Effetto Cassandra

Elezioni e democrazia sono sinonimi?

Articolo già pubblicato su “Crisis? What Crisis?”
di Jacopo Simonetta

Per consolidata abitudine mentale, consideriamo che la democrazia consista nell’esercizio del voto, ma sempre meno gente va a votare e praticamente più nessuno si sente rappresentato da chi viene eletto.   Men che meno gli eletti si fidano di coloro che rappresentano.    Evidentemente qualcosa è andato molto storto e vorrei affrontare il tema in una prospettiva storica, sia pure in versione telegrafica per restare nei limiti di un post.

Un po’ di storia

Di solito, si cita la Repubblica di Atene come diretto antenato delle democrazie moderne.    Non credo che sia corretto.   Organi di governo risalgono infatti al nostro passato paleolitico e probabilmente anche a quello pre-umano.   Tutti i mammiferi sociali hanno gerarchie precise ed i capi-branco sono quelli che mangiano per primi, scelgono il posto dove dormire, si accoppiano con i partner migliori; in molti casi sono gli unici che si riproducono.    Sono quindi quelli che lasciano la maggiore discendenza, ma non sono quelli che vivono più a lungo perché più di tutti si espongono al pericolo ed alla fatica quando il bisogno stringe ed il nemico incalza.   In pratica, i capi sono quasi sempre figli di capi, ma il loro ruolo deve essere costantemente accettato dagli altri, altrimenti si cambia.   Si chiama “legittimità”.
Nelle piccole bande di cacciatori-raccoglitori il capo è (o meglio era) un uomo giovane e robusto, ma anche stimato per la sua intelligenza e la sua capacità di parlare in pubblico.   Ed è qui che nasce la politica: il capo deve essere uno bravo in battaglia e nella caccia, ma anche saggio e capace di relazionarsi con gli altri.   Società più numerose e hanno richiesto strutture sociali più complesse ed elaborati sistemi di selezione delle gerarchie, ma con la stessa costante che troviamo nei lupi: la legittimità.   Il che significa che delle persone si riconoscono il dovere di ubbidire ad altri, mentre questi si riconoscono la responsabilità dei gregari.   I criteri per stabilire la legittimità possono cambiare molto, ma comunque se cessano di funzionare la società si disintegra.

Per tornare ala repubblica ateniese, gli ingredienti con cui confezionare la dirigenza erano sostanzialmente 4: ereditarietà, partecipazione, sorteggio e voto.    Coloro che avevano i diritti politici erano solo i discendenti diretti di cittadini ateniesi residenti in città, maschi adulti liberi, proprietari di immobili, in regola con le tasse e che avessero completato l’addestramento militare.   In pratica circa il 10% della popolazione.

Costoro si conoscevano almeno di vista e passavano parecchio tempo a discutere fra di loro e non solo dei giochi olimpici.   Dunque era gente che partecipava quotidianamente alla vita politica della città, con un controllo sociale incrociato molto stretto e soggetta ad una fiera e frequente selezione.  Erano infatti loro a costituire la prima linea di battaglia nelle guerre che decidevano di fare.  Come erano loro che pagavano per intero le tasse che decidevano di imporre.
Tutti insieme costituivano l’Ekklesia, vale a dire l’assemblea che aveva sostanzialmente la funzione di votare le leggi proposte da altri cittadini, eleggere i comandanti militari ed un centinaio di funzionari, votare le dichiarazioni di guerra ed i trattati internazionali.    In questo gioco, evidentemente, contavano moltissimo il prestigio personale e familiare, la ricchezza e la capacità oratoria.   Si formavano quindi dei “partiti” che non si riferivano a differenti ideologie, bensì alle famiglie principali.   Proprio per limitare questo fenomeno, quasi tutti i magistrati ed i funzionari (circa un migliaio) erano designati per sorteggio e turnati rapidamente.   Su questo elemento vorrei attirare l’attenzione perché  forse fu l’invenzione chiave del funzionamento delle repubbliche urbane della Grecia classica e di moltissime altre forme di governo nella storia europea.
Facciamo un salto di un migliaio di anni diamo un occhiata molto superficiale al funzionamento delle istituzioni feudali.    Non propriamente un esempio di democrazia, eppure vi troviamo gli stessi ingredienti visti ad Atene, sia pure confezionati in diverso modo.

Tanto per cominciare, il monarca veniva eletto dall’assemblea dei nobili e dei vescovi, la quale poteva anche, in casi estremi, revocare la designazione.    Di solito il nuovo re era uno dei figli del precedente monarca, ma non necessariamente e, comunque, neppure l’Imperatore poteva diventare tale se non veniva designato da un parlamento cui doveva poi rendere conto delle decisioni principali, specialmente in materia di tasse, politica estera e guerra.   In epoca merovingia i nobili laici erano nominati dal re, mentre i vescovi erano eletti dalle assemblee cittadine (tutti gli adulti: uomini e donne).   Vi furono anche parecchi vescovi figli di vescovi.   Successivamente e gradualmente, i feudi divennero prevalentemente ereditari, mentre la nomina dei vescovi passò al papato e/o a re ed imperatori.

Un aspetto importante è che la guerra era un affare esclusivo per coloro che decidevano in proposito, il che ne limitava efficacemente il numero.   Viceversa, sugli affari quotidiani della gente comune la chiave di volta del sistema era il “costume”.   Vale a dire la tradizione, così come ricordata dagli anziani e dai “prudent’uomini” che erano dei notabili, ma mai dei nobili.   Perlopiù contadini ed artigiani particolarmente stimati.   Qualunque questione rilevante si discuteva in un tribunale che in città era presieduto da un funzionario del re o del vescovo, mentre in campagna dal signorotto locale.   Ma la decisione era presa da una giuria di persone scelte per sorteggio.
Dunque un sistema in cui la politica è appannaggio esclusivo di una classe che perlopiù gode di un diritto ereditario e vi partecipa attivamente come già i cittadini ateniesi, ma percentualmente meno numerosa.   Viceversa, l’amministrazione quotidiana era largamente sotto controllo di una tradizione in costante evoluzione, ma vincolante anche per le autorità.
Non tutti gli stati medievali erano monarchie.    Vi furono anche diverse repubbliche, due delle quali, Andorra e S. Marino, esistono ancora.   Defunta, ma molto più importante fu la Repubblica di Venezia. Anche questa retta su di una complicata combinazione di partecipazione, ereditarietà, elezioni e sorteggio.   Aveva una sua logica e, infatti, funzionò bene molto a lungo.  L’ereditarietà aveva la funzione di fornire persone preparate e conosciute, non ricattabili in quanto non potevano essere private del loro privilegi.   La partecipazione di un numero consistente di persone garantiva la più ampia visione possibile dei problemi.   L’elezione consentiva di selezionare le persone più stimate per i differenti ruoli.   Il sorteggio serviva, come sempre, a spezzare gli incuici, le camarille e le “lobby” che, allora come oggi, costantemente insidiavano il buon funzionamento degli organismi statali.

Nascita della democrazia moderna

Con un altro salto giungiamo nel XVIII secolo.   La Serenissima esiste ancora, ma profittando dell’utopia illuminista del “dispotismo illuminato” gli stati principali sono diventati delle monarchie assolute.    Con la parziale eccezione dell’Inghilterra che più degli altri aveva conservato la tradizione medioevale.   Eppure proprio in Inghilterra scoppiò la prima e più importante rivoluzione della storia moderna: la Rivoluzione Americana.   Una pietra miliare non solo perché ne nacque lo stato più potente della storia (per ora), ma anche perché ne nacque l’identificazione fra democrazia ed elezioni che oggi diamo per scontata.    Dei quattro ingredienti base degli ordinamenti precedenti: partecipazione, ereditarietà, elezione e sorteggio, la costituzione americana ne conservò uno solo: l’elezione. Il sorteggio rimase, ma solo per le giurie dei tribunali e con un ruolo molto ridotto rispetto al passato.   Tutte le cariche pubbliche, a partire dallo sceriffo, furono assegnate per elezione, tranne quelle che divennero appannaggio del governo, a sua volta nominato mediante votazione.
Una scelta fatta sostanzialmente per due ragioni.   La prima furono le distanze enormi e le difficoltà di comunicazione.   Gli ordinamenti europei erano relativi a comunità in cui le persone si conoscevano almeno di vista e, comunque, potevano comunicare fra loro.   Una cosa che in America era molto difficile, al netto di alcune città principali.   La seconda fu che i padri fondatori non avevano nessuna fiducia nella capacità di autogoverno delle plebe raccogliticcia che stava popolando il continente.   Ancor meno quando gli ordinamenti attuali presero forma definitiva, mentre masse crescenti di avventurieri e disgraziati sbarcavano a migliaia e dilagavano sul continente.   Un sistema esclusivamente elettorale, si pensò, avrebbe necessariamente favorito le poche persone capaci di raggiungere una certa notorietà in ambiti sufficientemente vasti.   Quindi persone presumibilmente capaci e motivate, sostenute da famiglie importanti o da gruppi consistenti di cittadini.

Fu proprio in questo periodo che il Visconte Alexis de Tocqueville visitò gli Stati Uniti per studiare questo strano fenomeno politico.  Il suo rapporto (La democrazia in America) è del massimo interesse perché, già allora, l’acume del francese aveva individuato il pericolo che, disse, avrebbe potuto portare al disastro un sistema siffatto.   Tocqueville lo chiamò “la dittatura della maggioranza”.   In un sistema esclusivamente elettivo, disse, il rischio maggiore era rappresentato dal fatto che si potesse catalizzare un blocco di opinione pubblica abbastanza coeso ed esteso da marginalizzare qualunque opposizione.    In una tale situazione, le libertà civili sarebbero venute meno e il rischio di decisioni dissennate alto.   Un pericolo che avrebbe dovuto essere contrastato dalla libertà di stampa, ma il nostro era abbastanza smaliziato da aver capito che l’alfabetizzazione di massa e la diffusione dei giornali potevano anche essere usati per costruire una tale dittatura.   Molto di più egli contava quindi sul più antico dei quattro elementi base: la partecipazione.  Cioè, ai suoi tempi, sulla rete ufficiosa di comitati locali ed associazioni mediante cui i cittadini si auto-organizzavano per far fronte alle difficoltà.    Questo tessuto non istituzionale, sosteneva, aveva infatti il compito di mantenere viva la coscienza collettiva ed alta la guardia contro le derive autoritarie ad ogni livello.

Circa un secolo più tardi la repubblica americana servì da esempio per la democratizzazione degli stati europei, con risultati finora tutto sommato positivi.   In effetti, è un fatto che le democrazie hanno assicurato ai loro cittadini una vita migliore e maggiori livelli di libertà rispetto agli altri paesi.   E, nel frattempo, hanno vinto sia contro le dittature di matrice nazi-fasciste, sia contro le oligarchie comuniste.    Ma  quando si è trattato di affrontare pericoli provenienti dalla propria struttura sociale ed economica , questi sistemi si sono dimostrati del tutto incapaci sia di prevenire, sia di reagire al pericolo.
Con una classe dirigente composta da professionisti dell’intrallazzo e della propaganda; ed una popolazione atomizzata in individui che lottano disperatamente per sé stessi, sognando un impossibile ritorno della prosperità,  non ci sono segni di luce in fondo al tunnel.
La dittatura della maggioranza alla fine si è verificata ed è quella che ha deciso che la crescita economica e demografica erano la strada maestra da seguire.   Adesso è facile scagliarsi contro l’esigua minoranza di coloro che, più spregiudicati e fortunati, continuano ad arricchirsi a scapito di tutti gli altri; ma la decisione di seguire questa strada è stata condivisa da tutti: ricchi e poveri, nord e sud.   Molto democraticamente.
La conseguenza di questo fiasco storico sono oggi le derive autoritarie e lo spionaggio di massa che ovunque stanno svuotando di significato gli ordinamenti democratici.   Se la storia davvero ci può insegnare qualcosa, abbiamo due strumenti per cercare di contrastare il fenomeno: sviluppare la democrazia di base ed il ripristino del sorteggio per l’assegnazione di molti ruoli.   Purtroppo, il tentativo di reintrodurre elementi di democrazia diretta si scontra con la capacità dei poteri elettivi e delle lobby economiche di manipolare e/o vanificare questi processi.

Il sorteggio non viene neppure preso in considerazione, mentre potrebbe essere proprio il grimaldello per spezzare i meccanismi perversi e ridare senso anche alle elezioni.  L’ereditarietà oggi suona anacronistica perché era basata su di una tradizione completamente perduta, ma nomine a vita di persone particolarmente capaci, lungi dall’essere poco democratiche, potrebbero mettere in circolazione persone non ricattabili e non interessate al prossimo turno elettorale.

Ovviamente, non esiste nessuna garanzia che una riforma radicale degli ordinamenti funzionerebbe.   Tanto più che dovrebbe essere fatta dalle stesse persone ed organizzazioni che sarebbe necessario scaricare.  Dunque non accadrà.   Ma intanto ci sono gruppi di persone che cercano di organizzarsi fra di loro.  A costoro vorrei semplicemente ricordare che, da quando esistono e finché sono esistite, la maggior parte delle forme di governo non autocratiche sono state basate su diverse combinazioni di quattro ingredienti: partecipazione, ereditarietà, votazione e sorteggio.    Era così nel paleolitico e credo che sarà così anche in futuro.

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Riscaldamento globale: solo il dirupo di Seneca potrebbe salvarci?

La riduzione delle emissioni necessaria per restare entro i 2°C è talmente drastica che la caduta dei consumi di energia fossile che dovremmo vedere nei prossimi decenni ricorda il collasso descritto con il termine “Dirupo di Seneca” (UB)

L’uso di combustibili fossili deve diminuire il doppio più rapidamente di quanto si pensasse per contenere il riscaldamento globale – studio.


Il fumo fuoriesce da una centrale a carbone a Shanxi, in Cina. Foto: Kevin Frayer/Getty Images 

di Tim Radford (dal Guardian)

Gli scienziati del clima hanno cattive notizie per i governi, le società produttrici di energia, gli automobilisti, i passeggeri e i cittadini di tutto il mondo: per contenere il riscaldamento globale nei limiti concordati da 195 nazioni a Parigi lo scorso dicembre, dovranno tagliare la combustione di combustibili fossili ad un tasso ancora più veloce di quanto avessero tutti previsto. Joeri Rogelj,  ricercatore dell’Istituto Internazionale di Analisi Sistemica Applicata in Austria e colleghi europei e canadesi, propongono su Nature Climate Change che tutte le stime precedenti delle quantità di biossido di carbonio che possono essere rilasciate nell’atmosfera prima che il termometro salga a livelli potenzialmente catastrofici sono troppo generose. Al posto di una gamma di stime di emissioni ammissibili che spaziano fino a 2.390 miliardi di tonnellate dal 2015 in poi, il massimo che gli esseri umani possano rilasciare sarebbero 1.240 miliardi di tonnellate.

Livelli disponibili

In effetti, ciò dimezza i livelli di gasolio e benzina per i serbatoi di benzina, di carbone per le centrali elettriche e di gas naturale per il riscaldamento centralizzato e per cucinare a disposizione del genere umano prima che la temperatura globale media – già di 1°C più alta di quanto fosse all’inizio della Rivoluzione Industriale – raggiunga la soglia figurata dei 2°C da tempo concordata a livello internazionale come il punto di non ritorno per il pianeta. Infatti il summit del UN Framework Convention on Climate Change (UNFCCC) a Parigi ha concordato un obbiettivo “ben al di sotto” dei 2°C, a riconoscimento delle terribili previsioni – una delle quali è stata che, a temperature planetarie di quel genere, i livelli del mare salirebbero abbastanza da sommergere diverse piccole isole-stato. L’articolo di Nature Climate Change è una riaffermazione di un problema che è chiaro da decenni. Le proporzioni del biossido di carbonio in atmosfera sono collegate alle temperature di superficie planetarie e, man mano che salgono, le temperature medie fanno altrettanto. Per gran parte della storia umana, queste proporzioni sono oscillate intorno alle 280 ppm. Lo sfruttamento globale, su scala massiccia, dei combustibili fossili ha alimentato l’espansione dell’agricoltura, la crescita delle economie, una crescita di sette volte della popolazione del pianeta, un aumento del livello del mare di 14 cm ed un aumento di temperatura di 1°C, finora.

Per fermare l’aumento delle temperature di altri 3°C o più e l’aumento dei livelli del mare di più di un metro, gli esseri umani devono ridurre le emissioni da combustibili fossili. Di quanto debbano essere ridotte è difficile da calcolare. Il bilancio globale di carbonio è in realtà l’equilibrio fra ciò che emettono gli animali – in questo contesto, la parola animali include gli esseri umani con automobili, aerei e fabbriche – e ciò che piante ed alche possono assorbire. Quindi i calcoli sono resi difficili da incertezze su foreste, praterie ed oceani. Per rendere le cose più semplici, gli scienziati del clima traducono l’obbiettivo in miliardi di tonnellate di biossido di carbonio che, idealmente, potrebbero essere rilasciate in atmosfera da 2015 in avanti. Anche queste, tuttavia, sono stime. C’è un certo accordo generale che un limite di 590 miliardi di tonnellate impedirebbe con sicurezza al mondo di surriscaldarsi in modi che imporrebbero tensioni sempre maggiori sulla società umana. La disputa è sul limite massimo di tali stime. Il dottor Rogelj dice: “Per avere una possibilità ragionevole di mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2°C, possiamo emettere solo una certa quantità di biossido di carbonio. E’ questo il nostro bilancio di carbonio. Ciò è stato compreso da circa un decennio e la fisica dietro a questo concetto è stata ben compresa, ma molti fattori diversi possono portare a bilanci di carbonio che o sono leggermente più piccoli o leggermente più grandi. Volevamo capire queste differenze e fare chiarezza sul problema per i politici e l’opinione pubblica. Questo studio mostra che, in alcuni casi, abbiamo sottostimato il bilancio di dal 50 a più del 200%. Per la fascia alta, si tratta di una differenza di più di 1.000 miliardi di tonnellate di biossido di carbonio”. Lo stesso studio da uno sguardo più da vicino al perché le stime del livello “sicuro” di emissioni hanno subito variazioni così ampie. Un fattore che ha complicato è stato, naturalmente, l’incertezza su cosa potrebbero fare gli esseri umani e un altro è stato riguardo agli altri gas serra più transitori, come il metano e gli ossidi di azoto. Anche se di breve durata e in piccole quantità, alcuni di questi sono potenzialmente molto più forti del biossido di carbonio come influenza sulle temperature del pianeta.

Calcoli complessi

Ma il dottor Rogelj e i suoi colleghi hanno scoperto che una causa significativa della variazione era semplicemente una conseguenza delle diverse ipotesi e metodologie inerenti a tali calcoli complessi. Quindi i ricercatori hanno riesaminato entrambe le opzioni e gli approcci ed hanno elaborato un dato globale che, suggeriscono, potrebbe essere rilevante per una “politica del mondo reale”. Tiene conto delle conseguenze di tutta l’attività umana ed abbraccia contorni dettagliati di possibili scelte a basso tenore di carbonio. Offre anche, dicono, un 66% di possibilità di rimanere entro il limite concordato a livello internazionale. “Ora capiamo meglio il bilancio di carbonio per mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2°C”, dice il dottor Rogelj. “Questo bilancio di carbonio è molto importante da conoscere, perché definisce quanto biossido di carbonio ci è permesso di rilasciare nell’atmosfera, in totale. “Abbiamo pensato che questo bilancio si trovi nella parte bassa di ciò che gli studi indicavano prima e se non cominciamo a ridurre le nostre emissioni immediatamente, ce lo giocheremo in pochi decenni”.

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Male, molto male, sempre peggio. Temperature planetarie oltre la soglia dei 2°C

Da “Usted no se lo cree”. Traduzione di MR (via Ugo Bardi)

Stato di allarme climatico: sono stati superati i 2°C

Di Ferran P. Vilar

Non avrei mai voluto pubblicare questo post. Non avrei mai pensato che, dovendolo fare, sarebbe successo così presto. Sono del tutto costernato.

Prima di tutto, una notizia in qualche modo “buona”. Negli ultimi due anni le emissioni non sono aumentate. Alcuni credono che le emissioni siano giunte al massimo, che stiamo superando il “picco delle emissioni”. E’ possibile che stiamo entrando in un territorio sconosciuto: nemmeno un economista aveva previsto questa situazione negli scenari di futuro l’IPCC aveva loro richiesto ai suoi tempi. Tranquilli, le emissioni, ossia la crescita economica, non avrebbero smesso di aumentare… dicevano. Ora le cattive notizie. Le concentrazioni di CO2 nell’atmosfera hanno visto l’aumento più grande mai registrato: 3,76 ppm da febbraio 2015 a febbraio 2016. Su questo punto bisogna essere cauti nel non confondere i flussi con gli accumuli e credere che una riduzione delle emissioni equivalga ad una minore forzante climatica. Non è così. Ciò che forza il clima è la concentrazione, non le emissioni. Ed è logico che la concentrazione atmosferica di CO2 continui ad aumentare a questo livello di emissioni. Per quanto le emissioni diminuiscano, la concentrazione continuerà ad aumentare, a meno che non siano tanto infime che la biosfera e gli oceani possano assorbirle tutte. Per questo si dice che dovrebbero essere zero… nel 2050!

Ma perché la concentrazione è aumentata tanto? Com’è possibile che entrambe le cose – arresto della crescita delle emissioni e record di aumento della concentrazione – si verifichino contemporaneamente? Poiché il vero problema è che, con emissioni costanti o persino in diminuzione nel 2015, la concentrazione è aumentata come mai prima. Questo ci suggerisce la presenza di qualche altra fonte di gas serra che si riversa in atmosfera, oltre a noi. Quale può essere?. La Terra stessa! Si amici, la retroazione positiva è questa. Non possiamo più evitare che la Terra emetta e che le sue emissioni siano ora superiori alla sua stessa capacità di assorbimento da parte della biosfera. Avete dubbi? Questa settimana è stato pubblicato su Nature, e firmato da 23 autori – tutti i migliori specialisti mondiali del ciclo del carbonio – un articolo dal titolo: “La biosfera terrestre come fonte netta di gas serra verso l’atmosfera (The terrestrial biosphere as a net source of greenhouse gases to the atmosphere)”. Se viene confermata questa tendenza, tutto indica che abbiamo già perso il controllo della situazione – se mai lo abbiamo avuto. Runaway. Inoltre, il ghiaccio dell’Artico ha raggiunto il suo minimo invernale da quando viene misurato. Chiaro, si sono misurate temperature fino a 16°C superiori al normale. Il livello del mare sta aumentando di più di quanto previsto nei peggiori scenari. Sono già 3,2 mm/anno in questo decennio e aumenta. Nel decennio precedente sono stati 2 mm/anno.

Dato della temperatura di febbraio raccapricciante

Tutti questi dati impallidiscono di fronte al dato della temperatura di febbraio pubblicato ieri dalla NASA. La temperatura media della Terra del mese di febbraio è stata maggiore di 1,35°C rispetto al suo riferimento, che è la seconda metà del XX secolo. Da febbraio a gennaio c’è stato un salto di niente meno che 0,21°C, ma tutti speravamo che fosse passeggero, un outlier (un dato anomalo). Al contrario, si è verificato di nuovo. Cioè quasi mezzo grado in sei mesi. Quello che fino ad ora aveva richiesto fra i due ed i tre decenni: mai visto. La notizia peggiore di tutte è che abbiamo raggiunto virtualmente i 2°C. Ad essere precisi, siamo a più di 1,95°C. Visto che per convertire il dato mensile  al riferimento del 1880, che è l’anno in cui la NASA (o meglio, altri enti prima della NASA dei quali poi la NASA ha acquisito i dati, ndt.) ha cominciato a registrare la temperatura mondiale, bisogna aggiungere 0,6°C. E qualcosa di più, che nessuna sa esattamente quanto sia, per riferirci all’era preindustriale. A tutti gli effetti, abbiamo superato i temuti 2°C. Se è per la prima volta, o per sempre, è ancora da vedere. Se tutto questo suggerisce a qualcuno che quanto è successo a Parigi solo poche settimane fa è stata un’autentica farsa è perché finisce per rendersi conto di quanto siamo mal equipaggiati per affrontare ciò che ci viene addosso. Si renderà anche conto di quanto siamo rapiti dai mezzi di comunicazione se era rimasto con l’immagine generale che è stata fatta giungere al pubblico della conferenza di Parigi: c’è stato un accordo. Tutto sotto controllo. Nel frattempo, vedete di spegnere le luci che non usate, così aiuterete a salvare il pianeta. Ma non smettete di crescere, dipingendo la crescita di verde. E, dopo due mesi di far niente, 2°C. Ma in che mondo viviamo?

E andando avanti? La temperatura potrebbe diminuire in futuro, sebbene lievemente, o come minimo smettere di aumentare? Sì, questo potrebbe avvenire a partire dal 2017 o persino dalla fine del 2016, quando cesserà il fenomeno della corrente oceanica del pacifico del sud El Niño. Potrebbe diminuire anche il prossimo mese. Può essere, ma nessuno lo sa. Degli El Niño dell’intensità di questo non ce ne sono tanti ed è garantito che il cambiamento climatico li potenzia. Nel precedente En Niño forte, la temperatura non aveva raggiunto, nemmeno da lontano, livelli come quelli attuali. Di fatto, nel febbraio del 1998, durante il massimo precedente con un El Niño di intensità analoga, la temperatura + stata di 0,846°C inferiore. Da qual momento, l’effetto serra aumentato si fa sentire. Ma a marzo del 1998 era diminuito di più di 0,3°C rispetto al picco del mese precedente e questo potrebbe tornare a succedere. O no. Perché se la Terra emette già per conto suo, se l’Artico è già così riscaldato che le emissioni di metano sono fuori misura, se la situazione attuale è tale che abbiamo già superato i tipping points più pericolosi, allora… Trovarsi a questo punto è davvero sconcertante, profondamente inquietante. Il sistema climatico potrebbe trovarsi già in overdrive, runaway, abrupt climate change. Nessuno può assicurare che non sia così e le prove che abbiamo finora vanno in questa direzione. Allo stesso tempo, ad oggi, è anche avventato proclamarlo con totale certezza, poiché reagire ai dati di mese in mese costituisce sempre un azzardo. O forse è la vertigine interiore che mi fa attaccare a questo.

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Vivere tempi interessanti: le emissioni di CO2 hanno raggiunto il picco?

Da “Cassandra’s Legacy”. Traduzione di MR



Di Ugo Bardi 

Le proiezioni che stavano circolando durante gli ultimi mesi si sono rivelate corrette. Ora è ufficiale: le emissioni globali di biossido di carbonio (CO2) hanno raggiunto un picco nel 2014 e sono scese nel 2015. E potrebbe trattarsi di un cambiamento epocale.

Non pensate che il picco delle emissioni, da solo, ci salvi dall’imminente disastro climatico, ma se le emissioni di CO2 cominceranno un declino irreversibile, abbiamo bisogno di ripensare diverse ipotesi che abbiamo fatto su come affrontare il cambiamento climatico. In particolare l’esaurimento dei fossili, che di solito solito viene ritenuto un fattore minore nel determinare la traiettoria dell’economia mondiale durante i prossimi decenni; ma potrebbe non essere così. L’esaurimento non è una cosa buona in sé, ma potrebbe aiutarci (forse) a restare entro i limiti “sicuri” ed evitare un disastro climatico.


Le emissioni di CO2 sono principalmente il risultato della combustione di combustibili fossili e di attività rese possibili dalla combustione di combustibili fossili. E siccome pensiamo che la produzione di combustibili fossili raggiunga il picco e declini in conseguenza all’esaurimento, non dovrebbe essere una sorpresa che le emissioni di CO2 dovrebbero a loro volta raggiungere il picco. Ma è sorprendente il fatto che potremmo già vedere il picco. Per esempio, Laherrere aveva ipotizzato che il picco di tutti i combustibili fossili non sarebbe avvenuto prima del 2025. E molte persone avrebbero visto queste previsioni come incredibilmente catastrofiste. Gran parte degli scenari pubblicati per il futuro vedevano le emissioni di CO2 aumentare per almeno qualche decennio in futuro, a meno che non si fossero prese misure economiche o legislative draconiane per limitarle.

Così, ciò che stiamo vedendo potrebbe essere semplicemente una fluttuazione, non necessariamente “il picco”. Ma potrebbe anche essere quello vero: il punto di non ritorno. Da adesso in avanti, potremmo trovarci a rotolare dall’altra parte della curva di Hubbert. Sarebbe la vera vendetta dello scenario “caso base” di LTG che aveva visto la combinazione dell’esaurimento graduale e dell’inquinamento come la causa dell’inizio del declino terminale del sistema industriale basato sui fossili ad un certo punto durante il secondo o terzo decennio del XXI secolo.

Ipotizziamo di trovarci veramente al picco sia delle emissioni sia del consumo di energia fossile, cosa succede adesso? Per prima cosa, l’evento verrebbe sicuramente male interpretato. I tecno ottimisti diranno che ciò che stiamo vedendo è la prova che l’ingegno umano può risolvere tutti i problemi mentre la folla degli anti-scienza saluteranno questi risultati come la prova di due cose: 1) il clima non è niente di cui preoccuparsi e 2) che si è dimostrato che quegli stupidi scienziati del clima avevano torto ancora una volta.

Naturalmente, nessuna di queste interpretazioni è corretta e la situazione rimane critica per diverse buone ragioni. Posso elencarne almeno tre:

1. Non c’è davvero nessuna ragione di compiacersi di essere tanto intelligenti. La riduzione delle emissioni potrebbe essere parzialmente dovuta ad una migliore efficienza, all’energia rinnovabile e cose simili. Ma, principalmente, è il risultato del rallentamento dell’economia globale. I dati del FMI indicano che il PIL mondiale ha raggiunto il picco nel 2014, insieme alle emissioni di CO2 e nel 2016 potrebbe contrarsi ancora di più (vedete anche Tyler Durden). Le ragioni di tutto questo hanno a che fare col graduale declino del rendimento energetico dei combustibili fossili, a sua volta collegato all’esaurimento progressivo. Questo ha generato il disastro che ha colpito l’industria petrolifera e l’intera industria mineraria sotto forma di collasso dei prezzi. Col declino dell’industria estrattiva, la ragione per cui le emissioni hanno raggiunto il picco è che le persone sono più povere, non più intelligenti (alla faccia della cosiddetta “dematerializzazione” dell’economia).

2. Il fatto che le emissioni potrebbero aver raggiunto il picco non significa una riduzione nell’accumulo di CO2 nell’ecosistema. Stiamo solo rallentando il flusso, ma le riserve continuano ad essere riempite. Il CO2 si accumula in due bacini principali: l’atmosfera e gli oceani e potrebbe essercene già troppo in entrambi. E questo non dice nulla sui possibili effetti di retroazione al di fuori del controllo umano, come il rilascio di metano dagli idrati. Quindi stiamo ancora rischiando molto in termini di cose molto spiacevoli che potrebbero accadere in futuro (compreso un cambiamento climatico fuori controllo).

3. Anche ipotizzando che le emissioni siano di fronte ad un declino irreversibile, è probabile che il tasso di declino sia ancora troppo lento per restare entro i limiti che sono percepiti come (forse) sicuri. Ipotizziamo che le emissioni seguiranno una curva tipo Hubbert, cioè che scenderanno alla stessa velocità con cui sono salite finora. Ciò significa che in futuro emetteremo approssimativamente quanto abbiamo emesso fino ad oggi. Questo ci può salvare da un cambiamento climatico catastrofico? Non proprio. Finora abbiamo emesso un totale complessivo di 1.465 gigatonnellate (Gt) di CO2 che potrebbe essere la quantità che emetteremo in futuro. Sfortunatamente, secondo Meinshausen et al, per avere un 25% di probabilità di restare al di sotto dei 2°C di limite, non possiamo emettere più di circa 1.000 Gt di CO2. E non ci siamo. Secondo  Meisenhausen, con 1.500 GT di CO2 emessa, ci troviamo quasi esattamente ad una probabilità del 50% di restare al di sotto dei 2°C. Se il vostro hobby è quello di giocare alla roulette russa con una pistola vera, vi dovrebbe piacere la situazione in cui ci troviamo.

Eppure, il possibile picco delle emissioni di CO2, anche se non sufficiente a salvarci, potrebbe non essere una cosa brutta visto che, perlomeno, rende più facile il compito di restare entro i limiti di sicurezza. E non solo quello. Questi nuovi dati ci portano a ripensare alcuni degli assunti radicati. Finora, abbiamo ipotizzato che sarà necessario un sforzo erculeo per costringere il sistema economico a smettere di usare risorse che si pensava fossero abbondanti ed economiche. Così erculeo che sembrava essere totalmente impossibile. Ma, se ci troviamo davvero al picco dei fossili, lo sforzo necessario potrebbe essere molto meno erculeo: l’esaurimento ci aiuterà molto (perlomeno in un certo senso, anche se non sarà un aiuto piacevole). A questo punto, l’enfasi dovrebbe passare dalla “esclusione” dei combustibili fossili – che se ne andranno in gran parte da soli – alla “inclusione” delle rinnovabili – che ha bisogno di uno sforzo specifico. E se vogliamo includere le rinnovabili dobbiamo farlo prima che il collasso dell’industria dei combustibili fossili renda impossibile investire a sufficienza nel loro sviluppo.

Infine, c’è un’altra possibilità interessante (nel senso dell’antica maledizione cinese: ‘possa tu vivere tempi interessanti’). Il declino potrebbe non seguire una curva di Hubbert ma, piuttosto, una curva di Seneca. Cioè, le emissioni potrebbero declinare più rapidamente di quanto sono cresciute in passato. Ciò comporta, naturalmente, un collasso parallelo della produzione di combustibili fossili e del PIL mondiale. Il conseguente collasso economico potrebbe mantenerci entro i limiti climatici “sicuri”. Questo sarebbe così terribile  da essere quasi inimmaginabile ma, perlomeno, meglio di alcuni orribili scenari climatici. E, perché no, potremmo avere sia il collasso dell’economia sia il cambiamento climatico fuori controllo! (Non solo fuoco o ghiaccio, ma fuoco e ghiaccio).

Davvero, viviamo in tempi interessanti.

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Nota: da alcuni messaggi che ho ricevuto, sembra che molte persone trovino che il mero concetto che il PIl mondiale possa declinare sia impensabile e contrario ad alcuni principi universali. Eppure, sembra proprio che si stia contraendo, almeno secondo alcuni dati. Vedete questo grafico da Vox .

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Inutile votare contro le trivellazioni in Adriatico se non ci attrezziamo per fare a meno di petrolio e gas

E’ uscito ora un interessante articolo sui piani di cottura a induzione su “QualeEnergia”. Mi ha ricordato un articolo sullo stesso argomento che avevo scritto qualche anno fa e che ripropongo qui di seguito.

In sostanza, è inutile andare a votare contro le trivellazioni in Adriatico se non ci attrezziamo per fare a meno di petrolio e gas. E questo bisogna farlo in tutte le applicazioni, anche e specialmente quelle quotidiane.

La strada è lunga, ma non abbiamo altra scelta che percorrerla

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da “Nuove Tecnologie Energetiche” 2010

Cucina a induzione

agosto 30th, 2010 |

Cucinare a induzione offre la possibilità di mettere subito in uso l’energia prodotta localmente dalle rinnovabili e di ridurre la necessità per la rete elettrica di adattarsi alle variazioni di produzione che sono tipiche di fonti intermittenti come il fotovoltaico o l’eolico.



C’è un concetto che è ben assodato nell’armamentario delle idee ambientaliste: quello che usare l’energia elettrica per il riscaldamento è – come dicono gli americani – un “no-no”; uno spreco che dovrebbe essere evitato a tutti i costi. Questa idea deriva da un ragionamento corretto nel contesto di una certa ipotesi. Ovvero, se dobbiamo usare il gas per generare energia elettrica, poi questa energia la dobbiamo trasportare a lunga distanza, e poi ritrasformare in energia elettrica per scaldare la resistenza di una stufetta, beh, ovviamente questo non ha senso. E’ questa catena di inefficienze che ha generato il termine molto efficace di “strage termodinamica” per chi usa stufe elettriche per il riscaldamento. Molto meglio, in questo contesto, usare direttamente il gas per il riscaldamento, soprattutto se in caldaie efficienti o, meglio ancora, in cogenerazione.

Anch’io ero convinto di questa idea, tanto è vero che quando abbiamo cambiato la cucina in casa, qualche anno fa, mi ero sbattezzato per trovare un forno a gas che non si esisteva in vendita quasi da nessuna parte. Una volta trovato e montato, mi sono sentito molto “ecologico” ma, ripensandoci oggi, dopo che ho montato un impianto fotovoltaico a casa mia, sono proprio sicuro di aver fatto la cosa giusta? Non è invece che un forno elettrico alimentato da energia solare fotovoltaica sarebbe stato meno inquinante e meno costoso?

Il concetto del riscaldamento elettrico fotovoltaico mi ha incuriosito. Da quando ho l’impianto FV sono diventato molto cosciente dell’energia che consumo nelle varie attività di casa e mi sento molto stimolato a essere efficiente al massimo. Perciò, mi sono messo a fare qualche esperimento per vedere quali sono i metodi migliori per scaldare le cose in cucina.

Ovviamente, le antidiluviane piastre riscaldanti a resistenza non sono una buona idea. Tuttavia, l’ultimo sviluppo tecnologico in cucina è la piastra riscaldante a induzione; molto più efficiente. La piastra funziona secondo il principio, appunto, dell’induzione, ovvero scaldando oggetti metallici per mezzo del campo elettromagnetico generato da un solenoide. Ha il vantaggio che scalda unicamente il metallo. Se non c’è la pentola da scaldare, non funziona; ergo: nessuno spreco di energia. Se le comprate da incasso, le piastre a induzione sono molto care, ma quella che vedete in figura costa poco più di 50 Euro comprata su ebay.it. Messa alla prova, sembra funzionare una meraviglia, ma non basta la prima impressione, bisogna quantificare.

La piastra non permette una misura dell’energia utilizzata e per questo scopo mi sono procurato un misuratore di energia per elettrodomestici comprato su D-mail a una trentina di euro (vedete anche quello nella figura, in basso a destra). Non è che l’oggetto mi entusiasmi molto, il minimo che può misurare sono 10 Wh, che è un po’ poco come sensibilità. Ma per queste misure in cucina dovrebbe andar bene anche questo.

Attrezzato con questi aggeggi, ho fatto un po’ di misure comparative anche con i fornelli a gas e con il forno a microonde, scegliendo 500 cc di acqua come sostanza da riscaldare. Ho usato un pentolino d’acciaio da circa 600 cc, oppure una pentola più grande, oppure, per i test nel microonde, la stessa quantità di acqua l’ho messa in un’insalatiera di vetro. Per quanto riguarda i fornelli a gas, ovviamente l’energimetro di D-Mail mi serviva a poco, ma ho trovato su internet una taratura dei fornelli AEG in kW (che, purtroppo, da allora non esiste più su internet, ma mi sono segnato i dati ). Non so se sono esattamente uguali ai miei fornelli, ma credo che siano misure standard per tutte le cucine.

Ecco i risultati. Non sono misure super-sofisticate, ma servono per dare un’idea.


Adesso vi dico che cosa deduco da queste misure.

1. La piastra a induzione è, effettivamente, molto efficiente. Molto di più del gas, ed è anche più rapida. Possiamo fare un piccolo calcolo di efficienza ragionando che la capacità termica dell’acqua è di 4.2J/k/g, per scaldare 500 cc ci vogliono 168 kJ, ovvero 46e-3 kWh. Notate che la lettura di “50 Wh” sullo strumento che ho usato va letta come un valore compreso fra 50 e 60 per cui se ne conclude che riscaldare a induzione ha un’efficienza dell’ordine dell’80%. Niente male!

2. Notate che c’è una differenza nei risultati a seconda della forma e dimensioni della pentola. Sia l’induzione sia il gas fanno più fatica a scaldare una pentola più grande. Questo è abbastanza ovvio, dato che entrambi devono scaldare una massa di metallo maggiore.

3. C’è una notevole perdita di efficienza a scaldare una pentola piccola su un fornello a gas troppo grande. Molto del calore si disperde nell’aria.

4. Il forno a microonde è la cosa meno efficiente e più lenta di tutte per portare l’acqua all’ebollizione. In realtà, ho il dubbio che questo sia dovuto in parte al fatto che ho usato un recipiente non specifico per le microonde. Può darsi che molta energia sia finita per scaldare il recipiente. Ma è una questione accademica, dato che nessuno usa il forno a microonde per fare la pastasciutta.

5. In termini di costi (senza fotovoltaico), non c’è molta differenza fra gas e induzione. Prendiamo la tariffa attuale per l’energia elettrica di .12 euro per kW. Scaldare 500 cc con l’induzione, richiede .05 kWh, ovvero 0.006 euro (0.6 centesimi) in condizioni favorevoli. Con il gas piccolo, secondo i dati AEG, abbiamo una portata di 0.095 m3/h. Per 9 minuti, fanno 0.014 m3. Al prezzo attuale di 0.320 euro/m3 fanno 0.0045 euro (0.45 centesimi), leggermente meno dell’induzione. Ma se si scalda con la tariffa notturna (0.08 Eur/kWh) allora vince l’induzione. Se poi c’è il FV, ovviamente, non c’è confronto, l’induzione stravince.

6. In termini di emissione di gas serra, se c’è il FV, ovviamente, l’induzione stravince sul gas. In assenza di FV o usando la piastra di sera, è difficile dire. La piastra è molto più efficiente localmente (circa un fattore 3) del gas, ma bisogna considerare tutta la catena di produzione dell’energia elettrica. Quanti gas serra si emettono dipende dalla fonte primaria. Se è idroelettrica, per esempio, le emissioni sono zero. Se è a carbone, al contrario, le emissioni sono alte. Normalmente, l’energia elettrica che utilizziamo arriva da un mix del quale non possiamo conoscere la composizione. Bisogna un po’ vedere dove e quando, ma la piastra a induzione potrebbe essere spesso migliore del gas anche per quanto riguarda l’emissione dei gas serra.

Questa serie di dati, credo, è già sufficiente per rivoltare il concetto che vuole che il metano sia sempre più “ecologico” dell’energia elettrica per applicazioni termiche (non sempre il metano ti da una mano). Se usata con la tecnologia giusta, e soprattutto se generata dal sole, l’energia elettrica in cucina sembrerebbe spesso meno costosa, più rapida e più sicura del gas.

Ora, si tratta di vedere quanto queste considerazioni possono essere estese oltre la cucina dove, tutto sommato, di energia se ne usa abbastanza poca. Possiamo dire che se uno ha il fotovoltaico gli conviene tornare allo scaldabagno elettrico o, addirittura, alle stufette elettriche? Beh, qui non è detto. Un problema è che gli impianti elettrici delle case attuali non sarebbero in grado di reggere il carico di una casa “tutta elettrica”. Allo stesso modo, un impianto fotovoltaico che sta su un tetto non sarebbe probabilmente in grado di reggere il consumo di una casa che usasse solo stufe elettriche a resistenza per il riscaldamento. D’altra parte, è anche vero che esistono dei sistemi di riscaldamento casalingo molto più efficienti delle resistenze elettriche. Mi sembra probabile che un sistema di riscaldamento basato su fotovoltaico e pompe di calore possa essere meno inquinante e meno costoso di un sistema tradizionale a caldaia e, forse, anche di un sistema a cogenerazione. Quest’ultimo, per quanto efficiente possa essere, dipende pur sempre dai combustibili fossili.

Tutte queste cose vanno studiate ulteriormente. Nel frattempo, teniamo conto che la faccenda “mai usare l’elettricità per il riscaldamento” si potrebbe rivelare una leggenda in molti casi.

(ringrazio Emilio Martines per i suoi suggerimenti a proposito della piastra a induzione e Corrado Petri per i suoi commenti a proposito di questa nota)

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Le previsioni demografiche sono diventate impossibili?

di Jacopo Simonetta

Lo studio di come le popolazioni cambiano nel tempo è una delle branche dell’Ecologia e riguarda tutti gli organismi viventi meno uno:  noi.  

In parte questo è dovuto al nostro complesso di superiorità, ma in parte è giustificato dal fatto che le popolazioni umane mostrano dinamiche molto più complesse di quelle degli altri animali.

Principalmente perché rispondono non solo ai fattori ambientali come le altre,  ma anche a fattori culturali e psicologici che riguardano solo noi.

Il problema è che i demografi hanno la spiccata tendenza ad occuparsi solo di quest’ultima categoria, dimenticandosi che siamo comunque una specie animale che interagisce con il suo ambiente.   Non è polemica, è detto chiaro e tondo dal Prof Ronald Lee nientemeno che nella presentazione di un numero speciale di “Science”  del 2011, dedicato proprio alla demografia.  

Ci sono delle ragioni molto precise per questo.   Quando si parla di popolazioni umane le implicazioni politiche sono immediate e consistenti.   Ancora più importanti sono le implicazioni etiche e religiose, per questo è igienico tenersene alla larga.   Per questo chiedo a priori pazienza ai lettori, sperando di riuscire a parlare di cose che ci riguardano tutti senza urtare nessuno.

Dunque, le fluttuazioni delle popolazioni animali, tutte, sono la risultante di tre fattori: natalità, mortalità migrazioni.   Vediamole in ordine.

Natalità

Nell’uomo troviamo caratteristiche riproduttive molto peculiari, come la mancanza dell’estro e la menopausa.   Complessivamente, la natalità è normalmente piuttosto bassa.  

Teoricamente una donna può partorire una dozzina di figli e più nella sua vita (sia pure a rischio della medesima), ma nella realtà pochissimi popoli e solo per finestre temporali limitate hanno avuto tassi di riproduzione così elevati.

Nelle popolazioni primitive che abbiamo conosciuto nei secoli delle grandi esplorazioni, di solito i figli non erano più di 3-5 per donna grazie ad una vasta gamma di comportamenti individuali e sociali, tabù sessuali ed altro che, di fatto, contenevano la riproduzione.  

Anche in Europa sistemi contraccettivi abbastanza efficaci sono stati di uso corrente fino alla Peste Nera, malgrado i fulmini della Chiesa che, viceversa, sosteneva un altro efficace metodo di controllo della natalità: il monachesimo.   Per secoli molto diffuso sia in Europa che in buona parte dell’Asia.

Un altro elemento culturale fondamentale è il grado di autonomia delle donne in materia di riproduzione.  

Nelle società industriali, questo è abbastanza ben correlato con il livello di istruzione femminile, ma vi sono eccezioni e, comunque, in altri tipi di società esistono correlazioni diverse.   Poi vi sono i fattori psicologici: in particolare gli effetti che le condizioni di vita hanno sulla disponibilità delle donne a riprodursi.   Poi ancora fattori economici ed ambientali che non solo influiscono sulla mortalità infantile (ne parliamo dopo), ma anche sul tasso di natalità.

Una regola empirica è che il miglioramento delle condizioni di vita comporta un aumento della natalità, perlomeno finché il livello di benessere (e quindi l’impronta ecologica) non raggiunge livelli estremamente alti e, dunque, ben difficilmente  sostenibili.   Ma lo stesso effetto si verifica quando il miglioramento è solamente immaginato, così come una prospettiva pessimista ha di solito un effetto deprimente sulla natalità, anche se le condizioni attuali sono buone.   Perlomeno, ciò accade nelle società in cui le donne hanno ampio margine di scelta, mentre in società fortemente maschiliste l’effetto può essere addirittura contrario.

La risultante di tutto questo è quindi molto complessa, ma in molto grossolana approssimazione si può dire che spesso limitano la propria natalità le società pre-agricole o parzialmente agricole e quelle post-industriali, quelle in cui le donne hanno un elevato livello di autonomia decisionale, quelle che hanno una visione pessimista del futuro.   Viceversa, tendono ad avere un’elevata riproduzione le società agricole e industriali, quelle fortemente maschiliste e quelle che hanno una visione ottimista del futuro.   Con numerose eccezioni e tutte le combinazioni possibili.

Mortalità

Se la natalità è un argomento delicato, la mortalità lo è ancora di più.   In compenso è più facile da capire e da prevedere in quanto risponde in modo molto diretto alle variazioni nelle condizioni di vita.

Migliori condizioni allungano istantaneamente la vita media.   Peggioramenti economici e/o ambientali la accorciano.   Ma gli effetti demografici possono essere molto diversi a seconda se la maggiore mortalità si riscontra nei bambini (come nel caso di carestie), negli adulti (come nel caso di guerre) o nei vecchi (come quando vengono tagliati servizi sanitari e pensioni).  

Naturalmente si possono verificare casi intermedi e diverse combinazioni.   Quello che qui preme far presente è che la grande longevità potenziale dell’uomo (85 di vita media è probabilmente il massimo realisticamente raggiungibile) fa si che la popolazione umana sia sempre molto vicina al massimo possibile.   Cioè, quasi non ci sono periodi in cui la popolazione risulta nettamente al di sotto della capacità di carico del proprio territorio, come si verifica con altre specie.   E questo comporta uno stato di stress permanente sulle risorse che difficilmente hanno occasione di recuperare da periodi di sovra sfruttamento.   In altre parole, la demografia della nostra specie è intrinsecamente destabilizzante.  Tende cioè a creare condizioni di crisi che si risolvono con morìe o con emigrazioni di massa.

Migrazioni

Quando le risorse non sono più sufficienti l’alternativa a morire è emigrare, che quasi sempre è sinonimo di guerra poiché i gruppi in cerca di un territorio o trovano spazi liberi, o li devono liberare.   In alternativa vengono eliminati dagli autoctoni, o dalle avversità locali, ristabilendo comunque un temporaneo equilibrio.

L’intera storia di Homo sapiens è scandita da ricorrenti crisi, seguite da migrazioni di diversa scala ed entità dal paleolitico ai giorni nostri.   Le prime ondate dei nostri antenati diretti spazzarono via tutte le specie umane più primitive e buona parte della megafauna del mondo.    In seguito, successive ondate di popoli tecnologicamente più avanzati hanno sterminato, marginalizzato o assorbito i popoli discendenti dai precedenti invasori.   L’ultima e maggiore migrazione di massa è stata quella che ha portato gli europei ad occupare quasi completamente l’Asia centrale e settentrionale, Quasi del tutto le Americhe, l’Australia ed una miriade di isole grandi e piccole.

La cosa importante da rilevare è che questa migrazione si è svolta in concomitanza con lo sviluppo della civiltà e dell’economia industriale che ha messo a disposizione armi e mezzi fino ad allora inimmaginabili.

La migrazione di massa globale che sta cominciando in questi anni è, per il momento, molto diversa.   I migranti hanno infatti mezzi tecnici e militari molto inferiori a quelli di cui dispongono i paesi di arrivo.   La migrazione è quindi possibile solo in quanto è accettata e facilitata proprio da coloro che ne sono obbiettivo, una situazione che conta ben pochi precedenti storici.

Principali migrazioni paleolitiche

Principali migrazioni storiche.

Principali migrazioni attuali

Uno degli argomenti più tabù oggigiorno sono le conseguenze di questo fenomeno sia nei paesi di partenza che in quelli di arrivo.    Un argomento non solo politicamente ed eticamente minato, ma anche di un’estrema complessità.

Di solito, si trattano esclusivamente gli effetti economici immediati che si pretendono eccellenti o pessimi a seconda di chi scrive.    Al di la di questo, vi sono  altri aspetti che di solito  non vengono considerati e cui vorrei qui accennare.

In primo luogo è molto probabile che l’emigrazione sia un potente fattore per mantenere alta la natalità nei paesi di provenienza, sia per effetto delle rimesse degli emigrati, sia perché mantiene una visione relativamente ottimista del futuro che, come abbiamo visto, è uno degli elementi che contribuiscono ad incrementare la natalità.

Anche nei paesi di arrivo gli effetti non sono solo economici.   A livello politico il fenomeno sta provocando uno scontro che sta assumendo un ruolo chiave sia nella politica interna dei singoli paesi, sia in quella estera.   La recente parziale sospensione del trattato di Schengen ha di fatto delineato una frattura.

Da una parte due paesi, Italia e Grecia, che favoriscono l’immigrazione, ma intendono poi distribuire i flussi sull’intero continente.   Dall’altra tutti gli altri paesi che, in maniera più o meno raffazzonata, cercano di limitare il fenomeno.   Una situazione che, peraltro, può cambiare repentinamente, come ampiamente dimostrato dalla rapidità con cui vari governi hanno cambiato atteggiamento più volte nel giro di pochi mesi.

Comunque la si pensi, un punto che si tende ad ignorare è che la crescita demografica,  il peggioramento del clima, l’innalzamento del mare, il degrado dei suoli, l’impoverimento delle risorse idriche, eccetera sono tutti fattori che contribuiranno ad incrementare la quantità di persone più o meno disperate.   Gli stessi fattori che sono connessi anche con le ricorrenti crisi economiche e militari che sempre accompagnano l’impatto delle popolazioni contro la capacità di carico del loro territorio.

Nel 2013 l’UNFPA stimava in circa 232 milioni il numero di persone che dagli anni ’90 hanno abbandonato il loro paese d’origine, mentre molti di più sono quelli che si sono spostati all’interno dei vari stati.   E negli anni a venire i flussi non potranno che crescere rapidamente.  
Per fare un solo esempio, il collasso dell’Egitto è quanto meno molto probabile e metterà in strada una parte consistente dei suoi 80 milioni di abitanti.

Dinamica

Ad oggi, il miglior modello che abbiamo per descrivere le dinamiche globali continua ad essere Word3, continuamente aggiornato e verificato.   Tuttavia anche questa icona della scienza dei sistemi presenta dei limiti che occorre tener presenti.

Il primo fu dichiarato dagli autori fin dalla prima edizione: il modello non pretende di prevedere il futuro, bensì di capire il funzionamento del sistema globale analizzando come cambiano gli scenari in relazione a come cambiano le variabili.   Scoprire che la realtà ha seguito lo scenario base (Business as usual) con un’approssimazione superiore al 90% ha stupito e costernato gli stessi autori del lavoro.   Significa infatti che avevano fatto un eccellente lavoro, ma anche che dal 1970 ad oggi l’umanità non ha cambiato di una virgola la propria impostazione socio-economica.   E ciò ad onta di turbinosi progressi scientifici e tecnologici, nonché di sconvolgimenti politici epocali e del tutto imprevisti negli anni ’70.

Anche il secondo limite fu subito messo in chiaro dagli autori.   Il modello è valido solo a livello globale e solo finché le curve della popolazione e quelle della produzione salgono.   Superato il picco, gli algoritmi usati perdono rapidamente di affidabilità perché il sistema tende a disarticolarsi in sub-sistemi sempre più piccoli ed indipendenti che possono quindi seguire rotte divergenti nel tempo.

Il terzo è invece emerso con gli anni ’90 e la quasi totalità dei demografi si sforza di ignorarlo.   Word3 ingloba infatti la teoria della “Transizione demografica” e prevede quindi che, a seguito del collasso economico, sia la mortalità che la natalità crescano rapidamente.   All’epoca si trattava di un’ipotesi perfettamente plausibile, ma oggi non è più così.

Il collasso del blocco sovietico e le crescenti difficoltà delle economie “avanzate”, o ex tali, ha infatti dimostrato che, almeno in molti casi, al peggioramento delle condizioni ambientali ed economiche fa riscontro non solo un aumento della mortalità, ma anche una riduzione della natalità.   Ne consegue un decremento demografico che potrebbe rivelarsi molto più rapido di quanto modellizzato dai Meadows e soci, almeno in ampie regioni del pianeta.

Ancora oggi la quasi totalità dei demografi si sforza di ignorare questi fatti e continua a pubblicare proiezioni  comprese fra i 9 ed il 14 miliardi di persone nel 2.100.   A sostegno delle loro ipotesi adducono il fatto che neppure una guerra importante od una grave pandemia sarebbe in grado di flettere sensibilmente la curva della popolazione.

Ciò è molto corretto ed il XX secolo lo dimostra ampiamente, ma un accorciamento della vita media di alcuni anni ed una stabilizzazione della natalità un po’ al di sotto di quella che abbiamo oggi in Italia potrebbe essere sufficiente a dimezzare la popolazione europea in meno di 50 anni (immigrazione permettendo).    Non uno scenario idilliaco, certamente, ma neppure catastrofico.

Speranza.

Alcuni troveranno questa prospettiva deprimente, mentre è la nostra maggiore speranza.   Nel modello citato, infatti, la popolazione diminuisce più lentamente delle risorse, mantenendo quindi una situazione di disequilibrio che condurrebbe l’umanità del futuro ad un’esistenza di nera miseria senza speranza e senza fine.   Viceversa, se la popolazione decrescesse abbastanza rapidamente, una parte consistente della biosfera potrebbe salvarsi e potrebbe anche avvenire un parziale recupero di alcune risorse rinnovabili come banchi di pesca, suoli, foreste, acqua, eccetera.

Ne conseguirebbe la possibilità, in un futuro non troppo remoto, di una vita tutto sommato gradevole per i nostri discendenti e, chissà?   Anche il fiorire di nuove civiltà.

“La morte è l’artificio mediante il quale si mantiene la Vita”    
Goethe

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Carbone, guerre e belle donne: perché in Italia si parla italiano e non francese

Da “Cassandra’s Legacy”. Traduzione di MR

Virginia Oldoini, Contessa di Castiglione, 1837-1899. Ritratto di Michele Gordigiani. Il testo che segue è parte di una conferenza che ho fatto a Parigi il 12 febbraio, al Momentum Institute  (h/t Yves Cochet, Agnes Sinaï e Mathilde Szuba)

Di Ugo Bardi

Nello studio della storia, è di moda usare dati quantitativi il più possibile. Parliamo di fattori finanziari ed economici, della competizione per le risorse naturali, degli squilibri della popolazione, degli effetti del clima ed altro. Eppure, a volte la storia procede secondo il capriccio di un sovrano o dell’altro che fanno errori colossali, da Napoleone a Saddam Hussein. In quel caso, i fattori umani diventano predominanti e solo in alcuni casi possiamo avere uno scorcio di quello che potrebbe essere passato nella mente delle persone al vertice. Un caso del genere potrebbe essere stato quello della contessa Virginia Oldoini, femme fatale del XIX secolo, amante dell’Imperatore Francese Napoleaone III e, forse, l’origine dell’unificazione italiana del 1860. Bella donna, in effetti, e difficile da modellizzare usando la dinamica dei sistemi!

Torniamo all’inizio del XIX secolo. A quel tempo, la rivoluzione industriale era in pieno svolgimento, alimentata dalle miniere di carbone dell’Europa settentrionale, principalmente Inghilterra, Francia e Germania. Questa rivoluzione aveva creato uno squilibrio economico, rendendo i paesi settentrionali molto più ricchi e più potenti di quelli del sud. Non era solo una questione di avere o non avere il carbone. Era questione di trasportarlo. Il carbone è pesante ed ingombrante e, a quel tempo, il solo modo pratico per trasportarlo su lunghe distanze era via mare. Le navi potevano portare il carbone ovunque nel mondo ma, quando si trattava di portarlo nell’entroterra, servivano fiumi navigabili. Niente fiumi navigabili, niente carbone. Niente carbone, niente rivoluzione industriale. E’ stata questa la ragione dello squilibrio: i paesi dell’Europa meridionale, proprio come quelli nordafricani, non potevano avere fiumi navigabili a causa della mancanza d’acqua. Per cui, non si sono potuti industrializzare e sono rimasti economicamente e militarmente deboli.

Ecco com’era la situazione nel 1848.

A questa data, le sole regioni mediterranee che avevano fiumi navigabili e si sono potute industrializzare sono state Francia e Nord Italia, Piemonte in particolare. Delle due, la Francia è stata di gran lunga la più potente e, già nel 1848, potete vedere in che modo la Francia ha occupato l’Algeria, strappandola via all’Impero ottomano. Il resto della regione nordafricana era matura per essere sottomessa e persino il Regno di Napoli, nell’Italia meridionale, era militarmente ed industrialmente debole, una preda facile per qualsiasi paese industrializzato. Cosa poteva quindi fermare i francesi dal trasformare l’intero mare Mediterraneo in un lago francese? Questa, apparentemente, era stata l’idea di Napoleone quando ha invaso l’Egitto, nel 1798. Non ha funzionato quella volta, ma era stata un’intuizione strategica che in seguito i governi francesi avrebbero potuto portare avanti.

Ora, mettetevi nei panni dei britannici. Nel grande gioco strategico del XIX secolo, avevano adocchiato l’Egitto, che avrebbero poi occupato nel 1882, ma avrebbero potuto fare poco o niente per impedire alla Francia di occupare l’intera costa nordafricana, fino all’Egitto e forse oltre ad esso. Niente di diretto, cioè, ma se avessero potuto creare un contrappeso strategico per bilanciare il potere francese? E cosa poteva essere quel contrappeso? L’Italia, naturalmente, se poteva essere unificata e trasformata in un unico paese, dalla pletora di staterelli che era a quel tempo.

Così, a metà del XIX secolo, i pezzi strategici del gioco mediterraneo erano tutti al loro posto, come in una enorme scacchiera. L’obbiettivo britannico era condiviso dal Piemonte: unificare l’Italia il più presto possibile e fermare l’ulteriore espansione della Francia. Dall’altro lato della scacchiera, l’obbiettivo della Francia era altrettanto chiaro: evitare ad ogni costo l’unificazione dell’Italia e prendersi quanto più Nord Africa possibile, il più presto possibile.

Chiaro, perfettamente chiaro. E facile per la Francia. Non dovevano fare quasi niente, solo tenere sotto controllo il Piemonte, cosa che potevano fare agevolmente. E’ vero che il Piemonte era una piccola superpotenza industriale per i suoi tempi, ma non c’era partita per la più grande, molto più potente e vicina Francia. Ma il presidente francese ed imperatore di quel tempo, Luigi Napoleone, o “Napoleone III”, ha fatto esattamente l’opposto, anche impegnando l’esercito francese a sostegno dell’espansione del Piemonte nell’Italia del nord in una serie di battaglie sanguinose contro gli austriaci, nel 1859. Non che la Francia abbia aiutato il Piemonte per niente, naturalmente. In cambio, i francesi hanno ottenuto una fetta di terra sul lato occidentale delle Alpi, che prima faceva parte del Piemonte. E’ stato un guadagno territoriale ma, in termini strategici, non era niente in confronto a quello che la Francia stava perdendo.

Un anno dopo aver sconfitto l’Austria con il sostegno della Francia, il Piemonte partiva per un’altra impresa strategica, questa volta con il sostegno dei britannici. Dal Piemonte, partiva un esercito condotto da Giuseppe Garibaldi ad invadere il Regno meridionale di Napoli. I napoletani hanno contrapposto una resistenza strenua ma, da soli, non potevano farcela e Napoleone III non ha mosso un dito per aiutarli. Col collasso del Regno Meridionale, la completa unificazione dell’Italia è diventata inevitabile, nonostante un ultimo disperato tentativo da parte di Napoleone III nel 1867, quando ha mandato truppe in Italia per impedire a Garibaldi di prendere Roma.

E quindi Italia fu. Ed è ancora. La cosa curiosa è che poteva non essere. Se Napoleone avesse fermato Garibaldi nel 1860 allo stesso modo in cui lo ha fatto nel 1867, probabilmente avremmo ancora un regno di Napoli e il paese che oggi chiamiamo “Italia” sarebbe più che altro un protettorato francese. E, molto probabilmente, il francese sarebbe la lingua dominante in gran parte del paese.

Invece, la Francia aveva perso un’occasione storica per diventare la potenza dominante nel Mediterraneo. In seguito, la Francia è riuscita comunque a ritagliarsi alcuni altri pezzi di Nord Africa, occupando la Tunisia nel 1881 e il Marocco nel 1904, ma tutti gli ulteriori avanzamenti nella regione mediterranea sono stati fermati quando, nel 1911, l’Italia  ha rivendicato ciò che gli italiani vedevano come la loro fetta legittima dell’Impero Ottomano in declino: la regione che oggi chiamiamo Libia.

Quindi, come mai Napoleone III ha fatto un errore strategico colossale del genere? In un certo senso, possiamo dire che è piuttosto normale: i sovrani degli stati spesso sono terribilmente incompetenti nel loro lavoro (pensate solo al nostro George W. Bush). Ma, per Napoleone III, potrebbe esserci stata una ragione che va oltre la semplice incompetenza.

I francesi hanno inventato la frase “Cherchez la femme” (cercate la donna) come spiegazione di molti eventi altrimenti inspiegabili. E, nella storia dell’unificazione dell’Italia, c’è coinvolta una donna: Virginia Oldoini, Contessa di Castiglione. Era la cugina del Conte di Cavour, primo ministro del Piemonte a quel tempo, ed era stata mandata a Parigi da lui, pare, con l’idea specifica di influenzare Napoleone III. Lei era una fedele patriota italiana e capiva molto bene quello che sarebbe stato il suo ruolo come amante del presidente francese ed imperatore. Doveva convincerlo a fare qualcosa che i francesi non avrebbero mai dovuto permettere: aiutare il Piemonte ad invadere e conquistare il resto della penisola italiana. Secondo quello che si può spesso leggere sui libri di storia, ha adempiuto al suo ruolo e, dai ritratti e dalle fotografie che abbiamo di lei, forse possiamo anche capire come.

Naturalmente, possiamo legittimamente pensare che questa storia sia solo una leggenda. Ma potrebbe essere che Virginia Oldoini abbia davvero convinto Luigi Napoleone a fare quello che ha fatto? In questo caso, la Contessa dovrebbe essere considerata una delle donne più influenti della storia moderna. Ma non saremo mai in grado di saperlo. Ora, lei si trova dall’altra parte dello specchio, forse guardandoci da lì e ridendo di noi.

Un racconto di fanta-storia di Ugo Bardi che descrive quello che sarebbe potuto succedere se Virginia Oldoini non fosse esistita

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I ricercatori di Energia per l’Italia sul referendum del 17 Aprile

Referendum 17 aprile: una politica energetica per il paese ai tempi della COP21
Chi vuole dare un segnale politico, fa politica“, dicono i due vice segretari del PD. Noi ricercatori di Energia per l’Italia abbiamo svolto un’azione politica chiedendo al Presidente del Consiglio e ai Ministri interessati di aprire un costruttivo dibattito sulla Strategia Energetica Nazionale che l’attuale Governo ha ereditato da quelli precedenti e che poi ha sostanzialmente peggiorato con una serie di decreti.  Non abbiamo mai avuto risposta. Il referendum ha certamente un significato politico perché contesta una Strategia che ignora lo stato di degrado e di pericolo in cui si trova il pianeta evidenziato  dagli scienziati, sottolineato da papa Francesco nell’enciclica Laudato sìe oggetto dell’accordo alla Cop 21 di Parigi, firmato dalle delegazioni di 185 paesi fra cui l’Italia.
Finché c’è gas, ovviamente è giusto estrarre gas. Sarebbe autolesionista bloccarle dopo avere costruito gli impianti, … licenziare migliaia di italiani e rinunciare a un po’ di energia disponibile, Made in Italy. Col risultato che dovremmo acquistare energia nei paesi arabi o in Russia, a un prezzo maggiore scrivono i due vice segretari.
Nel Regno Unito si sta svolgendo la campagna “Keep it in the ground” (letteralmente lasciali nel sottosuolo), perché lo spazio per i rifiuti nella casa comune Terra è quasi esaurito: vi è posto solo per le emissioni di CO2che corrispondono a un quinto dei combustibili fossili che si trovano nel sottosuolo. Se ne estraiamo più di un quinto, l’aumento di temperatura supererà i 2 °C, la soglia che unanimemente è stata riconosciuta come un limite invalicabile nella conferenza di Parigi. Ecco, perché NON è giusto estrarre gas ed è invece giusto investire sul risparmio energetico e sulle energie rinnovabili.
Sostenere il SI al referendum significa anche definire gli indirizzi strategici della politica industriale del paese. Il principale risultato atteso è la conversione delle aziende del settore oil&gas verso le nuove tecnologie.
Il costo dell’energia è stabilito dal mercato globale e da complessi meccanismi finanziari ed economici. Ad esempio, l’energia in eccesso prodotta dalle fonti rinnovabili, ovvero non consumata da chi la produce, viene venduta a prezzi molto inferiori al costo di mercato. 
Inoltre, l’estrazione di idrocarburi in Italia ha margini di profitto relativamente bassi, perché le quantità totali sono esigue (pari al fabbisogno energetico del paese per 2-3 anni) e perché richiedono procedimenti complessi per la tutela ambientale, quali la re-immissione di acqua per ridurre la subsidenza e l’erosione delle coste.  
Non è chiaro, quindi, perché la produzione italiana dovrebbe ridurre i costi dell’energia per gli utenti finali.
Il referendum è una grande opportunità che il fronte politico riformista dovrebbe cogliere per progettare una transizione energetica coerente con gli accordi di Parigi e che avrebbe conseguenze molto positive sulla nostra economia.
Confermiamo la nostra piena disponibilità a progettare con il Governo questa transizione.
Vincenzo Balzani
coordinatore di Energia per l’Italia

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Il viaggio della speranza di Matteo Salvini



di Stefano Ceccarelli

da: Stop fonti fossili!

Narsarsuaq, Groenlandia, novembre 2120. In un austero ufficio del locale Centro accoglienza profughi alcuni uomini con l’aspetto emaciato, stravolti dal lungo viaggio e dalle privazioni subite, sostavano in attesa dell’identificazione e degli adempimenti di rito. In un’altra stanza, donne e bambini ammassati come sardine venivano rifocillati alla meglio dagli agenti della polizia groenlandese. Il responsabile della struttura, il capitano Ulf Olsvig, sbuffando e borbottando entrò nell’ufficio, si sedette alla scrivania e urlò:

“Allora, italiani pizza-e-mandolino, chi è il capo della truppa?”

Un uomo sulla quarantina alzò la mano e nervosamente rispose: “Sono io, capitano! Alla buonora! Finalmente qualcuno si degna di parlare con noi!”

“Stia calmo, per favore! Pensate forse di essere i primi a venire qui in villeggiatura a visitare la terra dei Vichinghi liberata dai ghiacci? Piuttosto, venga, si sieda qui, signor…”

“Salvini. Matteo Salvini, capitano.”

“Salvini? Questo nome non mi è nuovo… “

“Beh, le ricordo io dove ha sentito il mio nome: il mio bisnonno, buonanima, da cui ho ereditato il nome di battesimo, è stato capo del governo italiano giusto cento anni fa.”

“Uhm… Sì, ora ricordo, me ne parlò mio nonno! – esclamò il capitano Olsvig destandosi improvvisamente dal torpore – Dunque il suo illustre antenato era quel demagogo criminale che schierò l’esercito a protezione delle vostre coste silurando i barconi con a bordo i poveracci che fuggivano dall’Africa e dal Medio Oriente dopo la Grande Siccità del 2018?”

“Come poteva fare altrimenti? – tentò di scusarsi Salvini cercando pateticamente di salvare l’onorabilità del suo avo – Il mio paese stava subendo un’invasione, dovevamo difenderci…”

“Sì, come no… Li conosco i tipi come lei, buoni solo ad alzare la voce e a prendersela con i più deboli. Ad ogni modo, come vede noi non ci siamo comportati come il suo bisnonno, altrimenti lei avrebbe già un bel buco in mezzo alla fronte! Ma poi… non fu proprio in quegli anni che l’Italia sprofondò in una terribile crisi finanziaria proprio a causa delle ingenti spese militari, fino a dover dichiarare bancarotta?”

“Sì, ma non fu colpa del mio bisnonno, ma del debito pubblico lasciato in eredità dai precedenti governi… E poi, come sa, arrivò la Grande Recessione Mondiale che costrinse le nazioni più indebitate al default.”

“Senta, Salvini, lasciamo perdere la Storia e veniamo al sodo: lei lo sa, vero, che io sarò costretto ad espellervi? La nostra nazione è stata finora sin troppo tollerante con i profughi, ma ora siamo saturi e le nostre limitate risorse non ci permettono di accogliere altri migranti. La Groenlandia conta oggi 250 milioni di abitanti, e l’aumento del livello del mare, che non accenna a fermarsi, ci costringerà presto ad abbandonare le vecchie città costiere e a rifugiarci nell’interno. Come faremo a reggere la pressione di tutta questa gente e a tenere a bada quelli come voi originari delle latitudini più basse che durante la lunga notte artica spesso e volentieri danno di matto?”

“La prego, capitano, sia ragionevole! Non può rimandarci indietro proprio ora che abbiamo raggiunto la meta dei nostri sogni! Ma lo sa quanto è durato il nostro viaggio dall’Italia? Otto mesi! Otto lunghissimi mesi di stenti ad attraversare l’Europa da sud a nord su un autobus elettrico scalcinato, con le file interminabili alle stazioni di ricarica, costretti a difenderci di continuo dagli assalti di orde di disperati! Fortuna che prima di partire siamo riusciti a barattare le vecchie batterie al litio delle case che abbiamo abbandonato con armi e munizioni. E non le sto a raccontare quello che abbiamo patito durante la traversata in mare da Rotterdam a Reykjavík e poi fin qui!”

“A proposito, dove avete trovato il gasolio per far navigare il barcone? Non mi dica che vi è avanzato ancora il petrolio proveniente da quei giacimenti nel Mare Adriatico che avete iniziato a sfruttare un secolo fa! Da quel che mi è stato raccontato, il poco petrolio ancora disponibile dopo la Grande Penuria Post-Picco del 2030 fu rapidamente accaparrato da USA, Cina, Germania e pochi altri stati.”

“Macché, capitano, il petrolio dell’Adriatico ci bastò si o no un paio d’anni… Col senno del poi, quella scelta fu un grave errore, se a quel tempo avessimo investito massicciamente sulle energie rinnovabili invece di succhiare quel po’ di greggio dai mari, forse le cose sarebbero andate in maniera diversa e magari ora non saremmo qui…”

“E allora come avete avuto il gasolio? Al mercato nero, immagino, come tutti quelli che arrivano da noi. Vi sarà costato una fortuna!”

“Non solo il gasolio, purtroppo! L’intero viaggio ci è costato una fortuna, capitano, per arrivare fin qui abbiamo investito tutte le risorse accumulate con fatica da noi e dai nostri padri, e ora non ci è rimasto più nulla, possiamo solo ricominciare da zero, e vogliamo farlo in questa terra ancora fertile e ospitale! Non come in Italia, dove ormai chi è rimasto fa la fame, i terreni che una volta facevano crescere ogni bendiddio sono ora inariditi dal caldo torrido e dall’erosione, mentre le aree più vicine alla costa sono diventate sterili a causa del sale del mare che si spinge sempre più all’interno. La supplico, capitano, ci faccia restare! Siamo dei lavoratori onesti, abituati al sudore della fronte, vogliamo integrarci con la vostra gente, rispettare le vostre leggi, e…”

“Basta così, Salvini! – lo interruppe bruscamente Olsvig – Per favore, evitiamo scene strazianti, le ripeto che non posso farvi restare. Ora procederemo all’identificazione, poi passerete la notte nella camerata del Centro profughi, e domattina provvederemo a farvi tornare indietro. Buona fortuna.“

Così dicendo, lasciò il suo posto all’agente incaricato degli adempimenti burocratici, si accomiatò e si ritirò nel suo angusto monolocale attiguo al Centro profughi.

***********

Quella notte Ulf Olsvig non riuscì a prendere sonno. In quella interminabile notte artica di luna nuova il capitano mise da parte i gradi e le stellette e continuava a rigirarsi nel letto in preda a una indistinta inquietudine. Finché ad un tratto udì dei rumori felpati provenienti dall’esterno. In un lampo capì, si affacciò alla finestra e vide gli italiani che, facendosi luce con delle torce, tranciavano le reti di protezione del Centro, apprestandosi a scappare. Si precipitò al telefono, alzò la cornetta, ma un attimo prima di comporre il numero per chiamare i rinforzi, si fermò e chiuse gli occhi.

Una miriade di pensieri affollarono la sua mente in quegli istanti, rivide come in un caleidoscopio i volti delle migliaia di esseri umani che aveva accolto in quegli anni, i bambini denutriti, gli occhi lucidi delle madri, lo sguardo spento di quella gente disperata. Ripensò a tutti quelli che non ce l’avevano fatta, riascoltò in un attimo i mille racconti dei sopravvissuti e le urla di gioia strozzate di chi fu accolto in quel Nuovo Mondo. Si sentì avviluppato dall’abbraccio colmo di gratitudine di milioni di cuori pulsanti che grazie a lui e a quelli come lui continuavano a battere, e scoppiò in un lungo pianto liberatorio.

***********

Il capitano Olsvig non seppe più nulla dei fuggiaschi. Per la verità, le ricerche dei giorni seguenti furono condotte più che altro per salvare la forma, nessuno degli agenti aveva realmente voglia di dover rispedire indietro gli italiani. Quanto a Matteo Salvini, più volte Olsvig ripensò alla sua storia e alle gesta miserabili compiute un secolo prima dal suo bisnonno quando divenne capo del governo, e ripeteva a sé stesso che i figli non devono scontare le colpe dei padri, salvo poi dover ammettere che in effetti i patimenti della sua generazione e delle due che l’avevano preceduta non erano altro che l’ingiusto prezzo pagato per l’avidità e l’egoismo delle generazioni precedenti.

Dopo alcune settimane, al termine di un’altra interminabile notte del lungo inverno artico, Ulf Olsvig fece un sogno. Stava volando, guardava dall’alto uno dei barconi stracolmi di profughi in arrivo sulle coste della Groenlandia, librandosi poi velocemente in alto, sempre più in alto, fino a confondere alla sua vista il barcone dei migranti con la sfera azzurra del pianeta Terra in eterna navigazione in questo angolo dell’Universo. Dopo che fu desto, si alzò e uscì fuori, e si chiese che senso avesse tutto ciò, senza trovare risposta. Sentiva però che doveva esserci Qualcosa che fa navigare i barconi così come i pianeti. Decise che prima o poi gli avrebbe dato un nome.

Per il momento, si accontentò di ammirare lo spettacolo della splendida aurora boreale che magicamente si schiuse davanti ai suoi occhi.



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Aldo Grasso è un premio Nobel in confronto

Di Marco Sclarandis (da “Rimedio Evo“)

A mio giudizio non saprei in quale categoria classificare questo articolo tanto approssimativo e sciatto nell’esposizione delle ragioni del noma  sopratutto del sì alle trivelle.(Sì al referendum significa No alle trivellazioni e viceversa)
Costume, scoop, pesce d’Aprile anticipato?

Avrei anche potuto limitarmi alla sola citazione del link , ma mi é sembrato più onesto riportare l’articolo in calce, per intero.

http://www.lastampa.it/2016/03/15/italia/cronache/referendum-antitrivelle-del-aprile-i-motivi-del-s-e-del-no-spiegati-in-breve-Hq2rrluq6bUF3CUtGhYRZP/pagina.html
Raphaël Zanotti

Il referendum anti trivelle del 17 aprile riguarda solo le attività petrolifere
presenti nelle acque italiane, ovvero entro 22 km dalla costa, quindi non quelle
sulla terraferma né in acque internazionali. Ci verrà chiesto: volete fermare i
giacimenti in attività quando scadranno le loro concessioni? Se vinceranno i sì
, saranno bloccate. Se vinceranno i no, continueranno a estrarre petrolio e meta
no.

Referendum anti-trivelle del 17 aprile i motivi del sì e no spiegati in 2 minuti

LE RAGIONI DEL SÌ

1)Rischi per la fauna

Per la scansione dei fondali viene utilizzato l’air gun, spari di aria compressa che generano onde che “leggono”il sottosuolo. Alcuni cetacei e alcune specie di pesce vengono danneggiati con lesioni e perdita dell’udito a causa dell’air gun
.

2)Ci guadagnano solo i petrolieri

Per estrarre petrolio le compagnie devono versare dei “diritti”, le cosiddette royalties. Ma per trivellare i mari italiani si pagano le royalties più basse al mondo: il 7% del valore di quanto si estrae.

3)Il gioco non vale la candela

L’incidente è comunque possibile e in un mare chiuso come il Mediterraneo il disastro ambientale sarebbe amplificato. Inoltre la trivellazione non risolverà i nostri problemi energetici: le riserve certe di petrolio nei mari italiani equiva
lgono a 6-7 settimane di consumi nazionali e quelle di gas soddisferebbero 6 mesi di consumi.

LE RAGIONI DEL NO

1)Perdita di investimenti e posti di lavoro

Smettere di usare gli impianti entro le acque territoriali italiane significhere bbe perdere gli investimenti fatti fino a oggi e quelli futuri. Oltre che a migliaia di posti di lavoro.

2)Basso rischio di incidenti

Dal 1950 a oggi ci sono stati solo due incidenti che hanno riguardato impianti di estrazione: a Cortemaggiore (Piacenza) appunto nel 1950 e a Trecate (Novara) nel 1994. Si tratta di due siti su terraferma, sulle piattaforme marine non è mai
avvenuto alcun incidente.

3) Fabbisogno energetico

Secondo le stime il petrolio presente nei mari italiani sarebbe pari a 700 milioni di tonnellate. Il nostro consumo attuale all’anno è 58 milioni di tonnellate. Nel 2014 sono stati importati 54 milioni di tonnellate. Avere fonti energetiche
nostre ci fa spendere meno e ci mette al riparo da cali improvvisi dovuti a crisi internazionali.

Secondo le stime sarebbe pari a 700 milioni di tonnellate. Il nostro consumo attuale all’anno è 58 milioni di tonnellate. Nel 2015 sono stati esportati 21 milioni di tonnellate.

LEGGI ANCHE La trivella, il Buongiorno di Massimo Gramellini .

Sia chiaro, anzi chiarissimo:

Non intendo con questo post, nè offendere il Signor  Raphaël Zanotti, tantomeno la redazione de La Stampa, ancor meno infrangere il copyright riguardante l’articolo riportato ma solo chiedere all’autore che cosa intendesse dire con quello che ha scritto.


Lascio questa domanda polemica, sebbene avrei potuto censurarla , ma mi sento offeso come lettore dell’antico e prestigioso quotidiano,  sorto pure nella mia città d’origine.

Bisogna lasciar correre o dire a questo sig. Raphaël Zanotti che vada, un po’ a fare un altro mestiere?

Immaginatevi che cosa riesce a capire di questo articolo un lettore che non sa neanche a quanti barili corrisponda una tonnellata di petrolio e la differenza tra riserve e risorse.

Mi chiedo a che cosa siano serviti quarant’anni di Quark e Superquark.

Forse solo a creare un volgo che non sa nemmeno moltiplicare due frazioni ed una minoranza che per reazione diventa capo del Cern ed é pure una donna.

E dire che LaStampa ha da decenni delle buone pagine di scienza.Il glorioso Tuttoscienze.

Ricordo la mia maestra della quarta elementare che riuscì ad insegnare a tutta la classe come fare le divisioni, anche di numeri non interi, con carta e matita.

Fu estenuante ma meraviglioso.

Non pretendo una società di Leonardo da Vinci, ma questa mi pare vada verso “Il grande villaggio metropolitano degli imbecilli”.
 

Marco Sclarandis

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