Effetto Cassandra

La produzione di petrolio greggio mondiale: comincia il grande declino?

Da “Peak Oil Barrel” Traduzione di MR

Di Ron Patterson

Sembra che la EIA abbia smesso di pubblicare le sue Statistiche Internazionali sull’Energia. Al loro posto ora pubblicano una versione ridotta sulla loro pagina web Total Energy dal titolo: Tabella 11.1b produzione mondiale di petrolio greggio. Ecco perché pubblicano i numeri di produzione di greggio + condensato di nazioni del Golfo Persico, Paesi selezionati non-OPEC, Totale non-OPEC e Mondo. I “paesi produttori selezionati non-OPEC sono Canada, Cina, Egitto, Messico, Norvegia, Russia, Regno Unito e Stati Uniti. Hanno appena pubblicato i loro ultimi dati fino a febbraio 2016.


Tutti i dati che seguono sono in migliaia di barili al giorno e fino a febbraio 2016, salvo dove specificato diversamente.

Secondo loro greggio + condensato sono al picco, finora, a novembre del 2015, con 80.630.000 barili al giorno. La produzione di febbraio è stata di 79.653.000 barili al giorno, 977.000 barili al giorno al di sotto del picco. La produzione mondiale di greggio + condensato, dicono, è stato in media di 80.035.000 nel 2015. La media dei primi due mesi del 2016 è stata di 79.102.000 barili al giorno, 102.000 barili al giorno al di sotto della della media del 2015.

Quindi con la produzione mondiale che continua a diminuire, ci sono pochi dubbi che la produzione del 2016 sarà ben al di sotto di quella del 2015.

Secondo loro il non-OPEC ha raggiunto il picco nel marzo del 2015 con 46.504.000 barili al giorno, diminuita a febbraio di 925.000 barili al giorno con 45.579.000.

Pubblicano anche i dati dei membri dell’OPEC, Tabella 11.1a. Il greggio + condensato dell’OPEC non è riuscito a raggiungere il suo picco del 2012 ma ha raggiunto i 34.562.000 barili al giorno nel luglio 2015, ma a febbraio 2016 è sceso di 488.000 barili al giorno con 34.074.000.

Questa è la versione della EIA della produzione canadese. Sembra esattamente che i dati mostrati dal National Energy Board canadese siano di 150.000 barili al giorno in più di quelli dei dati EIA. Ovviamente il Canada conteggia qualcosa che la EIA non conteggia. Pare che la produzione canadese declinerà in modo sostanziale nel 2016. E quegli incendi di maggio non aiutano affatto.

La Cina ha raggiunto il picco. La sola cui si deve ancora rispondere è: quanto sarà rapido il declino?Ci sono diversi articoli sul web sul declino della Cina, ma ma dicono tutti praticamente la stessa cosa.

*La produzione cinese di petrolio greggio di aprile è la più bassa dal luglio 2013

I dati del Dipartimento Nazionale di Statistica pubblicati sabato hanno mostrato che la Cina ha prodotto 16,59 milioni di tonnellate di petrolio greggio lo scorso mese, circa 4,04 milioni di barili al giorno, il tasso più basso dal luglio 2013 su base giornaliera.

L’Egitto è in un lento declino. Ma lo sapiamo da anni.

Il Messico è riuscito a contenere il suo declino per qualche mese, ma la sua produzione ha ricominciato a diminuire.

La Norvegia, che ha prodotto circa 3 milioni di barili al giorno dal 1996 al 2004, ora è scesa a quasi la metà. Ma sono riusciti a fermare il declino nel 2012 e da allora hanno anche aumentato leggermente la loro produzione. E’ probabile che continueranno a mantenere questa produzione per almeno un altro anno. Stanno riuscendo a resistere alla tendenza.

Il Regno Unito ha raggiunto il picco solo a poco meno di 3 milioni di barili al giorno nel 1998 e più o meno negli ultime tre anni hanno avuto una media di circa un terso di quella quantità. Ma il Regno Unito è anche riuscito a contenere il proprio declino. Per quanto tempo, non ne ho idea.

La Russia è stata un vero shock. Nessuno, fuori o dentro la Russia, si aspettava che aumentassero la produzione di oltre 200.000 barili al giorno negli ultimi mesi. *La produzione è diminuita del 7% ad aprile secondo il ministero dell’energia russo: *La produzione giornaliera russa è scesa ad aprile. La mia proiezione qui sopra è stata fatto usando il cambiamento medio della produzione dei dati del ministero dell’energia.

Ognuno ha un’opinione diversa su cosa aspettarsi dalla Russia il prossimo anno. Tutti ora si aspettano che la produzione aumenti leggermente quest’anno. Dico adesso perché tutti avevano un’opinione diversa pochi mesi fa. Ma…

I livelli di produzione di greggio della Russia sorprenderanno ancora?

Gli Stati Uniti sono, naturalmente, una parte grande di quanto sta succedendo alla produzione mondiale di petrolio e continueranno a giocare una parte importante. Penso che la produzione degli Stati Uniti si stabilizzerà poi aumenterà leggermente. Ma i tempi del boom portati dal costoso scisto sono finiti.

L’Iran è la ragione principale per cui il declino indotto dal prezzo non è diventato evidente.
In conclusione: nonostante il recente aumento della produzione russa così come il leggero aumento del Mare del Nord, nonostante il drammatico aumento di produzione dell’Iran dovuto all’alleggerimento delle sanzioni, la produzione mondiale di petrolio greggio è in declino. E mentre è vero che gran parte di questo declino è dovuto al crash del prezzo, rimane da vedere quanta produzione riprenderà quando il prezzo ritorni a… a… ovunque torni prima che si fermi.

Ma… il declino e solo iniziato. Il collasso del prezzo ha causato un plateau nella produzione mondiale di petrolio che è iniziato circa a marzo del 2015. Tuttavia, il declino non è realmente iniziato fino a gennaio 2016. Il drammatico aumento della produzione dell’Iran ha impedito al declino di divenire ovvio per tutti. Tuttavia, quando arrivano i dati di produzione di maggio, penso che diventerà evidente per tutti.

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Niente spiritello nella macchina: l’umanità soffre di un’epidemia globale di Alzheimer?

Da “Cassandra’s Legacy”. Traduzione di MR


Il cervello umano è la cosa più complessa conosciuta in tutto l’universo. Così complesso e così delicato e fragile! (fonte dell’immagine)

I miei genitori erano sposati da 58 anni quando è morta mia madre. E’ stata una perdita terribile per mio padre, che allora aveva 86 anni ed io ero molto preoccupato per la sua salute. Ma mi sono sentito sollevato quando ho visto che, dopo pochi mesi, sembrava essersi ripreso dallo shock. E’ rimasto attivo e poteva gestire la sua vita quotidiana senza un aiuto particolare. Poteva prendere l’autobus, da solo, e camminare da solo nel vicinato. Si era persino fatto dei nuovi amici e passava del tempo con loro. Tuttavia, c’era qualcosa di sbagliato in lui. Di terribilmente sbagliato.


Ricordo una conversazione che mio padre ha avuto, in quel periodo, con mio figlio riguardo ad alcune piante che stavano crescendo in un pendio ripido del giardino. Voleva tagliarli e mio figlio, che è un geologo, stava cercando di spiegargli che non era una buona idea; le radici di quelle piante stavano mantenendo stabile il terreno di quel pendio ripido. Ma mio padre non era d’accordo ed insisteva che voleva sbarazzarsi di quelle piante. Ho assistito alla conversazione, sempre più angosciato, mentre mio padre continuava a inventarsi argomentazioni di tutti i tipi per andare contro a quelle di mio figlio. Saltando da un soggetto all’altro, era in grado di portare la conversazione in un ciclo, non rispondendo mai realmente a nessuna argomentazione, ma passando sempre a qualcos’altro. E’ andata avanti per circa un’ora, forse, ed è finita con mio padre che non si è spostato di un millimetro dalla sua posizione, lasciando me e mio figlio a guardarci l’un l’altro, sconcertati.

Quella conversazione è stata il primo segno dell’inizio dell’Alzheimer di mio padre. Allora non lo avevo capito davvero, principalmente perché non lo volevo capire. Ma i sintomi continuavano ad aumentare finché, qualche anno dopo, mio padre è morto a 92 anni, con la mente che se ne era andata molto prima. Ciononostante, per alcuni anni, è riuscito a nascondere molto bene i sintomi del suo declino mentale. Era intelligente e brillante ed aveva sviluppato ogni sorta di strategia per evitare di trovarsi intrappolato in una situazione che avrebbe mostrato il suo problema. Svicolava con una battuta, un commento spiritoso, una battuta umoristica o semplicemente cambiando argomento.

Ma mio padre poteva passarla liscia soltanto coi conoscenti. Per i membri della sua famiglia la sua condizione era evidente. Forse conoscete la metafora dello “spirito nella macchina”. Dice che c’è uno spiritello nel cervello, o da qualche altra parte, che controlla la macchina più grande che è il corpo umano. Quello spirito non era più dentro mio padre. Stava diventando gradualmente una cosa tipo una segreteria telefonica, una molto sofisticata, ma una macchina. Era come uno di quei programmi di computer che pretendono di stimolare l’intelligenza umana. Era in grado di parlare con le persone e persino di rispondere in modi che sembravano essere giusti, superficialmente. Ma, come una segreteria telefonica, non stava realmente ascoltando, lo spirito se ne era andato.

Questa storia di qualche anno fa mi è tornata in mente mentre stavo leggendo un articolo di David Dunning, intitolato “La bizzarria psicologica che spiega perché amate Donald Trump”. Probabilmente conoscete Dunning in relazione all’effetto “Dunning-Kruger”, una caratteristica della mente umana che rende le persone convinte di essere competenti su qualcosa e per il quale più sono ignoranti di quella cosa più sono convinti di essere competenti. Naturalmente, l’effetto Dunning-Kruger non è la stessa cosa dell’Alzheimer, ma nel suo articolo Dunning sottolinea il fatto che c’è un problema mentale in molte persone impegnate nel dibattito politico. Penso che sia vero. C’è un problema del genere.

Quando leggo o ascolto un’affermazione di Donald Trump, non riesco ad evitare di pensare a quella infausta conversazione descritta prima, quando mio padre discuteva con mio figlio per tagliare quelle piante in giardino. Era lo stesso tipo di scambio: sembra soltanto che le persone stiano facendo un dibattito, ma in realtà non si capiscono vicendevolmente. Nelle dichiarazioni politiche di  Donald Trump, rivedo qualcosa del modo in cui mio padre reagiva durante le fasi iniziali della malattia. Le stesse affermazioni senza fondamento sparate a caso, la stessa certezza assoluta mostrata da uno che, in realtà, non aveva idea di che cosa stesse parlando.

Ciò non significa che si possa dire che Donald Trump abbia l’Alzheimer. Potrebbe, altri sembrano aver notato che c’è qualcosa di molto sbagliato nel modo in cui si comporta (h/t Clark Urbans). Ma non c’è modo di dirlo. Ma il problema non è specifico di Donald Trump. No, questa sensazione di discutere con un paziente che ha l’Alzheimer mi viene spesso quando seguo una discussione politica nei media o nei commenti di un blog o un social media. Il dibattito non sembra essere fra persone che si ascoltano. Piuttosto, sembra essere fra persone che lanciano dichiarazioni agli altri come se fossero palle da tennis. Pensate a dei tennisti: a loro non interessa il colore della palla con cui giocano, solo di rigettarla ai loro avversari il più rapidamente possibile. Così in questi dibattiti le persone non sembrano interessate al significato di quello che viene loro detto, ma solo a rigettare qualcosa indietro ai loro avversari il più rapidamente possibile.

Conoscete la tattica politica dal nome “Gish Gallop”? Consiste nell’annegare un avversario in un fiume di argomentazioni, ignorando le contro-argomentazioni. Può essere usata da persone del tutto sane ma, allo stesso tempo, è la strategia ideale per nascondere la propria malattia mentale. Descrive molto bene la strategia che mio padre ha usato a questo scopo. Quindi quelle persone che chiamiamo troll, sono semplicemente cattive o sono malate? Quante persone in posizioni di alto livello potrebbero essere affette dall’Alzheimer ed essere comunque sufficientemente intelligenti da nasconderne i primi sintomi? C’è già stato un presidente, Ronald Reagan, che avrebbe potuto essere nella fase iniziale dell’Alzheimer durante l’ultimo periodo della sua presidenza. Questo non sembra aver causato grossi problemi, ma non avete la sensazione che il mondo sia governato da persone affette da qualche forma di demenza?

Potrebbe essere che soffriamo di una malattia della civiltà simile all’Alzheimer? Ciò spiegherebbe il perché la civiltà non arriva mai a fare qualcosa di utile per le terribili minacce che ha di fronte, prima fra tutte il cambiamento climatico. Forse non c’è davvero nessuno spirito nella macchina che chiamiamo civiltà. E’ una macchina gigantesca che avanza a tentoni mentre discute con se stessa in un battibecco senza fine, senza andare da nessuna parte.

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Mio padre, Giuliano Bardi (1922-2014) era un architetto ed un insegnate delle scuole superiori. Come architetto, non ha avuto la possibilità di costruire molte strutture, ma quelle che ha costruito mostrano la pulizia delle linee che erano tipiche della scuola modernista di architettura. Ha progettato e costruito la casa in cui ha vissuto fino alla sua morte e dove vive ancora oggi la sua famiglia. Lo ricordo per il suo acuto spirito di osservazione che lo ha reso capace di scoprire dettagli insospettabili in qualsiasi cosa. Era anche un insegnante brillante, molto amato dai suoi studenti. Tanto amato che molti di loro lo ricordavano sufficientemente bene che sono venuti al suo funerale a salutarlo per l’ultima volta.

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Non ci sono abbastanza risorse per sostenere la popolazione mondiale

Da “Church and State”. Traduzione di MR (via Population Matters)

Abbiamo raggiunto una fase in cui la quantità di risorse necessarie per sostenere la popolazione supera quella disponibile

Di John Guillebaud. 10.06.2014

Molti anni fa, come studente del secondo anno di medicina, ho assistito ad una lezione sulla popolazione umana del mio tutor di Cambridge, Colin Bertram. Da biologo sosteneva che l’incessante aumento della popolazione di qualsiasi specie alla fine è sempre insostenibile. I numeri aumentano fino ai limiti della capacità di carico del loro ambiente e quando la superano, i numeri collassano sempre. Se permettiamo che continui una crescita della popolazione incessante, noi esseri umani non possiamo sfuggire allo stesso destino. Anche se intelligentemente potremmo adattarci a tutti i diversi ambienti sulla Terra, abbiamo un solo pianeta finito su cui vivere e il 70% di esso è acqua salata e metà di quello che resta è deserto, montagna, calotta glaciale o foresta in rapida sparizione.


La lezione del dottor Bertram mi ha scioccato ed ha stabilito la direzione della mia carriera medica. Mi sono sentito un po’ in colpa del fatto che i dottori avessero inavvertitamente causato il problema della popolazione tramite un controllo delle morti di gran lunga migliore, mentre i tassi di nascita rimanevano alti. Decisi che, in quanto stavo per diventare un dottore, che avrei dovuto cercare di ripristinare l’equilibrio e quale specialità medica più appropriata della pianificazione famigliare potrebbe esserci? Così ho organizzato una formazione superiore in ginecologia (specializzandomi in contraccezione ormonale ed intrauterina) e anche in chirurgia (per questo nella mia carriera ho all’attivo un totale di 5000 vasectomie e una ricerca in corso su una nuova pillola maschile).
Nessuno di noi in quei giorni era preoccupato nello specifico del cambiamento climatico. Come ci ha appena ricordato l’IPCC, quel problema ambientale è abbastanza terrificante, specialmente dato il rischio di retroazioni positive fuori controllo causate, per esempio, dal rilascio di metano dal permafrost. Anche se è molto grave, questo è lungi dall’essere il solo problema globale a minacciare la vita. Lo scienziato capo del Regno Unito ed ultimo presidente della Royal Society ha evidenziato l’imminenza di una “tempesta perfetta”: acqua, cibo e scarsità di combustibili fossili. Rapporti affidabili sulla salute del pianeta come la Panoramica Ambientale Globale dell’ONU hanno scoperto che acqua, terra, piante, animali e riserve di pesce sono tutti “in inesorabile declino”. Già nel 2002 è stato calcolato che il 97% di tutta la carne dei vertebrati sulla terraferma era carne umana più quella degli animali di cui ci nutriamo. (mucche, maiali, pecore, ecc.), lasciando così solo il 3% a tutte le specie vertebrate selvatiche sulla terraferma. Senza parlare della distruzione della vita selvatica negli oceani tramite l’acidificazione, l’inquinamento e il massiccio eccesso di pesca.

Riguardo al numero di esseri umani ci sono buone notizie: il tasso di fertilità totale o la dimensione della famiglia mediasi è dimezzata dal 1950, quando era oltre 5, a circa 2,5 (2,1 sarebbe il livello di sostituzione). La cattiva notizia è che nonostante questo, i 58 paesi con la fertilità più alta sono previsti triplicare il proprio numero per il 2100. In una maggioranza di tutti i paesi c’è anche un impulso della popolazione persistente creato da “rigonfiamenti” di giovani nati in anni di fertilità alta.

Pertanto, l’ONU avverte in modo franco che la popolazione mondiale, ora ben oltre i 7 miliardi, “ha raggiunto una fase in cui la quantità di risorse necessarie per sostenerla supera quella disponibile”. L’aumento annuale della popolazione di circa 80 milioni di persone è pari a quella di una città di 1,5 milioni di abitanti che deve essere costruita da qualche parte ogni settimana – con, inevitabilmente, sempre più emissioni di gas serra e la continua distruzione di foreste e paludi, coi loro habitat molteplici per la rete della vita dai quali dipendono le specie.

Non è esattamente una situazione piacevole, eppure è solidamente basata su prove, come qualsiasi osservatore scientifico imparziale attesterebbe. Coloro che non sono così imparziali di solito preferiscono “sparare al messaggero” o comportarsi come struzzi.

Il Worldwide Fund for Nature calcola che per il 2050 la specie umana avrà bisogno del 100% in più della biocapacità totale del pianeta (foreste, pesca, terreni agricoli) di quella che c’è. Quali sono le prospettive di trovare un altro pianeta da saccheggiare per il 2050? Su un pianeta finito la sostenibilità non è un’opzione, è solo questione di come viene ottenuta. Lo squilibrio verrà corretto letteralmente da miliardi di morti o da meno nascite? Che strano, date le prove, che la crescita della popolazione e la contraccezione rimangano in grande misura dei tabù.

Coloro che consumano ben oltre la propria parte, i ricchi consumatori in eccesso di ogni paese, devono sicuramente ridurre in modo massiccio le loro impronte ambientali, ma anche il “numero di impronte” è rilevante. Spesso si presume che affermazioni come questa siano riferite ai poveri, ma la nostra organizzazione, Population Matters, sottolinea che anche i genitori ricchi devono seriamente considerare di avere un figlio in meno di quelli che potrebbero aver pianificato. La linea guida è solo due per la sostituzione.

Tutto questo non è astrofisica: infatti è molto difficile avere un esempio migliore del Rasoio di Ockham. Di certo, continuare col business as usual comporta ipotesi di gran lunga più irrealistiche dell’approccio precauzionale. L’approccio precauzionale richiede un sostegno appropriato dei servizi di pianificazione famigliare, che ricevono ancora un ridicolo 1% degli aiuti mondiali per la salute riproduttiva e la rimozione tramite l’educazione e dei media delle molte barriere che continuano a impedire milioni di donne di avere la scelta di accedere a metodi di contraccezione. Non si tratta di una alternativa ad altre misure precauzionali cruciali: ridurre la dimensione dell’impronta ambientale media: entrambe sono vitali, sono due lati della stessa medaglia.

Quando il cammello crolla con la schiena rotta, non è stata l’ultima paglia a fare questo. E’ stata colpa di tutte le paglie. Per raggiungere la sostenibilità ambientale, devono essere tutti partecipi.
Quando un campo di terra comune è proprio sul punto di essere pascolato in modo eccessivo, Garret Hardin lo ha definito “La tragedia dei beni comuni”. Questo perché ogni mandriano continua a trovare vantaggioso, personalmente e per la sua famiglia, mettere sempre più mucche sul terreno, una dopo l’altra – anche se le ultime ad arrivare sono più magre e meno produttive di prima – proprio fino al punto che il limite del pascolo viene finalmente superato e tutte le mucche muoiono e le famiglie soffrono. I pescatori si comportano in modo analogo quando c’è un’attività di pesca prossima al sovrasfruttamento. Data ogni risorsa tenuta in comune, il guadagno privato del singolo individuo viene quindi pagato da tutto il gruppo, progressivamente e alla fine in modo catastrofico.

Hardin ha detto che il modo di evitare queste tragedie era “la mutua coercizione, accordata mutualmente”, cioè che tutti concordino di essere regolati dalla pressione di propri pari, insieme con incentivi e disincentivi fiscali concordati. Così, nell’esempio della pesca, ogni pescatore prende una quota concordata più piccola, che sia sostenibile. Tuttavia, non tutte le cose rilevanti che accadono nei beni comuni ambientali possono essere regolamentate in questo modo. Le molteplici decisioni prese da ogni singolo individuo sull’andare in bici o a piedi piuttosto che in macchina, spegnere i condizionatori o scegliere di avere una famiglia più piccola sono difficili da influenzare. Quando arriva il momento critico – specialmente quando vediamo così tanta e persistente ingordigia nell’uso di energia da parte di grandi multinazionali – tutti noi sentiamo di chiederci che senso ha aiutare l’ambiente quando sembra che non lo faccia nessun altro.

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Le attempate spogliarelliste della scienza

Recentemente, sono stato a un convegno di cui non dirò il titolo e neppure il luogo. E ho ascoltato alcuni interventi da parte di persone di cui non dirò il nome e non dirò il ruolo. La cosa mi ha fatto venire in mente un articoletto che avevo scritto qualche anno fa su Risorse Economia e Ambiente, e così ve lo ripropongo. (lo ha citato anche Steph nel suo blog)

Le attempate spogliarelliste della scienza

Posted by Ugo Bardi -22 Agosto 2007

Questo post l’ho scritto di getto sotto l’effetto della lettura di un pezzo di Freeman Dyson intitolato “Pensieri eretici sulla scienza e la società” Un testo che mi ha profondamente deluso. Dyson, che è stato un grandissimo scienziato nel passato, si è messo a criticare la scienza del cambiamento climatico con una faciloneria e una mancanza di approfondimento impressionante, facendo anche dei banali errori di fisica. Da questo, mi è venuto in mente il paragone con una spogliarellista attempata che non si rende conto che certe cose non le può più fare. Dopo che l’ho scritto, ho pensato che forse non era il caso di pubblicarlo; un po’ troppo forte come critica. Alla fine, però, ho pensato che certe cose bisogna anche dirle. Quindi, ecco il post come mi è venuto – l’ho solo rivisto un po’ aggiungendo le date di nascita degli scienziati che menziono.

Gli scienziati arrivano in varie forme. Ci sono i pedanti, gli accurati, i metodici, i perfezionisti, i cialtroni, i chiaccheroni, gli svagati, i sognatori, insomma un po’ di tutto. Ce n’è una categoria particolare, però, che sono i creativi. Li possiamo anche chiamare gli “eretici”, perché per essere creativi bisogna avere il coraggio di dire cose che nessuno dice. E’ noto quello che diceva Thomas Huxley, il “cane da guardia di Darwin”: “le nuove verità nascono come eresie e muoiono come superstizioni”

E’ un’arte difficile quella dell’eretico scientifico; bisogna camminare lungo la sottile linea di demarcazione fra la vera creatività e la cialtroneria. Ma, se ci riesce, il creativo viene abbondantemente premiato. Bisogna essere molto creativi per avere un premio Nobel o qualcun altro dei vari riconoscimenti prestigiosi che ci sono nella scienza. I creativi sono la vera elite degli scienziati.

Ma non è facile fare l’eretico con successo. La scienza ha dei meccanismi collaudati per filtrare le fesserie e lasciar passare le cose buone. Quella che si chiama “ortodossia” in qualsiasi campo della scienza non è dogma, ma il risultato di lunghe ricerche, prove, controprove e affinamenti continui. Andare a contraddire gli esperti in un campo che non è il proprio è uno dei modi più sicuri nella vita per fare la figura del fesso.

Fare l’eretico senza dire fesserie richiede uno sforzo intellettuale poderoso e una padronanza a tutta prova di più di un campo scientifico. E questo richiede l’elasticità mentale di un cervello giovane. Il premio Nobel, si sa, si prende per lavori fatti prima dei trent’anni. In un certo senso, gli scienzati creativi sono come delle spogliarelliste. Anche queste fanno una cosa eretica, ovvero una cosa che la maggior parte delle donne non fa, e la possono fare soltanto fino ai trent’anni di età; più o meno.

Ora, qui c’è un problema. Se una spogliarellista di successo pretendesse di continuare a fare il suo mestiere ben oltre i trent’anni di età, beh, i risultati non sarebbero brillanti. Questo, per fortuna, succede di rado. Ma succede non di rado che uno scienziato che ha avuto successo in gioventù con le sue idee creative pretende di continuare a fare l’eretico a un’età alla quale sarebbe bene che la smettesse.

Ci sono casi di scienziati assai noti, persone di grande prestigio, che cadono vittime della sindrome della spogliarellista attempata e non si rendono conto che le loro esternazioni pubbliche fanno grossi danni, soprattutto alla scienza, dando argomenti a chi di scienza non capisce niente per criticare cose serie, per esempio la scienza del clima.

Fra i casi di scienziati molto noti che in tarda età hanno decisamente perso brillantezza, il primo che viene in mente è Newton, che in tarda età si era messo a studiare l’alchimia. Poi, c’è statoWilliam Shockley (1910-1989), l’inventore del transistor, che in tarda età si mise a sostenere che le razze nere si riproducono troppo, donò il suo sperma a una banca dello sperma in quanto “sperma della migliore qualità” e cose del genere.

Mentre le idee di Newton sull’alchimia e quelle di Shockley sulla razza sono oggi dimenticate, ci sono dei casi recenti di scienziati famosi le cui idee stanno facendo notevoli danni. Questo è il caso di Thomas Gold (1920-2004), un astronomo famoso che in tarda età si mise in testa che l’origine del petrolio è “abiotica.” Gold riuscì a ottenere considerevoli finanziamenti pubblici per fare delle inutili trivellazioni. In se, non c’è niente di male a fare dei test di una teoria, il guaio è che con la sua insistenza e il suo atteggiamento dogmatico, Gold ha generato un’intera tribù di seguaci rumorosi che stanno tuttora infestando l’internet sostenendo che il petrolio è “infinito” e che l’esaurimento dello stesso è tutto un complotto delle compagnie petrolifere per farcelo pagare più caro.

Uno dei casi più tristi è quello di James Lovelock (1919 -), probabilmente una delle più grandi menti del ventesimo secolo, noto per il suo concetto di “omeostasi planetaria”, a cui dette il nome di “Gaia”. Purtroppo, a 87 anni Lovelock ha pubblicato un libro intitolato “la vendetta di Gaia” del tutto senile, sconclusionato e pieno di errori. Con la sua polemica infondata e rabbiosa contro le energie rinnovabili, anche Lovelock ha generato un buon numero di seguaci che impestano l’internet per dir male delle rinnovabili rifacendosi alle sue argomentazioni.

C’è poi Kari Mullis (1944- ), un premio Nobel per la Chimica che si è lanciato in una polemica in cui sostiene che il riscaldamento globale non esiste, che l’inquinamento è solo “un problema estetico” e cose del genere. Mullis è un esempio delle tante persone di un certo prestigio che si lanciano a criticare gli studi sul riscaldamento globale senza sapere niente di clima. Purtroppo, essendo persone di prestigio, c’è gente che gli da retta.

E veniamo a Freeman Dyson (1923- ). Dyson è stato un grande scienziato della generazione degli sviluppatori della meccanica quantistica e dell’energia atomica. Una mente estremamente creativa che si occupava un po’ di tutto, compreso la colonizzazione spaziale e il destino dell’umanità. E’ noto fra le altre cose per la sua geniale intuizione della “sfera di Dyson”, il concetto che una civilizzazione planetaria avanzata potrebbe sfruttare al massimo la radiazione stellare circondando la stella con una sfera che la intercetta completamente.

A 82 anni, tuttavia, Dyson si è messo a fare una serie di critiche alla scienza del clima dichiarandosi scettico sul fatto che il riscaldamento globale sia una cosa negativa, sul fatto che sia veramente necessario agire in proposito e, insomma, facendo proprie molte delle argomentazioni dei peggiori negazionisti. La critica di Dyson è pubblicata su internet e anche in un libro intitolato “a many colored glass” pubblicato nel 2007. E’ sicuro che anche i negazionisti italiani se ne approprieranno ben presto per giustificare le loro tesi.

Le considerazioni di Dyson sul clima, purtroppo, sono quasi tutte sbagliate. Sono una serie di discorsi senza capo né coda, dove Dyson giustifica le sue conclusioni soltanto sulla base del concetto che essere un eretico è una cosa buona. Da quello che scrive, dimostra di non aver neanche capito bene la fisica del cambiamento climatico! Per una critica dettagliata, vedi quioppure qui. Vedi anche fra i commenti una mia domanda al climatologo Michael Tobis: non riuscivo a credere che Dyson avesse fatto degli errori così clamorosi. Eppure Tobis me lo ha confermato: è rimasto sorpreso anche lui.

Adesso, fatemi dire come la penso:

Mi pesa dire certe cose a proposito di Dyson, che è una persona che ho molto ammirato e che continuo ad ammirare per quello che ha fatto nel passato. Ma proprio perchè è uno scienziato famoso e ammirato ha delle responsabilità. Uno scienziato studia e lavora per una vita cercando di fare del suo meglio; e questo vuol dire verificare i dati, citare le fonti, stare attenti a capire bene le cose prima di lanciarsi a criticarle. Sono cose che impari da giovane, all’università; e le impari dagli scienziati anziani. Uno scienziato anziano non può più essere creativo come un giovane, ma ha questa grande responsabilità di dare l’esempio ai giovani di come essere non solo creativi ma anche e soprattutto rigorosi. Dyson qui ha tradito questa responsabilità.

La scienza vive di tante cose; ha bisogno certamente di intuizioni geniali, ma vive anche e soprattutto del lavoro rigoroso e poco eccitante della grande maggioranza degli scienziati che sono persone serie e competenti, anche se non sono in grado di avere colpi di genio da premio Nobel. Non ha bisogno di eretici attempati che vanno a lanciare le loro eresie in pubblico come se forsero spogliarelliste attempate che comunque insistono a lanciare i loro reggiseni al pubblico.

Deve essere un destino della vita che i tuoi maestri, quelli che consideravi la tua guida, prima o poi ti deludono. Presumo che capiterà anche a me di deludere i miei allievi nel futuro (sperando che non li stia deludendo troppo già ora). Comunque, giuro a me stesso e a tutti quanti che non impesterò nessuno con teorie eretiche a 80 anni, in effetti anche prima. Mi dedicherò alla cura dell’orto e a coltivare carote e cavolfiori. Se mai ci arriverò a 80 anni…..

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Adrastia intervista Ugo Bardi

Da “Cassandra’ Legacy”. Traduzione di MR

L’associazione francese “Adrastia” era sufficientemente interessata dal mio modesto lavoro da chiedermi una serie di domande. L‘intervista originale era in francese, questo è il testo tradotto dalla traduzione inglese di Florence Mitchell.




Ugo Bardi è un ricercatore e professore di chimica. Ha collaborato a The Oil Drum, è un membro del comitato scientifico dell’Associazione per lo Studio del Picco del Petrolio e del Gas (ASPO) ed autore di diversi libri, compreso uno sull’energia e le risorse minerali (The Limits to Growth Revisited).

I nostri sinceri ringraziamenti al signor Bardi per aver accettato di parlare con noi.

Adrastia: Lei ha costruito una teoria dal nome “il dirupo di Seneca”. Questa rivisita il picco di Hubbert e la relativa curva a campana, anche se in questo caso la sua discesa è molto più ripida della sua ascesa. Originariamente, questa curva è stata applicata alla produzione di petrolio. Potrebbe spiegarci in che modo si applica a molti altri fattori chiave della nostra civiltà?


Ugo Bardi: Il senso del Dirupo di Seneca è chiaro alla maggior parte di noi: molte cose declinano più rapidamente di quanto siano cresciute. Pensate solo ad un castello di carte, per esempio. (o a un Mandala, ndt). E’ una di quelle cose ovvie che si dà il caso non siano facili da spiegare secondo i fondamenti della fisica. Ai tempi di Newton, per esempio, tutti sapevano che le mele cadevano dagli alberi, ma la legge della gravità universale doveva essere ancora scoperta. Col Dirupo di Seneca ci troviamo ancora in ciò che potremmo chiamare una “situazione pre-Newtoniana”. In parole povere, la curva si osserva in sistemi in cui c’è una qualche relazione fra i suoi componenti. Si tratta di un “fenomeno collettivo” tipico dei sistemi che vengono descritti come complessi, per esempio in periodi di rapidi cambiamenti collettivi in fase di transizione, ma anche nella meccanica della rottura dei materiali ed anche quando collassano le civiltà. I sistemi sono sempre complessi quando gli elementi interni sono intercorrelati. Diciamo che se a qualcuno piace la teoria delle reti così come quella della modellazione della dinamica dei sistemi, ci si può divertire molto con questi sistemi. Infatti, è così divertente che sto lavorando ad un libro che si chiamerà “Il Dirupo di Seneca” e che spero di pubblicare prima della fine dell’anno – forse.

A: Quali pensa che siano i punti deboli della nostra civiltà, le sue principali vulnerabilità? Se ci dovesse essere un collasso, quale vedrebbe come la prima catena di eventi tipici del fenomeno? Ed ha un’idea di quello che succederebbe dopo, quando le risorse si esauriscono e il clima si mette di traverso?

U. B.: Ho pensato a lungo a questi problemi e trovo molto utile lo studio della teoria delle reti abbinato alla modellazione della dinamica dei sistemi. Quando ho cominciato a lavorare su questo argomento, pensavo che l’esaurimento delle risorse era la ragione principale per cui le civiltà collassano. Penso ancora che possa essere così, proprio come potrebbe anche essere che le civiltà siano state distrutte da forze esterne come il cambiamento climatico o invasioni militari. Ma mi pare che molto spesso succeda qualcosa di più sottile: è la perdita di controllo che porta al collasso delle civiltà. Una civiltà è un sistema costituito da elementi che sono strettamente collegati e la loro correlazione deve essere controllata in un modo o nell’altro. Inoltre, il meccanismo di controllo ha bisogno di risorse e se sono disponibili meno risorse potrebbe esserci una perdita di controllo che porta a sua volta ad un rischio di collasso, anche prima che l’esaurimento delle risorse o il cambiamento climatico producano questo risultato.

A: Ha chiamato il suo blog Cassandra’s Legacy. Ha l’impressione di non venire ascoltato?

U.B.: Mai… Come puoi pensare una cosa del genere?! (sorriso)

A: Come è giunto a rendersi conto che la nostra civiltà sta arrivando al capolinea? Si ricorda un momento particolare in cui la sua consapevolezza ha raggiunto un punto di svolta? 

U.B.: Si’, certo. L’11 settembre del 2001 ero negli Stati Uniti, a Berkeley, ed ho visto il crollo delle Torri Gemelle in TV. Quella mattina stessa, nelle condizioni in cui ero, sono andato a fare una passeggiata ed in una libreria a Berkeley ho trovato un libro dal titolo “Il picco di Hubbert”, scritto dal geologo americano Kenneth Deffeyes (che in seguito ho conosciuto personalmente). Questi due eventi, il libro e gli attacchi a New York, mi sono sembrati collegati quel giorno, anche se non riuscivo a spiegarmelo. E’ stato più tardi che mi sono reso conto come fossero in effetti collegati.

A.: Come affronta questa teoria del collasso che stiamo per vivere – che stiamo già vivendo in qualche modo – quando si tratta delle persone intorno a lei, la sua famiglia e gli amici, che non hanno la stessa consapevolezza o potrebbero persino rifiutare la teoria? In modo molto generale, che impatto ha avuto sulle sue interazioni sociali e in che modo convive con questa consapevolezza? 

U.B.: E’ una cosa che mi chiedono spesso. Non credo di avere una risposta, ma una cosa per me è ovvia: i “catastrofisti” (ed io sono uno di loro) non sono più infelici nella loro vita quotidiana dei “cornucopiani”. Dovrei aggiungere che i rischi che noi, i catastrofisti, vediamo arrivare in futuro significano anche che abbiamo un approccio piuttosto filosofico al mondo ed abbiamo un forte impulso ad agire. E’ praticamente la stessa visione che avevano gli “stoici”, e Seneca era uno di loro. Si tratta di una visione filosofica che emerge nei momenti difficili. I Samurai giapponesi praticavano una filosofia molto simile allo stoicismo, credo. Un buon stoico (o un buon Samurai) conosce i propri limiti, ma sa anche che ha il dovere di agire o di combattere per il bene generale. Oggigiorno, naturalmente, non usiamo una spada nella vita quotidiana, anche se sto imparando la scherma giapponese, così come il tiro con l’arco tradizionale. Non si sa mai…

A: Parla di questi problemi coi suoi figli, che dovranno affrontare questi momenti difficili e probabilmente pericolosi in arrivo? Se sì, come introduce l’argomento?

U.B.: Questa è la cosa più difficile. Penso che non sia per me spingere il miei figli (ora sono adulti) verso la mia visione del mondo. Hanno il diritto e la capacità di sviluppare la loro visione. E credo che siano ben adattati ad un mondo che sta diventando sempre più difficile, specialmente per i giovani.

A: Molti membri dall’associazione Adrastia sono letteralmente consumati dal problema della fine della civiltà industriale e dei combustibili fossili, al punto che non pensano ad altro. E’ una specie di ossessione per lei? E se sì, come la affronta?

U.B.: Potrebbe esserlo. C’è il rischio che un’idea diventi un’ossessione ma, per esperienza, non può farlo a lungo: è troppo stressante. Dopo un po’, ci se ne dimentica e si torna a guardare la TV. E’ normale, è umano. Nel mio caso, ho altri interessi che mi impediscono, spero, di trasformare la mia vita in una saga catastrofista! (Ho scritto un romanzo di fantascienza, per esempio. E’ un po’ catastrofista, devo ammetterlo…).

A: Ha già un’idea chiara di come vivrà in questo periodo di declino energetico? Come si sta preparando? E’ pronto a vivere senza petrolio? 

U. B.: Si fanno previsioni a lungo termine che spesso si rivelano giuste, ma è difficile tradurle nella vita quotidiana, molto difficile. Una cosa che ho imparato è che il futuro non è mai come ci si aspetta, quindi ci si arriva, penso, seguendo un lungo percorso tortuoso che crei un passo alla volta.

A: Appartiene ad un gruppo, un collettivo, un’associazione o una ONG che puntano a mettere le basi di resilienza, anche autonomia (transizione energetica locale, monete alternative, permacultura…)? Come vede queste iniziative e cosa raccomanderebbe ai singoli o ai gruppi che vogliono prepararsi?

U.B.: Sono cose interessanti che ho cercato di mettere in pratica diverse volte. Al momento penso che il mio lavoro sia soprattutto quello di comunicare certe idee, ed è ciò che faccio. Sono privilegiato ad essere stato capace di concentrarmi su quelle cose che credo siano le cose giuste da fare. E’ un privilegio. Lo so. Se non fossi stato capace di farlo, sarei sicuramente più attivo nella comunità locale, nel movimento delle Transition Towns o movimenti analoghi. In futuro, probabilmente potrei essere più impegnato in questo tipo di attività.

A: Lei viaggia regolarmente per dare conferenze e i sui libri vengono tradotti in diverse lingue. Fra i paesi o regioni che ha visitato, si è reso conto di grandi differenze culturali – di natura o grado – nel modo in cui le persone affrontano l’idea di collasso, nella loro consapevolezza individuale o collettiva, o nel modo in cui ascoltano il suo messaggio?

U.B.: In Occidente (Europa Occidentale e Stati Uniti) non noto molte differenze: in molti luoghi in questi paesi c’è una parte della popolazione che è consapevole di certi problemi e cerca di lavorarci sopra. Ma, naturalmente, vengo invitato raramente in quei paesi in cui questi problemi non vengono compresi affatto. Per esempio, mi sembra estremamente difficile comunicare certe idee in Europa Orientale, specialmente in Russia. Sembra che in Russia l’idea che le risorse minerali siano destinate ad esaurirsi viene vista come una specie di propaganda occidentale contro la Russia e le sue ampie risorse minerarie. E loro non ci cascheranno, no? Non sono stupidi… Cosa si deve fare? Non lo so. Infatti non cambia niente; i governi in occidente ed oriente stanno facendo le stesse cose e non gliene può fregar di meno delle previsioni catastrofiste. E’ noto in tutta la storia: le società umane non sono granché a gestire il futuro. E, a proposito, è per questo che ho chiamato il mio blog “Cassandra’s legacy”!

A: Di fronte ai limiti ambientali che comprendiamo meglio al giorno d’oggi e in vista delle considerevoli ricerche in neuroscienze che sfidano la nostra definizione convenzionale di libertà personale, pensa che avremmo potuto scegliere di evitare i rischi? La specie umana è inevitabilmente diretta verso un tragico destino che non sarà in grado di sfuggire?

U.B.: Chiaramente, è estremamente difficile trasmettere messaggi che vengono percepiti come “catastrofisti”. Il cambiamento climatico ne è un buon esempio: è un messaggio orribile da dare. Stiamo realmente parlando della possibilità di una fine della specie umana e forse della vita sulla Terra. E’ comprensibile che piuttosto che ascoltare il messaggio molte persone preferiscano tapparsi le orecchie con le mani mentre cantano “la-la-la!”. Abbiamo a che fare, ovviamente, coi limiti dell’intelligenza umana. Come potremmo fare meglio? Molte persone hanno provato a trovare una risposta nelle neuroscienze, altri nella filosofia, nella religione, o persino in campi leggermente esoterici come la “memetica”. Trovare la risposta si dimostra essere molto difficile, se non completamente impossibile. La sola cosa che possiamo dire è che il futuro ci sorprenderà. Siamo arrivati qui dopo un viaggio di circa 10.000 anni, attraverso il periodo dell’Olocene. Stiamo appena cominciando a capire le enormi trasformazioni che gli esseri umani hanno attraversato, grazie agli sviluppi ed ai cambiamenti durante questo periodo, che non sono solo culturali ma anche genetici. La specie umana, si spera, ha ancora diverse migliaia di anni per adattarsi e questo in un mondo in continuo cambiamento. L’evoluzione della specie umana è probabilmente ben lungi dall’essere finita. Dove ci porterà questa evoluzione è impossibile da dire a questo punto. Ma evolvere significa adattarsi ed i teorici della crescita infinita sono chiaramente poco adatti al futuro – sono destinati a scomparire. In futuro, non saremo in grado di aggirare la necessità di adattarci ad un mondo finito.

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Ma qual è il vero EROEI dell’energia fotovoltaica?

Da “Cassandra’s Legacy”. Traduzione di MR

Secondo uno studio recente e completo della letteratura scientifica (1), l’EROEI (energy return on energy invested) medio della tecnologia fotovoltaica più comune (Silicio policristallino) è di 11-12. Ben lontano dalla leggenda del “EROEI inferiore ad uno” che gira nel web.


Qualche tempo fa, un mio collega mi ha raccontato la storia di quando è stato responsabile dell’installazione di uno dei primi impianti fotovoltaici in Italia, nel 1984 (mostrato nella figura sulla destra). Mi ha detto che, poco dopo l’installazione, un politico di alto rango è venuto a visitare l’impianto. Come dimostrazione, il mio collega a collegato l’uscita dell’impianto ad una stufetta elettrica, scaldando le resistenze interne. Il politico ha rifiutato di credere che la stufetta fosse alimentata dall’impianto FV. “Dev’esserci un trucco”, ha detto, “questo non è possibile. Dev’essere un imbroglio”. Il mio collega ha cercato di descrivergli come funzionano le celle fotovoltaiche, ma immaginate di cercare di spiegare la meccanica quantistica ad un politico! Apparentemente, se ne è andato ancora non convinto.


Più di 30 anni sono passati dall’installazione di quel vecchio impianto, ma l’atteggiamento generale verso l’energia fotovoltaica non sembra essere cambiato molto. Non che si pensi che il fotovoltaico sia una truffa scientifica alla stessa stregua della innumerevoli proposte di cose come “l’energia libera” o la “fusione fredda.” Ma sembra che molti di noi non riescano proprio a credere che quei piccoli aggeggi blu possano produrre energia in quantità significativa. Suvvia: per produrre energia serve un motore, una caldaia, una ciminiera, una turbina, qualcosa del genere ….

Infatti, gran parte dell’attuale discussione sull’energia fotovoltaica sembra girare intorno ad un qualche tipo di leggenda. La più recente sembra essere quella secondo cui il FV ha un ritorno energetico basso (EROI o EROEI), a volte si dice persino che sia inferiore ad uno. Se fosse vero, significherebbe che gli impianti fotovoltaici non producono energia, la consumano soltanto! Ma questo non è vero. E solo l’ennesimo esempio di confirmation bias (pregiudizio di conferma): scegliere i dati che confermano le proprie idee preconcette.

E’ vero che si possono trovare alcuni studi (molto pochi) che sembrano seri (forse) e che sostengono che il Fv abbia un EROEI basso. Tuttavia, in uno studio recente,  Bhandari et al. (1)⁠ hanno esaminato 231 articoli sulle tecnologie fotovoltaiche, scoprendo che, nelle condizioni medie i irraggiamento europee, l’EROEI medio della tecnologia FV più comune (Silicio policristallino) era di circa 11-12. Si è scoperto che altre tecnologie (per esempio CdTe) hanno EROEI migliori. Forse questi valori sono ancora inferiori a quelli di alcuni combustibili fossili, ma sicuramente non troppo inferiori (sempre che lo siano) e ben lontani dalla leggenda del “EROEI inferiore ad uno” che sta facendo il giro del Web. Poi, se siete preoccupati da un’altra leggenda comune, quella che dice che le celle fotovoltaiche si degradano rapidamente, pensate che si è scoperto che quelle dell’impianto descritto all’inizio di questo articolo stanno ancora funzionando dopo 30 anni di lavoro, avendo perso soltanto il 10% circa della loro efficienza iniziale! Inoltre, considerate che il tipo di cella più comune usa solo elementi comuni della crosta terrestre: silicio ed alluminio (e un po’ di argento, ma non è essenziale) Cosa si può chiedere di più ad una tecnologia che è efficiente, sostenibile e che dura a lungo?

Tutto ciò non significa che un mondo alimentato dell’energia rinnovabile sarà gratis. Al contrario, servirà uno sforzo finanziario ampio se volgiamo crearlo prima che sia troppo tardi per evitare un disastro climatico (ecco i calcoli quantitativi). Ma un mondo migliore è possibile se davvero lo vogliamo.

(1) Bhandari, Khagendra P., Jennifer M. Collier, Randy J. Ellingson e Defne S. Apul. 2015. “Tempo di rientro energetico ed EROEI dei sistemi fotovoltaici: una rassegna sistematica ed una meta-analisi”. Renewable and Sustainable Energy Reviews 47 (luglio): 133–41. doi:10.1016/j.rser.2015.02.057.

Ecco la figura rilevante dall’articolo:

h/t Domenico Coiante, Marco Raugei e Sgouris Sgouridis

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Risorse: le ragioni del collasso

Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR

di Antonio Turiel

Cari lettori,

in più di una occasione abbiamo commentato su questo blog che il sopraggiungere dei limiti della crescita economica scatena un comportamento di tutto il sistema economico caratterizzato dalla sua forte non linearità. Questa espressione (non linearità) è molto diffusa fra i fisici, in particolare fra i fisici statistici, ma non lo è tanto fra i cittadini comuni ed anche quelli che la usano non sempre comprendono esattamente cosa si intende dire con essa. Ma per capire cos’è successo fino ad ora e cosa sta succedendo adesso e, ancora più importante, perché sta succedendo ciò che sta succedendo e perché si discosta tanto dalle nostre aspettative, credo che sia importante chiarire cosa si intende per comportamento lineare, quasi lineare e fortemente non lineare; e siccome tutti questi comportamenti sono cose in realtà naturali e prevedibili, perlomeno al di fuori dei fogli Excel di alcuni economisti che hanno una visione troppo semplicistica di quello che è la realtà. Un comportamento perfettamente lineare è quello che viene descritto con una linea retta.

In una retta, quando diciamo che la quantità A cresce (o decresce) in modo lineare rispetto alle variazioni della quantità B, quello che diciamo è che ad incrementi uguali di B si producono incrementi uguali di A, a prescindere da quale sia il punto in cui ci troviamo sulla retta. Inoltre, che se l’incremento di B viene moltiplicato per 2 (o per qualsiasi altro numero) l’incremento associato di A viene ugualmente moltiplicato per 2 (o per qualsiasi numero per cui viene moltiplicato anche l’incremento di B).

Nel mondo reale ci sono moltissime cose che hanno un comportamento lineare o molto vicino al comportamento lineare. Per esempio, se so che per andare da casa a scuola a piedi come faccio di solito impiego 10 minuti, rapidamente ne deduco che per andare da casa a scuola e tornare a piedi nello stesso modo impiegherò 20 minuti, poiché in tutto percorro il tragitto 2 volte (allo stesso modo, se facessi quel tragitto un numero N di volte impiegherei N volte 10 minuti). Un altro esempio domestico comune: se per fare la paella in casa ho verificato che con 6 mestoli di riso mangiano i 4 della mia famiglia, se domani avremo 8 invitati (e quindi insieme saremo in 12 a mangiare, cioè, 3 volte il numero che siamo di solito) so già che dovrò usare 18 mestoli di riso (cioè, 3 volte il riso solito). Il lettore potrà proporre un’infinità di esempi analoghi, frutto di contingenze quotidiane nelle quali si ha la necessità di stimare quanto tempo servirà per fare una cosa, che quantità servirà di qualcosa, quanto si otterrà da qualcosa, ecc. Questo tipo di situazioni è talmente comune che ha portato a definire una regola semplice per effettuare questi calcoli senza sbagliarsi, la regola de tre. L’applicazione di questa regola è talmente comune (cioè, ipotizzare che le relazioni fra le variabili siano lineari) che spesso, quando si pretende argomentare che da una cosa ne segue inesorabilmente un altra per analogia con la relazione che hanno altre due cose, si dice “per la stessa regola del tre che dice che ad A segue B, a C deve seguire D”.

Naturalmente non tutte le relazioni fra due quantità qualsiasi sono lineari, ma l’inerzia della regola del tre è talmente forte che molte volte viene applicata in maniera acritica, senza fermarsi a pensare se ha senso. Un esempio che faccio di solito per far vedere che la non linearità è molto più importante di quanto crediamo in situazioni fra le più comuni è il seguente: immaginiamo di andare in macchina a 40 km/h e pigiamo il freno, osservando che la macchina si ferma completamente dopo aver percorso 10 metri. Ora immaginiamo di andare a 80 km/h e di pigiare il freno esattamente allo stesso modo, esercitando quindi la stessa forza di frenata. Quanti metri credete che percorrerà ora la macchina prima di fermarsi completamente? La logica dell’onnipresente regola del tre porta quasi tutti a dire che la macchina percorrerà 20 metri (se andiamo il doppio più veloce la macchina avrà bisogno del doppio della distanza per frenare). La risposta corretta sarebbe 40 metri, a causa del fatto che l’energia cinetica va come il quadrato della velocità. Fortunatamente nel mondo reale a queste velocità l’aria spostata dall’avanzamento della macchina sarà già in regime di turbolenza e la forza di frenata di questa aria aiuterà il nostro affrettato autista a frenare entro una distanza più sensata anche se senza dubbio superiore ai 20 metri (ad ogni modo, se siete troppo affezionati all’applicazione della regola del tre in tutte le situazioni, vi raccomando di non guidare sulla Luna). In ogni caso, l’esempio illustra in che modo fidarci troppo della regola del tre ci può portare al disastro.

Per fortuna o per disgrazia, in molti casi la tendenza a linearizzare eccessivamente una realtà non sempre tanto lineare non funzione tanto male, compreso in quei casi in cui la relazione fra le due variabili non sia lineare, sempre che questa relazione non lineare sia sufficientemente leggera (in termini più matematici, che sia differenziabile) e che non vogliamo estenderla in modo eccessivo. Ciò è dovuto al Teorema di Lagrange (o del valore medio), che stabilisce che qualsiasi funzione leggera può essere approssimata intorno a qualsiasi punto da un retta senza commettere un errore troppo grande, sempre che non ci allontaniamo troppo dal punto iniziale.

Questo è il caso, ad esempio, della crescita percentuale tanto caro agli economisti quando parlano di PIL. Per valori piccoli dell’aumento annuale del PIL, l’errore commesso ipotizzando che la curva dell’evoluzione del PIL si comporti come una linea rette non è tanto grande nei primi anni. Per esempio, la curva che c’è all’inizio di questo paragrafo rappresenta il confronto fra una crescita annuale percentuale del 3% (linea rossa) rispetto ad una approssimazione lineare (linea verde) per un periodo di 10 anni. Come vedete, anche dopo 10 anni l’errore commesso dall’approssimazione lineare è inferiore al 4%. pertanto, applicare la nostra logica intuitiva della regola del tre al caso della crescita esponenziale non è una cosa inverosimile per certi periodi di tempo (per esempio 10 anni).

Tuttavia, questa logica della linearizzazione di quello che non è lineare ci portare spiacevolezze inaspettate per colpa della nostra imperizia matematica. Quando qualcosa è non lineare, questa mancanza di linearità deve finire per manifestarsi prima o poi e, se non facciamo attenzione, può farlo in modo disastroso. Prendendo di nuovo la curva della crescita del 3% dell’ultimo grafico, se invece di fermarci a primi 10 anni la vediamo a 100 anni, il risultato è sicuramente impattante.

La deviazione fra le curve non può più essere considerata piccola, come vedete. Se con la curva verde volessimo approssimare la crescita del PIL, questa crescita molto più rapida della curva rossa sarebbe sicuramente vista come un vantaggio (naturalmente lasciando da parte tutte le esternalità), ma se ciò che volevamo prevedere era l’evoluzione del debito estero del nostro paese, credo che sia evidente che la cosa non ha più tanto senso.

L’enorme divergenza che si osserva nel caso precedente, come sempre, ha a che fare con la mancanza di comprensione che l’essere umano ha delle implicazioni della funzione esponenziale, come recita la famosa frase di Albert Bartlett. La nostra tendenza a linearizzare ciò che non è lineare può finire molto male quando si tratta di stimare il comportamento dell’interesse composto, visto che ci si sbaglia di molto la stima di quello che succederà e questo può costare caro. Ma questo non è il peggiore degli effetti non lineari. Come mostrerò ora, la situazione può essere anche più drammatica quando le risorse disponibili sono finite.

L’esempio seguente è un archetipo di “falsa strategia vincente” che viene di solito spiegata nella teoria dei giochi. Immaginate che un giorno arrivi uno sconosciuto e vi dica che ha una strategia per puntare al casinò e vincere sempre. Il suo trucco, ci racconta il nostro apprendista stregone, è tanto buono che non dipende dal gioco, funzionerà con tutti. L’idea è la seguente:

Immaginiamo che in un determinato gioco d’azzardo la probabilità di guadagnare è p. Questo valore p si trova fra 0 (che vuol dire che è impossibile vincere) e 1 (che vuol dire che la vittoria è sicura). Sicuramente, a beneficio del casinò, p sarà più vicino a 0 che a 1. Per semplificare questa discussione, considereremo che se vinciamo il casinò ci dà il doppio di quello che spendiamo nella scommessa, per cui il guadagno netto è una quantità uguale a quella scommessa (recuperiamo la puntata e vinciamo altrettanto). Se perdiamo, non recuperiamo niente in soldi. Ciò che ci propone il nostro amico è che adottiamo il procedimento seguente:

1.- Fissiamo la quantità da scommettere in un valore iniziale C (dipende da quanto osiamo, può essere un euro, mille o un milione).

2.- Facciamo la nostra scommessa.

3.- Se vinciamo (probabilità p) ci intaschiamo la vincita e torniamo al punto 1.

4.- Se perdiamo (probabilità 1 – p), raddoppiamo la quantità da scommettere e torniamo al punto 2.

Con questo metodo, ci dice, ogni volta che completiamo la catena (ogni volta che torniamo al punto 1), avremo guadagnato una quantità di soldi esattamente uguale a C. E’ questo che ci dice questo individuo, ma noi conosciamo a sufficienza la matematica per verificarlo, così lo facciamo.

Comincio dalla puntata iniziale di C. Se vinco la scommessa (una percentuale p delle volte) avrò guadagnato C. Se perdo (una percentuale 1-p delle volte) avrò perso C. Supponiamo che abbia perso, così da trovarmi in quel 1-p delle volte. In quel caso vado e scommetto 2C. Se vinco (p(1-p) delle volte) vinco 2C, però devo sottrarre C che avevo perso nella prima scommessa, così guadagno nettamente C, cosa che conferma quello che ci diceva il nostro amico. Se perdo ( (1-p) delle volte) ho già perso C+2C=3C. Immaginiamo che mi trovi in questo (1-p)^2 delle volte nelle quali ho perso per la seconda volta. Adesso scommetto 4C. Se vinco (p(1-p)^2 delle volte) vinco 4C e sottraendo le 3C che avevo perso nelle due scommesse anteriori vinco nettamente C, confermando di nuovo ciò che dice il nostro collega. Se perdo ((1-p)^3 delle volte) accumulo altri 4C di perdite, che con le 3C che avevo già perso diventano 7C. E così di seguito. Risulta facile verificare che, se scommetto per l’ennesima volta avrò speso (2^(n-1)-1) C, scommetto  2^(n-1) C e se vinco (cosa che succederà il p(1-p)^(n-1) delle volte), vincerò 2^(n-1) C, per cui sottraendo le perdite mi resterà un rendimento di C, mentre se perdo (cosa che succederà il (1-p)^n delle volte), le mie perdite saranno  già del  (2^n-1) C, ma invece con una probabilità 1-(1-p)^n avrò guadagnato C dato che p è un numero positivo più piccolo di 1, 1-p è a sua volta più piccolo di 1, pertanto (1-p)^n è sempre più piccolo, che diminuisce ad un ritmo esponenziale col numero di volte che abbiamo testato questa strategia. Per esempio, per p=0,1 (cioè un gioco in cui abbiamo solo un 10% delle probabilità di vincere) ci troviamo che dopo 10 giocate seguendo questa strategia di scommesse abbiamo un 65% di probabilità di aver vinto una quantità di soldi uguale a C e solo un 35% di aver perso, questo sì, molti soldi. Con 20 giocate le probabilità di aver trionfato sono già del 88% e con 40 giocate avremo vinto il 98,6% delle volte. Alla fine, se scommettiamo il tempo necessario (se il numero di tentativi tende ad infinito, come dicono i matematici) riusciremo a vincere una quantità C con il 100% delle probabilità.

Quindi il nostro amico aveva ragione: scommettendo come dice lui, se ripetiamo tante volte quanto è necessario, siamo sicuri che vinceremo una quantità di soldi uguale a quella che scommettiamo. Tuttavia, c’è qualcosa che non quadra qui: i casinò del mondo non stanno fallendo, a quanto ne sappiamo, mentre invece sappiamo di gente che si è rovinata a forza di giocare nei casinò. Pertanto ci deve essere un errore logico in questo ragionamento. Ed effettivamente c’è: tutto il ragionamento esposto sopra ha senso soltanto de la quantità di risorse (in questo caso il capitale disponibile) è infinita. Nel momento in cui, come succede nel mondo reale, uno dispone di una quantità finita di soldi per scommettere, la strategia esposta sopra è una ricetta sicura per il disastro. Pensate che, se in 10 scommesse non siamo riusciti a stare in quel 65% delle volte in cui avremo vinto C, avremo accumulato una perdita di 1023 C (sì, 1023 volte la puntata iniziale). Se dopo 20 scommesse siamo ancora in quel 12% di volte in cui non avremo trionfato, le nostre perdite saranno di più di un milione di volte la scommessa iniziale C. Dopo 40 scommesse, se abbiamo la sfortuna di stare in quel 1,4% delle volte in cui non abbiamo ancora vinto, le nostre perdite saranno astronomiche: un miliardo di miliardi di volte C. Anche se la puntata iniziale fosse di un euro, stiamo parlando di una quantità che è decine di migliaia di volte più grande del PIL attuale di tutti i paesi della Terra uniti: è questa la magia della funzione esponenziale (perché sì, questa strategia di scommessa è esponenziale). Si può dimostrare (anche se risparmierò al lettore i dettagli pesanti) che s p è minore di 0,5 questa strategia di scommessa porta al fallimento assicurato se uno non dispone di una quantità infinita di soldi e, a causa della crescita esponenziale del debito, il tempo per arrivare a questo fallimento non è particolarmente lungo, ma che si comporta come il logaritmo del capitale disponibile. Per coloro che hanno un qualche ricordo della statistica elementare, basti dire che se si calcola la speranza matematica (la media teorica, in definitiva) delle vittorie sperate dopo aver scommesso n volte, con le cifre che riportavo più in alto, questa è semplicemente [1-(1-p)^n] C – (1-p)^n (2^n-1) C = C [1-(1-p)^n 2^n]= C {1- [2(1-p)]^n}. Cosicché la chiave risiede nel fattore 2(1-p) : se è più grande di 1 (nel qual caso le perdite crescono e crescono) o se è più piccolo di 1 (nel qual caso le vincite finiscono per compensare le perdite. Lo possiamo anche formulare direttamente in termini ) o più piccolo di probabilità di vincere: la chiave pertanto è se 2p è più grande di uno (nel qual caso finiremo per vincere) o più piccolo di 1 (nel qual caso le perdite cresceranno esponenzialmente col tempo). Pertanto, se il gioco è tale che abbiamo meno del 50% delle probabilità di vincere, allora ci rovineremo di sicuro ed anche molto rapidamente. Se la probabilità di vincere è maggiore del 50%, allora vinceremo molti soldi, anche se più lentamente. E se è esattamente del 50% non vinceremo né perderemo. Come potete immaginare, non c’è nessun gioco del casinò in cui la probabilità di vincere sia superiore al 50%.

L’apparizione del fattore 2p non è casuale: in qualsiasi gioco d’azzardo la vincita deve compensare le perdite perché il gioco risulti redditizio per il giocatore. Siccome nel gioco di cui abbiamo parlato viene raddoppiata la puntata realizzata, è per questo che appare il 2. Se in questo gioco ti dessero una quantità N di volte la tua posta iniziale, il fattore critico sarebbe che Np sia più grande di 1. A prescindere dalla strategia di scommessa che venga adottata, non si può cambiare se il gioco il fatto che il gioco sia redditizio o meno, ciò che modifica il modo di puntare è a quale ritmo si vincono o si perdono soldi nel gioco stesso. E la strategie esponenziale è particolarmente amplificatrice. La cosa interessante di questo caso è che la strategia esponenziale, questo “raddoppiare la puntata”, è una strategia vincente se le risorse sono infinite, ma dal momento che si dispone di risorse finite, non solo il gioco è perdente indipendentemente dalla strategia di puntata, ma che è proprio quella di maggiore successo nel caso si disponga di risorse infinite (quella esponenziale), non disponendone si trasforma nella più disastrosa.

L’esempio che ho appena discusso non è tanto lontano dalla realtà come potrebbe sembrare. Sicuramente il lettore è consapevole che la strategia di “raddoppiare la puntata” è lo stesso principio che opera nei casi di gioco d’azzardo patologico (ludopatia) o dipendenza dal gioco: il ludopata finisce per dilapidare il suo patrimonio e per sperperare i soldi che gli prestano amici e famigliari per rinnovare le sue scommesse, visto che “la striscia negativa passerà e viene il momento di vincere”, ciò che essenzialmente significa “raddoppiare la puntata” nella speranza che per mera statistica le carte verranno date bene la volta successiva. E’ un po’ meno evidente che si tratta dello stesso principio che ha operato e che opera nella creazione delle bolle finanziarie, nelle quali l’eccesso di leveraggio (capitale che viene chiesto in prestito ad altri per amplificare il profitto di un affare) finisce per amplificare non i profitti ma le perdite. Nelle bolle finanziarie, la cosiddetta “esuberanza irrazionale” dei mercati significa che si scommette in modo esponenziale sulla crescita di un mercato che, a giudizio di coloro che scommettono in tal senso, può soltanto crescere in continuazione per sempre. Ovviamente, quella cosa non è così e prima o poi si esaurisce il numero di investitori disposti ad investire e siccome in nessun modo esiste un affare tanto buono da poter resistere ad un ritmo esponenziale di investimento in modo infinito, giunge un momento (anche se non è evidente nemmeno per le aziende di investimento che lavorano in quel modo e che si può evidenziare soltanto seguendo i flussi di capitale fra i diversi attori) in cui per forza si stanno pagando gli investitori dell’inizio col capitale che viene investito dai nuovi investitori. Se questo vi ricorda una truffa piramidale, conosciuta anche come schema Ponzi, è perché è la stessa cosa, anche se (almeno in alcune occasioni) sopraggiunga in modo inavvertito per coloro che giocano a questo gioco. E dato che di base si tratta di uno schema di puntata esponenziale, di “raddoppiare la puntata”, come nell’esempio di cui parlavamo prima, la finitezza delle risorse porta ad un collasso repentino, ad una forte non linearità, come quella mostrata nella seguente figura:

Transizione di fase di ordine 0

Questo tipo di transizione di fase, di cambiamento repentino, insomma, di non linearità, è l’unico che sono soliti evocare la maggior parte degli economisti le poche volte che accettano di discutere della finitezza delle risorse. Nelle poche occasioni in cui si entra in questa discussione, ciò che considerano questi economisti è che si può giungere a produrre un “eccesso di investimento in capacità produttiva” e che di conseguenza alcune società non recuperano il proprio investimento e possano giungere al fallimento. Proiettando la stessa idea alla scarsità di risorse naturali in generale e al picco del petrolio in particolare, questi economisti pensano alla scarsità di risorse in termini di “tutto o niente”, in termini di “crescita o carenza assoluta” e credono che sia possibile esaurire completamente le risorse in un lasso di tempo determinato. In conseguenza di questa carenza, il modello mentale di coloro che si aspettano dall’evoluzione economica se le risorse sono finite, è quello del grafico sopra, un  dente di sega affilato: prima della caduta, si cresce sempre a buon ritmo e dopo di essa tutto è collassato. Questo tipo di collasso repentino, in cui niente indica che stia per terminare la disponibilità della materia prima imprescindibile fino a che questa si esaurisce completamente, è del tutto eccezionale (rare volte può essere osservato nel caso concreto di qualche società che investe in modo assurdo e fallisce) e naturalmente non descrive in assoluto quello che succede nell’economia su grande scala. Tuttavia, questa è l’idea che hanno in testa molti economisti quando si parla loro di risorse finite. Dato che ovviamente non è questo ciò che si osserva né nella produzione di materie prime né tanto meno nell’evoluzione dell’economia, questo gruppo di economisti curiosamente rimproverano noi che parliamo del problema dell’esaurimento delle risorse perché utilizziamo un modello niente affatto realista, quando in realtà non siamo noi che lo utilizziamo ma nasce dai loro pregiudizi e ignoranza sulla questione.

Alcuni economisti un po’ più colti si rendono conto del fatto che la Natura non fa balzi e che quando si tratta di processi collettivi è una grande eccezione trovarsi in situazioni di transizione tanto selvagge come quella del caso precedente. Anche se questi altri economisti continuano a tenere la testa nell’idea che l’esaurimento delle risorse si produce a causa dell’estrazione totale delle stesse in un tempo ben delimitato, credono che le forze del mercato potrebbero individuare l’arrivo a questo momento di esaurimento e in qualche modo compensarlo in parte, riservando una parte della materia prima di riserva per poterla usare nei momenti successivi alla transizione. In questo modo, la transizione forzata verrebbe addolcita e il cambiamento non sarebbe tanto binario (dal “tutto” della crescita al “niente” del collasso) ma più dolce, in maniera analoga a ciò che descrive la curva seguente:


Transizione di fase di ordine superiore

Anche se un po’ più sensato del caso precedente, questo tipo di modello mentale a sua volta non è troppo realistico, visto che essenzialmente modifica solo il comportamento in un ambiente più o meno esteso dal momento della transizione ed escludendo quella zona in definitiva ci troviamo nella stessa situazione del caso del “dente di sega”: una fase iniziale nella quale la crescita sale in modo vigoroso ed una fase terminale nella quale non c’è niente, la risorsa si è esaurita completamente e tutto ha collassato. Siccome, ovviamente, non si osserva niente di simile, la conclusione è sostanzialmente la stessa del caso precedente: non c’è alcun problema di finitezza delle risorse.

Come sanno già i lettori assidui di questo blog, nella realtà la finitezza delle risorse non si manifesta con un esaurimento totale delle stesse in uno spazio concreto di tempo, ma con una tendenza alla diminuzione della produzione che si può protrarre per decenni. In questa fase di esaurimento, per ragioni meramente fisiche e geologiche, la produzione andrà decadendo, ad un ritmo che finisce per essere sufficientemente significativo quando si contempla su scala decennale, ma che non lo è tanto se guardiamo i dati a mesi o settimane. Da un punto di vista matematico, la materia prima non arriva mai ad esaurirsi, anche se le quantità che si finiscono per produrre da essa col passare del tempo giungono ad essere talmente piccole da non essere significative; nella pratica, la materia prima smette di essere rilevante per la società che la utilizza nel giro di alcuni decenni e la sua produzione potrebbe giungere ad interrompersi semplicemente per mancanza di interesse sociale verso di essa. Il modello di curva di produzione di questo materiale (che finisce per tradursi in un modo o nell’altro nell’evoluzione economica), quando viene osservato su scala di decenni, è una cosa che somiglia alla curva che segue queste linee:


Transizione di fase di ordine elevato

La struttura della curva non ha motivo di essere simmetrica, in quanto può accadere che la fase iniziale di crescita sia più rapida o più lenta di quella successiva di decrescita. Tuttavia, tanto la fase di espansione tanto quella di contrazione sono esponenziali: all’inizio le percentuali delle variazioni annuali sono abbastanza costanti e positive e alla fine sono ugualmente costanti, ma negative. Questo tipo di curva, tipo curva di Hubbert, è un’idealizzazione della situazione reale: i fattori sul terreno (economici, politici, sociali) fanno sì che l’evoluzione reale, tanto della produzione della materia prima tanto dell’economia, sia qualcosa di più complicato, pertanto l’evoluzione reale potrà avere fasi di valori maggiori o minori di quello che indicava la curva ideale. Tuttavia, sul lungo termine le leggi naturali finiscono per dominare i desideri degli uomini ed inesorabilmente la curva reale si troverà al di sotto di quella ideale, anche se molto vicina ad essa se siamo sufficientemente prudenti.

A parte che una curva di produzione tipo Hubbert è più complessa del resto dei modelli discussi in questo post, ha qualcosa in comune con l’esempio delle scommesse, il fatto è che una strategia di investimento esponenziale porta rapidamente al disastro garantito, in quanto il profitto non compensa l’investimento, cioè quando inizia il declino della risorsa. Una situazione che, a quanto pare, è quella che si sta verificando col petrolio e che ci può portare a precipitare molto più rapidamente nell’abisso della spirale di distruzione dell’offerta – distruzione della domanda. Per questo è cruciale fare un’analisi corretta della situazione per evitare di aggravarla inutilmente, semplicemente perché stiamo seguendo la stessa strategia di investimento di sempre senza comprendere che adesso può essere molto dannosa.

La gestione di una situazione tanto complessa come quella attuale, nella quale il petrolio sembra essere giunto al suo massimo storico di produzione e sta cominciando un declino che si vedrà accelerato a causa degli errori di investimento (eccessivo dal 2011 al 2014 con il miraggio del fracking, troppo scarso dal 2015 al momento attuale per colpa del crollo dei prezzi associato alla contrazione della domanda), richiede un’analisi seria tanto per cominciare. Per fare tale analisi potrebbe servire tempo, si devono raccogliere i dati e studiarli con attenzione, senza dubbio, senza accettare nessuna posizione in anticipo, ma senza scartare nemmeno nessuna ipotesi in anticipo, anche se questa contraddica un paradigma economico, quello attuale, che a volte viene accettato come se fosse un dogma religioso indiscutibile.

Ma un’analisi seria non può basarsi su una negazione infantile dei fatti e dei dati che ci mostrano che c’è un problema serio e che si sta aggravando nel mercato del petrolio. Un’analisi seria deve superare i soliti atteggiamenti condiscendenti e paternalisti degli economisti di testata verso coloro che spiegano serenamente il problema delle risorse e cercano di proporre soluzioni, anche se queste si separano da quanto accettato dall’ortodossia economica.  Se, come mostrano i dati, la produzione di idrocarburi liquidi negli Stati Uniti è diminuita già di un 10% nell’ultimo anno, se le autorità russe danno per scontato il declino della propria produzione nei prossimo anni e se si cominciano ad accumulare gli indizi del fatto che l’Arabia Saudita è giunta al proprio picco del petrolio, non può essere che si continua a tacciare di catastrofisti coloro che semplicemente citano questi dati e che, per squalificarli sommariamente e non correre il rischio di pensare a cose scomode, li si etichetti attribuendo loro atteggiamenti alla Mad Max che, come ho spiegato tante volte, non hanno.

Qui, signore e signori, si tratta di dati, si tratta di scienza e si tratta di cercare soluzioni tecniche ad una sfida di prim’ordine di grandezza. Come ho anche scritto molte volte, il futuro dell’Umanità può anche essere brillante, se ci decidiamo a prendere le redini della situazione ed agire di conseguenza. Però bisogna farlo.

Saluti.
AMT

P. S.: Grazie a Rafa, le cui piacevoli conversazioni sul treno hanno ispirato questo.

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Mai gridare al lupo! La peggior previsione climatica mai fatta

Da “Cassandra’s Legacy”. 9 Giugno 2016, Traduzione di MR

Se ti metti a gridare “al lupo!” e il lupo non viene, fai una gran figuraccia. Ma ne farai una ben peggiore se non gridi “al lupo!” e poi il lupo arriva.


Il professor Nicola Scafetta mostra le sue previsioni del 2010 delle temperature globali (da Meteo Live News) ). Queste previsioni si sono rivelate sbagliate in modo spettacolare. 


di Ugo Bardi

Il dibattito su qualsiasi cosa abbia a che fare col futuro spesso diventa una versione particolare della storia di “gridare al lupo”. Immaginate che qualcuno gridi al lupo a che il lupo non arrivi. Qualcun’altro concluderà sempre che il lupo non esiste (o che è una cosa di cui non ci dovremmo preoccupare). Una cosa simile avviene in aree come la scienza del clima quando le incertezze del passato vengono prese come indicazione che il cambiamento climatico non esiste (o che è una cosa di cui non ci dovremmo preoccupare).

Davvero, è una perversione della logica, ma ha le sue ragioni. Supponete che l’apparizione dei lupi sia un fenomeno relativamente raro. A questo punto, anche se non sapete quasi niente sui lupi, è una scommessa facile: sarete molto più popolari coi pastori se dite loro che il lupo non verrà. E, di solito, sarete in grado di affermare che avevate ragione, eccetto quando il lupo arriva, ovviamente. Ma, in quel caso, è probabile che i pastori saranno molto più occupati a salvare le loro pecore che a castigare voi per la vostra incompetenza in materia di lupi.

Una cosa simile sembra accadere con la scienza del clima, dove un sacco di gente, che di solito sa molto poco sulla scienza del clima, tende a rassicurare la gente che il cambiamento climatico non esiste o che non è niente di cui preoccuparsi. Nella misura in cui le case sul lungomare di solito non vengono spazzate via ogni settimana da uragani e dal livello del mare che aumenta, questi previsori rassicuranti possono affermare di aver avuto ragione.

Ma a volte anche i castigatori di Cassandre potrebbero avere un momentaccio quando cercano di fare previsioni quantitative. Un caso rimarchevole è quello di Nicola Scafetta, che ha cercato di usare un sofisticato trattamento statistico (vale a dire: torturiamo i dati finché non confessano) per provare che il riscaldamento globale è causato principalmente dai cicli planetari a lungo termine. Sulla base dei suoi modelli, nel 2010, ha previsto che le temperature globali avrebbero dovuto rimanere costanti o avrebbero dovuto diminuire. Mentre nel 2012 avva previsto che le temperature avrebbero dovuto aumentare ad un tasso molto più lento di quello previsto dai modelli climatici standard. Su queste previsioni, aveva ottenuto una certa notorietà in rete.

Be’, se esistesse un premio per le peggiori previsioni climatiche, penso che queste di Scafetta potrebbero legittimamente concorrervi. Le temperature globali hanno rifiutato di seguire le sue previsioni ed hanno di fatto superato il risultato dei modelli del IPCC che Scafetta aveva criticato.

Giudicate voi stessi. Sotto potete vedere i risultati presentati da Scafetta nel 2010 (N. Scafetta. I cicli climatici e le loro implicazioni. Periodico semestrale dell’Associazione Normalisti. n.2 dicembre 2010) (vedete anche questo link; le temperature recenti sono state aggiunte in rosso):

Alcune previsioni più recenti di Scafetta sono un po’ meglio, ma ancora ampiamente fuori bersaglio (le temperature recenti sono state aggiunte in rosso):

Quindi ecco la conclusione: visto che abbiamo prove fisiche solide che i lupi esistono (a differenza dei draghi e degli unicorni), è meglio dare ascolto a coloro che vi dicono che le vostre pecore potrebbero essere in pericolo. Allo stesso modo, visto che abbiamo prove fisiche solide che i gas serra provocano riscaldamento e che la loro concentrazione sta aumentando, è meglio dare ascolto a coloro che vi dicono che la vostra proprietà in riva al mare è in pericolo (e non solo quella!). 
Riconoscimento: Stefano Caserini ha preparato le figure mostrate in questo articolo.
Nota: questo articolo è stato indotto da un dibattito che ho avuto oggi con Nicola Scafetta alla conferenza AIGE-IIETA 2016 di Napoli. Nel suo discorso, Scafetta ha passato gran parte del suo tempo a criticare i modelli climatologici standard, dicendo che non riproducono bene i dati storici e che sono affetti da grandi incertezze. Ha detto che questi modelli in gran parte esagerano la sensitività climatica al CO2, anche se ha affermato di non negare che i gas serra abbiano un effetto sulle temperature. Poi, ha mostrato i risultati dei suoi modelli confrontati coi dati storici, ma sempre fermando il confronto al 2012 o al 2013. ha anche detto che secondo alcuni nuovi lavori che ha fatto, lui crede che Giove abbia un forte effetto sulle temperature terrestri. 

Nel mio commento, ho mostrato al pubblico i dati che pubblico in questo post ed ho chiesto a Scafetta come può giustificare tali errori lampanti. Scafetta ha detto che sono dati vecchi e che ora ha modelli nuovi. Ho risposto dicendo che non può cambiare le sue ipotesi ogni anno ed ogni anno fingere di fare previsioni affidabili. Lui ha ripetuto che il suo modello ora funziona. Poi, il moderatore ha detto che dovevamo fermarci ed ha raccomandato a tutti cautela nel credere ai modelli. Ed è finita lì!


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Gli alieni siamo noi.

Gli alieni siamo noi.

di Max Strata

No, a compromettere ogni giorno di più la biodiversità e la tenuta degli ecosistemi naturali presenti sul nostro pianeta, non sono strani mostri venuti da qualche remoto pianeta della nostra galassia nè una specie che giunge in superficie dalla profondità della terra.

Non è in corso nessun guerra dei mondi immaginata da H.G. Wells, nè il tentativo della Spectre di impossessarsi del pianeta a costo di far fuori gli esseri viventi che lo abitano.

Gli unici responsabili di quanto stà avvenendo siamo noi, la specie umana.

In effetti, uno degli aspetti più complicati da riconoscere e da accettare quando si parla di cambiamento climatico e delle attività maggiormente impattanti sul pianeta, è proprio la varietà e la drammaticità degli effetti che le nostre azioni stanno provocando a livello globale e che sono drasticamente destinate ad aumentare nel prossimo futuro se non poniamo immediatamente un freno a ciò che stiamo combinando.

Rachel Warren, scienziata del dipartimento di studi ambientali dell’Università dell’East Anglia e titolare di una importante ricerca recentemente pubblicata nella sezione Climate Change della rivista Nature, nel descrivere l’esito degli studi effettuati sul rapporto tra cambiamento climatico e sopravvivenza di specie animali e vegetali, pone l’accento sul fatto che mentre di solito l’attenzione si è focalizzata sulla scomparsadelle specie più rare o su quelle che sono a rischio di estinzione, non si parla di cosa sta accadendo allespecie più comuni e diffuse.

In assenza di concrete politiche di riduzione dell’emissione dei gas serra, l’articoloevidenzia come alla fine di questo secolo circa metà delle piante e un terzo degli animali attualmente conosciuti potrebbero essere estinti.

La causa di questa gigantesca perdita di biodiversità, è dovuta alla sensibile riduzione, o addirittura alla scomparsa, dei loro habitat naturali, ovvero dei luoghidove queste specie nascono, vivono e si riproducono. Un collasso che, spiega la ricercatrice, potrebbe avere un effetto a catena con violente ripercussioni economiche dovute al mutamento dei modelli agricoli, all’inquinamento dell’acqua e al peggioramento della qualità dell’ariarespirabile.

La ricerca si basa sull’analisi di oltre 50 mila specie di piante e di animali e i risultati dicono che solo il 4% delle specie animali – e nessuna pianta – beneficerebbero dell’aumento della temperatura.

Le ripercussioni sulla nostra specie sarebbero pertanto gravissime in quanto una perdita così diffusa della biodiversità su scala globale è destinata ad impoverire i servizi naturali che gli ecosistemi ci rendono gratuitamente: purificazione dell’acquae dell’aria,prevenzione delleinondazioni, nutrimento per il suolo, insomma tutti quei cicli biogeochimici che sono essenziali per la vita sul pianeta e che noi consideriamo scontati ma che non lo sono affatto.

Accanto a questo studio è opportuno citare anche l’aggiornamento dell’inventario del rischio di estinzione delle singole specie, la cosiddetta “Lista Rossa” che viene redatta dall’I.U.C.N., e il quadro che ne emerge è desolante.

Su 672 specie di vertebrati prese in considerazione (576 terrestri e 96 marine), quasi un terzo sono a rischio di estinzione in tempi brevi.

Oggi la concentrazione di CO2 presente in atmosfera ha raggiunto e superato le 400 parti per milione che corrispondono al 142% in più rispetto al livello preindustriale, mentre gli altri principali gas ad effetto serra, il metano e l’ossido di azoto, sono rispettivamente aumentati del 253% e del 121% rispetto ai livelli anteriori a1 1750, raggiungendo un record che non si registrava da oltre 3 milioni di anni (ben prima della comparsa dell’Homo sapienssulla Terra).

A causa di questi gas, fondamentali, per garantire la vita sul pianeta attraverso l’effetto serra ma deleteri oltre una certa soglia, oggi, la capacità della Terra di trattenere la radiazione solare è aumentata del 34% rispetto al 1990: una percentuale enorme e inimmaginabile fino a pochi anni fa.

Il cambiamento climatico è dunque ormai una minaccia per la biodiversità globale e secondo i calcoli effettuati dalT.E.E.B. (The Economics of Biodiversity and Ecosystem Services), il programma mondiale dell’O.N.U. che prova a misurare il valore economico della natura, l’impatto che le attività umane producono sulle risorse e sui sistemi naturali, ha ormai un costo di oltre 7.300 miliardi di dollari all’anno.

Per Robert Wilson, ricercatore dell’Università di Exeter nel Regno Unito e co-autore di un recente studio internazionale pubblicato dal prestigioso Proceedings of National Academy of Sciences in cui ha analizzato dati provenienti da tutto il mondo, emerge come gli effetti del riscaldamento globale sono ormai riscontrabili in ogni parte del pianeta, in ogni gruppo di animali e di piante: dagli uccelli, ai vermi, ai mammiferi marini, dalle alte catene montuose, alle giungle ed agli oceani.

Fra i casi citati nello studio, spicca l’esempio della riduzione, nel Mare di Bering, di alcuni molluschi bivalvi fonte principale di cibo per le specie al culmine della catena alimentare di quelle zone. Queste piccole conchiglie, nell’arco di soli due anni, a causa dell’assottigliamento della copertura di ghiaccio sui loro mari, si sono ridotte di ¾ passando da 12 a 3 per metro quadrato, un fatto che verosimilmente provocherà non pochi guasti agli equilibri ecologici di quell’area.

I tassi di estinzione attuali confrontati con quelli misurati attraverso lo studio dei fossili, indicano che oggi perdiamo un numero di specie da 10 a 100 volte superiore a quello registrato nei periodi storici e che in pratica, stiamo vivendo un’estinzione generalizzata di massa.

L’uso dei combustibili fossili ed il nostro “non negoziabile stile di vita” fatto di incessate urbanizzazione e distruzioone di luoghi natutali, ne sono la causa.

Negli ultimi decenni, l’impatto delle attività antropiche sull’equilibrio biologico dell’ambiente marino e sulla ricchezza della sua fauna è stato devastante.

I fenomeni di inquinamento diffuso, la cementificazione delle coste, la distruzione delle paludi costiere, il traffico navale, la pesca intensiva e i mutamenti climatici in corso, hanno decimato gli stock ittici e continuano ad impoverire la biodiversità marina ad un ritmo impressionante.

E’ stato calcolato che su scala globale, la cattura di pesce selvatico si è fermata ai livelli dei primi anni novanta del XX secolo, ovvero a circa 90 milioni di tonnellate l’anno, mentre la F.A.O. ha dichiarato che 70 delle 200 più importanti specie marine sono a rischio di estinzione.

Nei cinque continenti, il numero dei pescatori di professione è aumentato vertiginosamente e in modo differente, così, mentre in alcune zone del pianeta questo si è ridotto, in altre si è decuplicato, passando complessivamente da circa 13 milioni a oltre 30 milioni di persone dedite a questa attività.

Tuttavia non sempre è possibile effettuare delle previsioni puntuali sulla base dei dati attualmente a disposizione. Le risorse ittiche sono incostanti dato che in mare la produttività e la predazione oscillano in modo molto diverso che sulla terra ferma, in quanto la biomassa varia moltissimo in relazione alle modificazioni che avvengono nelle correnti, nella quantità di nutrienti e nella temperatura.

Rispetto ad alcuni segnali che quindi risultano non facili da interpretare, alcuni studi mirati indicano comunque come negli oceani lo zooplancton sia diminuito in modo significativo e che senza efficaci controlli praticati su scala internazionale, gran parte delle risorse ittiche potrà arrivare al collasso entro la metà di questo secolo.

Uno dei principali problemi è legato al meccanismo dei segnali deboli che arrivano dalle profondità del mare prima che il tracollo si manifesti.

E’ noto infatti che le curve di rendimento delle risorse ittiche sono piuttosto piatte e ciò può determinare un aumento della pesca per diversi anni prima che i livelli di cattura diminuiscano in modo vertiginoso e in tempi molto stretti.

Soprattutto per le specie facilmente identificabili con le moderne tecnologie di ricerca, il segnale debole suggerisce erroneamente una generale abbondanza, spesso legata a concentrazioni locali, mentre in realtà il sovrasfruttamento ha già raggiunto il suo apice.

Come scrive Jorgen Randers nel suo “2052: Rapporto al Club di Roma” (8), “Il pescatore che ha catturato l’ultimo grande banco di merluzzo nell’area del George’s Bank al largo della costa settentrionale degli Stati Uniti, torna a casa soddisfatto, la sua barca è piena fino all’orlo e dice alla moglie che è andato tutto bene, senza sospettare che in realtà quella era la sua ultima battuta di pesca”.

Su scala locale le analisi e le previsioni sono decisamente più puntuali.

Nel caso del Mediterraneo, sulla base dei dati raccolti dal Comitato tecnico, scientifico ed economico della pesca europea (STECF), la coalizione OCEAN 2012 ha chiaramente evidenziato come il 95% degli stock ittici risultano sovrasfruttati.

Secondo le ricerche effettuate per ripristinare il livello di sostenibilità degli stock, in particolare nel Tirreno centrale e meridionale, nell’Adriatico meridionale e nello Ionio, è infatti necessario ridurre il prelievo attuale di circa il 50%, con punte del 90% per la pesca al nasello in alcune aree.

Nel grafico che segue le curve mostrano i diversi possibili livelli di declino delle catture a livello mondiale misurandone il peso pro-capite (kg a persona), a partire dal progressivo impoverimento degli stock che si è manifestato nell’ultima decade del XX secolo.

L’ecologia ci insegna che i sistemi biologici non sono affatto lineari e ciò comporta che la risposta di un ecosistema ad un cambiamento causato da un fattore esterno, può non essere semplice da prevedere. I tempi e le modalità di risposta sono infatti variabili e proprio per questo possono manifestarsi cambiamenti improvvisi e drammatici che riguardano singoli processi o singole specie (per questo motivo definite specie chiave) che hanno riflessi sull’intero sistema.

In “2052” (8), lo studioso norvegese Dag O. Hessen, in un suo articolo sugli scenari che potranno interessare il mare del Nord nei prossimi anni, evidenzia in modo esemplare come una piccola e apparentemente insignificante specie di crostaceo imparentato con granchi e aragoste ma dalle dimensioni di pochi millimetri, giochi un ruolo determinante all’interno di quell’ecosistema.

Il Calanus planctonicoè infatti una specie chiave perché a dispetto delle sue dimensioni è presente in grandi quantità e influenza in modo determinante le catene trofiche di quell’area.

Poiché la temperatura del mare del Nord si sta velocemente riscaldando a causa del mutamento climatico in corso, con effetti che si estenderanno fino all’oceano artico, la popolazione di Calanus ne verrà fortemente condizionata.

Le temperature più alte, specialmente nelle acque di superficie (fino a 2 gradi in più a metà di questo secolo), limiteranno il rimescolamento di queste ultime con quelle di profondità più fredde e ricche del fitoplancton di cui questa specie si nutre, tanto da determinarne un suo calo numerico. Sfortunatamente la scarsità di Calanus significherà scarsità di cibo per molte specie di pesci, una insufficienza che a sua volta si rifletterà sugli uccelli marini, sulle foche, e sugli orsi polari, causando il famoso effetto a cascata che verosimilmente comprometterà questa notevole rete alimentare.

Come è evidente, la centralità di una specie chiave all’interno di un ecosistema ne indica la vulnerabilità.

Riferendo i contenuti della relazione biennale dell’I.P.S.O. (International Programm on the State of the Ocean), Alex Rogers, professore di biologia all’Università di Oxford, ha chiarito che l’acidificazione in corso nei mari è senza precedenti nella storia conosciuta della Terra e che la salute del mare si sta degradando vertiginosamente e con effetti imminenti rispetto a quanto previsto precedentemente .

Gli attuali tassi di rilascio di carbonio negli oceani sono infatti 10 volte più rapidi di quelli che hanno preceduto l’ultima grande estinzione di specie, che è stata quella del Paleocene-Olocene, avvenuta circa 55 milioni di anni fa.

Dai rilievi dell’ I.P.S.O. emerge quindi come l’attuale processo di acidificazione sia il più importante negli ultimi 300 milioni di anni, secondo le registrazioni geologiche.

Ma quanti conoscono il ruolo fondamentale che il mare gioca nell’equilibrio della vita sul pianeta ?

Considerato che il fitoplancton marino produce quasi la metà dell’ossigeno presente in atmosfera e che il 90% di tutte le forme viventi si trova negli oceani, è facile intuire cosa può accadere alterando i processi biochimici del più grande insieme di ecosistemi del pianeta.

I rilievi, stanno evidenziando come gli organismi marini siano sottoposti ad uno stress difficilmente tollerabile.

Gli animali marini usano segnali chimici per percepire il proprio ambiente e per localizzare prede e predatori e ci sono evidenze che il processo di acidificazione stia interferendo con questa capacità fino a comprometterla: quante di queste specie saranno effettivamente in grado di adattarsi alle nuove condizioni ?

Pur nella consapevolezza che grandi porzioni oceaniche restano da verificare e che, come abbiamo visto, i “feedback” che arrivano dagli oceani sono spesso lenti e apparentemente non chiari, Rogers ha sottolineato il fatto che ci troviamo in presenza di un cambiamento molto rapido e su larga scala che dovrebbe rappresentare una preoccupazione estremamente seria, considerati i limiti del mare nel sostenere la vita sul pianeta. E’ per questo motivo che la comunità scientifica chiede di mettere in campo un’iniziativa che permetta di sviluppare le conoscenze sull’acidificazione degli oceani, ed è per questo che l’UNESCO chiede la realizzazione di un meccanismo internazionale in grado di trattare specificamente questo problema affinché la questione non resti ai margini dei negoziati sui cambiamenti climatici.

Assorbendo enormi quantità di carbonio e calore dall’atmosfera, gli oceani del mondo hanno finora contribuito a proteggere gli ecosistemi terrestri e gli esseri umani dagli effetti peggiori del riscaldamento globale, ma ciò sta comportando mutamenti profondi sulla vita marina. Del resto, come abbiamo visto, la capacità del mare di assorbire CO2 è comunque limitata e il suo riscaldamento compartecipa allo scioglimento dei ghiacci polari in una catena di eventi che hanno effetti globali.

Considerato che c’è un ritardo temporale di diversi decenni fra il rilascio del carbonio in atmosfera e gli effetti sui mari, ciò significa che una ulteriore acidificazione ed un ulteriore riscaldamento degli oceani sono al momento inevitabili, anche se la nostra specie riuscisse a ridurre drasticamente e molto rapidamente le emissioni di gas climalteranti.

A conferma di quanto documentato, durante l’ultima giornata mondiale della Biodiversità, i biologi e i naturalisti che lavorano al programma ambientale dell’O.N.U., hanno potuto affermare che l’essere umano, attualmente, rappresenta per la quasi totalità delle specie animalie vegetaliuna autentica minaccia di estinzione di massa.

La sesta, in ordine di tempo, tra quelle conosciute dalla comparsa della vita pluricellulare.

Calcoli prudenziali, effettuati alcuni anni fa dal biologo Edward Owen Wilson, docente ad Harvard, stimano infatti che ogni anno, per cause connesse alle attività antropiche, si estinguono circa trentamila specie.

Una cifra che ora viene rivista al rialzo, in considerazione delle condizioni sempre peggiori in cui versano gli ecosistemi.

In conclusione, se non cambiamo in fretta il nostro atteggiamento e le nostre abitudini (e il riferimento non è certo alle comunità umane che vivono in modo tradizionale e a basso impatto ambientale), è bene sapere, come scrisse Bateson, che non solo porteremo a compimento la più grande strage della storia del pianeta ma noi stessi faremo la fine di una palla di neve all’inferno.

Insomma, gli alieni siamo noi.

* Max Strata è consulente ambientale.

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L’Università di Firenze alla ricerca della sostenibilità


7 Giugno 2016: Il rettore dell’Università di Firenze, Prof. Luigi Dei, inaugura la manifestazione “ScienzEstate” a Firenze. Quest’anno, il tema principale è la sostenibilità. (vedi anche la pagina di Unifi dedicata alla sostenibilità su Facebook)

L’ateneo di Firenze sta facendo un grosso sforzo per posizionarsi come ateneo sostenibile e come leader sull’argomento “sostenibilità”. E’ un’iniziativa spinta con decisione dal nuovo rettore, il prof. Luigi Dei, come un modo intelligente per reagire alle grosse difficoltà che ci troviamo di fronte in questo momento; soprattutto in tema climatico: Gli obbiettivi stabiliti a Parigi con la COP21 non saranno raggiungibili senza un cambiamento di rotta fondamentale di tutta la società. Per questo scopo, le nostre università possono fornire competenza, formazione, informazione e molto di più per aiutare la “società civile” a muoversi nella giusta direzione.

Quindi, il primo passo è ora quello di coordinare le varie attività, molte di altissimo livello internazionale, che un grande ateneo come quello di Firenze ha al suo interno. E non solo attività di ricerca, ma anche tutto quello che possiamo fare come ateneo per dare l’esempio di comportamenti virtuosi in campo ambientale, come nella gestione dei rifiuti e in quella dell’efficienza energetica degli edifici e dei trasporti. Anche qui, si fanno molte cose eccellenti nell’Università di Firenze, ma spesso slegate fra di loro ed episodiche. Bisogna coordinarle per cercare di fare “massa critica” e migliorare.

L’impegno di cercare di far partire questa coordinazione è un lavoro che il modesto sottoscritto (Ugo Bardi) si è preso all’anima di fare come delegato su questo argomento. A breve, dovremmo avere un sito Web di Ateneo dedicato alla sostenibilità. Ma, già ora, è nata la pagina di Ateneo su Facebook dedicata alla sostenibiltà. La trovate a questo link:

https://www.facebook.com/UnifiSostenibile/ (Oppure, cercate “Unifi: Ateneo Sostenibile” sulla barra di ricerca di Facebook).

Se l’argomento vi interessa, andate a vedere questa pagina. Facebook permette una comunicazione rapida e informale; spesso molto efficace. Quindi, se avete idee, commenti, proposte, fantasie, proteste, lamentele, mugugni, poesie ermetiche, o altre cose che pensate siano correlate alla sostenibilità, fateci sapere!

Ovviamente, questi sono soltanto primi passi. La comunicazione serve a favorire le attività ma, di per se, non le crea. Quindi, da qui in poi cercheremo di andare avanti e di costruire qualcosa di utile.





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