Effetto Cassandra

Bye bye BRICS?

Post già apparso sul blog “Crisis, What Crisis?  il 23/05/2016.


BRICS
“ BRICS ” : parola magica capace di far sognare ad un tempo sia i più fanatici sostenitori del turbo-capitalismo, sia molti che lo odiano.   Mistero dell’opinione pubblica.

 

di Jacopo Simonetta

Nascita dei BRICS

L’acronimo è nato nel 2001 nel cuore del capitalismo d’alto bordo:  nientedimeno che in casa Goldman Sachs, ad opera di Jim O’Neill, uno dei suoi uomini più brillanti.   In effetti, in origine era solo BRIC, cioè Brasile, Russia, India e Cina che, garantiva mr. O’Neill, erano i “mattoni” su cui sarebbe stata fondata l’incredibile prosperità economica del XXI secolo.   In seguito fu aggiunto il Sudafrica.  Tutti avevano gli ingredienti per vincere: grandi territori Ed una rapida crescita del PIL, oltre che della popolazione (Russia esclusa).
Ancora nel 2014 i “magnifici 5 BRICS ” avevano fatto frullare le prime pagine dei giornali economici annunciando che erano stufi dell’obsoleto e razzista Fondo Monetario Internazionale (all’interno del quale sono comunque ben  presenti).   Avrebbero quindi fondato una banca mondiale alternativa che avrebbe davvero finanziato la crescita dei paesi emergenti: la New Development Bank.   Nuova ondata di entusiasmo bi-partisan sia dei fautori che dei detrattori del BAU (Business As Usual = globalizzazione), sia pure per motivi opposti.
Qualche scettico cronico, tipo il sottoscritto, sostenne che dietro lo smalto si vedevano già delle belle crepe in tutti e cinque i BRICS, ma nessun commentatore di rilievo, che io sappia, fece osservazioni analoghe.   In fondo siamo comunque umani e ci piace sognare.

I BRICS oggi.

A solo 15 anni dal loro battesimo in casa (o chiesa?) Goldman Sachs, che ne è dei cinque “enfant prodige” della crescita economica?   Diamogli un’occhiata.

Brasile.

crisi BRICS
Il PIL del Brasile
Nel medesimo fatidico 2014 in cui i BRICS annunciavano la loro nuova super-banca, si giocavano i mondiali di calcio in Brasile.    Mondiali destinati a passare alla storia per le spese iperboliche mai recuperate, la realizzazione di mega-stadi, alcuni dei quali subito abbandonati, e per le sommosse popolari contro tutto questo.    N.B.:  Sommosse contro il campionato di pallone in Brasile!

E per colmo di sventura, vinse la Germania.
Di per sé tutto ciò sarebbe trascurabile, ma qui ci interessa perché era un sintomo evidente di quello che stava per accadere: la peggiore recessione della storia brasiliana, il caos politico con il Presidente sotto processo, le alte sfere travolte dagli scandali ed in arrivo le olimpiadi più disastrate e disastrose della storia.   Per non farsi mancare nulla, siccità ed incendi stanno mettendo in ginocchio la rete elettrica nazionale e, di conseguenza, buona parte dell’industria.   Mentre San Paolo (la città più grande del l’emisfero australe) sta restando a corto di acqua.  Davvero Zika è l’ultimo dei loro problemi.

Russia

Crisi BRICS - svalutazione rublo
Svalutazione del Rublo
Già di partenza era una presenza anomala.   Gli altri erano infatti “Paesi emergenti” e ruggenti (nel 2001), mentre la Russia era una super potenza sconfitta che aveva faticosamente recuperato un equilibrio e rimesso in piedi un’economia.   Soprattutto basandosi sull’esportazione di energia: petrolio sul mercato globale e gas su quello europeo.   In pratica quindi, un fornitore di materia prima per l’eventuale sviluppo altrui.    Non era un gran che, ma era il meglio che si  potesse fare e Putin lo aveva fatto, fermando il completo collasso del paese scatenato dalla sconfitta, ma soprattutto dalla disastrosa gestione del governo Eltsin.

Il problema è che non appena sono entrate in crisi le economie clienti, la Russia si è trovata di colpo con le spalle al muro.   Né la prospettiva di uno sviluppo delle forniture verso la Cina pare avere molte prospettive, sia per i tempi e gli investimenti necessari, sia per la crisi che nel frattempo ha raggiunto la Cina.   Anche in questo caso, il disastro ambientale contribuisce.  Molti tratti dei previsti metanodotti e delle strade di servizio dovrebbero infatti appoggiare sul permafrost che si sta sciogliendo. Certo la Russia rimane la seconda forza armata a livello planetario e, di conseguenza, un attore politico di primo piano.   Ma le prospettive economiche rimangono quanto mai fosche.

India

siccità in india
Siccità in India
Per l’India, i dati ufficiali parlano di una crescita economica intorno al 7% ma intanto calore estremo e siccità stanno letteralmente distruggendo buona parte del paese.   La gente fugge in città per sopravvivere e per rifornire d’acqua le città si finiscono di prosciugare le campagne, i fiumi e le falde freatiche.  I tassi di inquinamento sono fra i più alti del mondo, con i conseguenti costi sanitari e sociali.

Più di tutto, l’India ha una popolazione di quasi 1,3 miliardi in rapida crescita (1,38%) ed un terzo della popolazione ha meno di 30 anni.   Sono impressionanti i livelli di violenza di tutti i tipi: da quella domestica e sulle donne a quella religiosa, passando per quella politica e dalla criminalità comune.   L’affermarsi di partiti nazionalisti e oltranzisti non è che un ulteriore indice di crisi strutturale e non potrà che aggravare la situazione.

Cina

Importazioni cinesi
Importazioni cinesi
E’ il pezzo forte della collezione.   Il paese più popoloso e più inquinante del mondo è adesso anche la seconda economia e la terza forza armata a livello mondiale.    Sul piano economico, i dati ufficiali proclamano una crescita fra il 6 ed il 7% negli anni peggiori, ma analizzando l’import/export (verificabile dai dati di tutti gli altri paesi) risulta evidente che non è vero.   La Cina è in recessione o, perlomeno, in stagnazione.  E si sta tirando dietro tutte le economie dell’est asiatico: dalla Corea del sud a Singapore.   Del resto, la crescente aggressività internazionale, ad esempio con le ricorrenti crisi militar-diplomatiche per il possesso di scogli inabitabili sparsi in giro, sono un indizio pesante di crisi grave.
Esportazioni cinesi
Esportazioni cinesi
Sul piano politico, il Partito Comunista continua ad avere un saldo controllo e l’opposizione pare limitata a pochi intellettuali, ambientalisti e minoranze etniche marginalizzate.  Ma i licenziamenti di massa in programma e la fine (o perlomeno il drastico rallentamento) della crescita economica potrebbero cambiare il quadro.   Così come il debito, esploso al 300% del PIL in pochi anni.    Anche i folli livelli di inquinamento, la desertificazione di vasti territori e la cronica mancanza d’acqua non mancheranno di avere effetti sul futuro del paese.

Sudafrica.

Andamento della crescita del PIL e della disoccupazione.
Andamento della crescita del PIL e della disoccupazione.
Passata la sbornia del dopo-apartheid, si cominciano a fare i conti con l’oste.   Al di la dei tecnicismi e dei trucchi contabili, la crisi cinese ha trascinato anche il Sudafrica in una crisi economica senza precedenti, assieme a tutti gli altri paesi esportatori di materie prime.  I titoli governativi e di molte imprese sono classificati “Junk” o quasi, l’inflazione galoppa ed il debito esplode.

La delinquenza aumenta, in particolare il bracconaggio che sta spazzando via buona parte della mega-fauna in questo, come in tutti gli altri paesi africani.    Ed intanto il presidente Zuma (quello dello storico accodo del 2014) è coinvolto in una serie di scandali per corruzione e simili.
A far le spese di tutto ciò, innanzitutto gli immigrati dai paesi circostanti che sono fuggiti in massa dopo una serie di attacchi xenofobi che hanno fatto diversi morti e molti feriti.

E’ la fine dei BRICS ?

Prima di sparare pronostici, è sempre bene dare un’occhiata al contesto.   E il contesto è di impatto globale contro i limiti dello sviluppo.    Una cosa di cui si parla da 40 anni, ma cui ancora molti non vogliono credere.
Se davvero la crisi attuale non è un incidente, ma l’inizio della fine del BAU, è ben difficile che 5  paesi fra i “più BAU” del mondo possano uscire dal pantano in cui si sono cacciati.   Tuttavia non si può far d’ogni erba un fascio.  Se come blocco politico-economico i BRICS sono probabilmente finiti per sempre (ammesso che siano mai esistiti!), non è affatto detto che lo siano singolarmente.   Soprattutto non in un contesto in cui l’Europa sta facendo di tutto per suicidarsi e gli USA sembrano precipitare in una voragine di stupidità.
A mio  modesto avviso, quelli messi peggio sono il Sudafrica e l’India, sia per la pressione demografica che per la rapida evoluzione del clima.  Segue il Brasile che, pur avendo una popolazione relativamente modesta rispetto al territorio, ha fatto della sistematica distruzione di questo il suo settore trainante.   Inoltre, sia il Brasile che il Sudafrica sono, fondamentalmente, fornitori della Cina.   Se questa sprofonderà li trascinerà con sé, mentre se la Cina riprenderà fiato ricomincerà a comprare, ma ciò non farà che accelerare il tasso di distruzione delle risorse ed il degrado del territorio dei suoi fornitori.
La Russia è un caso a parte.   Se sul piano strettamente economico non può far molto altro che sperare che il prezzo dell’energia torni a salire, sul piano politico ha parecchie frecce al suo arco.  Finora ne ha scoccata qualcuna giusta e qualcuna sbagliata.   Se saprà giocare bene le sue carte, potrebbe cavarsela meno peggio di altri, anche grazie alla bassa densità di popolazione (tendente alla diminuzione) ed al vasto territorio.   Anche il fatto che la maggior parte dei russi siano abituati a cavarsela con poco potrebbe aiutare questo paese ad essere fra quelli che cadranno in cima e non in fondo al cumulo di macerie della civiltà industriale.   Se, invece, opterà per diventare una periferia cinese, farà la fine di tutte le periferie di tutti gli imperi in declino.
In ultimo l’Impero Cinese.     Direi che è sicuramente troppo presto per darlo per spacciato.   Anche se la tendenza globale è verso la fine dell’economia industriale, la Cina ha ancora molti margini di manovra sul piano politico e militare.  Ed ha una popolazione relativamente stabile, anche se malsana.    Il rischio che una potenza in crisi cerchi la scappatoia attraverso l’avventura militare è sempre presente.  Del resto USA e Russia stanno facendo esattamente questo.   Lo farà anche la Cina?   Non possiamo saperlo, ma diciamo che è abbastanza probabile.   Il contesto ed i mezzi sono però molto diversi e non è prevedibile come possa finire. In sintesi, credo che finché il sistema partito-esercito rimarrà saldo e coeso, la Cina potrà attraversare crisi terribili al suo interno e scatenarne di ancor peggiori fuori, ma non si disintegrerà.
Un’ultima osservazione.   Il destino di questi paesi è in gran parte nelle nostre mani.   Più stupidaggini faremo noi, più si apriranno spazi di manovra per loro.   Personalmente, credo che la strategia migliore sarebbe cercare (se possibile) un accordo strategico con la Russia per tenere sotto controllo la Cina.   Non che l’Europa abbia molto da fidarsi della Russia, né la Russia dell’Europa, ma credo che una sospettosa alleanza gioverebbe ad entrambi.   Noi abbiamo urgente bisogno di prendere pacificamente le distanze dagli USA e loro stanno rischiando di diventare una colonia cinese.

Forse, potremmo darci una mano l’un l’altro per farsi il meno male possibile rotolando giù per la parte discendente del “Picco di tutto“.

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Un mondo 100% rinnovabile è possibile? Un sondaggio fra gli esperti

Da “Cassandra’s Legacy”. Traduzione di MR

Riporto qui i risultati di una piccola indagine che ho portato a termine la scorsa settimana fra i membri di un forum di discussione, principalmente esperti di energia rinnovabile (*). Si è trattato di un sondaggio molto informale, non inteso per avere un valore statistico. Ma circa 70 persone hanno risposto fra un totale di 167 membri, quindi penso che questi risultati abbiano un certo valore nel dirci come si sentono gli esperti in questo campo. E sono stato sorpreso dal notevole ottimismo che è uscito fuori dal sondaggio. Ecco cosa ho chiesto ai membri della lista (nota: questo sondaggio ora è online su Doomstead Diner).


La domanda riguarda la possibilità di una società non troppo diversa dalla nostra (**) ma basata al 100% su fonti di energia rinnovabile e sulla possibilità di ottenerla prima che sia troppo tardi per evitare il disastro climatico. Detto questo, quale affermazione descrive meglio la vostra posizione?

1. E’ impossibile per ragioni tecniche. (Le rinnovabili hanno un EROEI troppo basso, necessitano di grandi quantità di risorse naturali, finiremo prima i combustibili fossili, il cambiamento climatico ci distruggerà prima, ecc.)

2. E’ tecnicamente possibile ma così costoso da risultare impensabile.

3. E’ tecnicamente possibile e non così costoso da essere oltre ai nostri mezzi. Tuttavia, è ancora sufficientemente costoso che molto probabilmente le persone non vorranno pagare i costi della transizione prima che sia troppo tardi per ottenerla, a meno che non passiamo ad uno stato di emergenza globale.

4. E’ tecnicamente possibile e poco costoso a sufficienza che può essere fatto dolcemente, tramite interventi governativi mirati, come una carbon tax. 

5. E’ tecnicamente possibile e il progresso tecnologico lo renderà presto così economico che i normali meccanismi di mercato ci porteranno lì quasi senza sforzo. 

Come ho detto, si è trattato di un sondaggio molto informale e queste domande avrebbero potuto essere espresse diversamente e probabilmente in modo migliore. E, infatti, molte persone hanno pensato che la loro posizione fosse meglio descritta da qualcosa di intermedio, alcuni dicendo, per esempio, “mi trovo fra la 4 e la 5”. A causa di ciò, è stato piuttosto difficile fare un conto preciso dei risultati. Ma la tendenza è stata comunque chiara.

Delle 70 risposte, la maggioranza schiacciante è stata per l’opzione 4, cioè, la transizione non è solo tecnologicamente possibile, ma è anche alla nostra portata ad un costo ragionevole e sufficientemente rapida da evitare grandi danni da cambiamento climatico. La seconda scelta è stata l’opzione 3 (la transizione è possibile ma molto costosa). Solo pochi di coloro che hanno risposto dicono che la transizione è tecnologicamente impossibile senza cambiamenti davvero radicali nella società. Alcuni hanno optato per l’opzione 5, suggerendo persino una “opzione 6”, qualcosa tipo “sarà più veloce di quanto chiunque si aspetti”.

Devo confessare di essere stato un po’ sorpreso da questo ottimismo diffuso, essendo io stesso per l’opzione 3. In parte è perché tendo a frequentare gruppi “catastrofisti”, ma anche sulla base dei calcoli quantitativi che ho fatto con i miei colleghi. Ma penso che questi risultati siano indicativi di una tendenza che si sta sviluppando fra gli esperti di energia. E’ un atteggiamento che sarebbe stato impensabile solo qualche anno fa, ma gli esperti stanno percependo chiaramente i rapidi passi avanti delle tecnologie rinnovabili e reagiscono di conseguenza. Sentono che c’è una possibilità concreta di essere in grado di creare un mondo più pulito in modo sufficientemente rapido da evitare il peggio.

Capisco che questa sia soltanto l’opinione di un piccolo gruppo di esperti, capisco che gli esperti potrebbero anche sbagliarsi, capisco che esistono cosa come “l’effetto carrozzone” e il “confirmation bias”. Conosco tutto ciò. Eppure credo che, nella situazione difficile in cui ci troviamo, non possiamo andare da nessuna parte se continuiamo a dire alla gente che siamo fregati, a prescindere da quello che facciamo. Ciò che ci serve per andare avanti e combattere la crisi climatica è una sana dose di speranza e di ottimismo. E questi risultati mostrano che c’è speranza, che c’è motivo di ottimismo. Che la transizione si rivelerà essere molto difficile, o non così difficile, sembra essere alla nostra portata, se davvero lo vogliamo.

(*) Nota: il forum menzionato in questo post è un gruppo di discussione privato inteso come strumento per professionisti in energia rinnovabile. Non è un luogo per discutere se l’energia rinnovabile è una cosa buona o no, né per discutere cose come l’estinzione a breve termine della specie umana o cose del genere. Piuttosto, l’idea del forum è quella di discutere in che modo fare avvenire la transizione all’energia rinnovabile il più rapidamente possibile, preferibilmente sufficientemente in fretta da evitare il disastro climatico. Se siete interessati ad unirvi a questo forum, siete pregati di scrivermi privatamente a ugo.bardi(cosa contorta)unifi.it dicendomi in poche righe chi siete e perché vi piacerebbe unirvi al gruppo. Non è necessario che siate ricercatori o professionisti. La gente di buona volontà che pensa di avere qualcosa con cui contribuire alla discussione è benvenuta. 

(**) Il concetto di società “non troppo diversa dalla nostra” è stato lasciato vago di proposito, perché ovviamente è soggetto a molte interpretazioni diverse. Personalmente, tenderei a definirla in termini di cosa NON sarebbe una società del genere. Un elenco non esaustivo potrebbe essere, in nessun ordine particolare, 

  • Non una teocrazia in stile Maya, completa di sacrifici umani 
  • Non una dittatura militare, in stile Romano, completa di governanti imperiali semidivini
  • Non un paradiso proletario, completo di polizia segreta che spedisce chi dissente in posti molto freddi
  • Non una società di cacciatori-raccoglitori, completa di rituali di caccia e riti di iniziazione
  • Non una società dove vieni appeso a testa in già se racconti una barzelletta sull’amato grande capo
  • Non una società in cui, se non puoi permetterti le cure mediche, vieni lasciato morire in strada 
  • Non una società in cui tutti i giorni sei preoccupato se i tuoi figli avranno qualcosa da mangiare
  • Non una società in cui la schiavitù è legale ed è ovvio che le cose siano così
  • Non una società in cui le donne sono considerate proprietà degli uomini
  • Non una società in cui la maggior parte delle persone passa la maggior parte della propria vita ad arare i campi
  • Non una società in cui si viene bruciati sul rogo se si appartiene ad una setta diversa da quella dominante

Molte altre cose, invece, sono trattabili, penso, tipo fare le vacanze alle Hawai’i, possedere un SUV, annaffiare il praticello in estate ed altro. 

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Il fallimento dell’agricoltura innaturale


di Minelli Matteo
Un giorno ci siamo convinti di riuscire a produrre cibo meglio di come aveva sempre fatto la natura. Così nasce l’agricoltura, una storia che finirà male se non la cambiamo in fretta. 
C’è un filo, per nulla sottile, che lega indissolubilmente l’agricoltura delle origini, quella delle fatiche inaudite e degli strumenti inadeguati, all’agricoltura contemporanea, in cui mezzi pesanti e fitofarmaci la fanno da padrone. Ovviamente non si può e non si deve mettere sullo stesso piano l’agricoltura contadina dei nostri bisnonni, caratterizzata da una profonda conoscenza dell’ambiente e da un rapporto simbiotico con la terra, e l’agricoltura della rivoluzione verde, in cui chimica e meccanica hanno reso totalmente asettico il matrimonio tra l’uomo e la terra. D’altro canto sarebbe un atto di cecità non comprendere che anche tra due modi così distanti di vivere una storia millenaria non vi sia un legame molto profondo e tristemente duro da spezzare. Circa diecimila anni prima di Cristo, giorno più giorno meno, ci siamo convinti che avremmo potuto far nascere, crescere e morire numerosi tipi di vegetali meglio di come la natura aveva fatto per centinaia di milioni di anni. E da allora, vuoi per ignoranza, vuoi per necessità, vuoi per interesse non abbiamo mai smesso di pensarla in questo modo.
Per circa duecentomila anni gli uomini sono vissuti raccogliendo i frutti che l’ambiente autonomamente decideva di offrirgli. Uno stile di vita che studi antropologici, archeologici e paleontologici hanno dimostrato essere assai più soddisfacente, da molti punti di vista, di quello che i contadini hanno potuto vantare per molti millenni in vaste parti del globo. Qualcuno ha perfino voluto vedere nel racconto biblico della cacciata dell’uomo dall’Eden una chiara allusione del passaggio dell’umanità da una felice condizione di raccoglitori ad una sventurata di agricoltori. Quel “tu, uomo lavorerai con dolore” pronunciato da un Dio iracondo, sicuramente lascia intendere che il futuro di Adamo non sarebbe stato roseo come il periodo passato nel Paradiso Terrestre, in cui la sua unica fatica era quella di cogliere qua e là i frutti delle piante che l’Onnipotente gli aveva gentilmente concesso. E in fondo se deve esserci stato un peccato originale è proprio quello dell’essersi voluti sostituire a Dio nella grande opera di pianificazione del mondo vegetale.
È un uomo nuovo quello che brandisce la zappa. Un uomo che non vuole più spostarsi, un uomo che pensa di poter far crescere in maniera indefinita la sua discendenza, un uomo che crede di poter modificare i paesaggi e decretare quali piante siano utili o dannose, accettabili o insopportabili, da conservare o da distruggere. Un uomo che si è convinto di poter produrre in un determinato appezzamento più cibo di quello che effettivamente può offrire.
Da allora fino ai giorni nostri l’uomo, in nome dell’agricoltura, ha decretato inesorabilmente quali fossero le piante dannose e quelle utili, le piante da salvare e quelle da sacrificare. Ha disboscato le foreste perché gli serviva più spazio per le culture commestibili. Ha ucciso gli uccelli perché mangiavano i suoi semi. Ha sterminato gli insetti perché attaccavano le sue coltivazioni. Ha selezionato le piante di cui si nutriva perché non le considerava abbastanza produttive. Ha arato, ha sarchiato e ha zappato convinto di creare un ambiente adatto alle sue coltivazioni, mentre cercava di impedire le che altre specie vegetali vi attecchissero. Ha lasciato il suolo senza vita, come solo nelle aree desertiche accade, credendo di poter arginare il ritorno della natura negli spazi che gli aveva sottratto.
Ha fatto tutto questo fin dagli esordi della rivoluzione agricola, riscontrando impoverimento dei terreni, andamento decrescente delle rese agricole, indebolimento delle piante coltivate, erosione dei suoli. Per cercare di sopperire a questo disastro ha introdotto nel corso tempo l’agricoltura taglia e brucia, quella itinerante, l’avvicendamento e la rotazione delle culture, la fertilizzazione animale, il maggese. Fino ad arrivare alla metà del secolo scorso quando attraverso la chimica e la meccanica l’uomo ha riaffermato, nella maniera più drammatica possibile, il suo ruolo di pianificatore del mondo vegetale. I nuovi mostri legati all’agricoltura dei giorni nostri si chiamano inquinamento delle falde acquifere, dei fiumi e dei laghi, scomparsa della biodiversità, desertificazione, drastica riduzione delle risorse idriche, contaminazione dei cibi, malattie professionali per gli addetti al settore e purtroppo molto altro.
La verità è che questa agricoltura invece di nutrire l’umanità ha da sempre contribuito ad affamarla. Oggi siamo quasi sette miliardi e mezzo su questa terra e purtroppo continueremo ad aumentare. Mentre la popolazione aumenta cresce la pressione sugli agricoltori affinché con sempre meno superficie e addetti facciano impennare ancora le produzioni. La combinazioni di questi due fattori finirà per acuire ancora di più tutte le conseguenze nefaste che questo modello agricolo si porta appresso.
Qual’è allora l’alternativa praticabile a questo sistema? Ovviamente, anche se lo volessimo, siamo in troppi per tornare a raccogliere il cibo che la natura ci offre liberamente. Tuttavia possiamo iniziare a praticare un nuovo tipo di agricoltura in cui invece di essere protagonisti siamo spettatori, invece di fare impariamo a guardare, invece di togliere cominciamo a mettere. Un’agricoltura che si porta appresso i semi di un cambiamento più grande di lei. Perché se è vero che ogni sistema economico e politico ha alla base un certo modello agricolo, allora un’agricoltura naturale sarà il fondamento di un’altra società.

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E tanti saluti anche al turismo internazionale!

Da “tourism master”. Traduzione di MR (via Cristiano Bottone)

Come parte del programma di studio del loro master in Gestione della Destinazione del Turismo, gli studenti hanno scritto rassegne di letteratura nell’ambito del “Contesto del turismo internazionale”. In questo secondo di sei rassegne di letteratura, Maria Klampfl discute le conseguenze del picco del petrolio sulla domanda globale di turismo.

Introduzione

Il petrolio è una risorsa finita. Quindi le tendenze globali dell’offerta di energia e del suo consumo sono ambientalmente, economicamente e socialmente insostenibili (Matutinovic, 2011, p.1131; 1129). Gli esperti stanno avvertendo sempre di più sull’emergente sfida energetica che la civiltà occidentale e il mondo nel suo complesso dovranno affrontare durante il prossimo decennio (Matutinovic, 2011, p.1131; 1129; Nell & Cooper, 2008, p.1096). Le conseguenze di un petrolio meno accessibile sulla società sono intrinsecamente complesse (Becken, 2010, p.373). Infatti, le riserve petrolifere in diminuzione porranno un “vincolo definitivo sulla crescita economica, sulla distribuzione globale di stili di vita e sul livello di integrazione dell’economia globale”  (Matutinovic, 2011, p.1131). Inoltre, colpirà il turismo e il modo in cui sta operando oggi.

La domanda di petrolio sta aumentando costantemente ed è allarmante che mentre nel passato “le nuove riserve di petrolio venivano scoperte ad un tasso maggiore di quello di consumo”, al momento è l’opposto – i nuovi giacimenti di petrolio vengono rilevati ad un tasso inferiore di quello di consumo  (Becken, 2008, p.696). Il prezzo del petrolio è influenzato da molteplici fattori. Ciononostante, in una prospettiva di lungo termine, i prezzi del petrolio sono “governati dalla domande e offerta mondiale di petrolio, che alla fine è limitata dalle risorse” (Becken & Lennox, 2011, p.133). La scarsa offerta di energia porta inevitabilmente ad aumenti drammatici del prezzo del petrolio. Ciò avrà effetti significativi sulle industrie del trasporto e dell’aeronautica e di conseguenza condizionerà l’intera industria del turismo (Leigh, 2011, p.165; 167; 169).

Becken ha affermato che ancora c’è poca “consapevolezza sulla sicurezza energetica e sul picco di produzione del petrolio” all’interno dell’industria del turismo (2008, p.695). Inoltre, la ricerca del turismo ha lasciato ampiamente fuori il problema del consumo energetico in relazione ad un futuro a lungo termine del turismo. Di conseguenza questo articolo punta ad aumentare la consapevolezza di una possibile scarsità petrolifera ed investiga le potenziali conseguenze del picco del petrolio sullo sviluppo del turismo globale del futuro.

Il turismo e la sua dipendenza dal petrolio

Il turismo ha a che fare con “il movimento di turisti dal loro punto di partenza alla loro destinazione”. La componente di trasporto intrinseca rende in turismo e la sua industria di sostegno “dipendente da mobilità, trasporto e alla fine, a causa della forte dipendenza dal trasporto aereo e su gomme, dal petrolio come fonte di combustibile”  (Yeoman, Lennon, Blake, Galt, Greenwood & McMahon- Beattie, 2007, p.1354; Becken, 2008, p.695; Becken & Lennox, 2011, p.133). Infatti, l’alta densità energetica e la trasportabilità, rendono il petrolio il “combustibile per eccellenza” (Nell & Cooper, 2008, p.1096).

Si ipotizza che il solo settore del trasporto “consuma oltre il 50% del totale del petrolio totale a livello gloobale” (Becken, 2006, p.697). Il consumo dell’industria dell’aviazione vale circa il 6,3% della produzione di raffineria mondiale (Becken & Lennox, 2011, p.133). In qualche modo, le previsioni della International Energy Agency (IEA) prevedono che la domanda di trasporto aumenterà in tutto il mondo, portando ad un aumento del 20% della domanda di energia da adesso al 2030 (Becken, 2008, p. 697). Il World Energy Outlook ed altri credono che sia “possibile soddisfare la domanda mondiale di petrolio nel prossimo decennio” (Lutz, Lehr & Wiebe, 2012, p. 829). Ciononostante, “le prove sempre maggiori dell’enormità di un picco della produzione di petrolio”, sollevano critiche contro queste proiezioni, che sono percepite come troppo ottimistiche  (Lutz, et al., 2012, p. 829; Becken, 2008, p.695; Nell & Cooper, 2008, p.1104-1105). A prescindere dal fatto che le risorse petrolifere stiano diminuendo o meno, affermo che è in ogni caso inevitabile smettere di sfruttare le risorse naturali. La società nel suo complesso deve cambiare i suoi modelli di consumo e cominciare ad usare le risorse scarse in modo più consapevole e responsabile.

Picco del petrolio

Il picco del petrolio è definito come il punto in cui la metà delle forniture di petrolio disponibili sono state consumate e i livelli di produzione non sono in grado di aumentare, in quanto hanno raggiunto il loro massimo (Fantazzini, Höök & Angelantoni, 2011, p.7867; Leigh, 2011, p.165). In conseguenza dei livelli di produzione in declino, “il picco del petrolio si manifesterebbe come un rapido aumento dei prezzi del petrolio seguito da una carenza globale di petrolio” (Leigh, 2011, p.165; Lutz et al., 2012, p.831). La cosa importante da comprendere p che la dipendenza del turismo dalla disponibilità di petrolio (Becken, 2008, p.695) lo rende anche più vulnerabile di altre industrie ai prezzi del petrolio alti (Becken & Lennox, 2011, p.133). Ciononostante, ci potrebbero essere segmenti di mercato con una maggiore elasticità di altri in quanto ai prezzi. Pertanto, la comprensione di quei segmenti di mercati meno vulnerabili e del loro ruolo nel turismo del futuro è ancora ben lungi dall’essere globale.

Il quadro temporale del picco del petrolio è ancora molto contestato. Gran parte degli autori tuttavia concorda che un picco della produzione di petrolio greggio è molto probabile che si verifichi prima del 2020 ma non più tardi del 2030 (Almeida & Silva, 2011, p.1275; Nygren, Akejkett & Höök, 2009, p.4006; Becken & Lennox, 2011, p.133). Gli autori avvertono che ancora “non ci sono risorse alternative adeguate e tecnologie disponibili per sostituire il petrolio come risorsa di base della società industriale” (Friedrichs, 2010, p.4562). Inoltre, l’industria del turismo ha mostrato poca consapevolezza riguardo alla sicurezza energetica ed al picco di produzione del petrolio. (Becken, 2008, p.695). I professionisti del turismo dovrebbero essere seriamente preoccupati dal futuro del turismo. Dovrebbero essere ansiosi di trovare soluzioni sostenibili per essere in grado di assicurare la fattibilità della sua industria per il futuro a lungo termine.

Il turismo di fronte al picco del petrolio

Le previsioni sulla crescita del turismo sono eccessivamente ottimistiche. L’organizzazione mondiale del turismo (UNWTO) “stima la crescita nell’ordine del 3,8% per i viaggi interregionali e del 5,4% per quelli di lungo raggio fra il 1995 e il 2020”. Tuttavia pare che queste previsioni non considerino la difficoltà della disponibilità di petrolio (Becken, 2008, p.695) e gli effetti potenziali dei prezzi del petrolio più alti vengono ignorati (Becken & Lennox, 2011, p.133). Infatti, “la ridotta disponibilità di petrolio ed i prezzi in aumento” cambieranno gli stili di vita umani in tutto il globo e di conseguenza altereranno anche il ruolo del turismo al loro interno (Becken, 2010, p.373 – 374; Leigh, 2011, p.165). Ciononostante, si sa poco su come la società ed il turismo cambieranno di fronte al picco del petrolio.

Gli effetti negativi dell’aumento dei prezzi del petrolio di destinazioni specifiche e sulla domanda di turismo sono ben lungi dall’essere chiari (Becken & Lennox, 2011, p.134). Infatti, l’aumento dei prezzi del petrolio aumenterà il prezzo delle tariffe aeree e di quelle turistiche in particolare (Yeoman et al. 2007, p.1355; Becken & Lennox, 2011, p.133; 139; Leigh, 2011, p.184). “Il viaggio aereo ad alto consumo” è previsto in forte riduzione e “a causa dei suoi prezzi alti, solo le élite saranno in grado di permettersi il viaggio aereo” a quel punto (Leigh, 2011, p.180; 184). Inoltre, “le decisioni prese dai turisti in relazione a dove andare, ma anche in che modo arrivare a destinazione” sarà condizionato dai prezzi alti (Becken, 2008, p.697). I turisti potrebbe fare viaggi più brevi  e siccome userebbero trasporti a prezzo più basso, come treno o autobus che richiedono più tempo, staranno più a lungo nella destinazione scelta (Yeoman et al. 2007, p.1355; Becken & Lennox, 2011, p.133; 139; Leigh, 2011, p.184). Per essere pronti per il futuro, i gestori delle destinazioni devono essere consapevoli di tali tendenze nella domanda di turismo per essere proattivi nelle loro risposta strategica.

La domanda di turismo è prevista diminuire a livello globale, per cui si ipotizza che il turismo interno compensi il viaggio internazionale (Yeoman et al. 2007, p.1355; Becken & Lennox, 2011, p.133; 139; Leigh, 2011, p.184). Per le destinazioni a lunga distanza in particolare, ciò significa che analisi attente dei futuri mercati sono garantite  (Becken & Lennox, 2011, p.141). Peasi che dipendono dal turismo così come le destinazioni remote vengono percepite come più minacciate dall’aumento dei prezzi del petrolio rispetto a quelle che dipendono da altri portafogli (Becken & Lennox, 2011, p.140). Si può concludere che anche se il picco del petrolio è un fenomeno globale, gli effetti della disponibilità limitata di petrolio potrebbe variare da destinazione a destinazione. Per affermare questa ipotesi serve più ricerca.

Conclusione

E’ davvero sorprendente che anche se “le risorse petrolifere verranno esaurite ad un certo punto ed una transizione a fonti di energie non folli è inevitabile”, ci sia così poca discussione sul significato intrinseco per il turismo (Becken, 2008, p.704). Infatti, “il problema del consumo energetico e del suo futuro a lungo termine per il turismo” (Becken, 2008, p.695) è ben lungi dall’essere completo.
L’industria del turismo dovrebbe essere preoccupata dalla possibilità dell’aumento dei prezzi del petrolio, dei suoi effetti sugli stili di vita umani e del modo in cui questo potrebbe cambiare il ruolo del turismo, dopotutto. Inoltre “la relazione fra consumo di petrolio e crescita economica è essenziale per una comprensione delle tendenze future della domanda di turismo” (Nell & Cooper, 2008, p.1096). E’ cruciale, inoltre, comprendere una “vulnerabilità complessiva delle destinazioni ai prezzi del petrolio più alti” e riconoscere la “vulnerabilità dei diversi segmenti di mercato” (Becken & Lennox, 2011, p.140).Se l’industria del turismo vuole avere successo in futuro, i gestori del turismo devono prendere sul serio il picco del petrolio. La comprensione dei cambiamenti che arriveranno col picco della produzione di petrolio è essenziale per cambiare e adeguare di conseguenza l’industria del turismo. Rispondere con successo a queste nuove tendenze determinerà il successo della destinazione. Per concludere, questo articolo ha dimostrato la poca consapevolezza dell’industria del turismo sul problema della scarsità di petrolio e dei suoi impatti sul turismo. Tuttavia, si tratta di un tema ancora poco studiato e rimangono molte incertezze. Almeida & Silva affermano che la mancanza di conoscenza si riflette nelle decisioni, che sono del tutto inappropriate di fronte alla diminuzione delle risorse petrolifere. Essi vedono pertanto come inevitabile che i decisori a tutti i livelli migliorino la propria conoscenza su questo problema (2011, p.1054), che a sua volta necessita di maggiore ricerca.

Elenco dei testi in letteratura

Almeida, P. & Silva, P. (2011). Tempistica e conseguenze future del picco del petrolio. Future. Vol. 43. (DOI: 10.1016/j.futures.2011.07.004). p.1044 – 1055.
Becken, S. (2008). Sviluppare indicatori per gestire il turismo di fronte al picco del petrolio. Vol. 29. (DOI: 10.1016/j.tourman.2007.07.012). p.695 – 705
Becken, S. & Lennox, J. (2012). Implicazione dell’aumento a lungo termine del prezzo del petrolio per il turismo. Tourism Management. Vol. 33. (DIO: 10.1016/j.tourman.2011.02.012). p.133-142
Becken, S. (2008). Sviluppare indicatori per gestire il turismo di fronte al picco del petrolio. Tourism Management. Vol.29. (DOI: 10.1016/j.tourman.2007.07.012). p.695-705
Becken, S. (2011). Una rassegna critica del turismo e del petrolio. Annuari di ricerca del turismo. Vol.38. (DOI: 10.1016/j.annals.2010.10.005). p.359 – 379
Fatazzini, D. Höök, M. & Angelantoni, A. (2011). Rischio petrolifero globale all’inizio del XXI secolo. Energy Policy. Vol. 39. p. 7865- 7873
Friedrichs, J. (2010). Crisi dell’energia globale: in che modo parti diverse del mondo reagirebbero agli scenari del picco del petrolio. Energy Policy. Vol. 38. (DOI: 10.1016/j.enpol.2010.04.011 ). p.4562 –4569
Leigh, J. (2011). Nuovo turismo in una nuova società emergono dal “picco del petrolio”. Tourismos: An International Multidisciplinary Journal Of Tourism. Vol.6. p.165 – 191
Lutz, C. Lehr, U. & Wiebe, K. (2012). Effetti economici del picco del petrolio. Energy Policy. Vol. 48. p.829 – 834
Matutinovic, I. (2011). Petrolio a 150 dollari. Il punto di svolta per cambiare il corso della civiltà? Future. Vol. 43. (DOI: 10.1016/j.futures.2011.07.011). p.1129 – 1141
Nell, W. & Cooper, C. (2008). Una rassegna critica delle previsioni di domanda di petrolio della IEA per la Cina. Energy Policy. Vol.36. (DOI: doi:10.1016/j.enpol.2007.11.025). p.1096 – 1106
Nygren, E. Aleklett, K. & Höök, M. (2009). Combustibile per l’aviazione e scenari di produzione petrolifera futuri. Energy Policy. Vol.37. (DOI: 10.1016/j.enpol.2009.04.048). p.4003 – 4010
Yeoman, I. Lennon, J. Blake, A. Galt, M. Greenwood, C. & Mc Mahon – Beattie. (2007). Esaurimento del petrolio: cosa significa per il turismo scozzese. Tourism Management. Vol. 28. (DOI: 10.1016/j.tourman.2006.09.014). p.1354– 1365

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Equità sociale e distruzione del Pianeta.

Una maggiore equità sociale viene sempre più spesso invocata dai piani basali ed intermedi della piramide sociale e con ottime ragioni.   Un simile livello di disparità non si era infatti mai visto, perlomeno nella storia della civiltà industriale.   Ma probabilmente neanche prima, sebbene i confronti con economie strutturalmente diverse siano difficili.

A scanso di equivoci, preciso subito che a mio parere questa è un’infamia che deve finire.   Ma il punto di questo post è un’altro. Molti sostengono che ridurre questa estrema disuguaglianza avrebbe importanti effetti positivi non solo sul piano socio-economico, ma anche su quello ambientale.    Siamo sicuri che sia così?

Equità sociale e consumi

Confronto fra reddito procapite (in azzurro)
ed emissioni di CO2 (in rosso).

Il punto principale di chi sostiene la sinergia fra riduzione dell’iniquità e degli impatti ambientali vi è l’ovvia osservazione che i ricchi consumano molto di più dei poveri.   Ciò è fuor di dubbio, ma quanto?

Che io sappia, non esistono studi che analizzano i gli impatti umani per classi sociali, ma un’idea molto approssimativa è possibile farsela confrontando i dati relativi ai diversi paesi.   A condizione di tenere ben presente che in ogni paese ci sono sia ricchi che poveri.

Un punto di partenza può quindi essere confrontare come variano le emissioni di CO2 (che possiamo considerare un indicatore correlato agli impatti complessivi) in rapporto al reddito pro-capite (dati Word Bank e Wikipedia rispettivamente).

Vista la carenza di dati a disposizione, faremo qui la grossolana approssimazione di considerare che il PIL sia indicativo del reddito.    In realtà sono due cose diverse, ma che possiamo considerare come abbastanza strettamente correlate.

Come c’era da aspettarsi, fra i due parametri c’è una correlazione, ma non univoca e non lineare.   Anche facendo astrazione da alcuni dati fortemente anomali, risulta evidente che le emissioni di CO2 aumentano con il reddito, ma in misura meno che proporzionale.   L’incremento delle emissioni è infatti molto rapido a fronte di modesti incrementi dei redditi molto bassi; poi salgono piuttosto lentamente, per tornare ad impennarsi presso i ricchissimi.    Fluttuazioni importanti dipendono da altri fattori quali clima, geografia, struttura sociale, tradizione, eccetera.

Ora, a titolo di esercizio mentale, prendiamo per buona l’indicazione che l’1% della popolazione mondiale si accaparra il 50% della ricchezza del pianeta.    Significa che circa 75 milioni di persone hanno un reddito pro-capite di circa 500.000 dollari l’anno.

Prima sorpresa, almeno per me.  Se la media è mezzo milione ed in questo novero vi sono almeno un centinaio di multimiliardari (dati Forbes), significa che fra i ricchi che sfruttano indebitamente il prossimo possiamo annoverare tutti coloro che guadagnano, diciamo, dai 200.000 $ l’anno in su.   Cioè anche un vasto numero di alti dirigenti pubblici e privati, grandi professionisti ed un sacco di altre persone che magari conosciamo personalmente.   E che, in alcuni casi, sono anche delle brave persone.

Immaginiamo adesso che, senza scatenare una guerra, sia possibile ridistribuire tutta questa ricchezza sul 99% dell’umanità.   Farebbero circa 5.000 $ a testa.   Anche a parecchi di noi abitanti del “primo mondo” farebbero molto comodo ed alla maggioranza della popolazione mondiale cambierebbero drasticamente la vita.   Miliardi di persone potrebbero finalmente permettersi di mangiare a sazietà, vestirsi decentemente, abitare in case anziché in  baracche, mandare i figli a scuola, curare i malati e molto altro ancora.   Altri, già più fortunati, potrebbero andare in vacanza o comprare una macchina. Con quali conseguenze per il Pianeta?

In prima ed estremamente grossolana approssimazione, possiamo classificare l’umanità in quattro meta-categorie:  I super ricchi (che abbiamo stimato essere circa 75 milioni), la “Middle Class”  (che secondo “The Economist” comprenderebbe circa la metà della popolazione attuale, cioè poco più di 3 miliardi), i poveri (che possiamo stimare per differenza in 2 miliardi) ed i miserabili (che secondo la FAO sono circa 1 miliardo).   Una ripartizione così sommaria è giustificata dal fatto che le emissioni di CO2 di queste categorie variano fra loro per ordini di grandezza.

Confrontando i redditi e le emissioni pro-capite per paese, possiamo infatti arguire che, probabilmente, I ricchissimi producono intorno alle 50 tonnellate di CO2 pro-capite/anno, i medi  circa 10 tonnellate, i poveri  intorno a 4 e i poverissimi qualcosa come 0,1.   Si noti che passando dalla quarta classe (miserabili) alla terza (poveri) vi è un incremento di 40 volte; dalla terza alla seconda di 2,5-3 volte, dalla seconda alla prima di 5 volte.

Ovviamente, l’auspicata maggiore equità sociale provocherebbe la scomparsa della classe dei miserabili e di quella de super-ricchi; promuoverebbe i poveri nella classe media mentre, all’interno di questa, ci sarebbe un sensibile spostamento verso l’alto del reddito, molto più sensibile dalla parte bassa e marginale da quella alta della categoria.

Ora, sottraendo le emissioni di coloro che perderebbero i soldi ed aggiungendo quelle di coloro che ne guadagnerebbero, possiamo molto approssimativamente stimare che l’operazione “Robin Hood” porterebbe il tasso di emissioni intorno ai 70 miliardi di tonnellate/anno, cioè quasi il doppio dell’attuale.

Non solo.   L’operazione comporterebbe una netta diminuzione della mortalità fra i poveri, provocando un brusco incremento nel tasso di crescita nella popolazione terrestre.   Incremento probabilmente aggravato dall’aumento della natalità che, di solito, si associa ad una visione ottimistica del futuro.

Comunque, una simile operazione, aumentando i consumi di miliardi di persone e riducendoli per milioni, aumenterebbe vertiginosamente la pressione su tutte le risorse residue (energia, cemento, tessili, cibo, acqua, ecc.), aumentando di conserva ogni forma di inquinamento.   Insomma, un brusco ritorno della crescita economica, con tutto ciò che ne consegue.

Equità sociale nei modelli

Scenario con limitazione delle nascite
ed equa distribuzione dei prodotti.

Si può facilmente obbiettare che il ragionamento pecca di eccessivo empirismo ed approssimazione.   Purtroppo è però coerente con le indicazioni che ci vengono da quello che ad oggi continua ad essere il miglior modello dinamico del sistema economico-ambientale globale.

Nell’edizione del 2004 (Limits to Growth: The 30-Year Update) il gruppo dei Meadows propose, fra gli altri, un scenario in cui si ipotizza ch,e a partire dal 2002, la natalità globale non superi la media di due figli per coppia e che venga praticato un efficace razionamento dei prodotti industriali ad un livello  del 10% superiore rispetto alla media globale del 2.000.   Vale a dire molto meno per i ricchi e molto di più per i poveri.

Rimandando al testo per i dettagli,  è interessante vedere che queste condizioni allungano la fase di picco delle curve della produzione e della popolazione, prolungando quindi il periodo di benessere per una ventina d’anni.   Dopodiché avviene comunque un collasso sistemico analogo a quello dello scenario BAU (Business as Usual, o “scenario base” che dir si voglia).

E si badi bene che la maggior parte di coloro che reclamano una più equa distribuzione dei beni si guardano bene dal parlare di un’efficace limitazione della natalità. Nel libro non viene illustrato lo scenario con ridistribuzione dei beni senza controllo delle nascite, ma non ci vuole molto a capire che la popolazione crescerebbe molto rapidamente, mandando rapidamente  in collasso il sistema.

Uno degli scenari del modello HANDY

Un secondo modello che, in qualche modo, prende in conto il livello di iniquità sociale, è il popolarissimo HANDY, prodotto da alcuni ricercatori della NASA.  
Sotto il profilo scientifico il modello ha enormi lacune. Ad esempio, considera la capacità di carico una costante e trascura le retroazioni fra sviluppo di una élite, aumento della complessità e capacità di dissipazione dell’energia da parte di una società.   Ciò porta a scenari anche assurdi, come quello in cui i predatori (l’élite) crescono anche dopo il collasso delle prede (la gente comune).

Tuttavia il modello ha il merito di essere il primo che tenta di inserire l’elemento sociale in questo tipo di modelli.   In attesa di meglio, possiamo penso prendere per buona l’indicazione di larga massima che livelli moderati di disuguaglianza tendono a rendere più stabili e resilienti le società.   A braccio, direi che un’occhiata alla storia conferma l’ipotesi.

Ciò è coerente anche con le indicazioni di Word3 e con quanto osservato nel paragrafo recedente.   Una società più coesa ed una classe dirigente più legittimata fanno infatti parte degli elementi che tendono a prolungare la fase di picco di una società, ma da sole non possono evitarne il collasso sistemico.   Anzi, quando siamo ampiamente al di sopra della capacità di carico, proprio la maggiore resilienza del sistema socio-economico finisce col giocare un ruolo negativo.   Tende infatti a ritardare il collasso, ma accrescendone la gravità che è funzione del tempo di permanenza al di sopra della capacità di carico stessa.

Del resto, un modello reale lo abbiamo già visto.   Per farsi un’idea basta osservare le curve di emissione degli USA e della Cina fra il 1990 ed il 2009.   L’economia USA ha arrancato fra una crescita del PIL tutta concentrata nella “topo class” ed un deterioramento dei livelli di vita della classe media.   Il risultato è stato una modesta riduzione delle emissioni.   In Cina il tenore di vita della maggior parte della popolazione è aumentato considerevolmente, con le conseguenze locali e globali che sappiamo.

Immaginiamo di fare il bis, con aggiunta la crescita demografica che i cinesi hanno finora contenuto efficacemente.

Qualcuno davvero pensa che la Terra potrebbe resistere?

Ridistribuzione dei redditi e politica

L’Impero Inca era per molti versi simile ad una società sovietica in versione neolitica.   I fondamenti del potere erano infatti una capillare militarizzazione dello stato e la venerazione per l’Inca (qualche secolo dopo si sarebbe parlato di “culto della personalità”).  Questo secondo fattore veniva mantenuto, fra l’altro, tramite un efficace sistema di tassazione che rastrellava a beneficio dell’erario tutto il mais non strettamente indispensabile ad una misurata sussistenza delle famiglie.   Parte di questo raccolto veniva quindi trasformato in birra e solennemente ridistribuito ai contadini in occasione di festività dedicate all’adorazione dell’Inca che, solo, era capace di donare la birra al popolo.

Questo è solo uno degli infiniti esempi che potrebbero illustrare il fatto che le élite che sono durate a lungo hanno sempre avuto molta cura nel ridistribuire una parte di ciò che accaparravano, in forme e modi tali da consolidare il loro potere.   Non per nulla proprio contro questi sistemi si scagliavano i fulmini dei marxisti e degli anarchici dell’800.

Una lezione che le élite attuali, perlopiù composte da pirati e sociopatici (con qualche rara eccezione) non sembrano in grado di capire.

E’ vero però che i miliardari sono ricchi ed io no, il che potrebbe far pensare che in materia di denaro e di potere la sappiano più lunga loro di me.   Ciò nondimeno, ritengo che una parziale ridistribuzione dei redditi avvantaggerebbe primi fra tutti i ricchi, consolidandone il potere.

In secondo luogo favorirebbe i poveri ed i medi la cui vita migliorerebbe, non solo sul piano materiale, ma anche per il ridursi di questa snervante sensazione di essere quotidianamente defraudati ed ingannati.

Tuttavia sarebbe un miglioramento molto temporaneo.   La crescita dei consumi globali e la crescita demografica che ne deriverebbe si rimangerebbero il vantaggio nel giro al massimo di un paio di decenni, se non prima per lo scatenarsi di un’inflazione incontrollabile.    Poi tutti precipiterebbero in un baratro ancora peggiore di quello che probabilmente ci aspetta.

Magari,  se lo si fosse fatto molto tempo fa poteva andare diversamente, ma si parte sempre dalla situazione attuale ed una lezione molto importante dataci da Donella Meadows è che gli stessi interventi, attuati in periodi diversi, possono avere effetti divergenti.   Ma anche cambiare la scala ed il contesto possono modificare gli effetti di determinati interventi.  

Cosa potrebbe infatti succedere se non tutti, ma un solo grande paese decidesse di praticare una drastica ridistribuzione dei redditi?    Siamo nella fanta-politica pura, ma possiamo azzardare qualche ipotesi.

Partendo dal presupposto che ciò aumenterebbe i consumi e consoliderebbe la struttura sociale, possiamo immaginare che il paese in questione vedrebbe una qualche ripresa economica ed una netta diminuzione della conflittualità interna.  Se la maggior parte della ridistribuzione avvenisse tramite alleggerimenti fiscali e miglioramento di servizi essenziali, si potrebbe assistere ad una vera, relativa, fioritura del paese in questione.   Ciò aumenterebbe il suo potere sugli altri paesi che avrebbero due opzioni possibili: imitarlo (ricadendo nel collasso globale di cui si è detto prima),  oppure combatterlo (provocando un brusco aumento di conflittualità internazionale, con tutte le conseguenze del caso).  

Dunque, oltre ad un’improbabile volontà in tal senso, sarebbero necessarie almeno tre condizioni:
La prima sarebbe essere in grado di evitare ogni crescita demografica che, inevitabilmente, finirebbe col rimangiarsi il vantaggio.   Ciò significa non solo controllo della natalità, ma anche evitare di investire troppo in servizi agli anziani per concentrarsi invece sul recupero di risorse vitali quali acqua, aria, biodiversità, cultura, ecc.    Ciò significa anche essere in grado di respingere i migranti attratti proprio dalla fiorente economia.

La seconda sarebbe ancora sigillare i confini, stavolta per evitare invece la prevedibile fuga di capitali e/o tecnologie.

La terza sarebbe che tale paese fosse in condizione di assicurarsi i necessari flussi di input ed autput, anche contro un possibile boicottaggio degli altri.  Anche con la forza, se indispensabile.

In altre parole, questo ipotetico paese sarebbe una grande potenza che limita la propria crescita, ma che neppure esita a sfruttare gli altri paesi.  Una cosa che potrebbe fare solamente un paese abbastanza grande da poter sostenere il confronto con tutti gli altri e che non lesinasse sulle spese militari.  Forse gli unici (sempre in termini fantapolitici) che potrebbero provarci sarebbero gli USA e la Cina.    Forse anche gli europei a condizione di far funzionare una vera federazione (questa si che è fantapolitica pura!).

Insomma un fenomeno geo-politico che non si è mai visto nella storia.   Possono assomigliarci un poco il Giappone Edo e la dittatura di Balaguer nella Repubblica Dominicana.   Ma, a parte che si trattò in entrambi i casi di governi molto autoritari (per non dire dispotici), non furono comunque in grado di garantire la propria sopravvivenza.  Il primo sopravvisse finché durò il suo isolamento, mentre il secondo finché fu protetto da una potenza coloniale (al caso gli USA).

Tornando sulla Terra, non solo la classe dirigente non mostra alcuna intenzione di ridistribuire il proprio reddito, ma se lo facesse accelererebbe  il collasso sistemico della civiltà industriale.   A meno che il processo non avvenisse abbassando i redditi dei ricchi, senza incrementare quelli dei poveri e, contemporaneamente, adottando drastici sistemi di controllo demografico.  

Ma questa è l’unica opzione in grado di unire tutti nell’essere contrari.





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Termodinamica, Evoluzione, Felicità


Un post di Guido Massaro

Sono un assiduo frequentatore di questo blog da anni, che è stato per me fonte di conoscenza e ispirazione, ho studiato Scienze Naturali e mi interesso delle tematiche connesse.

Riassumo i contenuti del post: sarà una riflessione in cui espanderò un concetto a cui forse non siamo abituati, cioè che IL BENE DELLA SPECIE NON NECESSARIAMENTE COINCIDE COL BENESSERE DEGLI INDIVIDUI.

Spiegherò le basi scientifiche che ho usato e il percorso logico che ho fatto per motivare questa affermazione e analizzerò la questione dalla prospettiva particolare della specie umana, con riferimenti a meccanismi psicologici spesso inconsci.

Passerò poi alle conseguenze di questo fatto, cercherò di spiegare perchè secondo me alcuni tra i meccanismi che permettono la diffusione e il miglioramento della specie umana alla fine sono gli stessi che, se non capiti e incanalati nel giusto modo, oltre a mettere a rischio la felicità individuale compromettono il benessere e la stessa possibilità di sopravvivenza della specie umana.

Il post è il tentativo di mettere in parole una specie di intuizione personale.

Una delle formulazioni del Secondo Principio della Termodinamica recita “L’Entropia non può decrescere in un sistema isolato”; l’Universo preso nel suo complesso è un sistema isolato (e in effetti, come conseguenza di questa legge, una delle teorie più gettonate sul futuro dell’Universo – Big Freeze

– è un tendere all’immobilità, cioè alla dispersione di Energia – ovvero aumento di Entropia – fino alla impossibilità di compiere qualunque Lavoro) ma ciò non vieta che al suo interno vi siano strutture, meccanismi o eventi che causino una locale diminuzione di Entropia (per esempio per aumento di organizzazione o informazione, o per concentrazione di Energia), che può però avvenire solo a fronte di una corrispondente esternalizzazione di Entropia, perchè il Secondo Principio resti valido a livello Universale.

Vi sono per esempio le cosiddette “Strutture Dissipative”, come le stelle, i cicloni e le forme di vita, che agendo come dei trasformatori utilizzano Energia per mantenere il proprio ordine interno (abbassando la propria Entropia), inevitabilmente aumentando l’Entropia dell’ambiente che le circonda, cioè rendendo all’Universo Energia in una forma diversa, meno concentrata, quindi meno atta a compiere Lavoro.

Queste strutture si auto-organizzano per massimizzare il flusso di Energia che le attraversa: captano tutta l’Energia che possono, e poichè la trasformano e in ogni trasformazione di Energia vi è un aumento netto di Entropia (aumento di Entropia nell’Universo), esse massimizzano anche il proprio tasso di produzione di Entropia.

In un Universo destinato a un progressivo “disordine”, alla dispersione e all’immobilità, queste ordinate strutture accentratrici di Energia che osserviamo, compresa la Vita stessa, non sarebbero quindi miracolose eccezioni, ma ironicamente proprio dei meccanismi che accelerano tale processo, o perlomeno alcuni dei meccanismi attraverso cui tale processo si attua.

Il tifone Maysak ripreso dalla Stazione Spaziale Internazionale nell’aprile 2015 (ESA)

AU Microscopii è una giovane stella circondata da un disco protoplanetario, a 32 anni luce dalla Terra (ESO)

C’è chi, come l’astrofisico francese François Roddier, vede il principio della massima produzione di Entropia delle strutture dissipative (secondo lui addirittura un’altra possibile formulazione del Terzo Principio della termodinamica) mostrarsi in tutta la sua evidenza anche nei meccanismi evolutivi.

In altre parole, secondo Roddier l’Evoluzione Naturale sarebbe uno dei processi tramite cui nel nostro angolo di Universo si tende a dissipare Energia (nel nostro caso principalmente Energia di irraggiamento dal Sole) il più velocemente possibile, una sorta di meccanismo di affinamento delle strutture dissipative viventi a tale scopo.

In che modo questo potrebbe avvenire?

Vediamo alcuni meccanismi con cui l’Evoluzione tende a favorire quelle entità che massimizzano il flusso di Energia che le attraversa:

– a livello intraspecifico: in ogni specie gli individui che si riproducono con maggiori probabilità sono quelli più adattati alla nicchia ecologica della specie cui appartengono, cioè semplificando le piantine più abili a captare e sfruttare l’energia solare e i minerali del terreno, lo stesso principio si applica agli erbivori e ai carnivori, riguardo le rispettive risorse;

– a livello interspecifico: in ogni nicchia la specie che prevarrà sarà quella più efficace nello sfruttare le risorse di quella nicchia, che quindi si riprodurrà di più soppiantando l’altra, a meno che l’Evoluzione escogiti un modo di far adattare una delle due specie o entrambe al fine di sfruttare in maniera diversa la stessa o una ancora maggiore quantità di risorse;

L’Evoluzione si basa sul meccanismo di lottare per trasmettere il più possibile i propri geni (e la lotta tende a selezionare, come abbiamo visto, gli individui o specie più energivori), affinchè sia l’informazione in essi contenuta a sfruttare le future risorse disponibili: questo è quindi quello che la termodinamica (tramite il meccanismo dell’Evoluzione) spinge gli esseri viventi a fare, sia a livello individuale che specifico, lottare per trasmettere i propri geni.

Restringendo il campo alle dinamiche interne alla specie umana, questo “egoismo genetico”, inevitabile e da un certo punto di vista positivo perchè come abbiamo visto alla base di qualsiasi evoluzione (che ci ha portato come gradevole effetto collaterale a concepire capolavori di arte ed intelletto), è tuttavia inseparabile dal suo lato oscuro e portatore di sofferenza, cioè geni che codificano per istinti di violenza e avidità (più o meno sublimati o regolamentati/repressi a livello sociale), e sentimenti di invidia, gelosia, competizione, paura, ansia, tristezza, ecc. a seconda dei propri successi o fallimenti, che si riconducono in maniera inconscia alla propria percezione di potere come individuo, e quindi alla propria capacità di riprodursi (trasmettendo i propri geni), a prescindere dalla evidenza pratica di questo nesso.

Dunque, è chiaro come il “bene della specie” in chiave evolutiva (“bene” su orizzonti temporali ristretti: infatti ogni specie, per gli stessi meccanismi (co)evolutivi, è destinata prima o poi ad estinguersi) non necessariamente coincida con il bene, o il benessere, degli individui come singoli.

Per quanto riguarda invece le dinamiche di relazione fra la specie umana e le altre specie, quello che succede è che siamo spinti, come ogni specie, alla massima espansione, coi soli limiti dati da meccanismi ecologici quali predazione, parassitismo, competizione per risorse o habitat, ecc.; evidentemente, questi meccanismi di contenimento con la nostra specie non hanno funzionato, in massima parte in conseguenza del livello tecnologico che abbiamo via via sviluppato.

In ogni caso, siamo arrivati ad essere in sempre maggior numero a discapito delle altre specie, e della salubrità degli ambienti che frequentiamo; tutto questo, a sentire il clima di incertezza e insoddisfazione che si respira in giro, mediamente non ci sta portando certo alla felicità a livello di individuo, e sta probabilmente minando anche la nostra prosperità come specie, dopo aver contribuito pesantemente all’estinzione o indebolimento di un numero incalcolabile di altre specie.

Da un punto di vista evolutivo/termodinamico, noi umani, intesi come struttura dissipativa, abbiamo aumentato a dismisura l’Energia che fluisce attraverso il nostro sistema sociale, sottraendola ad altre forme di vita, e seguendo il principio della massima produzione di Entropia abbiamo scaricato disordine nell’ambiente (per esempio diminuendo la biodiversità della biosfera a più livelli, bruciando combustibili fossili o tramite altre forme di inquinamento) come pegno termodinamico da pagare all’aumento del nostro ordine sociale.

Alla prova dei fatti, a quanto pare, da qualche millennio è l’informazione contenuta nei geni umani la più adatta a dissipare energia nel modo più efficace (anche se detta così sembra un controsenso).

Su questo blog e in vari altri ambienti si auspica o si sogna un cambiamento collettivo, e ci si interroga sulla nostra natura, il senso della nostra esistenza, se siamo diversi dagli animali e se sì in cosa; vorrei qui condividere un punto di vista personale su alcuni di questi aspetti, una personale intuizione che è il cuore del post.

Se si segue la teoria di Roddier, e il mio preambolo qui sopra, ne deriva che l’essere umano lasciato a sè stesso tende per i principi della termodinamica a sviluppare atteggiamenti egoistici a livello individuale e specifico, che causano sofferenza a se stessi, agli altri, alle altre specie.. e in un futuro non troppo lontano probabilmente anche alla nostra (vedi anche Joseph Tainter).

L’uomo come individuo è quindi costretto a sforzarsi se vuole seguire gli atteggiamenti opposti di altruismo disinteressato, magnanimità, compassione, equanimità, rispetto per l’esistenza delle altre specie, è costretto a utilizzare parte della propria energia per contrastare le forze che lo porterebbero a competere, con diversi livelli di consapevolezza e differenti modalità, con altri membri della propria specie (o al limite a collaborare con membri del proprio gruppo per sopraffare gruppi rivali), o a lasciarsi andare a sentimenti negativi verso se stesso e verso gli altri (o a reprimerli per dovere sociale).

A livello individuale e specifico, autolimitare la propria progenie per lasciare spazio e risorse alle altre specie con cui condividiamo il pianeta, è un’altra cosa che i nostri geni ci spingono a non accettare.

Se invece ci sforzassimo di percepire noi stessi in un’ottica più ampia (e quindi credo anche più coerente con quello che la realtà è) ci renderemmo conto dell’immaturità e nocività dell’obbedire inconsapevolmente a quei geni che ci programmano per competere e consumare, ci libereremmo dalla schiavitù di noi stessi, del nostro egoismo, che è forse la radice di ciò che ci tormenta come esseri umani.

Potremmo così percepirci progressivamente (in maniera sempre più spontanea mano a mano che questo modo di sentire direi più saggio trovasse modo di diffondersi a livello sociale) parte di un tutto dove il nostro benessere è indistinto dal benessere di ciò che ci circonda; non potremo certo fare a meno, come struttura vivente/dissipativa, di scaricare Entropia nell’ambiente che ci circonda, ma potremo cercare di minimizzarla, anzichè abbandonarci senza ritegno alla legge di massimizzazione.

Serve certamente uno sforzo per prendere questa direzione, ma è possibile, abbiamo fortunatamente anche geni che ci permettono di farlo; e infatti ci sono stati gruppi sociali in equilibrio stabile col proprio ecosistema, e ci sono anche tanti esempi di individui, i più famosi li chiamiamo eroi, qualcuno santi, persone speciali e libere che sembrano appartenere a un altro mondo fisico, capaci di vedere loro stesse da una prospettiva esterna, con distacco, non come un’entità insoddisfatta con un costante bisogno di aumentare il proprio ridicolo potere a spese di ciò che la circonda.

Si potrebbe compensare e in parte sostituire il bisogno compulsivo di una propria espansione, controllo e potere, che scaturisce dal meccanismo di trasmissione genetica, con la scelta di espandere e poi trasmettere, invece, la propria saggezza (intesa non come mera conoscenza, ma come una visione più coerente, ampia, armonica della realtà, del Pianeta, della Vita, dell’Universo).

Si tratterebbe di un meccanismo evolutivo privilegiato ed esclusivo della nostra specie, un meccanismo evolutivo libero e consapevole, complementare a quello rivelato da Darwin che condividiamo con le altre specie, che invece ci ha portato ai problemi attuali, e che è l’unico su cui la società e i media continuano a puntare.

Capire queste cose ci può aiutare a vedere chi si comporta in maniera poco rispettosa verso gli altri e l’ambiente semplicemente come un individuo poco libero, che si assoggetta a quello che una sequenza di nucleotidi lo costringe a fare; provare, verso questi individui, compassione anzichè sentimenti negativi va nella direzione di unire il genere umano per rendere possibile un futuro comune.

L’Universo non ha bisogno degli uomini per dissipare Energia, riguardo la pratica “Pianeta Terra” potrebbe “licenziarci” e far prendere il nostro posto ad altre forme di vita, o chiudere il capitolo Vita e “assumere” al suo posto tempeste gigantesche; io credo che possiamo scegliere di prolungare la nostra permanenza su questo pianeta perchè siamo l’unica entità conosciuta nell’Universo con la potenzialità teorica di modulare il proprio output entropico, siamo dotati della possibilità (divina?) di rifiutare leggi che paiono universali.

Credo inoltre che nella consapevolezza di questo nostro privilegio e nel perseguimento della saggezza e dei comportamenti conseguenti risieda la chiave di una progressiva (ri)scoperta di senso, armonia, empatia e felicità generalizzata.

Bimbi in Bhutan (National Geographic); il Bhutan ha adottato la FIL al posto del PIL, come indicatore degli standard di vita;

Se tutto ciò resterà appannaggio di pochi individui o gruppi, e sarà destinato a soccombere di fronte alla mancanza di libertà della maggioranza (di fronte quindi alla spietata termodinamica evolutiva a livello da specifico in su), o se si creerà un cambiamento collettivo, nessuno lo può sapere.

Comunque vada, io credo che tutto ciò possa dare senso, valore e forse anche felicità alla vita, anche se solo a livello individuale, di fronte a quello che si prospetta per il futuro.

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E’ tornato il picco del petrolio!

Da “Peak Oil Barrel”. Traduzione di MR (via Maurizio Tron) 

Di Ron Patterson. 

Dov’è finito tutto il petrolio? Il picco del petrolio è tornato

Una nuova ed estesa analisi scientifica pubblicata nelle “Wiley Interdisciplinary Reviews: Energy & Environment” dice che le riserve petrolifere provate secondo le indicazioni delle fonti industriali sono probabilmente “sopravvalutate” della metà. 

Secondo fonti standard come “Oil & Gas Journal”, “Revisione statistica dell’energia mondiale” della BP e della statunitense Energy Information Administration (EIA), il mondo contiene 1,7 trilioni di barili di riserve convenzionali provate. 

Tuttavia, secondo il nuovo studio del professor Michael Jefferson della  ESCP Europe Business School, un ex capo economista della major petrolifera Royal Dutch/Shell Group, questa cifra ufficiale che ha aiutato a giustificare investimenti massicci in nuova esplorazione e sviluppo, è quasi doppia rispetto alla dimensione reale delle riserve mondiali. 

La Wiley Interdisciplinary Reviews (WIRES) è una serie di pubblicazioni peer-review di alta qualità che opera revisioni autorevoli della letteratura attraverso discipline accademiche rilevanti.

Secondo il professor Michael Jefferson, che ha passato quasi 20 anni alla Shell in vari ruoli importanti, da capo della pianificazione in Europa a direttore della fornitura e commercio di petrolio, “i cinque grandi esportatori di petrolio del medio oriente hanno alterato le basi della loro definizione di riserve petrolifere convenzionali “provate” da un 90% di probabilità ad un 50% di probabilità dal 1984. Il risultato è stato un apparente (ma non vero) aumento delle loro riserve di petrolio convenzionale “provate” di circa 435 miliardi di barili”. 

Le riserve globali sono state ulteriormente gonfiate, ha scritto nel suo studio, aggiungendo le cifre delle riserve del petrolio pesante venezuelano e delle sabbie bituminose canadesi – nonostante il fatto che siano “più difficili e costose da estrarre” e generalmente di “qualità peggiore” del petrolio convenzionale. Ciò ha innalzato le stime delle riserve globali di ulteriori 440 miliardi di barili. 

La conclusione di Jefferson è netta: “Detto senza mezzi termini, l’affermazione standard che il mondo ha riserve di petrolio convenzionale provate di quasi 1,7 miliardi di barili è sovrastimata di circa 875 miliardi di barili. Così, nonostante il crollo dei prezzi del petrolio greggio da un nuovo picco nel giugno 2014, dopo quello del luglio 2008, il problema del “picco del petrolio” rimane con noi”


Lo studio citato qui è: Panoramica: una valutazione energetica globale.

Michael Jefferson

Sullo sfondo dell’enorme (parole loro) ‘valutazione globale dell’energia – VGE’ della IIASA, questo articolo dà uno sguardo più ravvicinato alle sfide poste da crescita della popolazione, povertà energetica, combustibili fossili e stoccaggio del carbonio, energie rinnovabili, efficienza energetica, catastrofi naturali e cambiamento climatico potenziale per offrire un tetro, anche se probabilmente più realistica, panoramica su ciò che riserva il futuro rispetto al risultato ottenuto dal VGE. © 2015 John Wiley & Sons, Ltd

Ho pensato che l’articolo sopra valesse un post di per sé. Dopotutto è una rivincita rispetto a quello che molti di noi stanno dicendo da anni. E richiamo la vostra attenzione particolarmente sulla frase. “L’affermazione standard che il mondo abbia riserve provate di quasi 1,7 trilioni di barili è sovrastimata di circa 875 miliardi di barili”

Ciò pone le riserve convenzionali a circa 825 miliardi di barili. Cioè OPEC + non OPEC, quindi tutte. Beh, tutto il convenzionale. E’ quasi esattamente la quantità di riserve che ho dichiarato per anni. Ho ho ripetuto questa cosa per oltre un decennio ormai e fa sentire bene avere una rivincita.

Ecco un paio di altri articoli sul picco del petrolio fra le notizie di questa settimana:

Cosa dice il GAO sul picco del petrolio?

Il 29 marzo, il Government Accountability Office (GAO), definito anche il “cane de guardia” del Congresso, ha pubblicato un attesissimo rapporto dal titolo “Petrolio greggio: incertezza sul futuro dell’offerta di petrolio rende importante lo sviluppo di una strategia per affrontare un picco e declino della produzione di petrolio”. Questo rapporto è stato avviato da una richiesta, poco più di un anno fa, del parlamentare Roscoe Bartlet, un fautore molto loquace della teoria del picco del petrolio nel Congresso statunitense. Il significato di questo rapporto non deve essere sottovalutato. Per la prima volta in Nord America un’agenzia indipendente e non di parte che lavora per il Congresso e per il popola americano è entrata nella storia affermando che il picco del petrolio è reale e mostrando preoccupazione sul fatto che il governo dovrebbe prepararsi per questo. 

La tempistica del picco è importantissima

Uno strano nuovo fenomeno economico entrerà in gioco nel momento in cui la produzione di petrolio raggiungerà il picco, trasformando completamente le normali politiche del minestero nazionale della finanza 

La ragione per cui c’è un dibattito così acceso su quando dovrebbe sopraggiungere il picco del petrolio è perché, nel punto del picco, le leggi fondamentali dell’economia che governano la produzione, il consumo e i prezzi del petrolio, si capovolgeranno in un paradigma del tutto nuovo. E siccome il petrolio è il bene chiave alla base di tutta l’attività economica nel moderno mondo industriale, il capovolgimento delle leggi economiche che governano il petrolio condizioneranno profondamente, e potenzialmente persino capovolgeranno, le leggi fondamentali dell’economia che governano l’attività industriale nel mondo.

E… pensavo che volevo aggiungere solo un paio di grafici presi dall’ultima ‘Panoramica di breve termine sull’energia’ della EIA.

La EIA prevede che il petrolio di scisto e il resto dei 48 stati meridionali continuino a declinare ma che che rallentino il declino fino a farlo giungere ad un plateau nell’ultimo trimestre del 2017 a 5,7 milioni di barili al giorno.

La manna dal cielo, come crede la EIA, arriverà dal Golfo del Messico. Dicono che la produzione del GdM raggiungerà gli 1,93 milioni di barili al giorno nel dicembre del 2017. I picchi verso in basso di agosto, settembre e ottobre del 2016 e 2017 sono ovviamente la IEA che cerca di prevedere la stagione degli uragani. Penso che qui siano eccessivamente cauti. E’ improbabile si verifichino interruzioni di questa grandezza.

E, dopo aver messo insieme i due grafici sopra ed aver poi aggiunto l’Alaska, si ottiene la produzione e la previsione qui sopra.

Jean Laherrere mi ha mandato per posta tutto quello che segue: è bello vedere che anche lui è d’accordo con l’articolo sopra.

Jefferson in questo articolo del 2016 scrive:

“detto senza mezzi termini,  L’affermazione standard che il mondo abbia riserve provate di quasi 1,7 trilioni di barili è sovrastimata di circa 875 miliardi di barili”.  

Citando il suo articolo del 2014: 16. Jefferson M. Chiudere il gap fra ricerca energetica e modellazione, scienza sociale e realtà moderne. Res Soc Sci 2014, 4:42–52. 

Da quando ho pubblicato mio grafico delle attuali riserve politicamente provate e delle 2P retrodatate nel 1998 su Scientific American (con 1700 giacimenti mancanti), ho aggiornato spesso in molti articoli questo grafico molto importante (secondo me il più importante) perché spiega l’enorme discrepanza fra la posizione degli economisti che si basano sui dati ufficiali e quella dei tecnici che si basano su dati riservati. Sono felice di vedere che la IIASA (che ha progettato gli stessi scenari energetici ottimistici per i rapporto del IPCC, in particolare per il folle CRP 8.5) mostri valutazioni più realistiche. 

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Quanto ci costa passare alle rinnovabili?

Da “Cassandra’s Legacy”. Traduzione di MR


Fonte dell’immagine. I calcoli “sul retro di una busta” sono una tradizione nella scienza è spesso si rivelano essere in grado di fornire un sacco di informazioni utili, evitando allo stesso tempo la trappola comune dei modelli complessi, quella di essere in grado di misurare tutto, ammesso che abbia sufficienti parametri regolabili. 

L’economia mondiale può essere vista come un gigantesco motore di calore. Consuma energia, principalmente sotto forma di combustibili fossili, e la usa per produrre beni e servizi. A prescindere da quanto sia messo a punto ed efficiente il motore, ha comunque bisogno di energia per funzionare. Così, se vogliamo fare il grande cambiamento che chiamiamo “transizione energetica” dai combustibili fossili alle rinnovabili, non possiamo basarci solo su efficienza e risparmio energetico. Dobbiamo alimentare la grande bestia con qualcosa che la faccia funzionare, l’energia prodotta dalle fonti rinnovabili come il fotovoltaico (FV) ed eolico sotto forma di energia elettrica.

Ecco qualche nota sul tipo di sforzo di cui abbiamo bisogno per passare ad una infrastruttura completamente rinnovabile prima che sia troppo tardi per evitare la doppia minaccia della distruzione climatica e dell’esaurimento delle risorse. Si tratta di un compito arduo: dobbiamo farlo, fondamentalmente, in circa 50 anni da adesso, probabilmente meno, altrimenti sarà troppo tardi per evitare un disastro climatico. Cerchiamo quindi un calcolo “sul retro di una busta” che possa fornire una stima di ordine di grandezza. Per una trattazione completa, vedete questo articolo di Sgouridis et al.

Cominciamo: per prima cosa, la potenza media a livello mondiale è stimata in circa 18TW in termini di energia primaria. Di questi, circa l’81% è la percentuale generata da combustibili fossili, cioè 14,5 TW. Ciò può essere preso come la porenza elettrica media che abbiamo bisogno di sostituire usando fonti rinnovabili, ipotizzando di lasciare tutto il resto più o meno com’è.

Tuttavia, dobbiamo anche tenere conto che questi 14,5TW sono il risultato della generazione di energia primaria, cioè il calore generato dalla combustione di quei combustibili. Molto di quel calore è calore residuo, mentre le rinnovabili (escludendo i biocombustibili) generano direttamente energia elettrica. Se teniamo conto di questo fattore, possiamo dividere il totale per un fattore di circa 3. Così potremmo dire che potremmo essere in grado di mantenere in funzione il motore con 5TW di energia elettrica media rinnovabile. Ciò potrebbe essere ottimistici perché un sacco di calore generato dai combustibili fossili viene usato per il riscaldamento domestico, ma si basa sull’idea che la civiltà abbia bisogno di elettricità più di qualsiasi altra cosa per sopravvivere. In termini di riscaldamento domestico, la civiltà sopravvive anche se abbassiamo il termostato, indossiamo più strati di lana ed accendiamo un piccolo fuoco di legna.

Le installazioni rinnovabili vengono di solito descritte in termini di “capacità”, misurate in Watt di picco” (Wp), cioè l’elettricità che l’impianto può generare in condizioni ottimali. Ciò dipende dalle tecnologie usate. Partendo dai dati NREL, un fattore di capacità media ragionevole che può essere preso per un mix di rinnovabili è di circa il 20%. Così, 5 TW di potenza media hanno bisogno di 25TWp di capacità installate. Dobbiamo tenere conto di molti altri fattori, come l’intermittenza, che potrebbe richiedere lo stoccaggio e/o qualche tipo di potenza di riserva, ma anche di miglior efficienza, di necessità di gestione e stoccaggio. Nel complesso, potremmo dire che questi requisiti si cancellano a vicenda. Così, 25TWp possono essere visti come il minimo indispensabile per sopravvivere, ma è comunque stima di ordine di grandezza ragionevole. Poi che abbiamo? La capacità rinnovabile attualmente installata è di circa 1,8TWp, circa il 7%. Chiaramente, dobbiamo crescere e crescere molto.

Vediamo cosa abbiamo fatto finora. (I valori nella figura sotto sembrano escludere i grandi impianti idroelettrici, che comunque hanno un potenziale di crescita limitato).

Come potete vedere, abbiamo aumentato la potenza installata ogni anno. Secondo Bloomberg, la capacità installata ha raggiunto circa 134 GWp nel 2015. Se questo valore viene confrontato coi dati di IRENA data, sopra, vediamo che la crescita delle installazioni sta rallentando. Eppure, 134 Gwp/anno non è male. L’industria dell’energia rinnovabile è viva e sta bene, in tutto il mondo.

Ora, andiamo al nocciolo della materia: cosa dobbiamo fare per ottenere la transizione e per ottenerla sufficientemente in fretta?

Chiaramente, 130 GWp all’anno non è abbastanza. A questo tasso, avremmo bisogno di due secoli per arrivare a 25TWp. In realtà, non ci arriveremmo mai: ipotizzando un tempo medio di vita degli impianti di 30 anni, raggiungeremmo solo circa 4TWp e poi tutte le nuove installazioni verrebbero usate per sostituire i vecchi impianti, man mano che questi si deteriorano. Ma potremmo raggiungere i 25TWp in 30 anni se potessimo raggiungere e conservare un tasso di crescita di 800 GWp all’anno, circa 6 volte più grande di quanto facciamo oggi (notate che ciò non tiene conto della necessità si sostituire le vecchie centrali ma, se ipotizziamo una vita media di 30 anni, il calcolo rimane approssimativamente valido da qui al 2050).

Potremmo non aver bisogno di raggiungere il 100% di elettricità rinnovabile entro il 2050; l’80% o anche di meno potrebbe essere abbastanza. In tal caso, potremmo farcela con circa 500 Gwp/anno. Ancora un tasso molto maggiore di quello che abbiamo oggi. E se riusciamo ad arrivarci, diciamo, anche solo al 50% di elettricità rinnovabile entro il 2050, allora avremo creato un colosso rinnovabile che porterà al 100% in un tempo relativamente breve. D’altra parte, come ho detto prima, 25TWp potrebbe essere ottimistico e potremmo avere bisogno di più di questo. Nel complesso, direi che 1TWp/anno sia una stima buona come ordine di grandezza dell’energia necessaria per la sopravvivenza della civiltà per come la conosciamo. Circa un fattore di 8 più alto di quello che abbiamo fatto finora.

Questi calcoli sul retro della busta arrivano a risultati compatibili con quelli dei calcoli più dettagliati di Sgouridis et al. Quello studio fa ipotesi più stringenti e dettagliate, come la necessità di un graduale accumulo degli impianti di produzione, la necessità di sovrastimare la capacità di tener conto dell’intermittenza, il rendimento energetico degli impianti (*) ed altro. Alla fine giunge alla conclusione che dobbiamo installare almeno 5TWp all’anno per una transizione di successo (e che, a proposito, se facciamo così possiamo evitare di superare la soglia dei 2°C di riscaldamento). Questo è certamente più realistico dell’attuale calcolo, ma atteniamoci a questa busta scarabocchiata come approccio minimalista. Diciamo che, solo perché la civiltà sopravviva, dobbiamo installare 1TWp all’anno per i prossimi 30 anni, quanto costerebbe?

Vediamo quanto abbiamo speso finora, ancora da Bloomberg:

Immagine da Investimenti in energia pulita di Bloomberg, 2004-2015, in miliardi di dollari 

Come vedete, gli investimenti in energia rinnovabile sono aumentati rapidamente fino al 2011, poi sono rimasti stabili al valore del 2015 solo di poco più alto di quello del 2011. Tuttavia, se lo confrontiamo con la figura precedente, vediamo che abbiamo ottenuto più Watt per dollaro. In parte  è a causa degli investimenti fatti in precedenza, in parte a causa dei miglioramenti delle tecnologie rinnovabili che hanno ridotto il costo per kWp. Ma notate che i miglioramenti tecnologici tendono a mostrare ritorni decrescenti. Il costo dell’energia rinnovabile in termini di watt/dollaro è sceso così rapidamente e così tanto che da adesso in poi potrebbe essere difficile ottenere lo stesso tipo di miglioramento radicale, eccetto in caso di sviluppo di qualche nuova tecnologia miracolosa. Tenete anche conto del fatto che il miglioramento tecnologico potrebbe essere compensato dai costi in aumento delle risorse minerali necessarie per gli impianti.

Abbiamo detto che dobbiamo aumentare il tasso di installazione di un fattore di circa 8 in termini energetici. Ipotizzando che il costo dell’energia rinnovabile non cambierà radicalmente in futuro, gli investimenti monetari dovrebbero essere più o meno dello stesso fattore. Ciò significa che dobbiamo passare dall’attuale valore di circa 280 miliardi di dollari all’anno a circa 2 trilioni di dollari/anno. Sono un bel po’ di soldi, ma non una quantità impensabile. Se sommiamo ciò che stiamo investendo per i fossili (circa 1 trilione di dollari all’anno), per le rinnovabili (300 miliardi di dollari all’anno) e per il nucleare (forse 200 miliardi di dollari/anno) vediamo che non ci andiamo molto lontani, come possiamo vedere dall’immagine sotto. La quantità totale annuale investita nel mondo per la fornitura energetica equivale a circa il 2% del PIL, che oggi ammonta a circa 78 trilioni di dollari statunitensi.

 Ed eccoci qui. Il risultato finale di questo esercizio è, penso, quello di inquadrare la transizione come modello “a portata di mente” (per usare un termine coniato da Seymour Papert). Di base, risulta che, salvo miracoli tecnologici, una transizione dolce dai fossili alle rinnovabili probabilmente è impossibile, semplicemente perché il modo attuale di vedere i problemi dell’umanità rende impossibile persino concepire uno spostamento così massiccio di investimenti come sarebbe necessario (notando anche che gli investimenti in rinnovabili non sono aumentati significativamente dal 2011 – molto male).

Questo calcolo ci dice anche che non è impensabile andare avanti nella giusta direzione ed ottenere una transizione che ci permetterebbe di conservare perlomeno alcune caratteristiche della civiltà attuale. Cioè, se siamo disposti ad investire in energia rinnovabile il nostro destino non è necessariamente quello di tornare al medioevo o a tornare cacciatori/raccoglitori (o persino l’estinzione, visto che sembra essere un futuro affascinante in certi circoli). La transizione sarà rude, sarà difficile, ma non sarà necessariamente l’Apocalisse che in tanti prevedono.

In ogni caso, un qualche tipo di transizione è inevitabile; i combustibili fossili non hanno semplicemente un futuro. Ma la civiltà potrebbe ancora avere un futuro: tutti gli investimenti in energia rinnovabile che possiamo riuscire a fare oggi per la transizione faranno la differenza in futuro. Si tratta di una scelta che possiamo ancora fare.

(*) Nota: in questo calcolo semplificato non ho specificato da dove verrà l’energia necessaria a costruire la nuova infrastruttura e non ho usato il concetto di EROEI. Viene tenuto in conto in modo dettagliato nei calcoli di Sgouridis et al nei termini del concetto della “Strategia del seminatore”, che ipotizza che i combustibili fossili forniscano l’energia necessaria durante le fasi iniziali della transizione, poi questi vengono gradualmente sostituiti dall’energia rinnovabile.

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Il cambiamento climatico è la più grossa minaccia alla civiltà umana

Da “wunderground”. Traduzione di MR

Di Jeff Masters

La più grande minaccia del cambiamento climatico alla civiltà nei prossimi 40 anni saranno probabilmente le siccità e le alluvioni estreme amplificate dal cambiamento climatico che colpiscono molteplici colture di “paniere” simultaneamente. Un rapporto sullo “Shock del sistema alimentare” pubblicato nel 2015 dai giganti delle assicurazioni Lloyds di Londra ha sottolineato uno shock estremo plausibile alla produzione globale di cibo che potrebbe causare rivolte, attacchi terroristici, guerre civili, fame di massa e perdite gravi per l’economia globale. Il loro scenario, al quale i Lloyds hanno dato delle scomode ed alte possibilità che si verifichi – significativamente più alte dello 0,5% all’anno, che determina una possibilità di almeno il 18% che si verifichi nei prossimi 40 anno – dice questo:

Un forte evento de El Niño si sviluppa nell’Oceano pacifico equatoriale. Gravi siccità tipiche de El Niño colpiscono l’India, il sudest dell’Australia e il sudest asiatico, causando le seguenti perdite di raccolti (notate che grano, riso e mais costituiscono oltre il 50% di tutta la produzione agricola in tutto il mondo):

India (primo esportatore mondiale di riso e settimo di grano: grano -11%, riso -18%
Vietnam (secondo esportatore al mondo di riso): riso -20%
Australia (terzo esportatore al mondo di grano): grano -50%
Bangladesh, Indonesia, Thailandia, Filippine: riso da -6% a -10%

Alluvioni storiche colpiscono i fiumi Mississippi e Missouri, riducendo la produzione di mais negli Stati Uniti del 27%, di soia del 19% e di grano del 7%. Bangladesh, India nordorientale e Pakistan vedono grandi perdite di raccolti dovuti a piogge torrenziali, alluvioni e frane, col Pakistan che perde il 10% del suo raccolto di grano.

Figura 1. Alluvione storica sul fiume Missouri il 30 luglio 1993, poco più a nord di Jefferson City. Le alluvioni nel Midwest del 1993 hanno causato una perdita del 33% della produzione di mais degli Stati Uniti. Immagine: Missouri Highway and Transportation Department.
Oltre al meteo avverso, le colture a livello globale sono attaccate da due grandi malattie: ruggine asiatica della soia e ruggine dello stelo del grano Ug99, che causano un 5-15% di perdita di raccolti in Argentina, Brasile, Turchia, Kazakistan, Ucraina, Pakistan ed India. La doppia piaga di meteo/malattia delle piante causa una diminuzione globale di mais del 10%, di soia del 11% e di riso del 7%. I prezzi di grano, mais e soia si impennano al quadruplo dei livelli visti intono al 2000. I prezzi del riso quintuplicano in quanto l’India compra da esportatori più piccoli a seguito delle restrizioni imposte dalla Thailandia. Le sommosse per il cibo scoppiano nelle aree urbane in tutto il Medio Oriente, Nord Africa e America Latina. L’euro si indebolisce e le principali borse europee perdono il 10% del loro valore; le borse americane perdono il 5% del loro valore. Lo scenario menziona la possibilità di una guerra civile in Nigeria, di una carestia che minaccia di uccidere un milione di persone in Bangladesh e del fallimento del Mali. Attacchi terroristici negli Stati Uniti, insieme alle preoccupazioni sulle tensioni militari accresciute fra Russia e NATO, oltre al conflitto fra India e Pakistan, causano grandi perdite in borsa.
Figura 2. Turisti che indossano mascherine mentre camminano nella Piazza Rossa a Mosca, il 6 agosto 2010. Mosca è stata avvolta da uno smog denso che ha tenuto a terra i voli degli aeroporti internazionali e si è infiltrato nelle case e negli uffici, dovuto agli incendi peggiorati dall’ondata di calore più intensa della storia della città. L’ondata di calore e gli incendi durante l’estate del 2010 hanno ucciso oltre 55.000 persone in Russia e decimato il raccolto di grano della Russia, causando un picco dei prezzi globali del cibo. (AP Photo/Mikhail Metzel)
Un’analogia storica: il meteo estremo del 2010
Il meteo estremo del 2010 – che nelle mie speculazioni è stato il meteo più estremo per la Terra dal celebre “anno senza estate del 1816 – ha mostrato che eventi meteo estremi multipli in grandi aree che producono cereali possono di fatto causare pericolosi shock al sistema alimentare globale. Ciò era inatteso all’inizio del 2010, quando nel suo rapporto di gennaio sulle stime della domanda e dell’offerta agricola il Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti prevedeva una maggiore produzione globale di grano e prezzi più bassi per il 2010-2011. Ma il meteo estremo ha cominciato un drammatico assalto alle nazioni produttrici di cereali del mondo nella primavera del 2010, quando precipitazioni record in Canada, il secondo più grande esportatore di grano dopo gli Stati Uniti, ha tagliato il raccolto di grano del Canada del 14%. Quando la primavera è diventata estate, il jet stream è rimasto “bloccato” in un anello insolito che ha mantenuto sistemi di aria fredda e bassa pressione portatrice di pioggia  dal nord all’est della Russia, portando al Pakistan le alluvioni più costose della sua storia ed un declino del 12% della sua produzione di grano. Lo schema “bloccato” del jet stream ha fatto sì che una titanica ondata di calore ed una siccità straordinaria avviluppassero Russia ed Ucraina. Il caldo record di Mosca è stato eguagliato o superato cinque volte in un periodo di due settimane. Oltre un migliaio di russi che cercavano di sfuggire al calore sono annegati in acqua e un altro migliaio è morto per il calore ed inalando smog e fumi tossici provenienti dagli enormi incendi. In tutto, sono morte 55.736 persone nell’ondata di calore – la seconda più mortale mai registrata nella storia umana, seconda solo a quella europea del 2003 (oltre 77.000 morti). Gli incendi in Russia nel 2010 hanno bruciato più di 1 milione di ettari, il 25% della produzione di cereali è andata perduta e le perdite economiche hanno raggiunto i 15 miliardi di dollari – l’1% del PIL russo. La siccità ha tagliato il raccolto di grano del 33% e danneggiato i suoli a tal punto che non è stato possibile seminare il 10% dei campi di grano russi nel 2011. La Russia – il quarto maggior esportatore al mondo di grano, costituendo il 14% degli scambi globali di grano – ha reagito imponendo un divieto di esportazione su grano, orzo e segale, man mano che la paura di impennate del prezzo interno o di carenze aumentava. La vicina Ucraina, il sesto maggior esportatore di grano, ha visto una diminuzione del 18% del proprio raccolto di grano a causa dell’estrema siccità, calore e incendi ed ha ridotto le esportazioni di grano del 54%.

Figura 3. Tunisini che portano pagnotte di pane gridano slogan e si scontrano con la polizia antisommossa durante una manifestazione contro il nuovo governo del paese a Tunisi il 18 gennaio 2011. La polizia antisommossa ha sparato gas lacrimogeni e disperso la manifestazione. Immagine: MARTIN BUREAU/AFP/Getty Images.

L’impatto: i prezzi del grano raddoppiano; esplodono sommosse per il cibo
In conseguenza del meteo estremo globale del 2010, il prezzo del grano è più che raddoppiato da circa 4 dollari a bushel nel luglio 2010 a 8,50 – 9 dollari nel febbraio 2011. Questi aumenti di prezzo hanno colpito le nazioni del Medio Oriente e Nord Africa in modo particolarmente duro, visto che importano più cibo pro capite di qualsiasi altra regione del mondo a causa delle loro scarse riserve di acqua e alla mancanza di terreno coltivabile. Secondo un rapporto del 2013, “La primavera araba e il cambiamento climatico” – pubblicato da Centro per il progresso Americano, Centro Stimson e Centro per il Clima e la Sicurezza – i principali nove importatori di grano sono tutti in Medio Oriente; sette hanno avuto dure proteste politiche che hanno portato a morti fra i civili nel 2011 e gli aumenti del prezzo del cibo sono stati identificati come una grande causa che ha contribuito al disordine sociale. 

Lo scenario shock dei Lloyds: probabile per almeno il 18% nei prossimi 40 anni?
Fortunatamente, molti degli eventi meteo estremi previsti nello scenario dei Lloyds non si sono verificati nel 2010: siccità in India, siccità in Australia ed alluvioni record negli Stati Uniti. Tuttavia, molti eventi meteo estremi storici hanno causato il tipo di perdita di raccolti previsti nello scenario dei Lloyds – semplicemente non hanno colpito tutti allo stesso tempo. La chiave principale per la realizzazione dello scenario dei Lloyds è quella di avere un evento meteo estremo che causi una grande perdita nel raccolto di mais negli Stati Uniti, visto che quella statunitense costituisce il 40% della produzione di mais globale e il 50% delle esportazioni globali di mais (FAOSTAT, 2013). Gli Stati Uniti hanno visto quattro eventi meteo estremi negli ultimi 40 anni che hanno causato una diminuzione di almeno il 25% della produzione di mais ( al pari della riduzione del 27% data nello scenario dei Lloyds):
1983 (siccità e recessione economica hanno causato una perdita del 49% della produzione di mais)
1988 (la siccità ha causato una perdita del 31% della produzione di mais) 
1993 (le alluvioni nel Midwest hanno causato un 33% di perdita della produzione di mais)
1995 (le ondate di calore e un’infestazione di piralide del mais ha causato una perdita del 26% della produzione di mais)
 Una seconda chiave per la realizzazione dello scenario dei Lloyds scenario è quella di avere ulteriori eventi meteo estremi che distruggono i raccolti in almeno altre due grandi regioni produttrici di cereali. Un buon candidato sarebbe l’India, visto che è il maggior esportatore al mondo di riso. Negli ultimi 40 anni, ci sono state cinque siccità in India che hanno causato almeno una diminuzione del 10% del raccolto di riso, la peggiore è stata la diminuzione del 23% nel 2002 (lo scenario dei Lloyds ha previsto una diminuzione del 18% della produzione di riso dell’India). Un altro buon candidato per uno shock di sistema alimentare dovuto a meteo estremo sarebbe una siccità in Australia, il terzo esportatore di grano del mondo. L’Australia ha vissuto otto siccità negli ultimi 40 anni che hanno causato almeno un 25% di perdita della produzione di grano. La peggiore è stata nel 2002, che ha causato un declino del 58% della produzione di grano (lo scenario dei Lloyds ha previsto una diminuzione della produzione australiana di grano del 50%). 
Ora facciamo qualche conto approssimativo. Usando gli ultimi 40 anni come linea guida, dovremmo vedere il 10% di possibilità di vedere un evento negli Stati Uniti, il 20% di possibilità di un evento australiano e il 12% di possibilità di un evento indiano, tutti che colpiscono nello stesso anno. Moltiplicando fra loro queste probabilità ci da lo 0,25% di possibilità che lo scenario dei Lloyds si verifichi in un dato anno – una cosa che ci aspetteremmo che accadesse solo una volta ogni 400 anni. Si potrebbe obbiettare che oltre a tutto questo servirebbe una grande epidemia fra le colture – rendendo potenzialmente lo scenario dei Lloyds probabile 1 volta ogni mille anni o più raro. Tuttavia, non sarebbe necessario che il meteo estremo si verifichi nelle esatte ubicazioni non statunitensi specificate nello scenario dei Lloyds – specificatamente India e Australia – per avere impatti globali devastanti. Una grave siccità in Europa, Cina o Sud America potrebbe atrettanto facilmente combinarsi con un evento statunitense per far sì che si verifichino gli impatti dello scenario dei Lloyds. Pertanto, la mia stima approssimativa è che lo scenario dei Lloyds è inquadrabile nella gamma di probabilità fra uno ogni cento ed uno ogni 200 anni. Un evento di 1 ogni 200 anni che ha la probabilità dello 0,5% di verificarsi in un dato anno ha un 18% di possibilità di verificarsi se sommato su un periodo di 40 anni: : 100 – 100*(.995)^40 = 18%. I Lloyds stessi dicono che le probabilità che uno scenario come da loro sottolineato possa verificarsi sono “significativamente alte” che 1 ogni 200 anni. Se ipotizziamo che lo scenario dei Lloyds ha una probabilità del 1% di verificarsi in un dato anno – evento 1 volta ogni cento anni – c’è un 33% di possibilità che un evento del genere si verifichi almeno una volta in un periodo di 40 anni.

Figura 4. Proporzione delle calorie totali provenienti dalle quattro principali colture (mais, grano, riso e soia) per paese. Stati Uniti, Cina ed India sono i leader mondiali. Se grandi siccità o alluvioni che danneggiano i raccolti colpissero tutte e tre le nazioni simultaneamente sarebbe un grande colpo al sistema alimentare mondiale. Immagine: UK-US Taskforce on Extreme Weather and Global Food System Resilience, 2015.

Lo scenario dei Lloyds sarà sempre più probabile nei prossimi decenni
Sfortunatamente, un grave shock al sistema alimentare globale diventerà sempre più probabile nei prossimi decenni. Secondo uno studio indipendente sullo shock alimentare da parte della task force Regno Unito-Stati Uniti sul meteo estremo e la resilienza del sistema alimentare globale, le probabilità di uno shock alimentare dovuto al meteo estremo capace di ridurre la produzione di mais, soia, grano e riso del 5-7% crescerà dal 1% all’anno ad oltre il 3% all’anno entro il 2040. L’aumentata vulnerabilità si verificherà a causa di cambiamento climatico, crescita della popolazione, diminuzione della disponibilità di acqua, allarmante riduzione degli insetti impollinatori come le api, perdita di suolo e passaggio ad un maggior consumo di carne a livello globale. Circa 805 milioni di persone nel mondo sono denutrite, secondo le Nazioni Unite e questo numero crescerà man mano che la popolazione aumenta da 7,3 miliardi di adesso ai 9,6 miliardi previsti per il 2050 – prevalentemente in Africa ed altre regioni in via di sviluppo. La FAO prevede che la produzione agricola globale dovrà più che raddoppiare entro il 2050 per coprire il divario fra offerta e domanda. La scarsità d’acqua, dovuta in parte al pompaggio insostenibile di risorse idriche di falda per l’agricoltura, sta accelerando ad un ritmo tale che i due terzi della popolazione mondiale potrebbe vivere in condizioni di stress idrico entro il 2025. Mentre un aumento di calore e biossido di carbonio darà vantaggi in alcune aree, gli scienziati credono che il cambiamento climatico avrà un effetto negativo netto complessivo sui rendimenti agricoli e sulla pesca in futuro. Le malattie delle piante e il danno degli insetti sono a loro volta attesi in forte aumento in un clima più caldo. Nei quattro maggiori paesi produttori di riso – Cina, India, Bangladesh e Thailandia – attualmente gli insetti causa una perdita del 10-20% del raccolto e questo è previsto in aumento fino al 20-30% entro il 2100.
Queste nazioni hanno il 40% della popolazione mondiale e producono il 60% del riso mondiale. Per il mais, si prevede che i quattro maggiori produttori – Stati Uniti, Cina, Francia e Argentina – vedranno perdite da parassiti dal 6 al 12%. La storia è simile per il grano: si prevede che le perdite per parassiti raddoppieranno dal 10 al 20% entro il 2100. 
Figura 5. Il prezzo globale del cibo fra il 1990 e il gennaio 2016, come misurato dall’Indice dei Prezzi dei Generi Alimentari della FAO. L’Indice dei Prezzi dei Generi Alimentari della FAOè una misura della variazione mensile dei prezzi internazionali di un paniere di beni alimentari. Consiste nella media degli indici dei prezzi di cereali, oli e grassi, zucchero, latticini e carne, ponderati dalle quote medie di esportazione di ogni gruppo. Ai prezzi dei generi alimentari fra il 2002 e il 2004 è stato attribuito un valore di riferimento di “100”. Grazie alla siccità russa del 2010, i prezzi globali dei generi alimentari all’inizio del 2011 sono stati i più alti dalle crisi alimentari del 1972 – 1974. I prezzi dei generi alimentari sono però. Immagine: FAO.
Lo scenario dei Lloyds è meno probabile del solito quest’anno
Le probabilità che lo scenario dei Lloyds si avveri nel 2016 probabilmente sono inferiori alla media, fortunatamente, anche se siamo appena usciti da un forte evento de El Niño come previsto nello scenario stesso. L’attuale evento de El Niño non ha portato ad alluvioni record nel Midwest degli Stati Uniti a dicembre, ma la panoramica sulle alluvioni a tre mesi del NOAA non parla di nessuna grande alluvione nelle principali aree di coltura dei cereali degli Stati Uniti in questa primavera, grazie al relativamente esiguo manto nevoso lasciato da un inverno mite nel Midwest settentrionale.  El Niño del 2015 ha tagliato le precipitazioni in India del 14% nella sua stagione dei monsoni, ma questo a portato ad un declino di solo l1% della sua produzione di riso e ad un declino del 7% del grano. Lo scenario dei Lloyds prevedeva declini del 18% e 11% di queste colture rispettivamente (anche se la continua siccità in india fino ad aprile 2016, con oltre 600 milioni di dollari di danni agricoli finora a gennaio – marzo 2016). I prezzi del cibo all’inizio del 2016 erano ad un minimo in 10 anni, rendendo uno shock alimentare dovuto al meteo estremo meno probabile di quanto non fosse nel 2010, quando i prezzi del cibo erano già alti. Tuttavia, sono diventato sempre più diffidente sulla stabilità del clima negli ultimi anni. Temperature record che hanno di gran lunga superato la storia registrata hanno colpito il globo negli ultimi tre mesi e questo calore record potrebbe portare ad alcuni eventi di meteo estremo senza precedenti a memoria umana questa estate. Nelle sue previsioni per aprile 2016, il solitamente affidabile modello europeo prevedeva un’estate molto calda nelle aree che producono cereali del Midwest degli Stati Uniti. Questa previsione è stata persino più calda della previsione del modello di aprile 2012 per l’estate 2012, che è si è poi rilevata essere la seconda estate più calda della storia degli Stati Uniti, con un’intensa siccità che ha portato a perdite dei raccolti che superavano i 31 miliardi di dollari. Una siccità come questa associata ad una siccità record in altri due panieri mondiali potrebbe innescare uno scenario alla Lloyds.
Figura 6. La velocità del vento verso nord (i valori negativi, blu sulla mappa, indicano i flussi verso sud) ad un’altitudine di 300 mb alle medie latitudini dell’emisfero settentrionale durante il luglio del 2011 e del 1980. Il luglio del 2011ha registrato un’ondata di calore insolitamente intensa e di lunga durata negli Stati Uniti e le onde normalmente deboli ed irregolari (come osservato durante il relativamente normale luglio del 1980) sono state sostituite da uno schema forte e regolare di onde. Uno schema di jet stream analogamente estremo è stato osservato durante l’estate del 2010, quando la siccità catastrofica in Russia ha portato ad un enorme impennata dei prezzi globali del cibo. Immagine: Vladimir Petoukhov.
Il meteo estremo capace di innescare lo scenario dei Lloyds sta diventando più comune
Se vi sembra che il meteo degli ultimi anni sia diventato più pazzo di quanto ricordiate da oltre 20 anni, avete ragione. Come ho detto in un post del marzo del 2013, “I flussi dei modelli atmosferici sono favorevoli all’aumento del meteo estremo estivo?“, una ricerca pubblicata dall’Istituto Potsdam per la Ricerca sull’Impatto Climatico (PIK) in Germania, ha scoperto che gli schemi estremi del jet stream estivo erano diventati il doppio più comuni durante il periodo 2001-2012 in confronto ai 22 anni precedenti. Uno di questi schemi estremi si è verificato nell’estate del 2010, portando la siccità russa che ha innescato l’impennata dei prezzi del cibo corresponsabili delle rivolte della “Primavera araba”. Quando il jet stream passa ad una di queste configurazioni estreme, si blocca nella sua posizione per settimane, portando ad un periodo esteso di calore o di alluvioni, a seconda del lato in cui si trova la parte di grande ampiezza. Gli scienziati hanno scoperto che siccome il riscaldamento globale antropogenico sta causando un riscaldamento dell’Artico il doppio più rapidamente del resto del pianeta, ne risultava un unico schema di risonanza in grado di causare questo comportamento. Questa specie di comportamento del jet stream rende molto più probabile che si verifichi uno shock alimentare da meteo estremo, visto che gli eventi di meteo estremo colpiscono diverse aree del pianeta simultaneamente per lunghi periodo di tempo.   
Prevedo che il tipo di eventi di meteo estremo a triplo assalto in grado di causare uno scenario di shock alimentare, simili nell’impatto a quello dello scenario dei Lloyds, aumenterà in probabilità, diventando un evento da una volte ogni 50 anni fra 40 anni – un 2% di possibilità che si verifichi in un dato anno – a causa della natura sempre più estrema del jet stream, se combinata con l’aumento in corso di temperature globali, intensità delle siccità ed eventi di forti precipitazioni. Ciò significa che è probabile che vedremo accadere qualcosa che causa l’impatto dello scenario dei Lloyds nei prossimi 40 anni – una distruzione significativa dell’economia globale, intensa agitazione politica, guerra e minaccia di carestie di massa. Il maggior gruppo di ricerca scientifica della nazione, il Consiglio Nazionale di Ricerca, ha pronunciato queste parole di avvertimento nel suo studio del 2012 intitolato, “Clima e stress sociale: analisi delle implicazioni per la sicurezza“: “aspettiamoci sorprese climatiche nel prossimo decennio, compresi singoli eventi inaspettati e potenzialmente distruttivi così come congiunzioni di eventi che si verificano simultaneamente o in sequenza e che questi diventino progressivamente più gravi e più frequenti da quel momento in poi, molto probabilmente ad un tasso accelerato. Le sorprese climatiche potrebbero colpire regioni particolari o sistemi integrati a livello globale, come i mercati dei cereali, che presiedono al benessere umano”. Si potrebbe obbiettare che un evento del genere è già avvenuto, in quanto una siccità collegata al cambiamento climatico è stata identificata come la causa chiave dell’attuale guerra civile in Siria.
Comunque, c’è la speranza che ce la faremo. Il sistema globale agricolo ha mostrato una resilienza impressionante in qualcosa di più che soddisfare la domanda di una popolazione in crescita negli ultimi 50 anni. L’accordo di Parigi del dicembre 2015 – l’impegno delle nazioni del mondo a decarbonizzare le nostre economie – dovrebbe portare a cambiamenti a lungo termine al sistema alimentare globale che dovrebbero rendere meno probabile il verificarsi dello scenario dei Lloyds. Secondo un rapporto dell’ottobre 2015 della Banca Mondiale, “Futuro del cibo: plasmare un sistema alimentare globale intelligente, una gamma crescente e differenziata di pratiche chiamate “Agricoltura climaticamente intelligente” stanno mostrando che è possibile ottenere simultaneamente una maggiore produttività agricola, maggiore resilienza climatica e minori emissioni di gas serra. 

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Il grande dolore: come affrontare il collasso del nostro mondo

Da “Common Dreams”. Traduzione di MR (via Bodhi Paul Chefurka)

Per rispondere adeguatamente, prima potremmo aver bisogno di elaborare il lutto

Di Per Espen Stoknes

‘Affrontare la perdita del nostro mondo’, dice Stoknes, ‘ci impone di scendere nella rabbia, nel pianto e nella tristezza, non di aggirarli per saltare sul carro dell’ottimismo o scappare nell’indifferenza’ (Foto: Nikola Jones/flickr/cc)

Gli scienziati del clima dicono in modo schiacciante che affronteremo un riscaldamento senza precedenti nei prossimi decenni. Quegli stessi scienziati, proprio come voi e me, lottano con le emozioni che vengono evocate da questi fatti e da queste terribili previsioni. I miei figli – che ora hanno 12 e 16 anni – potrebbero vivere in un mondo più caldo che in qualsiasi altro momento nei precedenti 3 milioni di anni e potrebbero affrontare sfide che stiamo appena cominciando a contemplare e in molti modi potrebbero venire privati del mondo ricco e variegato nel quale siamo cresciuti. Come ci relazioniamo – e come conviviamo – con questa triste consapevolezza?
Fra diverse popolazioni, i ricercatori di psicologia hanno documentato un lungo elenco di conseguenze per la saluta mentale del cambiamento climatico: traumi, shock, stress, ansia, depressione, lutto complicato, tensioni sulle relazioni sociali, abuso di sostanze, senso di disperazione, fatalismo, rassegnazione, perdita di autonomia e senso del controllo, così come perdita di identità personale ed occupazionale.


Questa tristezza più che personale è ciò che chiamo il “Grande Dolore” – un sentimento che emerge in noi come se provenisse dalla Terra stessa. Forse orsi e delfini, foreste abbattute, fiumi sporchi ed oceani acidificati e imbottiti di plastica portano a loro volta del dolore dentro di sé, proprio come facciamo noi. Ogni nuovo articolo sul clima arriva sempre di più con un senso di terrore: è troppo tardi per tornare indietro? L’idea che il nostro dolore personale e la nostra perdita emotiva possa realmente essere una reazione al declino della nostra aria, acqua ed ecologia, raramente compare nelle conversazioni o nei media. Può manifestarsi come paure su quale tipo di mondo affronteranno in nostri figli e le nostre figlie. Ma dove li portiamo? Alcuni li riportano privatamente ad un terapeuta. E’ come se questo argomento non debba essere discusso pubblicamente.

Questo Grande Dolore di recente è riaffiorato per me leggendo la notizia sul corallo che è sul punto di morire a causa del riscaldamento degli oceani così come l’eccesso di pesca all’austromerluzzo negli oceani imbottiti di plastica della Patagonia. Quest’ondata montante arriva dal profondo dei mari, dalla spietatezza e dalla tristezza della distruzione in atto? O è solo un capriccio personale? Come psicologo ho imparato a non deridere certe reazioni o movimenti dell’animo, ma ad onorarli.
Un corpus di ricerca crescente ha portato prove da gruppi focalizzati ed interviste con persone colpite da siccità, alluvioni ed erosione delle coste. Se spinti, i partecipanti esprimono una profonda angoscia per le perdite che stanno portando le distruzioni climatiche. La cosa è anche aggravata da quello che percepiscono come una risposta locale, nazionale e globale inadeguata e frammentata. In uno studio della ricercatrice Susanne Moser sulle comunità costiere, uno dei partecipanti tipo racconta: “Si insinua davvero dentro, la realtà di quello che cerchiamo trattenere. E sembra quasi futile, con tutte le agenzie governative che si mettono in mezzo, il costo enorme di fare qualcosa del genere – sembra senza speranza. Ed è piuttosto deprimente, perché amo questo posto”. In un altro studio della sociologa Kari Norgaard, un partecipante che vive lungo un fiume esclama: “E’ come se volessi essere una persona orgogliosa e se attingessi la tua identità dal fiume, quando il fiume è degradato, ciò si riflette su di te”. Un’altro informatore che ha vissuto una lunga siccità ha spiegato alla squadra del professor Glenn Albrecht che anche se “hai una piscina,in realtà non vuoi uscire, è disgustoso fuori, è meglio non uscire”.

Una recende indagine climatica del “Progetto Yale sulla comunicazione del cambiamento climatico” e del “Centro per la comunicazione del cambiamento climatico” dell’Università George Mason conteneva questa statistica sorprendente: “Gran parte degli americani (74%) dice che solo ‘raramente’ o ‘mai’ parla del riscaldamento globale con la famiglia e gli amici, un numero che è cresciuto in modo sostanziale dal 2008 (64%)”.

Queste citazioni e statistiche sottolineano la realtà che molti preferiscono evitare o sulla quale non soffermarsi – questa Terra Oscura di eco ansia, rabbia, disperazione e depressione. Una delle funzioni di miglioramento della vita essenziali del negazionismo è quella di farci sentire più a nostro agio cancellando questa oscurità interiore invernale.

L’indagine climatica, tuttavia, contiene anche questa incoraggiante scoperta: “E’ nove volte più probabile che gli americani propendano per la visione che sia responsabilità delle persone aver cura della Terra e delle sue risorse (62%) che non per la credenza che sia nostro diritto usare la Terra e le sue risorse a nostro beneficio (7%).

Così, invece di continuare ad evitare questo disturbo, questo dolore e disperazione, o dare la colpa a multinazionali, politici, i business agricoli, i tagliaboschi o i burocrati corrotti di averli provocati, potremmo provare ad appoggiarci a tali sentimenti ed accettarli. Potremmo riconoscerli per quello che sono piuttosto che liquidarli come sbagliati, come una debolezza personale o la colpa di qualcun altro. Sembra in qualche modo importante perseverare ed entrare in contatto con la disperazione stessa, in quanto questa emerge dal degrado del mondo naturale. Come cultura potremmo svelare alcune verità ad essa nascoste tramite sentimenti che tendiamo a screditare come deprimenti. Queste verità comprendono che questi sentimenti riflettono accuratamente lo stato dell’ecologia nel nostro mondo. Più di metà degli animali sono scomparsi negli ultimi quaranta anni, secondo il Living Planet Index. Gran parte degli ecosistemi sono stati degradati o usati in modo insostenibile, secondo il Millennium Assessment Report. Viviamo all’interno di un evento di estinzione di massa, come dicono molti biologi, ma senza quasi farci caso.

Per rispondere adeguatamente potremmo aver bisogno di piangere queste perdite. Piangere in modo insufficiente ci mantiene intorpiditi o bloccati nella rabbia verso di esse, cosa che alimenta soltanto la polarizzazione culturale. Ma perché questo accada, è necessaria la presenza di voci e modelli di sostegno. E’ molto più difficile accettare la nostra difficoltà e la nostra disperazione ed elaborare il lutto senza l’affermazione e l’empatia esplicite di qualcun altro.

Il contatto col dolore del mondo, tuttavia, non porta solo afflizione, può anche aprire il cuore per entrare in contatto con tutte le cose che ancora vivono. Ha il potenziale di romper la paralisi psichica. Forse c’è anche una comunità da trovare fra persone dai sentimenti analoghi, fra coloro che possono anche ammettere di essere stati toccati da questo “Grande dolore” e di aver percepito il dolore della Terra, ognuno a suo modo. Non serve solo l’elaborazione del lutto individuale, ma un processo condiviso che porti avanti verso il ritorno all’impegno da parte dell’opinione pubblica in soluzioni culturali. Elaborare le nostre risposte il più onestamente possibile, come individui e come comunità, sta rapidamente diventando un requisito per la salute della psiche.

Affrontare la perdita del nostro mondo ci richiede di scendere dentro la rabbia, nel pianto e nella tristezza, non di aggirarli per saltare sul carro dell’ottimismo o scappare nell’indifferenza. E con questo approfondimento, ci si potrebbe aprire una cura ed una gratitudine più estesa per ciò che c’è ancora e, alla fine, di agire di conseguenza.

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