è stato accelerato da una convergenza di fattori. Tassi di interesse zero negli Stati Uniti e interruzioni di offerta del Medio Oriente prima del 2014 hanno causato gli alti prezzi del petrolio. Il denaro facile ha causato un eccesso di investimento in affari petroliferi. La sovrapproduzione e l’indebolimento della domanda hanno portato al collasso dei prezzi mondiali del petrolio. La reazione dell’OPEC e la decisione di produrre ai ritmi massimi hanno creato la “tempesta perfetta” per il picco diversi anni prima di quanto sarebbe successo diversamente. Tutti i produttori di petrolio stanno perdendo soldi coi prezzi attuali, ma le società e i paesi stanno producendo a ritmi alti. I protagonisti del convenzionale e del non convenzionale indebitati hanno necessità di flusso di cassa per far fronte al debito, quindi stanno producendo a ritmi alti. L’OPEC sta producendo a ritmi alti per mantenere o guadagnare fette di mercato. Tutti si stanno comportando in modo razionale dal proprio punto di vista, ma da un livello alto, sembra che abbiano perso tutti la testa. Il picco del petrolio non significa finire il petrolio. Ha a che fare con quello che succede quando l’offerta di petrolio convenzionale comincia a declinare. Una volta che succede questo, fonti di petrolio di costo maggiore e di minore qualità diventano sempre più necessarie per soddisfare la domanda globale. Quelle fonti secondarie di petrolio includono la produzione non convenzionale (sabbie bituminose e tight oil) e quella di alto mare. Il contributo della produzione non convenzionale e di alto mare è cresciuta da circa il 15% nel 200 ad approssimativamente un terzo dell’offerta totale odierna e probabilmente rappresenterà più del 40% entro il 2030. Nonostante un credenza popolare secondo la quale il tight oil è competitivo a livello di prezzo con la produzione convenzionale di petrolio, in realtà non lo è. (Figura 5).

Figura 5. Slide della presentazione dell’AD di Schlumberger, Paal Kibsgaard, alla Conferenza sull’Energia della Scotia Howard Weil del 2015.

La Figura 5 è di Schlumberger, una società che conosce i costi dei suoi clienti globali. Mostra che il tight oil è la fonte di petrolio più costosa, seguita da quello di alto mare e da altri petroli in mare aperto. Il petrolio convenzionale sulla terraferma e le fonti mediorientali dell’OPEC sono i petroli a costo più basso. Schlumberger non ha incluso le sabbie bituminose nel suo grafico perché è difficile confrontare i costi delle operazioni di produzione al costo della trivellazione di singoli pozzi. I progetti di sabbie bituminose già estratti e i SAGD (Steam-Assisted Gravity Drainage) esistenti, tuttavia, pareggiano a circa 50 dollari al barile, anche se i nuovi progetti SAGD richiedono circa 80 dollari al barile. La Figura 5 riflette i costi nel 2014. Anche se i miglioramenti di costo ed efficienza dal 2014 probabilmente valgono per tutti i giacimenti, la Tavola 2 mostra i costi della fine del 2015 e le riserve degli operatori di tight oil chiave. I principali giacimenti di tight oil – Bakken, Eagle Ford e il bacino Permian – oggi pareggiano ad un prezzo di  65-70 dollari al barile.

Tavola “. Media ponderata stimata dei recuperi finali dell’operatore chiave (EUR) in barili di petrolio equivalente e prezzi di pareggio del petrolio. Vengono mostrati i costi di Trivellazione e Completamento (D&C) usati nei calcoli economici. L’economia include anche un 8% di sconto. I dettagli si possono trovare ai seguenti link: Bakken, Eagle Ford e Permian. Fonte: Drilling Info e Labyrinth Consulting Services, Inc.

Anche se l’EUR è maggiore e i prezzi di pareggio sono inferiori per alcuni operatori e le aree centrali dei giacimenti, la Tavola 2 riflette i valori medi rappresentativi degli operatori coi più alti ritmi di produzione e di produzione cumulativa. Se il prezzo del petrolio aumenta, i costi di servizio aumenteranno a loro volta e i costi di produzione saranno maggiori. I guadagni di efficienza sono in gran parte alle nostre spalle, man mano che che la nuova produzione dei pozzi per piattaforma è diventata piatta nell’ultimo trimestre del 2015 (Figura 6), quindi è irragionevole aspettarsi che i costi diminuiscano ulteriormente.


Figura 6. Produzione di tight oil da nuovi pozzi per piattaforma. Fonte: EIA e Labyrinth Consulting Services, Inc.

L’economia dei giacimenti di tight oil richiede prezzi del petrolio spot che sono doppi e prezzi alla testa di pozzo che sono tripli rispetto ai valori nominali attuali. Escludendo i nuovi progetti SAGD, il tight oil è il petrolio più costoso del mondo, pertanto il barile marginale di petrolio e i suo costo di produzione oggi sono oltre i 70 dollari.

La percezione è tutto

La decisione del Congresso di togliere il divieto quarantennale delle esportazioni di petrolio riflette lo stesso pensiero disinformato e distorto che sostiene che il produttore a costo più alto del mondo – quelli di tight oil – può in qualche modo anche essere produttore di compensazione del mondo. Il divieto di esportazione del 1975 è stato promulgato a causa delle conseguenze economiche disastrose del fatto di diventare dipendenti dalle importazioni a seguito del picco della produzione statunitense di petrolio nel 1970. Ora che la produzione di petrolio è di nuovo vicina ai livelli di picco, abbiamo apparentemente dimenticato che allora il problema erano le importazioni e che oggi importiamo il doppio rispetto al 1975. Lo stesso pensiero conclude che siccome i mercati petroliferi hanno un eccesso di offerta di circa 1,5 mb/g oggi, i prezzi rimarranno bassi per anni se non per decenni. Anche se questo ha sicuramente un fondamento logico per i prezzi bassi basati sui fondamenti di domanda e offerta sul breve termine, la visione a più lungo termine è plasmata in gran parte dalla percezione. I prezzi del petrolio (Brent) si sono raggruppati, dopotutto, a m65 dollari al barile a maggio, quando il mercato aveva ancora maggiore eccesso di offerta (2,25 mb/g) di quello di oggi. Ciò è stato basato sulla percezione che la diminuzione del numero di piattaforme negli Stati uniti e che i prelievi dalle scorte di stoccaggio del petrolio avrebbero portato meno offerta. Nessuna delle due percezioni era corretta sul breve termine ma non importava. I prezzi sono saliti. C’erano naturalmente altri fattori, comprese le preoccupazioni sulla crescita dell’economia cinese, sulla crisi del debito greco e sulle rinnovate esportazioni iraniane.

Nonostante le recenti tendenze verso la capitolazione del prezzo dalla fine di novembre, c’è una certa energia potenziale nel mercato per trovare scuse per aumentare i prezzi o perlomeno stabilire un minimo. Per esempio, questa settimana le riserve di petrolio greggio statunitensi sono declinate di 5 mb e i future del WTI sono aumentati di 3,36 dollari al barile. Siamo nel periodo invernale in cui si attinge alle riserve, quindi un prelievo dalle scorte è normale, ma la settimana precedente ha visto un’aggiunta alle riserve che ha fatto sembrare questo prelievo in qualche modo più importante. Un aumento del prezzo di quella grandezza non ha senso specialmente visto che le riserve statunitensi sono di più di 125 mb al di sopra della media di 5 anni. Ecco la forza della percezione. L’energia, e il petrolio in particolare, sta dietro a tutto nelle nostre vite nell’economia globale. I prezzi del petrolio riflettono la nostra risposta emotiva collettiva alle circostanze del mondo. I segni vitali del corpo del prezzo del petrolio sono fondamentali, ma la percezione è la chiave per entrare nella sua psiche. L’aumento di più di 3 dollari al barile dei prezzi del WTI della scorsa settimana è un esempio di una reazione molto a breve termine a un qualche evento o circostanza. I prezzi del petrolio riflettono anche risposte a più lungo termine che comportano ritardi considerevoli. Per esempio, un surplus di produzione globale è apparso nel gennaio 2014 ed ha continuato per 6 mesi prima che i prezzi rispondessero al ribasso. Cambiamento climatico e picco del petrolio sono prospettive a lungo termine alle quali molti preferiscono non pensare o rifiutare come truffe. Questo perché ci costringono a pensare ci potrebbero essere limiti reali alla crescita. Questo è un anatema per il paradigma culturale ed economico che la stragrande maggioranza del mondo abbraccia. Suggeriscono che l’energia costerà di più e che potremmo dover vivere con meno in futuro di quanto abbiamo fatto in passato. Ciò significa cambiamenti estremi sia nel comportamento sia nelle aspettative.

La prospettiva prevalente – più basso più a lungo – è che i prezzi del petrolio rimarranno bassi per molti anni. Ciò è ragionevole sulla base dei segni vitali. L’eccesso di offerta globale di petrolio persiste dopo un anno e mezzo di prezzi bassi. Iran e Libia potrebbero potenzialmente aggiungere altri 1-2 mb/g all’eccesso di offerta esistente. La produzione statunitense non è declinata tanto quanto molti esperti avevano previsto e c’è della capacità di riserva considerevole e sconosciuta nei pozzi trivellati e non completati. La crescita economica della Cina ha rallentato e l’economia globale è debole. La domanda di petrolio continuerà a crescere ma ad un tasso inferiore del 2015.

Cosa ci aspetta nel 2016

Fra una settimana, il mondo tornerà a lavorare dopo le vacanze. L’emorragia della chiazza di petrolio peggiorerà e i prezzi precipiteranno ancora. I risultati di fine anno delle società di petrolio e gas saranno i peggiori fino ad oggi. La Federal Reserve Bank e Standard & Poor’s hanno emesso avvertimenti sul cattivo debito degli affari di petrolio e gas negli Stati Uniti. Le società di tight oil hanno fatto buon viso a cattivo gioco il più possibile in una situazione disperata. Ma gli investitori e i loro banchieri dovrebbero aver finito la pazienza. Dovrebbero essere stanchi dell’economia falsa e delle panzane su nuove riserve gigantesche quando le società in cui hanno investito stanno perdendo miliardi di dollari ogni trimestre. La percezione più basso più a lungo comincerà a cambiare nel 2016 a meno di un collasso economico globale. Dopotutto, si fonda sull’evento simultaneo di ogni possibile risultato negativo. La risposta lungamente attesa nell’economia per abbassare i prezzi del petrolio comincerà ad emergere. La domanda di petrolio aumenterà, Le preoccupazione riguardo alla crescita inferiore in Cina è già ampiamente accettata. La produzione statunitense continuerà a diminuire di 100.000 barili al giorno ogni mese come previsto, solo più tardi di quanto atteso. I pozzi trivellati non completati non daranno tanto nuovo petrolio quanto tanti temono. Niente di tutto questo avverrà in una notte. L’equilibrio di mercato tornerà probabilmente più lentamente di quanto sia svanito. La bolla petrolifera ha impiegato 5 anni per gonfiarsi, ma il mondo è impaziente e si aspetta un rapido ritorno alla normalità. Tutti i segni sono giusti – numero inferiore di piattaforme, disagio per le società messe troppo sotto pressione, bilanci più bassi per progetti di esplorazione e sviluppo cruciali – ma tutto questo richiede tempo. L’energia è economia. Prezzi di petrolio egas più bassi saranno un beneficio enorme per l’economia globale ma anche questo richiede tempo. E più a lungo i prezzi sono bassi, meglio è, anche se se nel mondo del petrolio in questo momento non la vedono così. Il tight oil ha fatto guadagnare agli Stati Uniti un altro decennio circa di offerta petrolifera aggiuntiva ma, come previsto dal picco del petrolio, ad un costo. La tecnologia che c’è dietro al tight oil lo ha anche reso il barile più costoso al mondo. Man mano che tutto questo sedimenta, la percezione comincerà a cambiare. Analisti ed investitori cominceranno a vedere che i dati puntano più su una scarsità a lungo termine che verso un’abbondanza a lungo termine di offerta di petrolio. Gli Stati Uniti sono di gran lunga più vulnerabili economicamente e dipendenti dal petrolio estero di quando è stata proibita l’esportazione del petrolio greggio 40 anni fa. Il mondo ha risorse petrolifere finite e la festa della produzione degli ultimi 5 anni ha accelerato la tempistica del picco globale di produzione. Una guerra guerreggiata nel mondo porterebbe tutto questo ad un focus istantaneo se i dati presentati qui non lo hanno fatto. E’ un paradosso curioso che il picco del petrolio si debba manifestare nel bel mezzo di un eccesso di offerta e di prezzi del petrolio bassi. Non è certo così che pensavo sarebbero avvenute le cose. Le percezioni cambieranno e l’equilibrio del mercato petrolifero sarà ripristinato in modi che pochi di noi hanno pensato fossero probabili. Il picco del petrolio sarà parte di quel cambiamento.

more

Il bello di essere uno scienziato: perché l’editoria “Open Access” non è una buona idea

Da “Cassandra’s Legacy”. Traduzione di MR


Di Ugo Bardi

BERQ”, Biophysical Economics and Resource Quality, è una nuova rivista di Springer dedicata allo studio dei sitemi economici complessi e la loro relazione con la disponibilità di risorse naturali. Notate come la copertina alluda ai risultati dello studio del 1972 intitolato £I Limiti dello Sviluppo” che ha originato questo campo di studi. Ho grandi speranze che questa nuova rivista possa fornire una produzione di molti articoli scientifici di alta qualità. Per questa ragione ho accettato di assumere il ruolo di “editore capo” di BERQ, insieme al professor Charles Hall. Notate che questa è una rivista non necessariamente open access. In questo post spiego le ragioni di questa scelta. 

Una delle cose belle dell’essere uno scienziato è che puoi cambiare idea. Oh sì, puoi. In realtà devi! Hai nuovi dati? Allora cambi la tua interpretazione, è semplicissimo. Naturalmente, gli scienziati non sono sempre felici di ammettere di aver sbagliato, sono esseri umani, dopotutto. Ma, nel complesso, la scienza va avanti perché gli scienziati cambiano idea; come potrebbe essere altrimenti? Così, posso solo compatire i poveri politici che, quando si trovano di fronte a nuovi dati,  non hanno altra opzione se non quella di ignorarli o ridicolizzare coloro che li hanno prodotti (o in qualche caso, metterli in galera o farli fucilare).

Questo post parla del modo in cui ho cambiato idea riguardo all’editoria “open access” in campo scientifico. Probabilmente avete sentito parlare del tema, c’è un buon articolo di George Monbiot in cui accusa gli editori scientifici dicendo che “fanno sembrare Murdoch un socialista”. Monbiot non sbaglia: per prima cosa osserva che gli scienziati sono pagati dai governi (cioè dalla gente). Poi danno i risultati del loro lavoro gratuitamente ad editori commerciali. Infine, gli editori commerciali fanno pagare la gente per accedere agli articoli per cui hanno già pagato. Come affare, è paragonabile a quello di Esau che svende la sua eredità per una ciotola di lenticchie.

Già molto tempo fa avevo cominciato a ragionare come Monbiot e molti altri. L’idea era (ed è): perché gli scienziati dovrebbero pagare ditte commerciali per fare qualcosa che possono fare da soli? Perché gli scienziati non si pubblicano da soli i loro risultati? In questo modo, tutti saranno in grado di accedere ai risultati delle ricerca finanziata pubblicamente. Così, già negli anni 90, avevo allestito una rivista open access, “The Surface Science Forum”. E’ stata una delle prima di quel tipo. Ancora nel 2012, ero a favore dell’editoria open access (come ho descritto in questo post).

Gradualmente, tuttavia, ho cambiato idea. Ciò che sembrava essere una buona idea all’inizio, non mi è sembrata così buona dopo averla provata. Conoscete la storia del tipo che è saltato tutto nudo in mezzo ai rovi? Diceva che gli sembrava una buona idea per raccogliere more, così l’ha messa in pratica. Subito dopo ha cambiato idea.

Così, ho provato a mettere in pratica l’idea di “editoria open access” ed ho lavorato come editore scientifico per due case editrici open access: MDPI e Frontiers. La mia esperienza con MDPI è stata ragionevolmente buona, mentre quella con Frontiers è stata orribile. In entrambi i casi, tuttavia, l’esperienza mi ha insegnato molto sull’editoria accademica. Ed ho cambiato idea sull’editoria open access.

In parte, ho cambiato idea a causa della brutta esperienza che ho avuto con Frontiers, ma solo in parte. Dove ho notato i difetti dell’editoria open access è stato con l’attuale dibattito sul cambiamento climatico. E’ un dibattito che ovviamente dovrebbe essere basato sulla scienza. Certo, ma quale scienza? Be’, la maggior parte di noi direbbe che la scienza è quello che viene pubblicato nelle riviste accademiche referenziate. Ed è qui il problema. L’editoria open access è uno dei fattori (non il solo) che ha grandemente aumentato il volume delle pubblicazioni scientifiche (o cosiddette scientifiche) di bassa qualità. E questa non è una cosa buona, perché ha reso più difficile per il pubblico ed i decisori politici capire cosa sia scienza e cosa no.

Questa cosa va spiegata bene: spieghi: nella mia esperienza, il rigore delle osservazioni della revisione fra pari non viene necessariamente ostacolato dal format dell’open access. Se non altro, gli editori open access seri (come MDPI) sono estremamente rigorosi nel processo. Ma ciò è controbilanciato dalla presenza di un gran numero di editori open access non seri. Molti accettano semplicemente di tutto, se gli autori pagano. Altri si fanno semplicemente beffe del processo di revisione (una volta ho ricevuto una richiesta di revisionare un articolo e nel modello di raccomandazione non c’era l’opzione “rifiutato”). Vengono chiamati “editori predatori” e se ne può trovare un elenco esteso (ed impressionante) nel sito di Jeffrey Beal.

Si potrebbe dire che una cattiva implementazione non necessariamente significa che l’idea è sbagliata. Vero, ma il problema è in profondità nel modello dell’open access; nel fatto che gli editori più pubblicano più fanno soldi. E la tentazione di pubblicare più articoli possibile è forte. Ciò può essere ottenuto anche senza rilassare il processo di revisione. E’ sufficiente pubblicare un gran numero di “titoli”, riviste teoricamente diverse, ma tutte gestite dallo stesso staff. La moltiplicazione dei titoli costa quasi niente agli editori ma apre sempre più possibilità per gli autori che, alla fine, provando diverse riviste imbroccherà il colpo grosso di una combinazione favorevole di revisori anche per un articolo scadente. Così, la qualità media delle pubblicazioni scientifiche ne può solo soffrire.

Alla fine, gli editori open access sono semplicemente parte di un problema più generale che ha condizionato la scienza dallo sviluppo di internet. Una volta, l’editoria scientifica era costosa e spesso richiedeva uno staff specializzato per aiutare nella preparazione dei manoscritti. Ma ora, con i software a buon mercato ed un sito web, è facile per chiunque produrre una caricatura di un articolo scientifico, pieno di dati e grafici e che non significa niente. Per uno scienziato, di solito è facile dire cos’è buona scienza a cosa non lo è (non sempre, comunque…). Ma per la maggior parte delle persone non è facile. Ecco di conseguenza la grande confusione nel dibattito sulla scienza del clima, dove la lobby anti-scienza è stata in grado di presentare la pseudoscienza come scienza vera e confondere praticamente tutti.

Dopo aver rimuginato l’idea per un po’, penso di capire cosa ci serve. Ci serve scienza di alta qualità. E questa scienza di alta qualità deve essere riconoscibile da tutti. Sarebbe bello se potessimo avere scienza di alta qualità all’interno dello schema open access, ma non possiamo dimenticare il principio di Sturgeon (il 99% di tutto è immondizia). Dovremmo quindi premiare gli editori non in termini di numero di articoli che pubblicano ma in termini di qualità degli articoli che pubblicano. E, sfortunatamente, l’open access non va nella giusta direzione.

Tutto ciò non significa che l’open access è sempre sbagliato. Al contrario, ha buone giustificazioni e se, diciamo, i risultati della ricerca medica possono aiutare i medici a salvare le persone, allora in tutti i modi dovrebbero essere accessibili ai medici e a chiunque possa trarne beneficio. Ma questo non è il caso di gran parte della ricerca accademica. E non voglio nemmeno dire che tornare al modo tradizionale di pubblicare (pagare per accedervi) si il modo perfetto per muoversi. Niente affatto, ci sono molti problemi nel sistema tradizionale; uno sono i prezzi eccessivi chiesti da molti editori. Tuttavia, a parte alcune distorsioni evidenti, l’idea che si debba pagare qualcosa per i beni che si comprano è un concetto che funziona in tutti i mercati e che incoraggia una qualità migliore. E se, come scienziati, pensate che vale la pena che il vostro lavoro venga conosciuto dal grande pubblico, avete l’opzione di diffondere i vostri risultati in un blog o in un altro formato pubblicamente accessibile. In realtà; non dovrebbe essere solo un’opzione, dovrebbe essere la regola. Se pensate che niente di ciò che pubblicate possa interessare se non qualcuno dei vostri colleghi, allora non potete lamentarvi se dicono che siete dei mangiapane a ufo assistiti dal governo.

Come nota finale, le caratteristiche dell’editoria accademica stanno cambiando in continuazione. Ci sono diversi formati di open access che potrebbero funzionare meglio di quelli attuali. Poi, gli archivi di articoli accademici come “ArXiv” e “Academia.edu” stanno rivoluzionando il campo. Non sono peer-review e ciò offre una possibilità di diffondere risultati molto innovativi ed ancora incerti senza interferire con ciò che va nelle riviste peer-review. La scienza sta cambiando e il mondo sta cambiando, forse troppo velocemente, ma dobbiamo cercare di affrontare il cambiamento meglio che possiamo.

In vista di queste considerazioni, recentemente ho accettato (*) di fare il “chief editor”, insieme al professor Charles Hall, di una nuova rivista di Springer, “BERQ” (Biophysical Economics and Resource Quality). La rivista è dedicata allo studio dei sistemi economici complessi e la loro relazione con le risorse naturali. Alla fine, è un discendente del primo studio intitolato “I limiti della crescita” che ha dato inizio a tutto un campo di ricerca che molti di noi stanno ancora esplorando. Ho molte speranze in questa nuova rivista, che dovrebbe fornire una produzione di molti articoli scientifici di alta qualità dedicati a questo tipo di studi.

Se siete interessati a pubblicare su BERQ, troverete le informazioni necessarie sul sito web della rivista. BERQ opera secondo il formato tradizionale dell’editoria scientifica, ma può diventare open access se gli autori vogliono così. E’ un passo lungo un percorso. La cosa importante è che possa dare un prodotto di buona qualità per le persone che fanno buona scienza.

(*) Noto: per il lavoro di chief editor di BERQ ho accettato un onorario 1500 dollari all’anno che credo sia un compenso ragionevole per il lavoro aggiuntivo che faccio per Springer. 



more

Come l’Uruguay è passato dai combustibili fossili al 95% di elettricità pulita in 10 anni

Da “U.S. Uncut”. Traduzione di MR (via Bill Everett)

3 dicembre 2015

“Il paese sta definendo le tendenze globali per l’investimento in rinnovabili”.
Mentre i leader mondiali si riuniscono a Parigi per discutere come frenare il cambiamento climatico, il popolo dell’Uruguay si sta godendo l’energia accessibile e pulita con pochissimo inquinamento.

Durante l’ultimo decennio, l’Uruguay è passato da una totale dipendenza da combustibili fossili sporchi ad avere più del 94% della loro elettricità da fonti rinnovabili. La cosa più incredibile è che l’Uruguay ha fatto il passaggio senza alcun sussidio governativo ed ora garantisce ai cittadini bollette energetiche mensili più basse di prima.

“Ciò che abbiamo imparato è che le rinnovabili sono semplicemente un buon affare”, dice Ramón Méndez, Direttore Nazionale per l’Energia. “I costi di costruzione e manutenzione sono bassi, nella misura in cui si fornisce un ambiente sicurto agli investitori, è un [affare] molto attraente”.


Méndez è anche veloce nell’evidenziare che mentre il piano che hanno seguito è semplice, non è successo in una notte.

“Abbiamo dovuto superare una crisi per raggiungere questo punto. Abbiamo passato 15 in una cattiva situazione”, ha detto Méndez a The Guardian. “ma nel 2008, abbiamo lanciato una politica energetica a lungo termine che copriva tutto… Finalmente avevamo chiarezza”.

Méndez ha attribuito il successo dell’Uruguay nel fornire un ambiente che incoraggia sia gli investimenti stranieri sia le partnership con società pubbliche. A causa della loro proprietà da parte del governo dell’Uruguay, queste società pubbliche offrono un rischio basso ed affidabilità per le ditte private, che hanno creato un ambiente operativo che continua a pagare dividendi per chiunque si coinvolto nel processo. Offrendo agli investitori stranieri prezzi su contratti ventennali garantiti dalle loro aziende di servizi statali, l’Uruguay ha rimosso la necessità di gonfiare i contratti con sussidi ed agevolazioni fiscali, scegliendo invece di offrire coerenza ed affidabilità in ciò che è diventata un’industria volatile a causa di  un ciclo di incertezza politica senza fine in Medio Oriente ed Asia.

A causa di questo, c’è una lunga fila di ditte straniere che vogliono assicurarsi contratti per l’energia dai parchi eolici e dagli impianti di energia idroelettrica che continuano ad essere costruiti coi profitti dei contratti attuali. Questa competizione per comprare l’energia pulita dell’Uruguay sta mantenendo la domanda estera alta mentre fornisce ai residenti energia economica e pulita.

Questo ciclo costante di investimento ed espansione dell’energia pulita permette all’Uruguay di soddisfare più del 90% della domanda nazionale di elettricità senza usare centrali a carbone o energia nucleare. Hanno anche lavorato con grandi impianti di lavorazione agricola per convertirli in impianti di cogenerazione a biomassa, che essenzialmente permettono loro di alimentare sé stessi senza bisogno di combustibili fossili.

Inoltre, l’Uruguay ha anche diversificato le sue fonti di energia rinnovabile aggiungendo sia biomasse sia impianti solari. Questo mix vario di risorse energetiche, insieme alla loro strategia a lungo termine che paga grandi dividendi, li ha resi un modello per paesi che cercano di disinvestire dai combustibili fossili.

Il loro piano si è guadagnato l’attenzione e le lodi della Banca Mondiale e della commissioine economica per l’America Latina e i Caraibi e il WWF lo scorso anno ha nominato l’Uruguay fa i suoi “Leader per l’energia verde”, dichiarando: “Il paese sta definendo le tendenze globale per l’investimento in energia rinnovabile”.

more

Il fitoplancton sta scomparendo rapidamente dall’Oceano Indiano

Da “Science news”. Traduzione di MR (via Alexander Ač)

La perdita di mini piante marine alla base della catena alimentare minaccia l’ecologia marina

Di Thomas Sumner


Colore dell’acqua  Il plancton che produce ossigeno è in declino nell’Oceano indiano occidentale, suggerisce una nuova ricerca. Il lavoro ha tracciato i cambiamenti del colore dell’acqua causati dalla presenza- o dall’assenza di fitoplancton in tutto l’oceano, come quello visto in questa vorticosa fioritura di fitoplancton nel 2013.  

Una rapida perdita di fitoplancton minaccia di trasformare l’Oceano indiano occidentale in un “deserto ecologico”, avverte un nuovo studio. La ricerca rivela che le popolazioni di fitoplancton della regione sono crollate di un allarmante 30% negli ultimi 16 anni. Un declino del rimescolamento dell’oceano dovuto al riscaldamento delle acque di superficie è il responsabile per questo crollo del fitoplancton, hanno proposto i ricercatori online il 19 gennaio su Geophysical Research Letters. Il rimescolamento degli strati oceanici trasporta i nutrienti del fitoplancton dalle profondità oscure dell’oceano fino agli strati assolati in cui vivono le mini piante. La perdita di microbi, che costituiscono la base della catena alimentare dell’oceano, potrebbe minare l’ecosistema della regione, avverte il coautore dello studio Raghu Murtugudde, un oceanografo dell’Università del Maryland a College Park. “Se si riduce la base della catena alimentare si avrà un effetto a cascata”, dice Murtugudde. Il declino del fitoplancton potrebbe essere in parte responsabile da un 50 ad un 90% del declino dei tassi di pesca del tonno dell’ultimo mezzo secolo nell’oceano indiano, dice. “Questo è un campanello d’allarme per guardare se succedono cose analoghe altrove”. Nel XX secolo, le temperature di superficie dell’oceano Indiano sono aumentate di circa il 50% in più della media globale. Le precedenti ricerche sull’impatto di questo riscaldamento dell’oceano sul fitoplancton suggerivano che le popolazioni erano aumentate. Ma quegli studi facevano riferimento solo a pochi anni di dati – non sufficienti per identificare chiaramente una qualsiasi tendenza a lungo termine.

Roxy Mathew Koll, uno scienziato del clima dell’Istituto indiano di meteorologia Tropicale a Puna, Murtugudde e i loro colleghi hanno tracciato il fitoplancton microscopico dallo spazio. Il fitoplancton, come le piante terrestri, è di colore verde. Quando la superficie del mare è piena di fitoplancton, le acque assumono una tinta più chiara e più verde. Man mano che la popolazione di fitoplancton si assottiglia, l’acqua ritorna più scura e più blu. Analizzando le immagini satellitari del colore dell’oceano raccolte negli ultimi 16 anni, i ricercatori hanno scoperto una diminuzione del 30% dell’abbondanza di microbi di colore verde per ogni metro cubo di acqua. Combinando questi dati con simulazioni computerizzate dell’Oceano Indiano, i ricercatori hanno ricostruito gli alti e bassi del fitoplancton nella regione durante gli ultimi sei decenni. Il lavoro suggerisce che le popolazioni di fitoplancton dell’Oceano indiano occidentale siano declinate del 20% rispetto al 1950. Le temperature di superficie in aumento hanno portato ad un crollo a lungo termine del fitoplancton, come hanno rivelato le simulazioni oceaniche. Per sopravvivere, il fitoplancton dipende dai nitrati prodotti dai batteri che abitano a circa 100-500 metri al di sotto della superficie del mare. Questi nitrati vengono smossi verso l’alto da forze come i venti che soffiano sulla superficie dell’oceano. L’acqua più calda è meno densa e rimane vicina alla superficie. Man mano che la superficie del mare diventa più calda in confronto all’oceano profondo a causa del cambiamento climatico, i due strati diventano più difficili da mescolare e nello strato assolato più alto i nutrienti diventano più scarsi.

Studi di prossima pubblicazione svolti da navi dovrebbero verificare i nuovi risultati, dice Michael McPhaden, un oceanografo fisico del laboratorio Ambientale Pacific Marine del NOAA di Seattle. La pirateria al largo della costa somala fino a poco tempo fa ha impedito alle navi di ricerca di studiare parti dell’oceano indiano occidentale, ma quest’anno segna l’inizio di una spedizione quinquennale sull’Oceano Indiano. “Questo lavoro include i salti logici che sono sensibili da fare sulla base di quello che sappiamo su come funziona il sistema, ma si vuol sempre uscire e verificare”, dice McPhaden.

more