Effetto Cassandra

Emergenza climatica. E’ tempo di passare alla modalità panico?

Da “Cassandra’s Legacy”. Traduzione di MR


Gli ultimi dati della temperatura hanno frantumato tutti i record (immagine da “think progress”). Bene che vada questa è un’oscillazione particolarmente ampia e il sistema climatico tornerà presto sui propri binari, seguendo la previsione dei modelli – forse da ritoccare tenendo conto delle temperature che aumentano più rapidamente. Peggio che vada, si tratta di una indicazione che il sistema sta andando fuori controllo e passando ad un nuovo stato climatico più rapidamente di chiunque avesse potuto immaginare. 

James Schlesinger una volta ha enunciato una di quelle profonde verità che spiegano molto di quello che vediamo intorno a noi: “le persone hanno solo due modalità operative: compiacenza e panico”.

Finora, siamo stati nella modalità operativa “compiacenza” riguardo al cambiamento climatico: non esiste, se esiste non è un problema, se è un problema non è colpa nostra e comunque fare qualcosa sarebbe troppo costoso per valere la pena di farlo. Ma gli ultimi dati delle temperature non sono altro che agghiaccianti. Cosa stiamo vedendo? Si tratta solo di una specie di rimbalzo della cosiddetta “pausa”? O qualcosa di molto più preoccupante? Potremmo vedere qualcosa che presagisce ad un grande cambiamento del sistema climatico, un’accelerazione inaspettata del tasso di cambiamento. Ci sono ragioni per essere preoccupati, molto preoccupati: le emissioni di CO2 sembrano aver raggiunto il picco, ma ciò non ha generato un rallentamento del tasso di aumento della concentrazione di CO2 nell’atmosfera. Più che altro, sta crescendo più velocemente che mai. Poi c’è il picco di emissione del metano in corso e, come sapete, il metano è un gas serra molto più potente del CO2.

Cosa sta succedendo? Nessuno può dirlo con certezza, ma questi non sono sintomi buoni, per niente. E questa potrebbe essere una buona ragione per passare in modalità panico.

Il problema è che le società, specificamente sotto forma di “stati”, di solito non mostrano molta intelligenza nel loro comportamento, specialmente quando sono in uno stato di panico. Una delle ragioni è che gli stati do solito sono governati da psicopatici il cui atteggiamento è basato su su una serie di regole semplici, che comportano principalmente l’intimidazione o la violenza, o entrambe. Ma non è solo una questione di psicopatici al potere, l’intera società reagisce alle minacce come uno psicopatico: con l’enfasi sul fare “qualcosa”, senza preoccuparsi molto se sia la cosa giusta da fare e quali potrebbero essere le conseguenze. Così, se il clima comincia ad essere percepito come una minaccia reale ed immediata, potremmo aspettarci una reazione dotata di tutta la finezza strategica di una rissa da strada: “Tu mi meni, io ti meno”.

Una reazione di panico possibile, controintutitiva, potrebbe essere di “raddoppio” del negazionismo della minaccia. Ciò potrebbe portare ad azioni come la soppressione attiva della diffusione di dati e studi sul clima, i de-finanziamento della ricerca climatica, la chiusura dei centri di ricerca climatica, la marginalizzazione di coloro che credono che il clima sia un problema, per esempio classificandoli fra i “terroristi”. Tutto ciò è pronto per accadere in qualche modo e potrebbe anche diventare la prossima mania, in particolare se le elezioni statunitensi in arrivo daranno in mano la presidenza ad un negazionista climatico attivo. Ciò significherebbe tempi difficili per almeno alcuni anni per chiunque stia cercando di fare qualcosa conto il cambiamento climatico. E, forse, significherebbe la totale rovina dell’ecosistema terrestre.

L’altra possibilità è quella di passare direttamente all’altro estremo e combattere il cambiamento climatico con gli stessi metodi usati per combattere il terrorismo, vale a dire bombardandolo per sottometterlo. Naturalmente, non si può bombardare il clima terrestre per sottometterlo, ma l’idea di forzare l’ecosistema a comportarsi nel modo che vogliamo è in concetto fondamentale della “geoingegneria”.

Nel mondo dell’ambientalismo, la geoingegneria gode più o meno della stessa reputazione di cui godeva Saddam Hussein nella stampa occidentale negli anni 90.  questo ha una buona ragione: la geoingegneria è spesso una serie di idee che vanno dal pericoloso all’impossibile, mentre tutte risuonano di disperazione. Per una buona idea di quanto esattamente siano disperate possano essere quelle idee, date solo un’occhiata ai risultati di un recente studio sull’idea di pompare enormi quantità di acqua di mare sopra la calotta glaciale dell’Antartide per impedire l’aumento del livello del mare. Se si trattasse di un romanzo di fantascienza, si direbbe che è troppo stupido perché valga la pena di leggerlo.

Tuttavia, potrebbe essere appropriato cominciare a familiarizzarsi con l’idea che la geoingegneria potrebbe essere la prossima mania mondiale. E, forse, è meglio prendersi il rischio di fare qualcosa che possa andare male piuttosto che non fare niente, considerando che finora non abbiamo fatto niente. Non dimenticate che ci sono anche buone forme di geoingegneria, per esempio la forma chiamata “rigenerazione della biosfera”. E’ basata sulla riforestazione, la lotta alla desertificazione, l’agricoltura rigenerative e cose simili. Rimuovere un po’ di CO2 dall’atmosfera trasformandola in piante non può fare troppo danno, anche se non può essere sufficiente per risolvere il problema. Ma potrebbe stimolare anche altri campi di azione contro il cambiamento climatico, dall’adattamento al passaggio alle energie rinnovabili. Forse c’è ancora speranza… forse.

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Emergenza climatica. E’ tempo di passare alla modalità panico?

Da “Cassandra’s Legacy”. Traduzione di MR


Gli ultimi dati della temperatura hanno frantumato tutti i record (immagine da “think progress”). Bene che vada questa è un’oscillazione particolarmente ampia e il sistema climatico tornerà presto sui propri binari, seguendo la previsione dei modelli – forse da ritoccare tenendo conto delle temperature che aumentano più rapidamente. Peggio che vada, si tratta di una indicazione che il sistema sta andando fuori controllo e passando ad un nuovo stato climatico più rapidamente di chiunque avesse potuto immaginare. 

James Schlesinger una volta ha enunciato una di quelle profonde verità che spiegano molto di quello che vediamo intorno a noi: “le persone hanno solo due modalità operative: compiacenza e panico”.

Finora, siamo stati nella modalità operativa “compiacenza” riguardo al cambiamento climatico: non esiste, se esiste non è un problema, se è un problema non è colpa nostra e comunque fare qualcosa sarebbe troppo costoso per valere la pena di farlo. Ma gli ultimi dati delle temperature non sono altro che agghiaccianti. Cosa stiamo vedendo? Si tratta solo di una specie di rimbalzo della cosiddetta “pausa”? O qualcosa di molto più preoccupante? Potremmo vedere qualcosa che presagisce ad un grande cambiamento del sistema climatico, un’accelerazione inaspettata del tasso di cambiamento. Ci sono ragioni per essere preoccupati, molto preoccupati: le emissioni di CO2 sembrano aver raggiunto il picco, ma ciò non ha generato un rallentamento del tasso di aumento della concentrazione di CO2 nell’atmosfera. Più che altro, sta crescendo più velocemente che mai. Poi c’è il picco di emissione del metano in corso e, come sapete, il metano è un gas serra molto più potente del CO2.

Cosa sta succedendo? Nessuno può dirlo con certezza, ma questi non sono sintomi buoni, per niente. E questa potrebbe essere una buona ragione per passare in modalità panico.

Il problema è che le società, specificamente sotto forma di “stati”, di solito non mostrano molta intelligenza nel loro comportamento, specialmente quando sono in uno stato di panico. Una delle ragioni è che gli stati do solito sono governati da psicopatici il cui atteggiamento è basato su su una serie di regole semplici, che comportano principalmente l’intimidazione o la violenza, o entrambe. Ma non è solo una questione di psicopatici al potere, l’intera società reagisce alle minacce come uno psicopatico: con l’enfasi sul fare “qualcosa”, senza preoccuparsi molto se sia la cosa giusta da fare e quali potrebbero essere le conseguenze. Così, se il clima comincia ad essere percepito come una minaccia reale ed immediata, potremmo aspettarci una reazione dotata di tutta la finezza strategica di una rissa da strada: “Tu mi meni, io ti meno”.

Una reazione di panico possibile, controintutitiva, potrebbe essere di “raddoppio” del negazionismo della minaccia. Ciò potrebbe portare ad azioni come la soppressione attiva della diffusione di dati e studi sul clima, i de-finanziamento della ricerca climatica, la chiusura dei centri di ricerca climatica, la marginalizzazione di coloro che credono che il clima sia un problema, per esempio classificandoli fra i “terroristi”. Tutto ciò è pronto per accadere in qualche modo e potrebbe anche diventare la prossima mania, in particolare se le elezioni statunitensi in arrivo daranno in mano la presidenza ad un negazionista climatico attivo. Ciò significherebbe tempi difficili per almeno alcuni anni per chiunque stia cercando di fare qualcosa conto il cambiamento climatico. E, forse, significherebbe la totale rovina dell’ecosistema terrestre.

L’altra possibilità è quella di passare direttamente all’altro estremo e combattere il cambiamento climatico con gli stessi metodi usati per combattere il terrorismo, vale a dire bombardandolo per sottometterlo. Naturalmente, non si può bombardare il clima terrestre per sottometterlo, ma l’idea di forzare l’ecosistema a comportarsi nel modo che vogliamo è in concetto fondamentale della “geoingegneria”.

Nel mondo dell’ambientalismo, la geoingegneria gode più o meno della stessa reputazione di cui godeva Saddam Hussein nella stampa occidentale negli anni 90.  questo ha una buona ragione: la geoingegneria è spesso una serie di idee che vanno dal pericoloso all’impossibile, mentre tutte risuonano di disperazione. Per una buona idea di quanto esattamente siano disperate possano essere quelle idee, date solo un’occhiata ai risultati di un recente studio sull’idea di pompare enormi quantità di acqua di mare sopra la calotta glaciale dell’Antartide per impedire l’aumento del livello del mare. Se si trattasse di un romanzo di fantascienza, si direbbe che è troppo stupido perché valga la pena di leggerlo.

Tuttavia, potrebbe essere appropriato cominciare a familiarizzarsi con l’idea che la geoingegneria potrebbe essere la prossima mania mondiale. E, forse, è meglio prendersi il rischio di fare qualcosa che possa andare male piuttosto che non fare niente, considerando che finora non abbiamo fatto niente. Non dimenticate che ci sono anche buone forme di geoingegneria, per esempio la forma chiamata “rigenerazione della biosfera”. E’ basata sulla riforestazione, la lotta alla desertificazione, l’agricoltura rigenerative e cose simili. Rimuovere un po’ di CO2 dall’atmosfera trasformandola in piante non può fare troppo danno, anche se non può essere sufficiente per risolvere il problema. Ma potrebbe stimolare anche altri campi di azione contro il cambiamento climatico, dall’adattamento al passaggio alle energie rinnovabili. Forse c’è ancora speranza… forse.

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Il tasso di rilascio delle emissioni di carbonio “non ha precedenti” negli ultimi 66 milioni di anni

Da “The Guardian”. Traduzione di MR (via Cristiano Bottone)

I ricercatori calcolano che gli esseri umani stiano immettendo il carbonio 10 volte più rapidamente di qualsiasi altro momento dall’estinzione dei dinosauri


Ciminiere di fonderie di ferro ed acciaio a Qian’an, nella provincia di Hebei in Cina. L’attuale tasso di rilascio di carbonio è talmente senza precedenti che i dati geologici non possono aiutarci a prevedere gli impatti del cambiamento climatico. Foto: Lu Guang/AFP/Getty Images


Di Damian Carrington

L’umanità sta immettendo biossido di carbonio che riscalda il clima nell’atmosfera 10 volte più rapidamente che in qualsiasi momento negli ultimi 66 milioni di anni, secondo una nuova ricerca. La rivelazione mostra che il mondo è entrato in un “territorio inesplorato” e che le conseguenze per la vita sulla terraferma e negli oceani potrebbe essere più grave di qualsiasi altro momento dall’estinzione dei dinosauri. Lo studio esce mentre la World Meteorological Organisation ha pubblicato il suo Rapporto sullo stato del clima che riporta in dettaglio una striscia di record meteorologici e climatici che sono stati infranti nel 2015.

“Il futuro sta avvenendo adesso”, ha detto il segretario generale della WMO Petteri Taalas in una dichiarazione rilasciata insieme al rapporto. “L’allarmante tasso di cambiamento del nostro clima in conseguenza dell’emissione di gas serra di cui ora siamo testimoni non ha precedenti nelle registrazioni moderne”. Gli scienziati hanno già avvertito che il riscaldamento globale non controllato infliggerà “impatti gravi, diffusi ed irreversibili” sulle persone e sul mondo naturale. Ma la nuova ricerca mostra quanto sia senza precedenti l’attuale tasso di emissioni di carbonio, dicendo che i dati geologici non sono in grado di aiutarci a prevedere gli impatti dell’attuale cambiamento climatico. Gli scienziati hanno recentemente espresso allarme per i record di calore frantumati nei primi mesi del 2016. “Il nostro tasso di rilascio di carbonio non ha precedenti in un periodo di tempo così lungo nella storia della Terra, che significa che siamo effettivamente entrati in uno stato ‘senza paragoni’”, ha detto il professor Richard Zeebe dell’Università delle Hawaii che ha condotto il nuovo lavoro. “Il tasso attuale e futuro di cambiamento climatico e di acidificazione degli oceani è troppo rapido per l’adattamento di molte specie, il che è probabile che porti a diffuse estinzioni in futuro”.

Molti ricercatori pensano che gli impatti umani sul pianeta lo abbiano già spinto in una nuova era geologica chiamata Antropocene. La vita selvaggia viene già persa a tassi analoghi a quelli delle estinzioni di massa del passato, processo in parte alimentato dalla perdita di habitat. “Il nuovo risultato indica che l’attuale tasso di emissioni di carbonio non ha precedenti… l’evento di riscaldamento globale più estremo degli ultimi 66 milioni di anni, di almeno un ordine di grandezza”, ha detto Peter Stassen, un geologo dell’Università di Leuven in Belgio e che non è stato coinvolto nel lavoro. La nuova ricerca, pubblicata sulla rivista Nature Geoscience, ha esaminato un evento di 56 milioni di anni fa ritenuto il più grande rilascio di carbonio in atmosfera dall’estinzione dei dinosauri, 66 milioni di anni fa. Il cosiddetto Massimo Termico del Paleocene-Eocene (PETM) ha visto un aumento delle temperature di 5°C in poche migliaia di anni. Ma finora, è stato impossibile determinare quanto rapidamente il carbonio sia stato rilasciato all’inizio dell’evento perché la datazione fatta con la radiometria e gli strati geologici manca di risoluzione sufficiente.

Zeebe e i colleghi hanno sviluppato un nuovo metodo per determinare il tasso di cambiamento di temperatura e carbonio usando gli isotopi stabili di ossigeno e carbonio. Questo ha rivelato che all’inizio del PETM, è stato rilasciato non più di un miliardo di tonnellate di carbonio ogni anno nell’atmosfera. In netto contrasto, dalla combustione di combustibili fossili ed altre attività umane, ogni anno vengono rilasciati 10 miliardi di tonnellate di carbonio nell’atmosfera. “Le conseguenze è probabile che saranno molto più gravi”, ha detto Zeebe. “Se si spinge un sistema molto rapidamente di solito risponde in modo diverso che spingendolo leggermente e lentamente ma in modo costante”. Gli scienziati hanno avvertito che il cambiamento climatico potrebbe non provocare l’aumento costante della temperatura, ma che i “punti di non ritorno” – come la perdita di tutto il ghiaccio dell’Artico o il rilascio in massa di metano dal permafrost – potrebbero vedere cambiamento più netti e pericolosi. “Se i tassi delle emissioni antropogeniche non hanno paragoni nella recente storia della Terra, allora sono possibili risposte imprevedibili del sistema climatico”, hanno concluso i ricercatori.
“Studiando uno degli episodi più drammatici del cambiamento globale della fine dell’era dei dinosauri, questi scienziati mostrano che attualmente ci troviamo in un territorio inesplorato per quanto riguarda il tasso di rilascio del carbonio in atmosfera e negli oceani”, ha detto Candace Major, della Fondazione Nazionale per la Scienza statubitense, che ha finanziato la ricerca. La fonte delle emissioni di carbonio del PETM si pensa sia stato il rilascio in massa di metano che era stato congelato sotto forma di idrati sul fondo dell’oceano. Potrebbe essere stato innescato da un rilascio iniziale più piccolo di carbonio risultate dalla pressione del magma caldo che fondeva grandi depositi di calcare.

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Il tasso di rilascio delle emissioni di carbonio “non ha precedenti” negli ultimi 66 milioni di anni

Da “The Guardian”. Traduzione di MR (via Cristiano Bottone)

I ricercatori calcolano che gli esseri umani stiano immettendo il carbonio 10 volte più rapidamente di qualsiasi altro momento dall’estinzione dei dinosauri


Ciminiere di fonderie di ferro ed acciaio a Qian’an, nella provincia di Hebei in Cina. L’attuale tasso di rilascio di carbonio è talmente senza precedenti che i dati geologici non possono aiutarci a prevedere gli impatti del cambiamento climatico. Foto: Lu Guang/AFP/Getty Images


Di Damian Carrington

L’umanità sta immettendo biossido di carbonio che riscalda il clima nell’atmosfera 10 volte più rapidamente che in qualsiasi momento negli ultimi 66 milioni di anni, secondo una nuova ricerca. La rivelazione mostra che il mondo è entrato in un “territorio inesplorato” e che le conseguenze per la vita sulla terraferma e negli oceani potrebbe essere più grave di qualsiasi altro momento dall’estinzione dei dinosauri. Lo studio esce mentre la World Meteorological Organisation ha pubblicato il suo Rapporto sullo stato del clima che riporta in dettaglio una striscia di record meteorologici e climatici che sono stati infranti nel 2015.

“Il futuro sta avvenendo adesso”, ha detto il segretario generale della WMO Petteri Taalas in una dichiarazione rilasciata insieme al rapporto. “L’allarmante tasso di cambiamento del nostro clima in conseguenza dell’emissione di gas serra di cui ora siamo testimoni non ha precedenti nelle registrazioni moderne”. Gli scienziati hanno già avvertito che il riscaldamento globale non controllato infliggerà “impatti gravi, diffusi ed irreversibili” sulle persone e sul mondo naturale. Ma la nuova ricerca mostra quanto sia senza precedenti l’attuale tasso di emissioni di carbonio, dicendo che i dati geologici non sono in grado di aiutarci a prevedere gli impatti dell’attuale cambiamento climatico. Gli scienziati hanno recentemente espresso allarme per i record di calore frantumati nei primi mesi del 2016. “Il nostro tasso di rilascio di carbonio non ha precedenti in un periodo di tempo così lungo nella storia della Terra, che significa che siamo effettivamente entrati in uno stato ‘senza paragoni’”, ha detto il professor Richard Zeebe dell’Università delle Hawaii che ha condotto il nuovo lavoro. “Il tasso attuale e futuro di cambiamento climatico e di acidificazione degli oceani è troppo rapido per l’adattamento di molte specie, il che è probabile che porti a diffuse estinzioni in futuro”.

Molti ricercatori pensano che gli impatti umani sul pianeta lo abbiano già spinto in una nuova era geologica chiamata Antropocene. La vita selvaggia viene già persa a tassi analoghi a quelli delle estinzioni di massa del passato, processo in parte alimentato dalla perdita di habitat. “Il nuovo risultato indica che l’attuale tasso di emissioni di carbonio non ha precedenti… l’evento di riscaldamento globale più estremo degli ultimi 66 milioni di anni, di almeno un ordine di grandezza”, ha detto Peter Stassen, un geologo dell’Università di Leuven in Belgio e che non è stato coinvolto nel lavoro. La nuova ricerca, pubblicata sulla rivista Nature Geoscience, ha esaminato un evento di 56 milioni di anni fa ritenuto il più grande rilascio di carbonio in atmosfera dall’estinzione dei dinosauri, 66 milioni di anni fa. Il cosiddetto Massimo Termico del Paleocene-Eocene (PETM) ha visto un aumento delle temperature di 5°C in poche migliaia di anni. Ma finora, è stato impossibile determinare quanto rapidamente il carbonio sia stato rilasciato all’inizio dell’evento perché la datazione fatta con la radiometria e gli strati geologici manca di risoluzione sufficiente.

Zeebe e i colleghi hanno sviluppato un nuovo metodo per determinare il tasso di cambiamento di temperatura e carbonio usando gli isotopi stabili di ossigeno e carbonio. Questo ha rivelato che all’inizio del PETM, è stato rilasciato non più di un miliardo di tonnellate di carbonio ogni anno nell’atmosfera. In netto contrasto, dalla combustione di combustibili fossili ed altre attività umane, ogni anno vengono rilasciati 10 miliardi di tonnellate di carbonio nell’atmosfera. “Le conseguenze è probabile che saranno molto più gravi”, ha detto Zeebe. “Se si spinge un sistema molto rapidamente di solito risponde in modo diverso che spingendolo leggermente e lentamente ma in modo costante”. Gli scienziati hanno avvertito che il cambiamento climatico potrebbe non provocare l’aumento costante della temperatura, ma che i “punti di non ritorno” – come la perdita di tutto il ghiaccio dell’Artico o il rilascio in massa di metano dal permafrost – potrebbero vedere cambiamento più netti e pericolosi. “Se i tassi delle emissioni antropogeniche non hanno paragoni nella recente storia della Terra, allora sono possibili risposte imprevedibili del sistema climatico”, hanno concluso i ricercatori.
“Studiando uno degli episodi più drammatici del cambiamento globale della fine dell’era dei dinosauri, questi scienziati mostrano che attualmente ci troviamo in un territorio inesplorato per quanto riguarda il tasso di rilascio del carbonio in atmosfera e negli oceani”, ha detto Candace Major, della Fondazione Nazionale per la Scienza statubitense, che ha finanziato la ricerca. La fonte delle emissioni di carbonio del PETM si pensa sia stato il rilascio in massa di metano che era stato congelato sotto forma di idrati sul fondo dell’oceano. Potrebbe essere stato innescato da un rilascio iniziale più piccolo di carbonio risultate dalla pressione del magma caldo che fondeva grandi depositi di calcare.

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Temperature di febbraio: male, malissimo, sempre peggio

Da “Arctic News”. Traduzione di MR (via Maurizio Tron)



Di Sam Carana

L’anomalia della temperatura di terraferma ed oceano di febbraio 2016 è stata di 1,35°C al di sopra della temperatura media del periodo 1951-1980, come mostra l’immagine sopra (prioezione di Robinson). Sulla terraferma, febbraio 2016 è stato di 1,68°C più caldo rispetto al 1951-1980, come mostra l’immagine sotto (proiezione polare).

L’immagine sotto mette insieme le due figure sopra in due grafici, mostrando le anomalie di temperatura negli ultimi due decenni.

Sotto ci sono i grafici completi dei dati di terraferma ed oceano e dei soli dati di terraferma. Le anomalie sulla terraferma durante il periodo 1890-1910 sono state di 0,61°C in confronto al periodo 1951-1980, che viene usato come riferimento per calcolare le anomalie. La linea blu mostra i dati di terraferma ed oceano, mentre la linea rossa mostra i dati dalle sole stazioni di terraferma.

Nell’accordo di Parigi, le nazioni si sono impegnate per rafforzare la risposta globale alla minaccia del cambiamento climatico mantenendo l’aumento della temperatura globale media ben al di sotto dei 2°C al di sopra dei livelli preindustriali e di perseguire sforzi per limitare l’aumento di temperatura a 1,5°C al di sopra dei livelli preindustriali.

Per vedere quanto le temperature sono aumentate in confronto ai livelli preindustriali, un confronto col periodo 1951-1980 non dà il quadro completo. L’immagine sotto confronta le temperature di febbraio 2016 col periodo 1890-1910, ancora una volta solo per la terraferma.

Visto che le temperature sono già aumentate di 0,3°C prima del 1900, l’aumento totale della temperatura sulla terraferma di febbraio 2016 è quindi 2,6°C in confronto all’inizio della rivoluzione industriale. Ci sono diversi elementi che determinano quanto aumento della temperatura sulla terraferma ci sarà, diciamo, fra un decennio:

Aumento 1900-2016: a febbraio 2016, è stata di 2.3°C più alta sulla terraferma rispetto a quanto è stata nel 1890-1910.

Aumento prima del 1900: prima del 1900, le temperature erano già aumentate di 0,3°C, come evidenzia il dottor Michael Mann (vedete il post precedente).

Aumento 2016-2026: se i livelli di biossido di carbonio ed ulteriori gas serra continuano ad aumentare, ci sarà riscaldamento ulteriore nei prossimi 10 anni. Anche con tagli drammatici delle emissioni di biossido di carbonio, le temperature possono continuare ad aumentare, visto che il riscaldamento massimo si verifica circa un decennio dopo un’emissione di biossido di carbonio, quindi il pieno furore delle emissioni di biossido di carbonio degli ultimi 10 anni deve ancora arrivare. Inoltre, la media globale di biossido di carbonio è cresciuta di 3,09 ppm nel 2015, più che in qualsiasi anno dall’inizio delle registrazioni iniziate nel 1959, spingendo in un post precedente da aggiungere una linea di tendenza polinominale che indica una crescita di 5 ppm per il 2026 (fra un decennio). Questa crescita ha avuto luogo mentre l’energia globale collegata alle emissioni di CO2 è cresciuta a malapena negli ultimi anni, quindi è probabilmente dovuta a cambiamenti della terraferma, deforestazione e meteo estremo che causa siccità, incendi, desertificazione, erosione ed altre forme di degrado del suolo, che indicano che tali emissioni continueranno a crescere man mano che le temperature continuano a salire. Nuovi studi sulle emissioni come quelle da permafrost (come questo) possono ulteriormente aumentare le stime di emissione. Nel complesso, l’aumento nel prossimo decennio dovuto a tali emissioni potrebbe essere da 0,2°C (stima bassa) a 0,5°C (stima alta).

Rimozione degli aerosol: con i tagli drammatici necessari delle emissioni, ci sarà anche un crollo drammatico degli aerosol che attualmente mascherano il riscaldamento totale da gas serra. Dal 1850 al 2010, gli aerosol antropogenici hanno apportato una diminuzione di ∼2,53 K, dice un articolo recente. Inoltre, è probabile che vengano emessi più aerosol adesso che nel 2010, quindi l’attuale effetto di mascheramento potrebbe essere anche maggiore. Fermare l’aumento del rilascio di aerosol potrebbe aumentare le temperature da 0,4°C (stima minima) a 2,5°C (stima massima) e se fermato in modo brusco questo potrebbe verificarsi in poche settimane.

Cambiamento dell’albedo: il riscaldamento dovuto alla perdita di neve e ghiaccio dell’Artico potrebbe facilmente superare i 2W per metro quadrato, ovvero potrebbe più che raddoppiare il riscaldamento netto ora causato da tutte le emissioni delle persone del mondo, come ha calcolato il professor Peter Wadhams nel 2012. L’aumento di temperatura nel prossimo decennio dovuto ai cambiamenti dell’albedo in conseguenza del declino del permafrost e del ghiaccio marino potrebbe essere da 0,2°C (stima minima) a 1,6°C (stima massima).

Eruzioni di metano dal fondo del mare: “. . . consideriamo il rilascio di una quantità prevista di oltre 50 Gt di riserva di idrati come altamente possibile rilascio brusco in qualsiasi momento”, ha scritto la dottoressa Natalia Shakhova et al. in un articolo presentato all’Assemblea Generale di EGU nel 2008. Gli autori hanno scoperto che un rilascio del genere causerebbe un riscaldamento di 1,3°C entro il 2100. Un tale riscaldamento da 50 Gt extra di metano sembra prudente se si considera che ora ci sono solo circa 5 Gt di metano in atmosfera e su un periodo di 10 anni queste 5 Gt sono già responsabili di più riscaldamento di tutto il biossido di carbonio emesso dalle persone dall’inizio della rivoluzione industriale. L’aumento di temperatura potrebbe essere maggiore, specialmente nel caso di un rilascio brusco, ma in caso di rilasci piccoli e graduali gran parte del metano potrebbe essere ripartito negli anni. L’aumento di temperatura
dovuto al metano del fondo del mare nel prossimo decennio potrebbe essere da 0,3°C (stima minima) a 1,1°C (stima massima).

Retroazione del vapore acqueo: “La retroazione del vapore acqueo che agisce da solo raddoppia circa il riscaldamento rispetto a quello che sarebbe con un vapore acque fisso. Inoltre, la retroazione del vapore acqueo funge da amplificatore di altre retroazioni nei modelli, come la retroazione delle nuvole e quella dell’albedo del ghiaccio. Se la retroazione delle nuvole è fortemente positiva, la retroazione del vapore acqueo può portare a 3,5 volte il riscaldamento rispetto a come sarebbe se la concentrazione di vapore acqueo fossero mantenute fisse”, secondo l’IPCC. In linea con gli elementi sopra, questo potrebbe portare ad un aumento di temperatura da 0,2°C (stima minima) a 2,1°C (stima massima).

L’immagine sotto mette questi elementi tutti insieme in due scenari, uno con un aumento della temperature relativamente basso di 3,9°C e un altro con un aumento di temperatura relativamente alto di 10,4°C.

Notate che gli scenari sopra ipotizzano che non si realizzerà alcuna geoingegneria.

Il riscaldamento di 2,3°C usato nell’immagine sopra non è la cifra più alta offerta dal sito della NASA. Una cifra persino maggiore di 2,51°C può essere ottenuta selezionando un raggio omogeneo di 250 km dei dati di terraferma. Quando si aggiungono gli 0,3°C di aumento della temperatura prima del 1900, l’aumento dall’inizio della rivoluzione industriale è di 2,81°C, come illustrato dall’immagine a destra. L’immagine mostra anche che questo è l’aumento medio. In luoghi specifici, si tratta di 16,6°C in più che all’inizio della rivoluzione industriale. Inoltre, le temperature sono più alte nell’emisfero nord che in quello sud. Ciò è illustrato dall’immagine sotto che mostra le anomalie di temperatura della NASA di gennaio 2016 (nero) e febbraio 2016 (rosso) sulla terraferma nell’emisfero nord. I dati mostrano che è stato 2,36°C più caldo a febbraio 2016 in confronto al periodo 1951-1980.

Quanto di questo aumento può essere attribuito a El Niño? Le linee di tendenza aggiunte costituiscono un modo per gestire la variabilità come quella causata da eventi di El Niño e La Niña e possono anche indicare in quanto riscaldamento ci si potrebbe aspettare che sfoci negli anni a venire. La linea di tendenza di febbraio indica anche che la temperatura nel 1900 è stata di 0,5°C più bassa che nel periodo 1951-1980, quindi l’aumento totale dal 1900 febbraio 2016 è di 2,86°C. Insieme all’aumento di 0,3°C di prima del 1900, il tutto ammonta ad un aumento sulla terraferma dell’emisfero nord di 3,16°C dai livelli preindustriali. In altre parole, la maggior parte delle persone sono già esposte ad un aumento di temperatura che è ben al di sopra di qualsiasi barriera che le nazioni abbiano promesso di non superare con l’accordo di Parigi.

Le temperature in realtà potrebbero salire anche più rapidamente di quanto non indichino queste linee di tendenza. Come illustra l’immagine sopra, i più grandi aumenti di temperatura si stanno verificando nell’Artico, portando ad un rapido declino della copertura di neve e ghiaccio ed aumentando il pericolo che si verifichino grandi eruzioni di metano dal fondo del mare, come illustrato dall’immagine a destra proveniente da un post precedente. Questo potrebbe poi portare ulteriormente a più vapore acqueo, mentre i conseguenti aumenti di temperatura minacciano anche di causare più siccità, ondate di calore ed incendi che causeranno ulteriori emissioni, così come scarsità di cibo ed acqua potabile in molte aree.

Sommando i vari elementi come discusso sopra indica che la maggior parte delle persone potrebbe essere colpita da un aumento di temperatura di 4,46°C in uno scenario di aumento basso e di 10,96°C in uno scenario di aumento alto e questo sarebbe in un decennio da febbraio 2016. Visto che è già marzo 2016, sono meno di 10 anni da adesso. L’immagine sotto mostra le letture di metano medie più alte in un giorno, per esempio il 10 marzo, su quattro anni, cioé 2013, 2014, 2015, e 2016, ad altitudini selezionate in mb (millibar). Il confronto conferma che l’aumento di metano nell’atmosfera è più profondo alle altitudini più alte, come discusso in post precedenti. Ciò potrebbe indicare che il metano dell’Oceano Artico non viene rilevato ad altitudini più basse, in quanto fuoriesce in pennacchi (cioè molto concentrato), mentre viene poi diffuso ed accumulato ad altitudini maggiori ed a latitudini più basse.

La tavola di conversione sotto mostra gli equivalenti in altitudine in mb, piedi e metri.

Nel frattempo il ghiaccio marino dell’Artico rimane a un record negativo per il periodo dell’anno, come illustrato dall’immagine sotto.

Prossimo alle temperature di superficie in aumento nell’Artico, gli aumenti della temperatura dell’oceano nell’emisfero nord contribuiscono a loro volta fortemente sia al declino del ghiaccio dell’Artico sia al rilascio di metano dal fondo dell’Oceano Artico, quindi è importante avere un’idea di quanto ci si può aspettare che aumenti la temperature nell’emisfero nord nel prossimo decennio. L’immagine del NOAA sotto mostra una tendenza lineare negli ultimi tre decenni che sta aumentando di 0,19°C per decennio.

L’immagine sotto, che usa gli stessi dati, mostra una tendenza polinominale ad un aumento di 1,5°C della temperatura dell’oceano nell’emisfero nord nel prossimo decennio.

Sotto, una versione interattiva (vedere l’articolo originale) del grafico.

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Temperature di febbraio: male, malissimo, sempre peggio

Da “Arctic News”. Traduzione di MR (via Maurizio Tron)



Di Sam Carana

L’anomalia della temperatura di terraferma ed oceano di febbraio 2016 è stata di 1,35°C al di sopra della temperatura media del periodo 1951-1980, come mostra l’immagine sopra (prioezione di Robinson). Sulla terraferma, febbraio 2016 è stato di 1,68°C più caldo rispetto al 1951-1980, come mostra l’immagine sotto (proiezione polare).

L’immagine sotto mette insieme le due figure sopra in due grafici, mostrando le anomalie di temperatura negli ultimi due decenni.

Sotto ci sono i grafici completi dei dati di terraferma ed oceano e dei soli dati di terraferma. Le anomalie sulla terraferma durante il periodo 1890-1910 sono state di 0,61°C in confronto al periodo 1951-1980, che viene usato come riferimento per calcolare le anomalie. La linea blu mostra i dati di terraferma ed oceano, mentre la linea rossa mostra i dati dalle sole stazioni di terraferma.

Nell’accordo di Parigi, le nazioni si sono impegnate per rafforzare la risposta globale alla minaccia del cambiamento climatico mantenendo l’aumento della temperatura globale media ben al di sotto dei 2°C al di sopra dei livelli preindustriali e di perseguire sforzi per limitare l’aumento di temperatura a 1,5°C al di sopra dei livelli preindustriali.

Per vedere quanto le temperature sono aumentate in confronto ai livelli preindustriali, un confronto col periodo 1951-1980 non dà il quadro completo. L’immagine sotto confronta le temperature di febbraio 2016 col periodo 1890-1910, ancora una volta solo per la terraferma.

Visto che le temperature sono già aumentate di 0,3°C prima del 1900, l’aumento totale della temperatura sulla terraferma di febbraio 2016 è quindi 2,6°C in confronto all’inizio della rivoluzione industriale. Ci sono diversi elementi che determinano quanto aumento della temperatura sulla terraferma ci sarà, diciamo, fra un decennio:

Aumento 1900-2016: a febbraio 2016, è stata di 2.3°C più alta sulla terraferma rispetto a quanto è stata nel 1890-1910.

Aumento prima del 1900: prima del 1900, le temperature erano già aumentate di 0,3°C, come evidenzia il dottor Michael Mann (vedete il post precedente).

Aumento 2016-2026: se i livelli di biossido di carbonio ed ulteriori gas serra continuano ad aumentare, ci sarà riscaldamento ulteriore nei prossimi 10 anni. Anche con tagli drammatici delle emissioni di biossido di carbonio, le temperature possono continuare ad aumentare, visto che il riscaldamento massimo si verifica circa un decennio dopo un’emissione di biossido di carbonio, quindi il pieno furore delle emissioni di biossido di carbonio degli ultimi 10 anni deve ancora arrivare. Inoltre, la media globale di biossido di carbonio è cresciuta di 3,09 ppm nel 2015, più che in qualsiasi anno dall’inizio delle registrazioni iniziate nel 1959, spingendo in un post precedente da aggiungere una linea di tendenza polinominale che indica una crescita di 5 ppm per il 2026 (fra un decennio). Questa crescita ha avuto luogo mentre l’energia globale collegata alle emissioni di CO2 è cresciuta a malapena negli ultimi anni, quindi è probabilmente dovuta a cambiamenti della terraferma, deforestazione e meteo estremo che causa siccità, incendi, desertificazione, erosione ed altre forme di degrado del suolo, che indicano che tali emissioni continueranno a crescere man mano che le temperature continuano a salire. Nuovi studi sulle emissioni come quelle da permafrost (come questo) possono ulteriormente aumentare le stime di emissione. Nel complesso, l’aumento nel prossimo decennio dovuto a tali emissioni potrebbe essere da 0,2°C (stima bassa) a 0,5°C (stima alta).

Rimozione degli aerosol: con i tagli drammatici necessari delle emissioni, ci sarà anche un crollo drammatico degli aerosol che attualmente mascherano il riscaldamento totale da gas serra. Dal 1850 al 2010, gli aerosol antropogenici hanno apportato una diminuzione di ∼2,53 K, dice un articolo recente. Inoltre, è probabile che vengano emessi più aerosol adesso che nel 2010, quindi l’attuale effetto di mascheramento potrebbe essere anche maggiore. Fermare l’aumento del rilascio di aerosol potrebbe aumentare le temperature da 0,4°C (stima minima) a 2,5°C (stima massima) e se fermato in modo brusco questo potrebbe verificarsi in poche settimane.

Cambiamento dell’albedo: il riscaldamento dovuto alla perdita di neve e ghiaccio dell’Artico potrebbe facilmente superare i 2W per metro quadrato, ovvero potrebbe più che raddoppiare il riscaldamento netto ora causato da tutte le emissioni delle persone del mondo, come ha calcolato il professor Peter Wadhams nel 2012. L’aumento di temperatura nel prossimo decennio dovuto ai cambiamenti dell’albedo in conseguenza del declino del permafrost e del ghiaccio marino potrebbe essere da 0,2°C (stima minima) a 1,6°C (stima massima).

Eruzioni di metano dal fondo del mare: “. . . consideriamo il rilascio di una quantità prevista di oltre 50 Gt di riserva di idrati come altamente possibile rilascio brusco in qualsiasi momento”, ha scritto la dottoressa Natalia Shakhova et al. in un articolo presentato all’Assemblea Generale di EGU nel 2008. Gli autori hanno scoperto che un rilascio del genere causerebbe un riscaldamento di 1,3°C entro il 2100. Un tale riscaldamento da 50 Gt extra di metano sembra prudente se si considera che ora ci sono solo circa 5 Gt di metano in atmosfera e su un periodo di 10 anni queste 5 Gt sono già responsabili di più riscaldamento di tutto il biossido di carbonio emesso dalle persone dall’inizio della rivoluzione industriale. L’aumento di temperatura potrebbe essere maggiore, specialmente nel caso di un rilascio brusco, ma in caso di rilasci piccoli e graduali gran parte del metano potrebbe essere ripartito negli anni. L’aumento di temperatura
dovuto al metano del fondo del mare nel prossimo decennio potrebbe essere da 0,3°C (stima minima) a 1,1°C (stima massima).

Retroazione del vapore acqueo: “La retroazione del vapore acqueo che agisce da solo raddoppia circa il riscaldamento rispetto a quello che sarebbe con un vapore acque fisso. Inoltre, la retroazione del vapore acqueo funge da amplificatore di altre retroazioni nei modelli, come la retroazione delle nuvole e quella dell’albedo del ghiaccio. Se la retroazione delle nuvole è fortemente positiva, la retroazione del vapore acqueo può portare a 3,5 volte il riscaldamento rispetto a come sarebbe se la concentrazione di vapore acqueo fossero mantenute fisse”, secondo l’IPCC. In linea con gli elementi sopra, questo potrebbe portare ad un aumento di temperatura da 0,2°C (stima minima) a 2,1°C (stima massima).

L’immagine sotto mette questi elementi tutti insieme in due scenari, uno con un aumento della temperature relativamente basso di 3,9°C e un altro con un aumento di temperatura relativamente alto di 10,4°C.

Notate che gli scenari sopra ipotizzano che non si realizzerà alcuna geoingegneria.

Il riscaldamento di 2,3°C usato nell’immagine sopra non è la cifra più alta offerta dal sito della NASA. Una cifra persino maggiore di 2,51°C può essere ottenuta selezionando un raggio omogeneo di 250 km dei dati di terraferma. Quando si aggiungono gli 0,3°C di aumento della temperatura prima del 1900, l’aumento dall’inizio della rivoluzione industriale è di 2,81°C, come illustrato dall’immagine a destra. L’immagine mostra anche che questo è l’aumento medio. In luoghi specifici, si tratta di 16,6°C in più che all’inizio della rivoluzione industriale. Inoltre, le temperature sono più alte nell’emisfero nord che in quello sud. Ciò è illustrato dall’immagine sotto che mostra le anomalie di temperatura della NASA di gennaio 2016 (nero) e febbraio 2016 (rosso) sulla terraferma nell’emisfero nord. I dati mostrano che è stato 2,36°C più caldo a febbraio 2016 in confronto al periodo 1951-1980.

Quanto di questo aumento può essere attribuito a El Niño? Le linee di tendenza aggiunte costituiscono un modo per gestire la variabilità come quella causata da eventi di El Niño e La Niña e possono anche indicare in quanto riscaldamento ci si potrebbe aspettare che sfoci negli anni a venire. La linea di tendenza di febbraio indica anche che la temperatura nel 1900 è stata di 0,5°C più bassa che nel periodo 1951-1980, quindi l’aumento totale dal 1900 febbraio 2016 è di 2,86°C. Insieme all’aumento di 0,3°C di prima del 1900, il tutto ammonta ad un aumento sulla terraferma dell’emisfero nord di 3,16°C dai livelli preindustriali. In altre parole, la maggior parte delle persone sono già esposte ad un aumento di temperatura che è ben al di sopra di qualsiasi barriera che le nazioni abbiano promesso di non superare con l’accordo di Parigi.

Le temperature in realtà potrebbero salire anche più rapidamente di quanto non indichino queste linee di tendenza. Come illustra l’immagine sopra, i più grandi aumenti di temperatura si stanno verificando nell’Artico, portando ad un rapido declino della copertura di neve e ghiaccio ed aumentando il pericolo che si verifichino grandi eruzioni di metano dal fondo del mare, come illustrato dall’immagine a destra proveniente da un post precedente. Questo potrebbe poi portare ulteriormente a più vapore acqueo, mentre i conseguenti aumenti di temperatura minacciano anche di causare più siccità, ondate di calore ed incendi che causeranno ulteriori emissioni, così come scarsità di cibo ed acqua potabile in molte aree.

Sommando i vari elementi come discusso sopra indica che la maggior parte delle persone potrebbe essere colpita da un aumento di temperatura di 4,46°C in uno scenario di aumento basso e di 10,96°C in uno scenario di aumento alto e questo sarebbe in un decennio da febbraio 2016. Visto che è già marzo 2016, sono meno di 10 anni da adesso. L’immagine sotto mostra le letture di metano medie più alte in un giorno, per esempio il 10 marzo, su quattro anni, cioé 2013, 2014, 2015, e 2016, ad altitudini selezionate in mb (millibar). Il confronto conferma che l’aumento di metano nell’atmosfera è più profondo alle altitudini più alte, come discusso in post precedenti. Ciò potrebbe indicare che il metano dell’Oceano Artico non viene rilevato ad altitudini più basse, in quanto fuoriesce in pennacchi (cioè molto concentrato), mentre viene poi diffuso ed accumulato ad altitudini maggiori ed a latitudini più basse.

La tavola di conversione sotto mostra gli equivalenti in altitudine in mb, piedi e metri.

Nel frattempo il ghiaccio marino dell’Artico rimane a un record negativo per il periodo dell’anno, come illustrato dall’immagine sotto.

Prossimo alle temperature di superficie in aumento nell’Artico, gli aumenti della temperatura dell’oceano nell’emisfero nord contribuiscono a loro volta fortemente sia al declino del ghiaccio dell’Artico sia al rilascio di metano dal fondo dell’Oceano Artico, quindi è importante avere un’idea di quanto ci si può aspettare che aumenti la temperature nell’emisfero nord nel prossimo decennio. L’immagine del NOAA sotto mostra una tendenza lineare negli ultimi tre decenni che sta aumentando di 0,19°C per decennio.

L’immagine sotto, che usa gli stessi dati, mostra una tendenza polinominale ad un aumento di 1,5°C della temperatura dell’oceano nell’emisfero nord nel prossimo decennio.

Sotto, una versione interattiva (vedere l’articolo originale) del grafico.

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La storia di Ishi, l’ultimo degli Indiani Yahi, nel centenario della sua morte

Il testo che segue risale al 2000 ed è uno dei i primi documenti che ho scritto su Internet. E’ la storia dell’ultimo indiano Yahi della California; scritto per mia figlia Donata, che a quel tempo aveva 11 anni. Mi sembra il caso di ripresentarlo oggi, con qualche piccola modifica, per il centenario della morte di Ishi, il 25 Marzo 1916. (link all’originale)

La storia di Ishi

Carissima Donata,

questa è la storia di Ishi, che visse circa cento anni fa e fu l’ultimo degli indiani “selvaggi” della California, l’ultimo del popolo degli Yahi. A proposito di ultimi Indiani, forse avrai sentito parlare del romanzo che si intitola “L’ultimo dei Mohicani”, che fu scritto nel 1826 da James Fenimore Cooper. E’ un romanzo molto famoso e ci hanno fatto anche un film non tanti anni fa. E’ la storia dell’ultimo indiano di una tribù Americana, una storia inventata ma molto interessante e che, come molte storie inventate, ha un fondo di verità. E’ vero che una volta c’erano tantissime tribù di indiani in America, ma oggi tante sono completamente scomparse, come quella dei Mohicani e quella degli Yahi. Di molte di queste tribù c’e’ rimasto ben poco al giorno d’oggi, solo quello che gli archeologi sono riusciti a ritrovare nei posti dove una volta abitavano. Degli Yahi, invece, ci è rimasta la testiminonianza dell’ultimo di loro, Ishi, che visse fra i bianchi per qualche anno. Così è una storia un po’ triste, ma forse in realtà neanche poi così tanto triste. Vale la pena di raccontarla e così cominciamo.


Allora, per prima cosa bisognerebbe spiegare come mai questi che erano i primi abitanti dell’America si chiamano “indiani” e non “americani” come sarebbe più giusto. In effetti, come saprai, quando Colombo e i suoi marinai attraversarono l’oceano Atlantico per primi circa cinque secoli fa, credevano che il mondo fosse molto più piccolo. Credevano di essere arrivati in India (o nelle “Indie”, come si diceva allora). Non avevano idea che nel mezzo dell’oceano Atlantico ci fosse un intero continente, quello che ora si chiama America, e così chiamarono “indiani” la gente che trovarono laggiù. In America a quel tempo ci viveva moltissima gente, e avevano città e villaggi di tanti tipi, molti erano più o meno come quello che vedi qui nella figura, che ho preso da un vecchio libro che avevo da ragazzo. Riletto molti anni dopo, è un libro molto ben fatto che racconta molte cose interessanti degli indiani d’america.

Ora, Colombo fece uno sbaglio, ma il nome rimase. Li chiamarono anche “pellirossa” per via delle pitture che si facevano sulla pelle, che poi non era affatto rossa. Oggi c’è chi li chiama “amerindi” per distinguerli dagli Indiani dell’India. Forse meglio di tutti sarebbe chiamarli “indigeni Americani”. “Indigeno” è una parola che vuol dire più o meno “che ha avuto origine”. In effetti, neanche gli indiani erano proprio “indigeni” dell’America, nel senso che erano arrivati dall’Asia. O almeno questo è quello che dicono i bianchi; secondo molti indiani in realtà loro sono stati creati dai Dio proprio lì dove hanno sempre vissuto. Comunque sia, anche se avessero ragione i bianchi, gli indiani erano lì già da migliaia di anni quando arrivò la spedizione di Colombo, quindi è abbastanza giusto chiamarli “indigeni”.

Comunque, “indigeni americani” è una parola piuttosto lunga e per fare più alla svelta continueremo a chiamarli “Indiani”, sperando di non offendere nessuno. Allora, dicevamo che gli Indiani venivano dall’Asia e da lì erano arrivati in America. Questo era successo molto prima di Colombo, in un tempo in cui nessuno avrebbe potuto attraversare un oceano. Pare che i nostri più remoti antenati, quelli che abbiamo in comune con gli Indiani e con tutti quanti al mondo, siano vissuti in Africa molte migliaia di anni fa, tantissimi anni davvero. Dall’Africa, piano piano si sparsero per l’Europa e per l’Asia. In quei tempi remoti, migliaia di anni fa, qualcuno che abitava in quella regione che oggi chiamiamo “Siberia” decise un inverno di rincorrere la selvaggina più lontano del solito. Attraversarono a piedi quello che oggi chiamiamo di “lo stretto di Bering” e che sta fra la Siberia (in Asia) e l’Alaska (in America), ma che a quel tempo non era un mare, ma terra emersa. Una volta arrivati in Alaska non tornarono più indietro. Pare che più di un gruppo abbia fatto questo passaggio in tempi diversi, ma in ogni caso il risultato fu che i loro discendenti popolarono tutta l’America.

C’erano tantissimi indiani in America, forse parecchi milioni, al tempo in cui Colombo arrivò. Tutti questi indiani avevano usanze, costumi, lingue e modi di vivere diversi: spesso quando pensiamo agli indiani pensiamo a dei guerrieri a cavallo più o meno come si vedono nei film. Ma in realtà gli indiani non avevano cavalli prima che i bianchi li portassero dall’Europa. Erano agricoltori, pescatori, pastori, oppure cacciatori, ma tutti andavano a piedi. Molti vivevano in capanne di pelle, ma avevano anche città con case di legno e di pietra. Non erano così bravi come gli Europei a lavorare i metalli e a farsi cose come asce, coltelli e fucili, ma fabbricavano tutto (anche cose bellissime) di pietra, di legno, oppure di osso.

Allora, quando gli europei arrivarono in America, successe che gli indiani non erano abituati alle malattie Europee (e neanche gli Europei a quelle degli indiani), comunque nell’incontro gli indiani ne ebbero i maggiori danni. C’è chi ha detto che dopo meno di un secolo dall’arrivo degli europei erano morti di malattie infettive forse nove indiani su dieci in America. Questa fu una cosa terribile: pensa come sarebbero qui le cose se morissero nove persone su dieci di tutti quelli che conosci! Poi, gli europei cominciarono ad arrivare con le loro navi e a stabilirsi in America. Non che la maggior parte degli Europei ce l’avessero in particolare con gli Indiani. Il problema era che cli Indiani avavano bisogno di terra per cacciare e coltivare, gli europei volevano la stessa cosa. Se non riuscivano a mettersi dacccordo, il che sembra che succedesse spesso, finivano per fare a botte, cosa che quando si fa fra parecchia gente si chiama “guerra”.

Nelle guerre con in bianchi, gli indiani persero quasi sempre. Non che non fossero bravi o coraggiosi, no di certo, ma gli mancavano le armi ed erano rimasti in pochi dopo le malattie di cui dicevamo prima. In qualche secolo di guerre, gli indiani vinsero solo una grande battaglia, quella di “Little Big Horn” nel 1876. Quella volta, gli indiani della tribù dei Lakota, che erano parte del popolo dei Sioux sconfissero i soldati del generale Custer che era venuto ad attaccarli. Ma alla fine anche quegli indiani furono sconfitti.
Nella foto vedi il capo Lakota che si chiamava “Nuvola Rossa” e che guidò gli indiani in quella famosa battaglia contro Custer.

Comunque, da quando i bianchi arrivarono, per gli indiani non ci furono che guerre, battaglie e sconfitte. Piano piano, rimanevano sempre meno indiani e i bianchi si prendevano le terre migliori, ammazzando gli indiani o lasciando loro le “riserve”, che erano terre aride e poco fertili che nessuno voleva. Nell’America di oggi le città e tanti posti si chiamano ancora con i gli antichi nomi indiani. Ma tutti furono cacciati via o uccisi molto tempo fa. Certo, non tutti gli indiani furono sterminati. Esistono ancora gli Indiani, anzi sono più di quanti fossero al tempo delle grandi guerre. Oggi sono tutti cittadini americani, parlano inglese e nessuno si sognerebbe di sterminarli. Pero’ la maggior parte di loro non vivono più nelle loro terre. Vivono nelle riserve, o nelle stesse città dove vivono i bianchi. Solo alcune tribù hanno mantenuto i loro territori. Sono i Navajo, gli Zuni, i Pueblo e altri che vivono in zone desertiche dove i bianchi non sono particolarmente interessati ad andare.

Ora, questa storia di cacciar via la gente dalle terre dove aveva vissuto per migliaia di anni non era certamente una bella cosa. Per giustificazione, si diceva a quei tempi che gli indiani erano dei “selvaggi”, che erano incivili, crudeli, assassini, ladri e tante altre cose del genere. Tanto per dirne una, li accusavano di “scalpare” la gente. Prendere uno scalpo (oppure anche “scalpare”) era in effetti una cosa terribile. “Scalpo” vuol dire, letteralmente “la pelle della testa” e scalpare voleva dire di portar via i capelli di un nemico ucciso (o forse ancora vivo, poveraccio), con ancora attaccata la pelle, appunto lo scalpo. Il bello è però che la maggior parte degli indiani d’America non avevano mai sentito parlare di scalpi prima di incontrare i bianchi. Pare che l’usanza degli scalpi fosse stata inventata da certi indiani del nord America, gli Iroquois. Però è anche vero che furono i bianchi che scalpavano gli indiani e non viceversa, addirittura per un certo tempo il governo pagava qualcosa per ogni scalpo di indiano che i pionieri gli riportavano. Quindi vedi, poveracci, che brutte cose che si raccontavano di loro e non era vero nulla. (vedi qui un’immagine dei “cattivi” indiani che maltrattano una povera ragazza, ovviamente dipinto da un bianco).

Adesso le cose sono molto cambiate e non è più il tempo in cui si diceva che “l’unico indiano buono è un indiano morto”. Anzi, molti dicono che gli indiani erano buoni, nobili, amanti della natura, eccetera, mentre i bianchi del tempo erano selvaggi e cattivi. Forse tutte e due i modi di vedere sono un po’ esagerati. Ci furono parecchi bianchi che cercarono di fare il possibile per salvare gli indiani anche se – purtroppo – non ce ne furono mai abbastanza. D’altra parte, neanche gli indiani dovevano essere tutti buoni come angioletti. Tanto per dirne una, i loro antenati avevano probabilmente sterminato cavalli, mammuth e altri animali che prima erano abbondanti in America ma che dopo che arrivarono gli indiani sparirono completamente. Dei grossi animali rimasero solo i bisonti, che forse erano più furbi o più robusti (i bisonti sono sopravvissuti anche alle stragi fatte dai bianchi, anche se oggi ce ne sono rimasti pochi). Gli indiani, comunque, non dovevano poi essere tanto amanti della natura, dopo tutto, se avevano fatto sparire tanti animali. Come sembrerebbe ragionevole, ci dovevano essere indiani buoni e cattivi, come sicuramente ce n’erano di furbi e di tonti, di belli e di brutti, alti e bassi, come dappertutto e come del resto erano i bianchi e come sono tuttora.

Allora, continuando la storia, dobbiamo parlare ora della tribù degli Yahi, la tribù di Ishi. Erano parte di un gruppo di indiani che si chiamavano Yana, e che vivevano nella California centrale. Non erano molti, forse gli Yana erano qualche migliaio, gli Yahi poche centinaia. Vivendo in una zona di foreste e di montagne, per molti anni non avevano avuto gran che a che fare con i bianchi. Quando i bianchi cominciarono ad arrivare nelle terre degli Yana, gli indiani della costa Est degli Stati Uniti erano già quasi scomparsi e gli indiani delle praterie combattevano le loro grandi ultime battaglie.

Gli Yana e gli Yahi non erano i grandi guerrieri selvaggi dei film. Erano cacciatori e pescatori che vivevano nella foresta. Non davano noia a nessuno, almeno fino a quando i bianchi non arrivarono. A quel punto cominciarono le guerre, e – come ci si poteva aspettare – gli indiani furono sconfitti. Gli Yana furono quasi tutti uccisi e quei pochi che sopravvissero furono cacciati via dalle loro foreste. Gli Yahi riuscirono a resistere per qualche decina d’anni combattendo il meglio che potevano. Alla fine, verso il 1870, furono tutti sterminati.

O almeno così pensavano i bianchi. Invece, nel 1911 un indiano spuntò fuori dalla foresta, l’ultimo sopravvissuto degli indiani Yahi. Il poveraccio era ridotto molto male quando lo arrivò a Oroville, che

è un paese della California del nord. Era quasi nudo, magrissimo, con i capelli bruciacchiati. Era anche molto spaventato, e probabilmente si aspettava che i bianchi lo ammazzassero subito. Invece era passato il tempo in cui si ammazzavano gli indiani a prima vista. Gli dettero da mangiare, una specie di camicione per vestirsi, e un posto per dormire. In effetti, lo sceriffo del paese lo mise in galera, ma solo perchè non aveva altro posto dove farlo dormire in pace senza che tutta la gente del paese venisse a disturbarlo.

Questo indiano parlava una lingua che nessuno capiva e siccome non c’erano più indiani da tanti anni in quella zona, la gente lo guardava come oggi guarderemmo un marziano atterrato all’improvviso. Quasi subito vennero a vederlo dei professori dell’università della California a Berkeley che erano degli antropologi. La parola “antropologia” vuol dire, più o meno, “scienza dell’uomo” e gli antropologi sono quelli che studiano le usanze e la cultura dei popoli della terra. Uno di questi antropologi, che si chiamava Waterman, chiese di portare l’indiano all’università per studiarlo. Siccome nessuno sapeva esattamente cosa farne, finì che i professori poterono portarselo via.

Questo indiano abitò per cinque anni a San Francisco e a Berkeley fino alla sua morte. Di questo tempo ci sono parecchie cose da raccontare. Prima di tutto, come fu che lo chiamarono “Ishi” che in realtà non era il suo nome. Il fatto è che lui non volle mai dire a nessuno il suo vero nome. Non che volesse offendere nessuno, anzi era un tipo molto amichevole. Non si sa in effetti come mai non voleva dire il suo nome, e il fatto che non imparò mai bene l’Inglese non è che rendesse facile spiegarsi. Pare che gli indiani non amassero dire il proprio nome a nessuno oltre che ai membri della propria tribu’ e famiglia. Comunque, in fondo era una sua scelta, poveraccio, considerato da dove veniva e i guai che doveva aver passato tanti che non c’era da stupirsi se si comportava in un modo che non era proprio del tutto uguale ai bianchi. Insomma, il nome “Ishi” glie lo dette un altro professore di Antropologia che si chiamava Alfred Kroeber. Un giorno che tutti gli chiedevano come si chiamava quell’indiano che era arrivato dai boschi, non sapendo cos’altro dire, Kroeber disse che era “un uomo” in una delle lingue indiane che conosceva, ovvero “Ishi”. Il nome rimase, e sembra che anche Ishi stesso fosse contento di essere chiamato così.

Ora, dovremmo anche raccontare da dove arrivava Ishi. Come abbiamo detto, i bianchi pensavano di aver sterminato tutti gli indiani Yahi verso il 1870, cioè 40 anni prima che Ishi spuntasse fuori dai boschi. Evidentemente non era così, qualcuno era rimasto vivo. Da quel poco che Ishi raccontò (non amava parlare di queste cose) erano rimasti soltanto lui, sua sorella, sua madre e suo padre, quattro persone in tutto. Il fatto strano, comunque, non è che qualcuno fosse riuscito a sfuggire ai bianchi, ma che questi quattro siano riusciti a sopravvivere per tanti anni da soli. Per una tribù di centinaia di persone ben organizzate che facevano anche scambi e commercio con le tribù vicine non era difficile vivere e prosperare nella foresta. Ma per quattro persone? Come hanno fatto? Pensa che non avevano assolutamente niente che non si potessero costruire da se con quello che trovavano: sassi, legno e pelli di animali. E in più dovevano anche nascondersi dai bianchi che li avrebbero ammazzati se li vedevano. Noi non saremmo sopravvissuti neanche tre giorni, loro ce la fecero per decine di anni! Sapevano fare cose che i loro padri e i loro nonni gli avevano insegnato: come costruirsi archi per andare a caccia, fiocine per pescare, capanne per ripararsi. Come accendere il fuoco senza fiammiferi, conciare pelli per vestirsi, e – soprattutto – come non perdersi d’animo di fronte alle difficoltà.

Quando arrivò fra i bianchi, Ishi aveva circa cinquant’anni e di questi ne aveva vissuti almeno 40 nei boschi da solo o soltanto con i suoi genitori e la sorella. Ma, a parte gli ultimissimi tempi, non aveva mai sofferto la fame o le malattie: era un uomo sano e vigoroso. Soprattutto non aveva mai perso il buon umore, ancora a parte l’ultimo periodo, e lo riprese ben presto fra i bianchi che – dopotutto – non erano così cattivi come pensava. Non dovevano essere stati infelici questi ultimi Yahi solitari nei boschi, ma non potevano fare a meno di invecchiare. Ishi non volle mai dire che cosa esattamente fosse successo, ma sembra che sua madre e suo padre morirono di vecchiaia o di qualche malattia, e che sua sorella annegò mentre attraversava un fiume. Rimasto tutto solo, la vita nei boschi dovette sembrare veramente troppo difficile per Ishi. Si bruciò i capelli in segno di lutto, come usavano fare gli indiani della sua tribù, rimase per molti giorni indeciso sul da farsi e poi – affamato – decise di andare dai bianchi.

E così Ishi si ritrovò all’Università della California in mezzo a grandi professori che erano interessatissimi a sapere tutto di lui. Come abbiamo detto, c’erano due antropologi, uno che si chiamava Waterman, l’altro Kroeber, che poi diventò molto amico di Ishi. C’era anche un professore di medicina che si chiamava Saxton Pope, che diventò anche lui molto amico di Ishi. Ishi insegnò un sacco di cose a tutti questi professori. C’è una storia curiosa a propositò di Waterman, che si entusiasmò talmente a vedere Ishi che accendeva il fuoco sfregando due bastoncini che volle provarci lui stesso davanti a tutti i suoi studenti in classe. Non ci riuscì e ci rimase molto male.

Ishi sapeva fare tutte le cose che fanno quelli che vivono di caccia e di pesca nei boschi, come i nostri antenati sapevano fare tanto tempo fa. Come dicevamo, sapeva accendere il fuoco sfregando due pezzi di legno, il che deve essere veramente una cosa difficilissima. Sapeva farsi delle punte di freccia con dei pezzetti di pietra di selce o di ossidiana, sapeva costruirsi archi e freccie, e anche fiocine e altre cose. Era talmente bravo a costruire archi che il suo amico Saxton Pope diventò anche lui bravo con l’arco e le freccie. A quel tempo quasi nessuno tirava con l’arco per sport come facciamo oggi. Pope già si interessava un po’ di archi ma Ishi gli insegno un sacco di cose. Pope e un suo amico che si chiamava Young  sono ancora considerati dei grandi pionieri del tiro con l’arco.

Ma come si trovava Ishi fra i Bianchi? Di certo poteva sentirsi molto solo, o addirittura infelice. O almeno così ci sembrerebbe. Pensa come ci troveremmo noi in un paese di marziani dove nessuno parla la nostra lingua. In realtà non sembra che Ishi sia stato ne solo ne triste negli anni che visse a Berkeley e a San Francisco. Come abbiamo detto, era un tipo sano e abituato a sopravvivere in tutte le condizioni. Fra i bianchi, imparò molto alla svelta modi e usanze. Certo, non imparò mai molto bene l’inglese, imparare una nuova lingua e sempre un po’ difficile quando si anno più di cinquant’anni. Ma si vestiva come i bianchi, portava la cravatta, andava in autobus. Era, a detta di tutti, una persona gentile ed educata. Esattamente l’opposto di quello che chiameremmo un “selvaggio”. E infatti, se Ishi aveva vissuto nei boschi non dobbiamo pensare a come staremmo noi se vivessimo nei boschi. Noi ci staremmo male e – davvero – finiremmo per pensare di essere dei “selvaggi” e forse ci comporteremmo come tali. Ma per Ishi era una cosa naturale, e i suoi genitori avevano vissuto così e tutti i suoi antenati per tante generazioni. Avevano le loro usanze, le loro tradizioni, anche il loro galateo su come comportarsi a tavola. Tante cose che, purtroppo, sono andate perdute con Ishi, insieme alla lingua degli Yahi, ma così va il mondo e forse era inevitabile.

Allora, dicevamo che Ishi portava la cravatta e andava al ristorante. La cucina dei bianchi gli piaceva, ma non amava i sughi. Gli piacevano molto i gelati con la panna. Non beveva alcol e neanche

fumava. I primi tempi fra i bianchi ingrassò un po’, una cosa comprensibile dato che aveva sofferto la fame nell’ultimo periodo nei boschi. Poi decise di mettersi a dieta e ritornò in piena forma. L’università gli dette anche un lavoro, che non era poi gran cosa – faceva le pulizie al museo di antropologia – ma che gli faceva guadagnare un po’ di soldi. Tutti erano daccordo che era una persona molto simpatica, anche se – ovviamente – aveva modi di fare un po’ diversi dagli altri e non parlava bene la lingua. Per esempio, non riuscì mai a capire veramente il significato della parola “arrivederci”. In effetti, se ci pensiamo bene, non è che “arrivederci” significhi qualcosa, e solo una cosa che si dice. Evidentemente fra gli indiani non usava parlare così e quando Ishi salutava qualcuno che se ne andava diceva semplicemente “te ne vai”, il che probabilmente va altrettanto bene di “arrivederci” se chi lo dice lo dice in modo cortese.

Una sola volta Kroeber e Pope andarono con Ishi nelle foreste da cui lui era venuto. Ishi non era molto entusiasta di tornarci, probabilmente perché si ricordava di cose che per lui erano molto tristi, ma poi accettò. Passarono una settimana nei boschi e Ishi potè nuotare e andare a caccia nella sua foresta. Fece vedere ai suoi amici il posto dove era vissuto con la sua famiglia. Non era rimasto molto, solo qualche pezzo di legno delle capanne che stavano in una specie di canalone, ben nascoste per non farsi scoprire dai bianchi. Di sua madre, suo padre e sua sorella non volle dire nulla. Solo il figlio di Saxton Pope, che a quel tempo aveva 12 anni e c’era anche lui, si ricorda che una notte Ishi se ne andò da solo per la foresta e al ritorno disse soltanto a lui che “tutto era a posto”. Voleva dire, probabilmente, che aveva fatto qualche rito per l’anima dei suoi parenti e antenati e che adesso potevano riposare in pace.

Come abbiamo detto, negli anni in cui visse a Berkeley Ishi insegnò molte cose agli antropologi. Ma più di questo diventò loro amico. Pensa che quando Ishi arrivò all’università, Alfred Kroeber ne parlava un pò come se fosse un animale da studiare, qualcosa che gli serviva per il suo mestiere di antropologo. Col tempo cambiò idea, e quando seppe che Ishi era molto malato e che qualcuno pensava di imbalsamarlo dopo la morte per conservare il corpo “per la scienza” lui (che a quel tempo era lontano, in Europa) scrisse una lettera dicendo che Ishi lo dovevano seppellire secondo i riti della sua tribù e “al diavolo la scienza” (Qualche idiota, però, prelevò lo stesso il cervello di Ishi e lo mise in un barattolo sotto alcol, lo conservano ancora a Berkeley). Kroeber non volle più scrivere nulla si “scientifico” su Ishi per tutta la sua vita – voleva ricordarlo solo come un suo amico. Solo dopo che lui morì, nel 1960, sua moglie, Theodora Kroeber, scrisse un libro in cui raccontava la storia di Ishi come lei lo aveva conosciuto.

Eh si. Ishi era una persona sana e robusta ma, come tutti gli indiani, non resisteva bene alle malattie dei bianchi. A un certo punto si ammalò di un’infezione ai polmoni che si chiama “tubercolosi”. Oggi la curiamo con gli antibiotici, ma a quel tempo non esistevano. Il suo amico dottore, Saxton Pope, fece tutto quello che poteva per curarlo, ma non ci fu niente da fare. Così Ishi morì nel 1916, cinque anni dopo essere arrivato fra i bianchi. Aveva circa 55 anni. Fu “cremato” (ovvero il suo corpo fu bruciato) secondo le usanze della sua tribù. Le sue ceneri sono in un cimitero di San Francisco. Sulla tomba, c’è scritta una delle frasi che usava dire per salutare la gente: “voi restate, io me ne vado”. Si parla di riportare le ceneri di Ishi nella terra della sua tribù e di seppellirlo laggiù, così potra riposare insieme con i suoi antenati. Forse adesso sono tutti in qualche terreno di caccia più alto e più abbondante.

Può darsi che questa storia sembri un po’ triste, ma forse non dobbiamo pensarla così. Ishi, anche se è stato così poco fra di noi, ci ha insegnato tante cose e ancora tanta gente si ricorda di lui dopo tanti anni. A noi probabilmente non capiterà mai di essere constretti a sopravvivere da soli nei boschi costruendoci archi e punte di freccia. Ma anche a noi alle volte ci può prendere lo sconforto di fronte alle difficoltà: anche se non corriamo il rischio di morire di fame possiamo sentirci soli, circondati da gente che non ci capisce. Ishi però non si arrendeva mai di fronte alle difficoltà: sapeva come sopravvivere. Per riuscirci non bisogna mai perdere l’ottimismo. In fondo i nostri antenati di qualche passato millennio erano cacciatori che vivevano nei boschi proprio come Ishi aveva vissuto neanche un secolo fa. Così possiamo certamente imparare qualcosa da lui.

Di Ishi e degli Indiani Yahi non rimane oggi assolutamente niente nelle terre in cui avevano abitato. E’ una bellissima zona, che oggi fa parte del “Parco Nazionale di Lassen” e della “Foresta Nazionale di Lassen”dal nome (Lassen) di uno dei primi esploratori bianchi che c’erano arrivati. Si chiama “monte Lassen” anche il grande vulcano che è all’incirca nel mezzo del parco. E’ curioso che dopo che i bianchi hanno ammazzato o cacciato via gli indiani che ci abitavano, non siano poi andati ad abitarci loro. Oggi non ci vive nessuno, eccetto i turisti che ci vanno in campeggio d’estate. Se ti ricordi, ci siamo stati insieme. E’ una zona di laghi, di fiumi e di boschi, ricca di animali selvatici. Nella foto con tuo fratello Francesco, le montagne che si vedono in lontananza sulla destra sono proprio l’antica terra degli Yahi.

Nota aggiunta nel 2016: oggi quella zona si chiama “Ishi National Forest”, in onore di Ishi.

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La storia di Ishi, l’ultimo degli Indiani Yahi, nel centenario della sua morte

Il testo che segue risale al 2000 ed è uno dei i primi documenti che ho scritto su Internet. E’ la storia dell’ultimo indiano Yahi della California; scritto per mia figlia Donata, che a quel tempo aveva 11 anni. Mi sembra il caso di ripresentarlo oggi, con qualche piccola modifica, per il centenario della morte di Ishi, il 25 Marzo 1916. (link all’originale)

La storia di Ishi

Carissima Donata,

questa è la storia di Ishi, che visse circa cento anni fa e fu l’ultimo degli indiani “selvaggi” della California, l’ultimo del popolo degli Yahi. A proposito di ultimi Indiani, forse avrai sentito parlare del romanzo che si intitola “L’ultimo dei Mohicani”, che fu scritto nel 1826 da James Fenimore Cooper. E’ un romanzo molto famoso e ci hanno fatto anche un film non tanti anni fa. E’ la storia dell’ultimo indiano di una tribù Americana, una storia inventata ma molto interessante e che, come molte storie inventate, ha un fondo di verità. E’ vero che una volta c’erano tantissime tribù di indiani in America, ma oggi tante sono completamente scomparse, come quella dei Mohicani e quella degli Yahi. Di molte di queste tribù c’e’ rimasto ben poco al giorno d’oggi, solo quello che gli archeologi sono riusciti a ritrovare nei posti dove una volta abitavano. Degli Yahi, invece, ci è rimasta la testiminonianza dell’ultimo di loro, Ishi, che visse fra i bianchi per qualche anno. Così è una storia un po’ triste, ma forse in realtà neanche poi così tanto triste. Vale la pena di raccontarla e così cominciamo.


Allora, per prima cosa bisognerebbe spiegare come mai questi che erano i primi abitanti dell’America si chiamano “indiani” e non “americani” come sarebbe più giusto. In effetti, come saprai, quando Colombo e i suoi marinai attraversarono l’oceano Atlantico per primi circa cinque secoli fa, credevano che il mondo fosse molto più piccolo. Credevano di essere arrivati in India (o nelle “Indie”, come si diceva allora). Non avevano idea che nel mezzo dell’oceano Atlantico ci fosse un intero continente, quello che ora si chiama America, e così chiamarono “indiani” la gente che trovarono laggiù. In America a quel tempo ci viveva moltissima gente, e avevano città e villaggi di tanti tipi, molti erano più o meno come quello che vedi qui nella figura, che ho preso da un vecchio libro che avevo da ragazzo. Riletto molti anni dopo, è un libro molto ben fatto che racconta molte cose interessanti degli indiani d’america.

Ora, Colombo fece uno sbaglio, ma il nome rimase. Li chiamarono anche “pellirossa” per via delle pitture che si facevano sulla pelle, che poi non era affatto rossa. Oggi c’è chi li chiama “amerindi” per distinguerli dagli Indiani dell’India. Forse meglio di tutti sarebbe chiamarli “indigeni Americani”. “Indigeno” è una parola che vuol dire più o meno “che ha avuto origine”. In effetti, neanche gli indiani erano proprio “indigeni” dell’America, nel senso che erano arrivati dall’Asia. O almeno questo è quello che dicono i bianchi; secondo molti indiani in realtà loro sono stati creati dai Dio proprio lì dove hanno sempre vissuto. Comunque sia, anche se avessero ragione i bianchi, gli indiani erano lì già da migliaia di anni quando arrivò la spedizione di Colombo, quindi è abbastanza giusto chiamarli “indigeni”.

Comunque, “indigeni americani” è una parola piuttosto lunga e per fare più alla svelta continueremo a chiamarli “Indiani”, sperando di non offendere nessuno. Allora, dicevamo che gli Indiani venivano dall’Asia e da lì erano arrivati in America. Questo era successo molto prima di Colombo, in un tempo in cui nessuno avrebbe potuto attraversare un oceano. Pare che i nostri più remoti antenati, quelli che abbiamo in comune con gli Indiani e con tutti quanti al mondo, siano vissuti in Africa molte migliaia di anni fa, tantissimi anni davvero. Dall’Africa, piano piano si sparsero per l’Europa e per l’Asia. In quei tempi remoti, migliaia di anni fa, qualcuno che abitava in quella regione che oggi chiamiamo “Siberia” decise un inverno di rincorrere la selvaggina più lontano del solito. Attraversarono a piedi quello che oggi chiamiamo di “lo stretto di Bering” e che sta fra la Siberia (in Asia) e l’Alaska (in America), ma che a quel tempo non era un mare, ma terra emersa. Una volta arrivati in Alaska non tornarono più indietro. Pare che più di un gruppo abbia fatto questo passaggio in tempi diversi, ma in ogni caso il risultato fu che i loro discendenti popolarono tutta l’America.

C’erano tantissimi indiani in America, forse parecchi milioni, al tempo in cui Colombo arrivò. Tutti questi indiani avevano usanze, costumi, lingue e modi di vivere diversi: spesso quando pensiamo agli indiani pensiamo a dei guerrieri a cavallo più o meno come si vedono nei film. Ma in realtà gli indiani non avevano cavalli prima che i bianchi li portassero dall’Europa. Erano agricoltori, pescatori, pastori, oppure cacciatori, ma tutti andavano a piedi. Molti vivevano in capanne di pelle, ma avevano anche città con case di legno e di pietra. Non erano così bravi come gli Europei a lavorare i metalli e a farsi cose come asce, coltelli e fucili, ma fabbricavano tutto (anche cose bellissime) di pietra, di legno, oppure di osso.

Allora, quando gli europei arrivarono in America, successe che gli indiani non erano abituati alle malattie Europee (e neanche gli Europei a quelle degli indiani), comunque nell’incontro gli indiani ne ebbero i maggiori danni. C’è chi ha detto che dopo meno di un secolo dall’arrivo degli europei erano morti di malattie infettive forse nove indiani su dieci in America. Questa fu una cosa terribile: pensa come sarebbero qui le cose se morissero nove persone su dieci di tutti quelli che conosci! Poi, gli europei cominciarono ad arrivare con le loro navi e a stabilirsi in America. Non che la maggior parte degli Europei ce l’avessero in particolare con gli Indiani. Il problema era che cli Indiani avavano bisogno di terra per cacciare e coltivare, gli europei volevano la stessa cosa. Se non riuscivano a mettersi dacccordo, il che sembra che succedesse spesso, finivano per fare a botte, cosa che quando si fa fra parecchia gente si chiama “guerra”.

Nelle guerre con in bianchi, gli indiani persero quasi sempre. Non che non fossero bravi o coraggiosi, no di certo, ma gli mancavano le armi ed erano rimasti in pochi dopo le malattie di cui dicevamo prima. In qualche secolo di guerre, gli indiani vinsero solo una grande battaglia, quella di “Little Big Horn” nel 1876. Quella volta, gli indiani della tribù dei Lakota, che erano parte del popolo dei Sioux sconfissero i soldati del generale Custer che era venuto ad attaccarli. Ma alla fine anche quegli indiani furono sconfitti.
Nella foto vedi il capo Lakota che si chiamava “Nuvola Rossa” e che guidò gli indiani in quella famosa battaglia contro Custer.

Comunque, da quando i bianchi arrivarono, per gli indiani non ci furono che guerre, battaglie e sconfitte. Piano piano, rimanevano sempre meno indiani e i bianchi si prendevano le terre migliori, ammazzando gli indiani o lasciando loro le “riserve”, che erano terre aride e poco fertili che nessuno voleva. Nell’America di oggi le città e tanti posti si chiamano ancora con i gli antichi nomi indiani. Ma tutti furono cacciati via o uccisi molto tempo fa. Certo, non tutti gli indiani furono sterminati. Esistono ancora gli Indiani, anzi sono più di quanti fossero al tempo delle grandi guerre. Oggi sono tutti cittadini americani, parlano inglese e nessuno si sognerebbe di sterminarli. Pero’ la maggior parte di loro non vivono più nelle loro terre. Vivono nelle riserve, o nelle stesse città dove vivono i bianchi. Solo alcune tribù hanno mantenuto i loro territori. Sono i Navajo, gli Zuni, i Pueblo e altri che vivono in zone desertiche dove i bianchi non sono particolarmente interessati ad andare.

Ora, questa storia di cacciar via la gente dalle terre dove aveva vissuto per migliaia di anni non era certamente una bella cosa. Per giustificazione, si diceva a quei tempi che gli indiani erano dei “selvaggi”, che erano incivili, crudeli, assassini, ladri e tante altre cose del genere. Tanto per dirne una, li accusavano di “scalpare” la gente. Prendere uno scalpo (oppure anche “scalpare”) era in effetti una cosa terribile. “Scalpo” vuol dire, letteralmente “la pelle della testa” e scalpare voleva dire di portar via i capelli di un nemico ucciso (o forse ancora vivo, poveraccio), con ancora attaccata la pelle, appunto lo scalpo. Il bello è però che la maggior parte degli indiani d’America non avevano mai sentito parlare di scalpi prima di incontrare i bianchi. Pare che l’usanza degli scalpi fosse stata inventata da certi indiani del nord America, gli Iroquois. Però è anche vero che furono i bianchi che scalpavano gli indiani e non viceversa, addirittura per un certo tempo il governo pagava qualcosa per ogni scalpo di indiano che i pionieri gli riportavano. Quindi vedi, poveracci, che brutte cose che si raccontavano di loro e non era vero nulla. (vedi qui un’immagine dei “cattivi” indiani che maltrattano una povera ragazza, ovviamente dipinto da un bianco).

Adesso le cose sono molto cambiate e non è più il tempo in cui si diceva che “l’unico indiano buono è un indiano morto”. Anzi, molti dicono che gli indiani erano buoni, nobili, amanti della natura, eccetera, mentre i bianchi del tempo erano selvaggi e cattivi. Forse tutte e due i modi di vedere sono un po’ esagerati. Ci furono parecchi bianchi che cercarono di fare il possibile per salvare gli indiani anche se – purtroppo – non ce ne furono mai abbastanza. D’altra parte, neanche gli indiani dovevano essere tutti buoni come angioletti. Tanto per dirne una, i loro antenati avevano probabilmente sterminato cavalli, mammuth e altri animali che prima erano abbondanti in America ma che dopo che arrivarono gli indiani sparirono completamente. Dei grossi animali rimasero solo i bisonti, che forse erano più furbi o più robusti (i bisonti sono sopravvissuti anche alle stragi fatte dai bianchi, anche se oggi ce ne sono rimasti pochi). Gli indiani, comunque, non dovevano poi essere tanto amanti della natura, dopo tutto, se avevano fatto sparire tanti animali. Come sembrerebbe ragionevole, ci dovevano essere indiani buoni e cattivi, come sicuramente ce n’erano di furbi e di tonti, di belli e di brutti, alti e bassi, come dappertutto e come del resto erano i bianchi e come sono tuttora.

Allora, continuando la storia, dobbiamo parlare ora della tribù degli Yahi, la tribù di Ishi. Erano parte di un gruppo di indiani che si chiamavano Yana, e che vivevano nella California centrale. Non erano molti, forse gli Yana erano qualche migliaio, gli Yahi poche centinaia. Vivendo in una zona di foreste e di montagne, per molti anni non avevano avuto gran che a che fare con i bianchi. Quando i bianchi cominciarono ad arrivare nelle terre degli Yana, gli indiani della costa Est degli Stati Uniti erano già quasi scomparsi e gli indiani delle praterie combattevano le loro grandi ultime battaglie.

Gli Yana e gli Yahi non erano i grandi guerrieri selvaggi dei film. Erano cacciatori e pescatori che vivevano nella foresta. Non davano noia a nessuno, almeno fino a quando i bianchi non arrivarono. A quel punto cominciarono le guerre, e – come ci si poteva aspettare – gli indiani furono sconfitti. Gli Yana furono quasi tutti uccisi e quei pochi che sopravvissero furono cacciati via dalle loro foreste. Gli Yahi riuscirono a resistere per qualche decina d’anni combattendo il meglio che potevano. Alla fine, verso il 1870, furono tutti sterminati.

O almeno così pensavano i bianchi. Invece, nel 1911 un indiano spuntò fuori dalla foresta, l’ultimo sopravvissuto degli indiani Yahi. Il poveraccio era ridotto molto male quando lo arrivò a Oroville, che

è un paese della California del nord. Era quasi nudo, magrissimo, con i capelli bruciacchiati. Era anche molto spaventato, e probabilmente si aspettava che i bianchi lo ammazzassero subito. Invece era passato il tempo in cui si ammazzavano gli indiani a prima vista. Gli dettero da mangiare, una specie di camicione per vestirsi, e un posto per dormire. In effetti, lo sceriffo del paese lo mise in galera, ma solo perchè non aveva altro posto dove farlo dormire in pace senza che tutta la gente del paese venisse a disturbarlo.

Questo indiano parlava una lingua che nessuno capiva e siccome non c’erano più indiani da tanti anni in quella zona, la gente lo guardava come oggi guarderemmo un marziano atterrato all’improvviso. Quasi subito vennero a vederlo dei professori dell’università della California a Berkeley che erano degli antropologi. La parola “antropologia” vuol dire, più o meno, “scienza dell’uomo” e gli antropologi sono quelli che studiano le usanze e la cultura dei popoli della terra. Uno di questi antropologi, che si chiamava Waterman, chiese di portare l’indiano all’università per studiarlo. Siccome nessuno sapeva esattamente cosa farne, finì che i professori poterono portarselo via.

Questo indiano abitò per cinque anni a San Francisco e a Berkeley fino alla sua morte. Di questo tempo ci sono parecchie cose da raccontare. Prima di tutto, come fu che lo chiamarono “Ishi” che in realtà non era il suo nome. Il fatto è che lui non volle mai dire a nessuno il suo vero nome. Non che volesse offendere nessuno, anzi era un tipo molto amichevole. Non si sa in effetti come mai non voleva dire il suo nome, e il fatto che non imparò mai bene l’Inglese non è che rendesse facile spiegarsi. Pare che gli indiani non amassero dire il proprio nome a nessuno oltre che ai membri della propria tribu’ e famiglia. Comunque, in fondo era una sua scelta, poveraccio, considerato da dove veniva e i guai che doveva aver passato tanti che non c’era da stupirsi se si comportava in un modo che non era proprio del tutto uguale ai bianchi. Insomma, il nome “Ishi” glie lo dette un altro professore di Antropologia che si chiamava Alfred Kroeber. Un giorno che tutti gli chiedevano come si chiamava quell’indiano che era arrivato dai boschi, non sapendo cos’altro dire, Kroeber disse che era “un uomo” in una delle lingue indiane che conosceva, ovvero “Ishi”. Il nome rimase, e sembra che anche Ishi stesso fosse contento di essere chiamato così.

Ora, dovremmo anche raccontare da dove arrivava Ishi. Come abbiamo detto, i bianchi pensavano di aver sterminato tutti gli indiani Yahi verso il 1870, cioè 40 anni prima che Ishi spuntasse fuori dai boschi. Evidentemente non era così, qualcuno era rimasto vivo. Da quel poco che Ishi raccontò (non amava parlare di queste cose) erano rimasti soltanto lui, sua sorella, sua madre e suo padre, quattro persone in tutto. Il fatto strano, comunque, non è che qualcuno fosse riuscito a sfuggire ai bianchi, ma che questi quattro siano riusciti a sopravvivere per tanti anni da soli. Per una tribù di centinaia di persone ben organizzate che facevano anche scambi e commercio con le tribù vicine non era difficile vivere e prosperare nella foresta. Ma per quattro persone? Come hanno fatto? Pensa che non avevano assolutamente niente che non si potessero costruire da se con quello che trovavano: sassi, legno e pelli di animali. E in più dovevano anche nascondersi dai bianchi che li avrebbero ammazzati se li vedevano. Noi non saremmo sopravvissuti neanche tre giorni, loro ce la fecero per decine di anni! Sapevano fare cose che i loro padri e i loro nonni gli avevano insegnato: come costruirsi archi per andare a caccia, fiocine per pescare, capanne per ripararsi. Come accendere il fuoco senza fiammiferi, conciare pelli per vestirsi, e – soprattutto – come non perdersi d’animo di fronte alle difficoltà.

Quando arrivò fra i bianchi, Ishi aveva circa cinquant’anni e di questi ne aveva vissuti almeno 40 nei boschi da solo o soltanto con i suoi genitori e la sorella. Ma, a parte gli ultimissimi tempi, non aveva mai sofferto la fame o le malattie: era un uomo sano e vigoroso. Soprattutto non aveva mai perso il buon umore, ancora a parte l’ultimo periodo, e lo riprese ben presto fra i bianchi che – dopotutto – non erano così cattivi come pensava. Non dovevano essere stati infelici questi ultimi Yahi solitari nei boschi, ma non potevano fare a meno di invecchiare. Ishi non volle mai dire che cosa esattamente fosse successo, ma sembra che sua madre e suo padre morirono di vecchiaia o di qualche malattia, e che sua sorella annegò mentre attraversava un fiume. Rimasto tutto solo, la vita nei boschi dovette sembrare veramente troppo difficile per Ishi. Si bruciò i capelli in segno di lutto, come usavano fare gli indiani della sua tribù, rimase per molti giorni indeciso sul da farsi e poi – affamato – decise di andare dai bianchi.

E così Ishi si ritrovò all’Università della California in mezzo a grandi professori che erano interessatissimi a sapere tutto di lui. Come abbiamo detto, c’erano due antropologi, uno che si chiamava Waterman, l’altro Kroeber, che poi diventò molto amico di Ishi. C’era anche un professore di medicina che si chiamava Saxton Pope, che diventò anche lui molto amico di Ishi. Ishi insegnò un sacco di cose a tutti questi professori. C’è una storia curiosa a propositò di Waterman, che si entusiasmò talmente a vedere Ishi che accendeva il fuoco sfregando due bastoncini che volle provarci lui stesso davanti a tutti i suoi studenti in classe. Non ci riuscì e ci rimase molto male.

Ishi sapeva fare tutte le cose che fanno quelli che vivono di caccia e di pesca nei boschi, come i nostri antenati sapevano fare tanto tempo fa. Come dicevamo, sapeva accendere il fuoco sfregando due pezzi di legno, il che deve essere veramente una cosa difficilissima. Sapeva farsi delle punte di freccia con dei pezzetti di pietra di selce o di ossidiana, sapeva costruirsi archi e freccie, e anche fiocine e altre cose. Era talmente bravo a costruire archi che il suo amico Saxton Pope diventò anche lui bravo con l’arco e le freccie. A quel tempo quasi nessuno tirava con l’arco per sport come facciamo oggi. Pope già si interessava un po’ di archi ma Ishi gli insegno un sacco di cose. Pope e un suo amico che si chiamava Young  sono ancora considerati dei grandi pionieri del tiro con l’arco.

Ma come si trovava Ishi fra i Bianchi? Di certo poteva sentirsi molto solo, o addirittura infelice. O almeno così ci sembrerebbe. Pensa come ci troveremmo noi in un paese di marziani dove nessuno parla la nostra lingua. In realtà non sembra che Ishi sia stato ne solo ne triste negli anni che visse a Berkeley e a San Francisco. Come abbiamo detto, era un tipo sano e abituato a sopravvivere in tutte le condizioni. Fra i bianchi, imparò molto alla svelta modi e usanze. Certo, non imparò mai molto bene l’inglese, imparare una nuova lingua e sempre un po’ difficile quando si anno più di cinquant’anni. Ma si vestiva come i bianchi, portava la cravatta, andava in autobus. Era, a detta di tutti, una persona gentile ed educata. Esattamente l’opposto di quello che chiameremmo un “selvaggio”. E infatti, se Ishi aveva vissuto nei boschi non dobbiamo pensare a come staremmo noi se vivessimo nei boschi. Noi ci staremmo male e – davvero – finiremmo per pensare di essere dei “selvaggi” e forse ci comporteremmo come tali. Ma per Ishi era una cosa naturale, e i suoi genitori avevano vissuto così e tutti i suoi antenati per tante generazioni. Avevano le loro usanze, le loro tradizioni, anche il loro galateo su come comportarsi a tavola. Tante cose che, purtroppo, sono andate perdute con Ishi, insieme alla lingua degli Yahi, ma così va il mondo e forse era inevitabile.

Allora, dicevamo che Ishi portava la cravatta e andava al ristorante. La cucina dei bianchi gli piaceva, ma non amava i sughi. Gli piacevano molto i gelati con la panna. Non beveva alcol e neanche

fumava. I primi tempi fra i bianchi ingrassò un po’, una cosa comprensibile dato che aveva sofferto la fame nell’ultimo periodo nei boschi. Poi decise di mettersi a dieta e ritornò in piena forma. L’università gli dette anche un lavoro, che non era poi gran cosa – faceva le pulizie al museo di antropologia – ma che gli faceva guadagnare un po’ di soldi. Tutti erano daccordo che era una persona molto simpatica, anche se – ovviamente – aveva modi di fare un po’ diversi dagli altri e non parlava bene la lingua. Per esempio, non riuscì mai a capire veramente il significato della parola “arrivederci”. In effetti, se ci pensiamo bene, non è che “arrivederci” significhi qualcosa, e solo una cosa che si dice. Evidentemente fra gli indiani non usava parlare così e quando Ishi salutava qualcuno che se ne andava diceva semplicemente “te ne vai”, il che probabilmente va altrettanto bene di “arrivederci” se chi lo dice lo dice in modo cortese.

Una sola volta Kroeber e Pope andarono con Ishi nelle foreste da cui lui era venuto. Ishi non era molto entusiasta di tornarci, probabilmente perché si ricordava di cose che per lui erano molto tristi, ma poi accettò. Passarono una settimana nei boschi e Ishi potè nuotare e andare a caccia nella sua foresta. Fece vedere ai suoi amici il posto dove era vissuto con la sua famiglia. Non era rimasto molto, solo qualche pezzo di legno delle capanne che stavano in una specie di canalone, ben nascoste per non farsi scoprire dai bianchi. Di sua madre, suo padre e sua sorella non volle dire nulla. Solo il figlio di Saxton Pope, che a quel tempo aveva 12 anni e c’era anche lui, si ricorda che una notte Ishi se ne andò da solo per la foresta e al ritorno disse soltanto a lui che “tutto era a posto”. Voleva dire, probabilmente, che aveva fatto qualche rito per l’anima dei suoi parenti e antenati e che adesso potevano riposare in pace.

Come abbiamo detto, negli anni in cui visse a Berkeley Ishi insegnò molte cose agli antropologi. Ma più di questo diventò loro amico. Pensa che quando Ishi arrivò all’università, Alfred Kroeber ne parlava un pò come se fosse un animale da studiare, qualcosa che gli serviva per il suo mestiere di antropologo. Col tempo cambiò idea, e quando seppe che Ishi era molto malato e che qualcuno pensava di imbalsamarlo dopo la morte per conservare il corpo “per la scienza” lui (che a quel tempo era lontano, in Europa) scrisse una lettera dicendo che Ishi lo dovevano seppellire secondo i riti della sua tribù e “al diavolo la scienza” (Qualche idiota, però, prelevò lo stesso il cervello di Ishi e lo mise in un barattolo sotto alcol, lo conservano ancora a Berkeley). Kroeber non volle più scrivere nulla si “scientifico” su Ishi per tutta la sua vita – voleva ricordarlo solo come un suo amico. Solo dopo che lui morì, nel 1960, sua moglie, Theodora Kroeber, scrisse un libro in cui raccontava la storia di Ishi come lei lo aveva conosciuto.

Eh si. Ishi era una persona sana e robusta ma, come tutti gli indiani, non resisteva bene alle malattie dei bianchi. A un certo punto si ammalò di un’infezione ai polmoni che si chiama “tubercolosi”. Oggi la curiamo con gli antibiotici, ma a quel tempo non esistevano. Il suo amico dottore, Saxton Pope, fece tutto quello che poteva per curarlo, ma non ci fu niente da fare. Così Ishi morì nel 1916, cinque anni dopo essere arrivato fra i bianchi. Aveva circa 55 anni. Fu “cremato” (ovvero il suo corpo fu bruciato) secondo le usanze della sua tribù. Le sue ceneri sono in un cimitero di San Francisco. Sulla tomba, c’è scritta una delle frasi che usava dire per salutare la gente: “voi restate, io me ne vado”. Si parla di riportare le ceneri di Ishi nella terra della sua tribù e di seppellirlo laggiù, così potra riposare insieme con i suoi antenati. Forse adesso sono tutti in qualche terreno di caccia più alto e più abbondante.

Può darsi che questa storia sembri un po’ triste, ma forse non dobbiamo pensarla così. Ishi, anche se è stato così poco fra di noi, ci ha insegnato tante cose e ancora tanta gente si ricorda di lui dopo tanti anni. A noi probabilmente non capiterà mai di essere constretti a sopravvivere da soli nei boschi costruendoci archi e punte di freccia. Ma anche a noi alle volte ci può prendere lo sconforto di fronte alle difficoltà: anche se non corriamo il rischio di morire di fame possiamo sentirci soli, circondati da gente che non ci capisce. Ishi però non si arrendeva mai di fronte alle difficoltà: sapeva come sopravvivere. Per riuscirci non bisogna mai perdere l’ottimismo. In fondo i nostri antenati di qualche passato millennio erano cacciatori che vivevano nei boschi proprio come Ishi aveva vissuto neanche un secolo fa. Così possiamo certamente imparare qualcosa da lui.

Di Ishi e degli Indiani Yahi non rimane oggi assolutamente niente nelle terre in cui avevano abitato. E’ una bellissima zona, che oggi fa parte del “Parco Nazionale di Lassen” e della “Foresta Nazionale di Lassen”dal nome (Lassen) di uno dei primi esploratori bianchi che c’erano arrivati. Si chiama “monte Lassen” anche il grande vulcano che è all’incirca nel mezzo del parco. E’ curioso che dopo che i bianchi hanno ammazzato o cacciato via gli indiani che ci abitavano, non siano poi andati ad abitarci loro. Oggi non ci vive nessuno, eccetto i turisti che ci vanno in campeggio d’estate. Se ti ricordi, ci siamo stati insieme. E’ una zona di laghi, di fiumi e di boschi, ricca di animali selvatici. Nella foto con tuo fratello Francesco, le montagne che si vedono in lontananza sulla destra sono proprio l’antica terra degli Yahi.

Nota aggiunta nel 2016: oggi quella zona si chiama “Ishi National Forest”, in onore di Ishi.

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Le cause del riscaldamento globale: uno studio della NASA

Da “NASA Global Climate Change”. Traduzione di MR


L’atmosfera terrestre vista dalla Stazione Spaziale Internazionale. Uno studio di NASA/Università di Duke fornisce nuove prove che i cicli naturali da soli non sono sufficienti a spiegare il riscaldamento globale atmosferico osservato nell’ultimo secolo. Foto: NASA.

Studio: il riscaldamento globale di lungo termine ha bisogno di forzanti esterne

Uno studio di scienziati del Jet Propulsion Laboratory (JPL) della NASA di Pasadena, in California, e della Duke University di Durham, in Carolina del Nord, mostra in dettaglio la ragione per cui le temperature globali rimangono stabili sul lungo termini a meno che non vengano spinte da forze esterne, come l’aumento di gas serra a causa degli impatti umani. L’autore principale Patrick Brown, uno studente di dottorato alla Scuola per l’Ambiente Nicholas di Duke ed i colleghi del JPL, hanno messo insieme i modelli climatici globali con le misurazioni satellitari dei cambiamenti dell’energia che giunge e che lascia la Terra al vertice dell’atmosfera negli ultimi 15 anni. I dati satellitari provenivano dagli strumenti del Clouds and the Earth’s Radiant Energy System (CERES) sulla navicella spaziale Aqua e Terra della NASA. Il loro lavoro rivela con nuovi dettagli in che modo si raffredda la Terra dopo un periodo di riscaldamento naturale.

Gli scienziati sanno da tempo che man mano che la Terra si riscalda è in grado di ripristinare la sua temperatura di equilibrio attraverso un fenomeno conosciuto come Planck Response (la risposta di Plank). Il fenomeno è un aumento generale dell’energia infrarossa che la Terra emette man mano che si scalda. La risposta agisce come una sorta di valvola di sicurezza, consentendo ad una quantità maggiore di calore accumulato di essere rilasciata attraverso il vertice dell’alta atmosfera della Terra verso lo spazio. La nuova ricerca, tuttavia, mostra che non è così semplice.

“La nostra analisi ha confermato che la risposta di Planck gioca un ruolo dominante nel ripristino della stabilità della temperatura globale ma, con nostra sorpresa, abbiamo scoperto che tende ad essere sopraffatta localmente da cambiamenti che intrappolano il calore in nuvole, vapore acqueo, neve e ghiaccio”, ha detto Brown. “Ciò inizialmente ha suggerito che il sistema climatico potrebbe essere in grado di creare cambiamenti ampi e sostenuti delle temperature da solo”. Una investigazione più dettagliata delle osservazioni satellitari e dei modelli climatici ha aiutato alla fine i ricercatori a riconciliare ciò che stava avvenendo globalmente con quello che stava accadendo localmente.

“Mentre le temperature globali tendono ad essere stabili a causa della risposta di Planck, ci sono altri meccanismi importanti e precedentemente meno valutati al lavoro”, ha detto Wenhong Li, assistente professore del clima alla Duke. Questi meccanismi includono il rilascio netto di energia in aree fredde in modo anomalo e il trasporto di energia verso regioni alle regioni continentali e polari. In quelle regioni, la risposta di Planck travolge le retroazioni positive di energia locale che intrappolano energia. “Ciò enfatizza l’importanza del trasporto di energia su larga scala e i cambiamenti di circolazione atmosferica nel riconciliare le retroazioni di energia locali con quelle globali e, in assenza di forzanti esterne, nel ripristinare l’equilibrio globale della temperatura della Terra”, ha detto Li.

I ricercatori dicono che le scoperte potrebbero finalmente aiutare a mettere a tacere la credenza degli scettici secondo i quali il riscaldamento globale a lungo termine avviene in maniera imprevedibile, indipendentemente dalle forzanti esterne come gli impatti umani. “Questo studio sottolinea che grandi cambiamenti della temperatura globale come quelli osservati durante l’ultimo secolo, richiedono forzanti come l’aumento della concentrazione di gas serra”, ha detto Brown. “Gli scienziati hanno creduto a lungo che l’aumento dei gas serra giocasse un grande ruolo nel determinare la tendenza al riscaldamento del nostro pianeta”, ha aggiunto il coautore Jonathan Jiang del JPL. “Questo studio fornisce ulteriori prove che i cicli climatici naturali da soli sono insufficienti a spiegare il riscaldamento globale osservato durante l’ultimo secolo”.

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Le cause del riscaldamento globale: uno studio della NASA

Da “NASA Global Climate Change”. Traduzione di MR


L’atmosfera terrestre vista dalla Stazione Spaziale Internazionale. Uno studio di NASA/Università di Duke fornisce nuove prove che i cicli naturali da soli non sono sufficienti a spiegare il riscaldamento globale atmosferico osservato nell’ultimo secolo. Foto: NASA.

Studio: il riscaldamento globale di lungo termine ha bisogno di forzanti esterne

Uno studio di scienziati del Jet Propulsion Laboratory (JPL) della NASA di Pasadena, in California, e della Duke University di Durham, in Carolina del Nord, mostra in dettaglio la ragione per cui le temperature globali rimangono stabili sul lungo termini a meno che non vengano spinte da forze esterne, come l’aumento di gas serra a causa degli impatti umani. L’autore principale Patrick Brown, uno studente di dottorato alla Scuola per l’Ambiente Nicholas di Duke ed i colleghi del JPL, hanno messo insieme i modelli climatici globali con le misurazioni satellitari dei cambiamenti dell’energia che giunge e che lascia la Terra al vertice dell’atmosfera negli ultimi 15 anni. I dati satellitari provenivano dagli strumenti del Clouds and the Earth’s Radiant Energy System (CERES) sulla navicella spaziale Aqua e Terra della NASA. Il loro lavoro rivela con nuovi dettagli in che modo si raffredda la Terra dopo un periodo di riscaldamento naturale.

Gli scienziati sanno da tempo che man mano che la Terra si riscalda è in grado di ripristinare la sua temperatura di equilibrio attraverso un fenomeno conosciuto come Planck Response (la risposta di Plank). Il fenomeno è un aumento generale dell’energia infrarossa che la Terra emette man mano che si scalda. La risposta agisce come una sorta di valvola di sicurezza, consentendo ad una quantità maggiore di calore accumulato di essere rilasciata attraverso il vertice dell’alta atmosfera della Terra verso lo spazio. La nuova ricerca, tuttavia, mostra che non è così semplice.

“La nostra analisi ha confermato che la risposta di Planck gioca un ruolo dominante nel ripristino della stabilità della temperatura globale ma, con nostra sorpresa, abbiamo scoperto che tende ad essere sopraffatta localmente da cambiamenti che intrappolano il calore in nuvole, vapore acqueo, neve e ghiaccio”, ha detto Brown. “Ciò inizialmente ha suggerito che il sistema climatico potrebbe essere in grado di creare cambiamenti ampi e sostenuti delle temperature da solo”. Una investigazione più dettagliata delle osservazioni satellitari e dei modelli climatici ha aiutato alla fine i ricercatori a riconciliare ciò che stava avvenendo globalmente con quello che stava accadendo localmente.

“Mentre le temperature globali tendono ad essere stabili a causa della risposta di Planck, ci sono altri meccanismi importanti e precedentemente meno valutati al lavoro”, ha detto Wenhong Li, assistente professore del clima alla Duke. Questi meccanismi includono il rilascio netto di energia in aree fredde in modo anomalo e il trasporto di energia verso regioni alle regioni continentali e polari. In quelle regioni, la risposta di Planck travolge le retroazioni positive di energia locale che intrappolano energia. “Ciò enfatizza l’importanza del trasporto di energia su larga scala e i cambiamenti di circolazione atmosferica nel riconciliare le retroazioni di energia locali con quelle globali e, in assenza di forzanti esterne, nel ripristinare l’equilibrio globale della temperatura della Terra”, ha detto Li.

I ricercatori dicono che le scoperte potrebbero finalmente aiutare a mettere a tacere la credenza degli scettici secondo i quali il riscaldamento globale a lungo termine avviene in maniera imprevedibile, indipendentemente dalle forzanti esterne come gli impatti umani. “Questo studio sottolinea che grandi cambiamenti della temperatura globale come quelli osservati durante l’ultimo secolo, richiedono forzanti come l’aumento della concentrazione di gas serra”, ha detto Brown. “Gli scienziati hanno creduto a lungo che l’aumento dei gas serra giocasse un grande ruolo nel determinare la tendenza al riscaldamento del nostro pianeta”, ha aggiunto il coautore Jonathan Jiang del JPL. “Questo studio fornisce ulteriori prove che i cicli climatici naturali da soli sono insufficienti a spiegare il riscaldamento globale osservato durante l’ultimo secolo”.

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