Effetto Cassandra

Il confronto fra scienziati del clima e i loro detrattori: non c’è proprio partita

La società chimica italiana ha preso una netta posizione in favore della scienza del clima

Ho raccontato in un post precedente della figuraccia che ha fatto la società italiana di fisica rifiutandosi di firmare un documento condiviso da 14 società scientifiche italiane a sostegno della scienza del clima. Poi, hanno fatto anche di peggio con le giustificazioni che hanno dato. Non certamente una bella figura per la fisica italiana, il cui prestigio era già scosso dall’appoggio che il Dipartimento di Fisica dell’Università di Bologna aveva inizialmente dato alla storia del’E-Cat.

Al contrario, la società di chimica italiana ha preso una netta posizione in favore della scienza del clima. Nell’articolo riportato qui di seguito, “Saperescienza” racconta la storia, sfortunatamente dandone un’interpretazione un tantino semplificata, come se fosse una partita di calcio fra la società di chimica e quella di fisica. In realtà, nel campo della scienza del clima, se si mettono a confronto i veri scienziati e i loro detrattori, non c’è proprio partita. Per fortuna, l’articolo termina in modo corretto dicendo che “ astensioni come quelle della Società Italiana di Fisica rischiano di alimentare lo scetticismo con gravi effetti sulle politiche ambientali di contenimento di un fenomeno che è tutt’altro che sottovalutabile.

(U.B.)

I cambiamenti climatici e l’ “astensione” della Società Italiana di Fisica

13 Luglio 2016

I cambiamenti climatici sono un’emergenza da fronteggiare, determinata dall’attività umana? “Sì”, per i chimici italiani, “ni” per i fisici. Almeno questo è quello che sembra emergere dalle prese di posizione della Società Chimica Italiana (SCI) e della Società Italiana di Fisica (SIF). O meglio, dalla non presa di posizione di quest’ultima.

Mentre la SCI, in un documento, riconosce infatti nei cambiamenti climatici una delle “principali minacce per lo sviluppo sostenibile” e si associa alla necessità, globalmente percepita, di ridurre le emissioni di gas serra e di adottare adeguati piani di adattamento agli impatti negativi previsti dagli attuali modelli climatici, la SIF preferisce non esprimersi in modo così netto.

Alla fine dell’anno scorso, dodici associazioni scientifiche italiane hanno sottoscritto la “Dichiarazione sui cambiamenti climatici” approvata alla vigilia della COP21 di Parigi, con la vistosa eccezione della SIF, che ha fatto togliere il suo logo. Pomo della discordia, una parola: “inequivocabile”.

Nella dichiarazione, presentata in occasione dello “Science Symposium on Climate” che si è tenuto a Roma nella sede FAO, infatti, si trova questo passaggio: “l’influenza umana sul sistema climatico è inequivocabile ed è estremamente probabile che le attività umane siano la causa dominante del riscaldamento verificatosi a partire dalla metà del XX secolo”. Ma, secondo la SIF, “alcune certezze non sono certezze, occorre fare attenzione” ha dichiarato la presidentessa Luisa Cifarelli, che continua: “non esistono le equazioni del clima. E io non mi trovo d’accordo con l’affermazione che il ruolo dell’uomo nel riscaldamento sia inequivocabile”. La SIF avrebbe preferito parole come “verosimiglianza” o “probabilità”, ma la proposta non è stata accolta dagli altri scienziati, anzi Cifarelli è stata, come riferisce lei stessa, “trattata male”.

L’IPCC (Intergovernmental panel on climate change) organo ufficiale dell’ONU e autorità di riferimento in fatto di cambiamenti climatici, sostiene essere “molto probabile che l’influenza umana sia la causa dominante del riscaldamento osservato nel XX secolo”, dove “molto probabile” corrisponde a una probabilità del 95 per cento. E’ sufficiente per usare la parola “inequivocabile”?

Al di là della terminologia, la posizione della SIF è stata molto criticata ed è stata in alcuni casi definita “irresponsabile”, per esempio da Ferdinando Boero, professore di biologia dell’università del Salento e dell’Istituto di scienze marine del Cnr. Quello che è sicuro è che i negazionismi sui cambiamenti climatici non sono certo stati superati e hanno un discreto peso, a livello scientifico e politico, e astensioni come quelle della Società Italiana di Fisica rischiano di alimentare lo scetticismo con gravi effetti sulle politiche ambientali di contenimento di un fenomeno che è tutt’altro che sottovalutabile.

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Il fotovoltaico è una vera fonte energetica!

Da “Cassandra’s Legacy”. Traduzione di MR

Questo è un commento di Luis De Souza su un recente articolo di Ferroni e Hopkirk che hanno riportato un rendimento energetico negativo degli impianti fotovoltaici in Svizzera (in altre parole, un ritorno energetico, EROEI, minore di 1). E’ un risultato anomalo, considerando che un’analisi complessiva del campo ha riportato valori di EROEI di 11-12 per la tecnologia fotovoltaica più comune. Quindi cosa c’è di sbagliato nell’articolo di Ferroni e Hopkirk? Molte cose, pare. Qui, De Souza mostra che il fotovoltaico è una fonte di energia, persino in un paese non molto soleggiato come la Svizzera. De Souza conclude che qualcosa è andato incredibilmente storto nella procedura di revisione della rivista che ha pubblicato l’articolo di F&H, “Energy Policy”. Questo sembra essere vero e potrebbe interessarvi di sapere che è stata preparata e sottoposta alla rivista una confutazione di quell’articolo da parte di un gruppo di ricercatori esperti nel campo dei calcoli energetici. La confutazione scopre molte cose sbagliate in più nell’articolo di F & H che in quelli identificati da De Souza. In breve, Energy Policy è riuscita a pubblicare uno studio pieno di errori che non avrebbe mai dovuto essere pubblicato in una rivista scientifica. Sfortunatamente è stato fatto ed ora un sacco di persone lo usano a supporto della guerra alle rinnovabili. (U.B.)



Il fotovoltaico non è uno spreco energetico in Svizzera

Di  Luis De Souza

Energy Policy ha di recente pubblicato uno studio condotto sul EROEI delle tecnologie fotovoltaiche (FV) installate in Svizzera. Il risultato finale è una cifra notevolmente bassa, cioè 0,8:1. Ben al di sotto di qualsiasi valutazione del EROEI mai condotta su questa tecnologia energetica.

Un tale valore ha naturalmente deliziato coloro che fanno campagne contro l’energia rinnovabile, che prende per oro colato qualsiasi indizio di prestazione negativa. Tuttavia, da questo studio emerge immediatamente un numero: il rendimento energetico medio del ciclo di vita di 106kWh/m2/a. A quanto pare, uno sguardo più ravvicinato a questo singolo valore è sufficiente a negare l’ipotesi che il fotovoltaico in Svizzera sia un pozzo energetico.


Controllo di base

Il promo controllo che si può condurre su questo studio sul EROEI è quello di confrontarlo con valutazioni precedenti. Pedro Prieto e Charles Hall hanno prodotto quello che probabilmente è lo studio del EROEI più conservativo sul FV, concludendo con un valore di 2,4:1 per la Spagna. C’è molto da discutere in questo studio, in particolare la traduzione arbitraria di requisiti non fisici di un sistema FV in ingressi energetici, ma per lo scopo del confronto prendiamo come buono questo valore basso.

La radiazione solare annuale alla latitudine di Madrid (40° N) è nella gamma dei 2.000 kWh/m2. Alla latitudine di Berna (47° N) questo valore scende a 1.500 kWh/m2. Ipotizzando che gli ingressi energetici straordinariamente alti conteggiati da Prieto e Hall per la Spagna valgano anche per la Svizzera, si potrebbe applicare direttamente la regola del tre per conteggiare un valore di EROEI di 1,8:1

Notate qui che l’EROEI è una misura logaritmica. Pertanto 1,8:1 è considerevolmente più vicino a 2,4:1 che a 0,8:1. Queste semplici cifre cominciano a mostrare che c’è qualcosa di fondamentalmente imbarazzante nei risultati presentati da Ferroni e Hopkirk.

Perché energia per unità di area?

L’articolo in sé stesso non è molto dettagliato e lascia molto all’interpretazione del lettore. Tuttavia, c’è una cifra chiave in gioco in questo studio sul EROEI che emerge immediatamente: una produzione media di energia per la durata dell’impianto di 106 kWh/m2/a per i pannelli solari installati in Svizzera. Francamente, sembra una cifra stranamente bassa, ma c’è qualcosa di più problematico. Ogni modello di pannello solare è progettato e costruito in modo diverso, con celle distribuite in modi diversi. Persino fra quelli prodotti dagli stessi produttori, le capacità per unità di area possono essere molto diverse.

Il grafico sotto mostra le capacità per unità di area dei diversi modelli presenti sul mercato di diversi produttori, compresi i tre più importanti del mondo.

Anche se Ferroni e Hopkirk non indicano mai quale produzione energetica per capacità installata stiano usando, questo campione di capacità di un pannello per unità di area ci permette di approfondire un po’. La figura sotto presenta questi calcoli per questi stessi modelli di pannello.

Di nuovo, le cifre variano ampiamente, con la media che si trova al di sotto dei 700 Wh/Wp/a.

Confronto con PVGIS

PVGIS è una applicazione web sviluppata dal Joint Research Centre (JRC) che calcola la produzione energetica di un sistema FV tenendo conto dell’isolamento solare annuale, dell’orientamento del pannello e delle perdite di sistema di cablaggio, inverter, temperatura, riflettanza angolare ed altro. PVGIS non è stata aggiornata negli ultimi anni e per i sistemi più recenti so per esperienza che le sue stime del primo anno di produzione sono al ribasso dal 5% al 10%. Ma per questo esercizio i suoi risultati vengono presi per buoni.

La tavola sotto è il risultato prodotto da PVGIS per un sistema ipotetico classificato a 1kWp, orientato in modo ottimale ed installato intorno a dove vivo io, nel Cantono di Zurigo (47°N, nella Svizzera nordoccidentale). Il valore più rilevante in questo rapporto è la stima di produzione di energia: 1090 Wh/Wp/a. Anche se si tratta di una stima di un sistema orientato perfettamente, fornisce una buona misura di dove poggia realmente il valore di rendimento energetico annuale di Ferroni e Hopkirk.

PVGIS © Comunità Europea, 2001-2012. La riproduzione è autorizzata, purché venga citata la fonte. Vedere il disclaimer qui 

Confronto con le statistiche svizzere

Ferroni e Hopkirk citano le statistiche compilate dall’Ufficio Federale Svizzero per l’Energia (UFSE) come fonte del loro valore di106 kWh/m2/a. Ci sono numerosi documenti diversi nel sito web dell’UFSE che abbracciano tutti gli ambiti di produzione e consumo di energia.

In anni recenti l’UFSE ha prodotto un rapporto annuale sull’energia rinnovabile con una serie di valori importanti. Il rapporto del 2015 non è ancora disponibile, pertanto i valori usati qui vanno solo fino al 2014. Si tratta di tutti dati aggregati, ma sono già sufficienti a fornire un altro percorso di investigazione nel valore di Ferroni e Hopkirk.

Dopo aver letto questi rapporti, una cosa diventa evidente: l’UFSE non usa la misura di produzione di energia per unità di area citata da Ferroni e Hopkirk. Come mi aspettavo, i valori di generazione media di elettricità sono invece forniti in produzione di energia per capacità installata (Wh/Wp/a).

In secondo luogo, è importante notare che il FV è una cosa relativamente nuova in Svizzera, la capacità installata è aumentata solo di recente, quasi triplicando dal 2012 al 2014. Alla fine del 2014 c’erano 1060 Mwp di pannelli fotovoltaici installati in Svizzera, un valore che è cresciuto del 40% solo quell’anno. Durante il 2014la generazione di elettricità da Fv ha raggiunto gli 841 GWh.

Ipotizzando che tutti i nuovi sistemi installati nel 2014 fossero connessi alla rete dal primo gennaio, per l’anno viene fuori un valore di 794 Wh/Wp. Questo si trova ancora dal lato alto della possibile generazione per i valori di capacità installata usati da Ferroni e Hopkirk. Tuttavia, ipotizzando che questi nuovi sistemi fossero collegati alla rete ad un ritmo regolare per tutto l’anno, questo numero sale a 927 Wh/Wp. Si tratta di meno del 15% in meno della stima di PVGIS e probabilmente spiegabile con un orientamento non ottimale di alcuni sistemi ed una piccola percentuale di sistemi più vecchi e probabilmente meno efficienti. Di solito i sistemi tendono ad essere installati verso la fine dell’anno, per usufruire del quadro legislativo più favorevole.

Possibili cause

La prima causa che viene in mente per un valore  rendimento energetico così basso è un fattore di efficienza della cella sbagliato. Le celle FV vengono classificate in esperimenti controllati in cui la loro produzione energetica viene valutata ad una temperatura di 25°C e con una radiazione costante di 1 kW/m2. Questa valutazione è molto utile per confrontare diverse tecnologie di celle. Le celle cristalline moderne di larga diffusione raggiungono fattori di efficienza fra il 145 e il 16%, cioè convertono qwuella percentuale di radiazione incidente in corrente elettrica.

Visto che Ferronie Hopkirk presentano un rendimento medio di vita in energia per unità di area, questi autori potrebbero aver convertito la radiazione incidente in Svizzera direttamente in un rendimento energetico. Tuttavia, al posto di usare i valori sopra, il fattore di efficienza che hanno usato dev’essere stato nell’ordine del 8-9% per portare ad un valore di energia per capacità installata di circa 690 Wh/Wp/a. Fattori di conversione così bassi sono più comuni con le tecnologie a film sottile.

Una seconda ipotesi è l’impiego di un tasso di degrado della cella insolitamente alto. Le celle FV perdono le loro proprietà nel tempo, sia per il caldo al quale sono esposte sia per la radiazione solare in sé stessa. Anche se strumenti come PVGIS possono facilmente modellare le perdite di sistema, di solito lasciano fuori questo tasso di degrado. I centri di ricerca come il JRC hanno valutato le tecnologie FV per decenni, concludendo per un tasso di degrado del rendimento energetico nell’ordine dello 0,5%/a. Inoltre, questi studi a lungo termine indicano anche che le celle tendono a degradarsi in modo lineare.

La figura seguente presenta due tassi di degrado ipotetici che abbassano un pannello FV da 1090 Wh/Wp/a ad un rendimento medio di 690 Wh/Wp/a in un ciclo di vita di 25 anni: un degrado lineare di 33,5 Wh/Wp/a ed un declino logaritmico del 4%. In entrambi i casi il rendimento energetico scende sotto la metà prima della fine della vita del sistema.

Anche se questa seconda ipotesi è la mia preferita, non spiega l’impiego dello strano valore di energia per unità di area. Inoltre, questi tassi di degrado ipotizzavano che di fronte ad un rapido collasso della produzione di energia, i proprietari non attivino mai la garanzia del pannello.

Note finali

Sostituendo i valori di rendimento inspiegabilmente bassi usati in questo studio con quelli del UFSE è già sufficiente per portare il parco FV svizzero in un territorio di energia netta positiva. Tuttavia, tale risultato risulta ancora lontano dalle valutazioni precedenti del EROEI del FV, anche quelle molto conservative prodotte da Prieto e Hall. Così come le ipotesi di rendimento energetico si sono rivelate problematiche in questo studio, mi aspetto di trovare imbarazzi analoghi dal lato dell’ingresso energetico dell’equazione. Tuttavia, lascio che questo aspetto venga valutato da altri.

La pubblicazione di uno studio del genere da parte di un soggetto rinomato chiede una profonda riflessione. L’ultimo articolo che ho scritto in una rivista scientifica è stato per oltre due anni in revisione. Questo di solito è  un processo lento e doloroso. Essendo io stesso un editore e revisore di pubblicazioni scientifiche, sono faccio fatica a spiegare come sia riuscito un tale valore problematico di 106 kWh/m2/a a superare il processo del peer review. Avrebbe dovuto essere sollevata subito una bandierina rossa per chiunque abbia un minimo di famigliarità con la tecnologia fotovoltaica e l’economia, richiedendo un esame attento da parte dei revisori così come dell’editore. Qualcosa di fondamentale è andato storto nel processo di peer review su Energy Policy.

I messaggi da portare a casa

Il valore di EROEI concluso da Ferroni e Kopkirk per il FV è il più basso di sempre e ben al di sotto degli studi precedenti.

Questi autori usano unita di misura imbarazzanti che offuscano molto le loro ipotesi sui rendimenti energetici annuali.

In questo studio è stato usato un campione di diversi modelli di pannello indica un rendimento energetico inferiore ai 700 Wh/Wp/a.

Le statistiche ufficiali indicano un rendimento medio ben al di sopra dei 900 Wh/Wp/a per quanto riguarda il parco Fv svizzero. Ciò è in linea coi valori degli strumenti di valutazione di PVGIS.

Il processo peer review presso Energy Policy non funziona in modo appropriato.

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Uguaglianza e sostenibilità: possiamo averle entrambe?

Da “Cassandra’s Legacy”. Traduzione di MR

Di Diego Mantilla



Guest post di Diego Mantilla

Recentemente, in questo blog, Jacopo Simonetta ha sollevato una domanda molto importante: una più giusta distribuzione del reddito in tutto il mondo diminuirebbe il danno che gli esseri umani stanno facendo alla terra? La sua risposta, che non lo farebbe e in realtà renderebbe le cose molto peggiori, mi ha intrigato. Quindi ho deciso di guardare i dati migliori disponibili.

Simonetta ha guardato nello specifico alla questione del se una distribuzione piì giusta del reddito ridurrebbe le emissioni globali di CO2. Nel 2015, Lucas Chancel e Thomas Piketty (da ora in avanti C-P) hanno scritto un saggio ed hanno messo online una serie di dati relativi che hanno affrontato la distribuzione globale del consumo delle famiglie e le emissioni di CO2e (biossido di carbonio equivalente = CO2 ed altri gas serra) nel 2013. I dati non sono perfetti, ma sono i migliori che esistono. La serie di dati di C-P coglie i valori delle Household Final Consumption Expenditures – HFCE (spese finali delle famiglie per il consumo) forniti dalla Banca Mondiale, usando la distribuzione del reddito della serie di dati di Branko Milanovic (che riguardano il 99% di quelli bassi) e quella del World Wealth and Income Database (che riguardano l’1% di quelli alti). (Il reddito non equivale al consumo e C-P ipotizzano che la distribuzione del reddito sia la stessa di quella del consumo. Inoltre, ipotizzano che la stessa distribuzione del reddito che c’era nel 2008 esistesse anche nel 2013. Come ho detto, la serie di dati non è perfetta).


La serie di dati di C-P comprende 94 paesi, che coprono l’87,2% della popolazione della terra, circa 6,2 miliardi di persone che sono responsabili dell’88,1% delle emissioni globali di CO2e. In generale, C-P dividono ogni paese in “11 osservazioni individuali sintetiche (una per ognuno dei 9 decili inferiori, una per il frattale P90-99 ed uno per l’1% superiore)”.

Il grafico seguente mostra il consumo pro capite e le emissioni di CO2e pro capite risultante dalla serie di dati di C-P.


Figura 1. Consumo ed emissioni di CO2e pro capite se condo le percentuali di consumo mondiale nel 2013. )Alcune percentuali mancano a causa del fatto che i quantili del paese varia in dimensione ed a volte si estende oltre una percentuale globale data). (Fonte: mi elaborazione dai dati di C-P (2015)). 

L’1% superiore spende sulla scala del consumo una media di 135.000 dollari (dollari PPP del 2014) ed emette una media di 72 tCO2e per persona all’anno. La soglia per appartenere alla percentuale superiore è di 54.000 dollari. Il loro consumo è pari al 18% di tutti i soldi psesi dalle famiglie in tutto il mondo. Ipotizziamo, per amor di discussione, che il consumo si pari al reddito. Se si dovesse prendere tutto il reddito dell’1% superiore e distribuirlo fra il 99% inferiore, ogni persona che si trova nel 99% avrebbe circa 1.400 dollari.

C-P ipotizzano una elasticità di spesa delle emissioni di CO2e rispetto al consumo di 0,9. Un aumento del 10% del consumo significa un 9% di aumento delle emissioni di CO2e. Si tratta di una generalizzazione ampia e C-P hanno una gamma di elasticità, ma hanno scelto quella perché si tratta del valore medio delle stime. Usando quell’elasticità nella serie di dati di C-P, se ogni persona del 99% inferiore ricevesse 1.400 dollari e a coloro che sono nell’1% superiore rimanessero senza niente, le emissioni globali di CO2e aumenterebbero del 9%.

Ma, naturalmente, l’1% superiore è solo parte del problema. Circa il 22% della popolazione mondiale vive con un livello di consumo al di sopra della media globale di circa 8.000 dollari all’anno. Ipotizziamo che tutti avessero un livello di consumo pari alla media. Tornando alla serie di dati di C-P, se si facesse la media delle emissioni di CO2e di tutti coloro che si trovano in un intervallo di consumo che va da 7.700 a 8.300 dollari, si ottiene un’emissione media di 6,15 tCO2e per persona all’anno. Se tutti avessero quel tipo di emissione, le emissioni globali di CO2e sarebbero praticamente le stesse di oggi ma, inutile dirlo, ciò migliorerebbe la quota di più di tre quarti della popolazione mondiale.

In breve, una distribuzione perfetta del reddito avrebbe un effetto trascurabile sulle emissioni globali di CO2e.

Rimane la domanda: a quale livello di consumo le emissioni di CO2e verrebbero ridotte drammaticamente e questo livello sarebbe compatibile con un’esistenza decente?

Cuba offre un esempio interessante. Moran et al. (2008) hanno guardato il Human Development Index – HDI (Indice di Sviluppo Umano) dell’ONU e l’impronta ecologica di 93 paesi nel 2003 ed hanno lavorato sull’ipotesi “che un HDI di non meno di 0,8 ed un’impronta ecologica pro capite minore della biocapacità disponibile globalmente per persona [un pianeta terra] rappresentano i requisiti minimi per uno sviluppo sostenibile che sia replicabile globalmente”. La loro indagine ha mostrato che solo un paese soddisfa entrambi i requisiti: Cuba.

Cuba ha anche il secondo tasso di fertilità più basso delle Americhe, 1,61 nascite per donna. Solo il Canada ha un tasso inferiore. Ciò significa che una società a basso consumo non può essere compatibile con nessuna crescita della popolazione. Il cubano medio mangia 3.277 calorie al giorno. I cubani hanno un’aspettativa di vita alla nascita di 79,4 anni. E’ superiore a quella degli Stati Uniti e solo di 1,5 anni al di sotto di quella della Germania. E la scolarizzazione media di Cuba è maggiore di quella della Finlandia. E solo il Principato di Monaco e il Qatar hanno più dottori pro capite di Cuba. Chiaramente, un livello di consumo compatibile con il pianeta finito che abbiamo non deve livellare miseria e indigenza per tutti. Non sto dicendo che la vita a Cuba sia facile per tutti. Non lo è ma, ad un certo punto nel prossimo futuro, coloro che vivono nel mondo sviluppato e nelle enclave ricche del mondo in via di sviluppo avranno di fronte una scelta fra uno stile di vita cubano e, per citare Noam Chomsky, la distruzione delle “prospettive di un’esistenza decente e gran parte della vita”.

Volevo scoprire se le scoperte di Moran e colleghi erano ancora valide oggi, ma ho fatto un cambiamento. Il HDI è costruito usando tre dimensioni: aspettativa di vita, educazione e reddito pro capite. Questo mi ha sempre disturbato. Una vita lunga e in salute ed una popolazione istruita sono senza dubbio caratteristiche di sviluppo umano. Ma guidare una Lexus è un segno di sviluppo umano? Penso di no. Pertanto ho usato i dati dell’ONU per costruire un indice che guarda solo all’aspettativa di vita e all’educazione, che chiamo HDI troncato (HDIT). (Il calcolo del HDI è spiegato qui. Il HDIT segue la stessa procedura usata dal 2010 in avanti, ma prende solo la media geometrica delle prime due variabili). Nel seguente grafico, confronto il HDIT rispetto all’impronta ecologica, misurata nel numero di pianeti terra che gli abitanti di un dato paese consumano, usando i dati più recenti.

Figura 2. HDIT ed impronta ecologica di 176 paesi. Il puntino rosso rappresenta Cuba. (Il HDIT corrisponde al 2014, l’impronta ecologica al 2012). (Fonte: mia elaborazione da dati dell’ONU e dal Global Footprint Network). 

Ci sono solo due paesi in prossimità di una terra che hanno un HDIT più alto di 0,8: la Georgia e Cuba, il puntino rosso. Uno dei due ha il HDIT più alto. E’ interessante che Cuba abbia praticamente lo stesso HDIT del Cile, ma il Cile usa 2,5 terre. Ed ha praticamente lo stesso HDIT della Lituania, ma la Lituania usa 3,4 terre. Inoltre, Cuba usa tante terre quante la Papua Nuova Guinea, ma gli abitanti della Papua Nuova Guinea hanno una media di scolarizzazione di 4 anni, i cubani di 11,5. Questo solo per mostrare le possibilità che esistono riguardo ad una società egualitaria e sostenibile. Recentemente, la disuguaglianza a Cuba è andata aumentando. Tuttavia, secondo la Banca Mondiale, le emissioni di CO2e pro capite a Cuba non sono sostanzialmente diverse oggi da quanto non fossero nel 1986, quando il coefficiente Gini di Cuba era molto basso, 0,22 (Mesa-Lago 2005 , pagina 184). In ogni caso, non sto sostenendo di copiare completamente il modello cubano. Non sto difendendo il giro di vite di Cuba sulle libertà individuali, la libertà di parola fra queste. Tutto ciò che sto dicendo è che Cuba è un esempio interessante delle possibilità che offre una società egalitaria. A me per primo piacerebbe vivere in una società che sia anche più egalitaria di Cuba. Mi pare che non ci sia motivo in linea di principio perché gli esseri umani non possano costruire una società che sia più egalitaria di Cuba e ugualmente sostenibile, specialmente quando le alternative sono terribili.

Cuba non si trova nella serie di dati di C-P. E’ difficile stimare il livello di consumo dei cubani in dollari, perché le statistiche pubblicate dal governo cubano non sono confrontabili con quelle del resto del mondo, ma lo scorso anno l’ONU ha pubblicato un numero del Reddito Nazionale Lordo (RNL) pro capite di Cuba del 2014 che sembra essere solido e confrontabile a quello di altri paesi, 2011 PPP 7.301 dollari. Quel numero non è direttamente confrontabile coi dati di C-P, perché C-P hanno guardato il consumo delle famiglie. Ipotizzando che la quota di RNL del consumo delle famiglie pubblicata dall’Ufficio di Statistica nazionale di Cuba sia corretta, si può stimare che il consumo delle famiglie pro capite di Cuba sia intorno 2011 PPP 3.900 dollari. E’ difficile tradurre questo in dollari del 2014, perché non mi fido del fattore di conversione PPP pubblicato dalla Banca Mondiale, ma ipotizziamo che il consumo di un cubano medio sia intorno a 2014 PPP 4.000 dollari.
Tornando ai dati C-P, si può trovare che l’emissione media di CO2 e per una gamma di consumo che va da 3.700 a 4.300 dollari è 3,14 tCO2e per persona all’anno. Se tutti nel mondo avessero quel livello di emissioni, le emissioni globali di CO2e verrebbero tagliate della metà. Ed in un sistema sociale simile, ma non identico, a quello di Cuba, nessuno morirebbe di fame o non andrebbe a scuola, e il 63% della popolazione mondiale migliorerebbe.

Per ricapitolare, un livello di consumo uguale per tutti nel mondo al livello della Cuba di oggi offre la possibilità di abbassare in modo sostanziale l’impatto umano sulla biosfera, mantenendo allo stesso tempo uno standard di vita piuttosto decente per tutti.

Secondo il Global Carbon Project, nel 2014 “i pozzi degli oceani e della terraferma hanno rispettivamente rimosso il 27 e il 37% del CO2 totale (combustibili fossili e cambiamento dell’uso della terra), lasciando il 36% delle emissioni nell’atmosfera”. Se le emissioni di CO2 venissero tagliate della metà, verrebbero tutte rimosse dai pozzi dell terra e non ci sarebbe aggiunta netta di CO2 in atmosfera.

Vale la pena evidenziare che il consumo medio globale raggiungerà il livello della Cuba odierna, alla fine. La domanda è se questo accadrà prima che gli esseri umani aumentano la temperatura globale a livelli pericolosi. I cubani oggi consumano 6 barili di petrolio equivalenti per persona all’anno di combustibili fossili, che è quello che Laherrère (2015, pagina 20)  prevede che gli esseri umani consumeranno intorno al 2075, dopo i picchi di produzione di petrolio, gas naturale e carbone. Ma, per quel momento, secondo le previsioni di Laherrère (2015, pagina 22), gli esseri umani avranno emesso circa 800 GtCO2 in più del limite massimo che Rogelj et al. (2016) stimano che possiamo emettere per avere una buona possibilità di evitare la soglia dei 2°C. (Laherrère è scettico sul cambiamento climatico antropogenico, ma io non approvo le sue conclusioni, guardo solo i suoi dati).

Diego Mantilla è un ricercatore indipendente interessato al collasso delle società complesse ed alla disuguaglianza sociale. Ha una laurea in computer networking all’Università di Strayer ed un master in giornalismo all’Università del Maryland. Attualmente vive a Guayaquil, in Ecuador.

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In punta di piedi nel campo minato dell’energia rinnovabile

Da “Post Carbon Institute”. Traduzione di MR

Di Richard Heinberg

Ho impiegato l’anno passato a lavorare con David Fridley e lo staff del Post Carbon Institute ad un libro appena pubblicato, Il nostro futuro rinnovabile. Il processo è stato un piacere: è stato un piacere lavorare con tutte le persone coinvolte (compresi i circa 20 esperti che abbiamo intervistato o consultato) e personalmente ho imparato moltissimo nel percorso. Ma abbiamo anche incontrato una sfida spinosa nell’elaborare un tono che informasse ma non alienasse il pubblico potenziale del libro.


Come quasi tutti sanno, ci sono voragini aperte che separano le visioni del mondo dei promotori dei combustibili fossili, dei sostenitori del nucleare e di quelli delle energie rinnovabili. Ma soprattutto, anche fra coloro che disdegnano fossili e nucleare, c’è apparentemente un abisso incolmabile fra coloro che dicono che l’energia fotovoltaica ed eolica hanno un impulso inarrestabile ed alla fine porteranno con loro prezzi dell’energia più bassi e milioni di posti di lavoro e coloro che dicono che queste fonti di energia intermittenti sono intrinsecamente incapaci di sostenere le moderne società industriali e possono fare progressi solo con massicci sussidi statali.

Non siamo partiti con l’intenzione di sostenere o minare nessuno degli ultimi due messaggi. Piuttosto, abbiamo voluto vedere di persona cosa sono in grado di fare le energie rinnovabili e come sta andando la transizione verso di esse. Abbiamo cominciato con due ipotesi nostre (basate su ricerca ed analisi precedenti) sulle quali siamo del tutti franchi: in un modo o nell’altro i combustibili fossili se ne stanno andando e il nucleare non è un sostituto realistico. Questo le rinnovabili fotovoltaica ed eolica, nel bene o nel male, come future fonti primarie di energia.

Nel nostro lavoro su questo progetto, abbiamo usato solo i migliori dati disponibili al pubblico ed abbiamo esaminato tutta la letteratura peer-review che siamo riusciti ad identificare. Ma ciò ha richiesto selezione e valutazione: quali dati sono importanti? E quali studi sono più credibili ed utili? Alcuni ricercatori sostengono che l’elettricità del solare FV ha un ritorno energetico sull’energia investita per produrla (EROEI) di circa 20:1, circa alla pari dell’elettricità prodotta con alcune fonti fossili, mentre altri pongono il valore del ritorno a meno di 3:1. Questa ampia divergenza di risultati ha naturalmente implicazioni enormi sulla fattibilità economica finale della tecnologia solare. Alcuni studi dicono che una transizione completa all’energia rinnovabile sarà facile ed economica, mentre altri dicono che sarà estremamente difficile o praticamente impossibile. Abbiamo cercato di giungere alle ipotesi che danno adito ad affermazioni, asserzioni e scoperte  così contrastati e che hanno portato o all’euforia o alla cupezza nei confronti delle rinnovabili. Abbiamo voluto giudicare da soli se quelle ipotesi sono realistiche.

Non è la stessa cosa di cercare una via di mezzo fra ottimismo e pessimismo. L’energia rinnovabile è un tema complicato e una sua valutazione basata sui fatti e robusta dovrebbe essere onesta e ben informata, il suo obbiettivo dovrebbe essere quello di dare inizio a conversazioni più profonde, non quello di zittire semplicemente la critica o la lode.

Sfortunatamente, il dibattito è già piuttosto polarizzato e politicizzato. Di conseguenza, il realismo e la sfumatura potrebbero non avere spazio.

Questo è il motivo specifico per cui la nostra conclusione finale è stata che, anche se l’energia rinnovabili può di fatto alimentare le società industriali, probabilmente non c’è uno scenario futuro in cui l’umanità conserverà gli attuali livelli di uso dell’energia (sia su base pro capite che totale). Pertanto i livelli attuali di estrazione delle risorse, produzione industriale e consumo è improbabile che siano sostenuti – molto meno possono crescere in modo perpetuo. Inoltre, giungere ad un futuro ottimale di sola energia rinnovabile richiederà un lavoro duro, investimenti, adattamento ed innovazione su una scala praticamente senza precedenti. Dovremo cambiare più delle nostre fonti di energia, trasformeremo sia i modi di consumare energia sia le quantità che ne usiamo. Il nostro successo finale dipenderà dalla nostra capacità di ridurre drammaticamente la domanda di energia nelle nazioni industrializzate, accorciare le filiere di fornitura, elettrificarne il più possibile l’uso e adattarci alla stasi economica ad un livello flusso generale di energia e materie prime più basso. In assenza di un sostegno popolare diffuso ed informato, gli ostacoli politici ad un progetto del genere saranno enormi.  

Questo non è ciò che la maggior parte delle persone vuole sentire. Pertanto, francamente, abbiamo bisogno di aiuto per far arrivare questa analisi al di fuori dei giri di persone che potrebbero trarne beneficio. Le capacità di comunicazione e sensibilizzazione dei media del Post Carbon Institute sono limitate. Mentre la necessità di una transizione energetica è urgente e più viene ritardata meno desiderabili sarà il risultato. Non è un’esagerazione dire che la transizione dai combustibili fossili climateranti e in esaurimento alle fonti rinnovabili di energia sia la causa centrale dei nostri tempi. E richiederà l’azione di ognuno di noi.

Potete dare una mano visitando il il sito web di Our Renewable Future, familiarizzando col problema, condividendo i vostri pensieri e parlandone con gli amici, la famiglia, i colleghi e gli alleati.

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La fine del “boom della popolazione”: il collasso di Seneca della popolazione irlandese durante la grande carestia

Da “Cassandra’s Legacy”. Traduzione di MR

di Ugo Bardi

La storia della Grande Carestia in Irlanda è un chiaro esempio di “Collasso di Seneca”, cioè di un caso in cui il declino è più rapido della crescita. E’ una cosa che ci aspetta a livello globale? (Fonte dell’immagine Rannpháirtí anaithnid – vecchio – presso la English Wikipedia) 

In un post precedente, ho sostenuto che molte proiezioni attuali sulla popolazione globale sono erroneamente basate sull’idea che la “transizione demografica” funzionerà al contrario. Cioè, spesso si ipotizza che le persone impoverite tendano a fare più figli e che quindi la popolazione mondiale continuerà a crescere anche nel bel mezzo delprofondo declino economico che potrebbe accompagnare una crisi di risorse e climatica (questa, per esempio, era l’ipotesi dello studio originale del 1972 “I limiti della crescita”).

Ho invece proposto che l’inizio di una grande crisi economica/climatica causerà una immediata riduzione dei tassi di nascite, in parte in conseguenza della salute in declino delle donne fertili e in parte di una reazione razionale da parte delle famiglie che capirebbero che possono prendersi cura solo di un numero limitato di bambini in una condizione di aumento di povertà in aumento.

Ovvero, non ci sarà un aumento della popolazione nel bel mezzo di una crisi e il declino dei tassi di nascite porterebbe immediatamente all’inizio di un declino mondiale della popolazione che potrebbe potrebbe anche assumere la forma di un vero e proprio “Collasso di Seneca”. Per sostenere la mia tesi, ho portato l’esempio della ex Unione Sovietica, la cui popolazione ha cominciato a declinare persino prima del collasso politico dell’Unione. Ho menzionato anche diversi esempi di altri paesi occidentali (vedi l’Italia) in cui i tassi di nascite sono scesi in parallelo col peggioramento delle condizioni economiche, al punto che stiamo cominciando a vedere un declino generale della popolazione.

Questa interpretazione è stata criticata nei commenti da alcuni che obbiettavano che sì, la mia idea potrebbe essere giusta per paesi relativamente moderni ed “Occidentalizzati”, ma non per le aree più povere come l’Africa e l’Asia. Questi commentatori hanno obbiettato che le persone di quelle aree continueranno a fare quanti più figli possibile a prescindere da cosa succede intorno a loro, apparentemente in conseguenza degli Imam che dicono loro di farlo (o a causa del malvagio dittatore Erdogan, o persone del genere).

Non credo che questa critica sia giusta e posso ribattere con un esempio. Conosciamo tutti la storia della carestia irlandese che ha avuto luogo fra il 1845 e il 1852 e che ha ucciso una grande percentuale della popolazione irlandese. Sappiamo qualcosa sul numero di morti e su quanti irlandesi sono emigrati, ma sappiamo relativamente poco sul modo in cui la carestia ha condizionato i tassi di nascite. Le donne irlandesi hanno cercato di compensare la mortalità più alta facendo più figli?

Su questo punto ho trovato uno studio completo fatto da Phelim P. Boyle e Cormac O Grada sul volume 23, n° 4 del novembre 1986 di “Demography”, pp. 543-562 (qui il link). Servono alcune ipotesi ed estrapolazioni per determinare i tassi di nascite irlandesi prima e dopo la carestia. Non riportano nemmeno dei grafici, ma solo tabelle. Tuttavia, la loro conclusione è chiara: il tasso di natalità è sceso con la carestia in Irlanda. In altre parole, le famiglie irlandesi non hanno cercato di compensare la loro maggiore mortalità facendo più figli, niente affatto.

Ciò è confermato da quello che sappiamo della popolazione irlandese nei decenni dopo la carestia. Anche se le forniture alimentari smisero di essere un problema, la popolazione continuava ancora a declinare o rimanere stabile ben oltre l’inizio del XX secolo. Gli irlandesi di allora non avevano buoni contraccettivi, ma sembra che ci siano riusciti principalmente ritardando l’età del matrimonio ed adottando uno stile di vita che scoraggiasse l’attività sessuale fra i giovani.

Ciò è rilevante per il caso di cui discuto qui. Nel XIX secolo, i contadini irlandesi erano cattolici (o, se preferite, “papisti”). La visione cattolica del matrimonio doveva essere allora (come è ancora oggi in alcune cerchie) quella per cui una coppia sposata debba avere quanti figli quanti gliene manda il Signore – cioè il maggior numero possibile. Dopo la carestia, gli irlandesi sono rimasti cattolici, ma hanno completamente trascurato il consiglio che potrebbero aver ricevuto dai loro preti. Si è trattato di una scelta del tutto razionale – gli irlandesi non erano stupidi.

Stiamo chiaramente discutendo di qualcosa di difficile da quantificare, ma tendo a pensare che la maggior parte delle persone su questo pianeta non siano così stupide come credono gli specialisti di pubbliche relazioni. Così, da questi esempi storici (Russia ed Irlanda) direi che una crisi economico/climatica futura sarà immediatamente accompagnata da un declino dei tassi di nascite e quindi della popolazione. Se questo succede, sarà una cosa buona in quanto la pressione sull’ecosistema verrà ridotta. Ciò non significa che avremo risolto tutti i problemi che abbiamo di fronte, ma perlomeno non dobbiamo preoccuparci del fatto che le persone peggiorino la situazione riproducendosi come conigli.

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Il bello delle grandi opere – come andrà a finire con il nuovo aeroporto di Firenze?

L’auditorium di Piazza del Mercato, a Fiesole, in provincia di Firenze. Annunciato nel 2003, avrebbe dovuto essere finito in due anni. Oggi, dopo oltre un decennio, questo gigantesco arnese in vetro e cemento giace abbandonato in una piazza, mai terminato. Un destino che potrebbe abbattersi su altre “grandi opere” in programmazione nella provincia di Firenze, incluso il nuovo mega-aeroporto nella piana di Sesto.

Alle volte ti sentiresti contento a poter dire di aver avuto ragione, anche se non ti hanno dato retta. In realtà, vedere che tutto è andato come tu e altri avevano previsto – ovvero malissimo – non ti da nessuna soddisfazione. Questo è il caso dell’auditorium di Fiesole, edificio che fu annunciato in pompa magna nel 2003 dall’allora sindaco come “una necessità irrinunciabile per la città.

A questo annuncio, molte associazioni locali reagirono con critiche; principalmente sulle dimensioni previste per l’auditorium. Fiesole è una piccola cittadina in cima a una collina: non ha gran che in termini di ricettività alberghiera, non ha grandi parcheggi adiacenti a dove doveva sorgere l’auditorium, e il servizio di autobus dal centro di Firenze non solo è scomodo, ma anche inesistente negli orari in cui opera di solito un auditorium. E allora, a cosa poteva servire un auditorium di 312 posti?

Ma, come vi potete immaginare, quelli di noi che si opponevano furono accusati di tutto e di più: di essere contro lo sviluppo, di essere contro i posti di lavoro, di volere il male di Fiesole; di essere nemici del popolo lavoratore. Mi ricordo che ci infamarono anche alcuni dei vecchietti della società filarmonica di Fiesole, la cui sede è stata inglobata poi nell’edificio. Sembravano convinti che il comune stesse costruendo l’auditorium apposta per fare un regalo a loro.

Così, i lavori per l’auditorium sono partiti e i “due anni” sono diventati oltre un decennio. Oggi, dopo 13 anni dal primo annuncio, se fate una passeggiata nella piazza del Mercato, a Fiesole, ci troverete l’oggetto in vetro-cemento che vedete nella foto, più sopra. Non c’è che dire, un bel pugno in un occhio; assolutamente sproporzionato per una piccola cittadina come Fiesole. Ma, peggio della sproporzione è il fatto che non è ancora finito e probabilmente non lo sarà mai.

In questo momento, l’amministrazione comunale di Fiesole sta lottando disperatamente per evitare la bancarotta dovuta a certe operazioni finanziarie alquanto disinvolte delle amministrazioni precedenti. Non è detto che ci riesca, ma anche se ci riuscisse non ci sarebbero certamente i soldi per finire l’auditorium. E, anche se qualcuno li trovasse, chi si prenderebbe all’anima di gestire un arnese del genere? Il comune, no di certo; un privato, forse? Ma chi prenderebbe in gestione un grande cinema-teatro in cima a una collina quando ci sono già decine di cinema e teatri nel centro di Firenze? Insomma, ti trovi a camminare davanti a questo arnese e ti viene lo sgomento (e dicono anche che ci piove dentro!).

Credo che ci sia più di una cosa da imparare da questa storia. Una è che io credo che quelli che hanno spinto per costruire l’auditorium non avevano il guadagno personale come obbiettivo – perlomeno non il principale. L’hanno fatto in perfetta buona fede; in nome della crescita economica. E, 15 anni fa, quando si cominciò a parlarne, sembrava in effetti abbastanza ovvio che quella fosse la giusta direzione. Se qualcuno avesse detto, allora, che il comune di Fiesole non si sarebbe potuto permettere di gestire un cinema-teatro, ti avrebbero guardato come un marziano. Si dovrebbe imparare da questo (ma non lo si imparerà) che il futuro è sempre diverso da quello che ti aspetti.

A proposito di non imparare dagli errori del passato, oggi è il turno del nuovo aeroporto di Firenze: guardate il progetto (foto da Kelebek)

Notate come la nuova pista va a piazzarsi nel mezzo di una zona altamente urbanizzata, con il centro storico di Firenze a pochi chilometri di distanza. Fra le altre cose, se realizzata, la nuova pista costringerà a spostare gran parte degli edifici del Polo Scientifico dell’università di Firenze, per non parlare della distruzione delle ultime zone verdi della piana.

Ma, a parte queste cosucce; la nuova pista non vi sembra una cosa sproporzionata? Serve, essenzialmente, a fare atterrare i grandi aerei carichi di turisti che oggi non possono atterrare sulla pista esistente. Evidentemente, nove milioni di turisti all’anno a Firenze sono considerati troppo pochi. Ma quanti turisti può effettivamente gestire una città come Firenze prima di scoppiare per il sovraffollamento? E siamo sicuri che continueranno ad aumentare per sempre?

Eppure, quando sentite il presidente della regione Toscana dichiarare “C’è una priorità assoluta: aeroporto, aeroporto, aeroporto” sembra di sentire il sindaco di Fiesole (fra l’altro suo compagno di partito) quando dichiarava che l’auditorium era una “priorità irrinunciabile.”

Andrà a finire nello stesso modo?

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La sabbia del mondo scompare

Da “New York Times”. Traduzione di MR (via Maurizio Tron)

Di Vince Beiser


Sally Deng 
La maggior parte degli occidentali che affrontano accuse penali in Cambogia ringrazierebbero le loro stelle fortunate nel ritrovarsi al sicuro in un altro paese. Ma Alejandro Gonzalez-Davidson, che è mezzo britannico e mezzo spagnolo, sta supplicando il governo di Phnom Penh di permettergli di presenziare al processo con tre colleghi cambogiani. Sono stati accusati, essenzialmente, di interferire con la raccolta di una delle risorse più preziose del XXI secolo: la sabbia. 
Che ci crediate o meno, usiamo questa risorsa naturale più di qualsiasi altra fatta eccezione per acqua ed aria. E’ di sabbia che sono fatte le città moderne. Praticamente ogni condominio, grattacielo per uffici e centro commerciale, da Pechino a Lagos, in Nigeria, è fatto almeno in parte di calcestruzzo, che fondamentalmente non è altro che sabbia, ghiaia e cemento. Ogni metro di strada asfaltata che collega tutti quegli edifici è fatta a sua volta di sabbia. Di sabbia è fatta ogni finestra di quegli edifici. La sabbia è l’ingrediente essenziale che rende possibile la vita moderna. E stiamo cominciando a finirla. Questo principalmente perché numero e la dimensione delle città sta esplodendo, specialmente nel mondo in via di sviluppo. Ogni anno ci sono più persone sul pianeta ed ogni anno sempre più di queste persone si trasferiscono nelle città. Dal 1950, la popolazione urbana mondiale si è gonfiata fino ad oltre 3,9 miliardi da 746 milioni. Secondo il Programma Ambientale delle Nazioni Unite, nel solo 2012 il mondo ha usato una quantità di calcestruzzo sufficiente a costruire un muro di 27 metri e largo 27 metri intorno all’Equatore. Dal 2011 al 2013, la Cina ha usato più cemento di quanto gli Stati Uniti non abbiano usato nell’intero XX secolo. 
Per costruire quelle città, le persone stanno estraendo quantità indicibili di sabbia dal sottosuolo. La sabbia utilizzabile è una risorsa finita. La sabbia del deserto, formata più dal vento che dall’acqua, in genere non è adatta per costruire. Per ottenere la sabbia che ci serve stiamo devastando i letti dei fiumi, le pianure alluvionali e le spiagge. L’industria che estrae questa robe è stimata in un valore di 70 miliardi di dollari. Si va dalle multinazionali che dispiegano enormi draghe agli abitanti dei villaggi con pale e secchi. Nei posti in cui le risorse sulla terraferma sono state esaurite, gli estrattori di sabbia si stanno rivolgendo al mare. 
Ciò spesso infligge costi terribili all’ambiente. In India, l’estrazione della sabbia dai fiumi sta distruggendo gli ecosistemi, uccidendo un numero incalcolabile di pesci e uccelli. In Indonesia, si pensa che circa due dozzine di piccole isole siano scomparse dal 2005 a causa dell’estrazione di sabbia. In Vietnam, i minatori hanno divelto centinaia di acri di foresta per raggiungere il suolo sabbioso sottostante. I minatori di sabbia hanno danneggiato le barriere coralline in Kenya e compromesso ponti in Liberia e Nigeria. Gli ambientalisti collegano il dragaggio della sabbia nella Baia San Francisco all’erosione delle spiagge circostanti.
Le persone si fanno anche male. L’estrazione della sabbia è stata ritenuta colpevole di morti accidentali in Arabia saudita e Gambia. In India ed Indonesia, gli attivisti e i funzionari di governo che affrontano le gang del mercato nero dell’astrazione della sabbia sono stati uccisi. 
Regolamenti più forti possono impedire molto questo danno e lo fanno nei paesi più sviluppati. Ma c’è un rovescio della medaglia. La sabbia è tremendamente pesante, il che la rende costosa da trasportare. Se proibite l’estrazione di sabbia nel vostro giardino – come stanno cercando di fare molte comunità americane – questa dev’essere trasportata in camion da qualche altra parte. Ciò ne aumenta il prezzo. Il calcestruzzo è relativamente economico, se il costo della costruzione di un nuovo edificio o strada dovesse raddoppiare, ciò potrebbe colpire duramente l’economia. Per non parlare dell’ulteriore traffico di camion e di inquinamento. Dei funzionari dello stato della California hanno stimato che se la distanza media di trasporto di sabbia e ghiaia aumentasse da 40 ad 80 km, i camion brucerebbero quasi 50 milioni di galloni in più di gasolio ogni anno. 
Possiamo fare altra sabbia, ma tritare la roccia o polverizzare il calcestruzzo è costoso e la sabbia che ne risulterebbe è poco adatta per molte applicazioni. Possiamo usare sostanze alternative per alcuni scopi, ma quale altra sostanza possiamo trovare in una quantità di 40 miliardi di tonnellate all’anno?
I villaggi di pescatori negli estuari ricchi di mangrovie della provincia di della Koh Kong Cambogia potrebbero essere il canarino nella miniera globale di sabbia. Per anni, la gente del villaggio si è lamentata che l’estrazione di sabbia dilagante sta spazzando via i granchi e il pesce che forniscono il loro sostentamento. Gente del posto durante una recente visita mi ha detto che le famiglie hanno dovuto mandare dei loro membri a lavorare nelle fabbriche di indumenti a Phnom Penh, o si sono semplicemente trasferiti. Il dragaggio minaccia anche i delfini, le tartarughe e le lontre del luogo in via di estinzione.
Lo scorso anno, membri di Mother Nature, un gruppo ambientalista guidato dal signor Gonzalez-Davidson e da altri, ha cominciato  una campagna per limitare l’estrazione, organizzando gli abitanti del villaggio per bloccare e abbordare le navi da dragaggio. Il governo, che aveva espulso il signor Gonzalez-Davidson pochi mesi prima per aver bloccato l’accesso stradale a dei funzionari governativi che cercavano di raggiungere una diga per l’energia idroelettrica nella provincia, ha arrestato tre degli attivisti, accusandoli di minacciare di danneggiare le navi da dragaggio, un reato che potrebbe significare due anni di prigione (il signor Gonzalez-Davidson è stato accusato in contumacia come i suoi complici qualche mese dopo.
Il signor Gonzalez-Davidson, che vive a Barcellona, sta facendo una petizione per assistere al proprio processo. Nel frattempo, negli ultimi 10 mesi, ai tre cambogiani incarcerati è stata negata l’uscita su cauzione. Il loro processo è stato infine programmato per la fine di giugno. 
C’è una questione urgente di giustizia per loro. Per il resto di noi, c’è una lezione profonda. Difficilmente si pensa alla sabbia, da dove viene o cosa facciamo per averla. Ma un mondo di sette miliardi di persone, delle quali sempre di più vogliono appartamenti in cui vivere, uffici in cui lavorare e centri commerciali per fare spesa, non si può più permettere quel lusso. 
Una volta sembrava che il pianeta avesse disponibilità di petrolio, acqua, alberi e terreno illimitate che non avevamo bisogno di preoccuparcene. Ma, naturalmente, stiamo imparando nel modo peggiore che nessuna di queste cose è infinita e il prezzo che abbiamo pagato finora per il loro uso sta salendo rapidamente. Dobbiamo conservare, riusare, trovare alternative e in generale diventare più intelligenti riguardo al modo in cui usiamo quelle risorse naturali. Ecco perché dobbiamo cominciare a pensare alla sabbia.

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Distruzione della domanda e picco del petrolio

Da “Cassandra’s Legacy”. Traduzione di MR

Roger Baker è un sostenitore della riforma del trasporto e dell’energia che vive in texas, ad Austin. Da tempo membro di ASPO, ci siamo incontrati nella vita reale ad una delle prime conferenze di ASPO, quella tenuta a Pisa nel 2006. Qui discute dell’attuale situazione del petrolio greggio e dell’economia globale.  (U.B.)

Di Roger Baker

Siamo pienamente sotto l’influenza della distruzione della domanda di petrolio. Il mercato globale del petrolio non può funzionare senza conoscere il vero prezzo di produzione del petrolio, che non è un dato che esiste nell’attuale economia globale deflazionaria, cosa che spinge i produttori indebitati a vendere ben al di sotto del costo.


Domanda e offerta di petrolio sembrano entrambe cicliche di natura e la fase di distruzione dell’offerta non è finita e può essere rivitalizzata soltanto tramite un prezzo di scambio del petrolio globalmente realistico, cosa che nessuno conosce. Non sapremo questo prezzo finché non finisce il ciclo di distruzione della domanda. Non potremo determinarlo finché non vedremo la stabilizzazione della domanda globale dell’equilibrio domanda-offerta che stabilisce il prezzo globale del petrolio. L’economia materiale globale sembra che si stia contraendo man mano che redditività del Baltic dry index, degli autotrasporti e delle ferrovie sembrano affermarsi, anche ignorando i prezzi del petrolio e l’economia cinese.

La realtà probabilmente è che un EROEI in diminuzione e la fine del petrolio a buon mercato dopo il 2005, ha reso la crescita del nostro capitale finanziario di investimento meno redditizio. Ma questo passaggio fondamentale è stato nascosto tramite il credito facile delle banche centrali e la valuta a interessi zero generata su richiesta per pagare gli interessi su una montagna di debito impagabile in crescita, con un passaggio del debito da mani private a mani pubbliche, come da Wall Street alla Fed ed alle obbligazioni del Tesoro. Ora vediamo le più grandi banche centrali del mondo che creano indipendentemente ognuna le proprie valute a interessi zero per conservare un vantaggio di scambio, condotte dal dollaro come riserva standard di valuta a livello mondiale (se dipendesse da me, le cose funzionerebbero molto meglio se ogni dollaro fosse scambiabile a richiesta per un quarto di gallone di petrolio convenzionale).

Nelle condizioni attuali, nessuno può prevedere un tasso di scambio significativo delle maggiori valute sui mercati esteri più significativi. I tassi di scambio del commercio e quelli delle valute vengono stabiliti tramite le politiche nazionali e quindi sono arbitrari, cosa che porta al paradosso di Triffin. Le politiche di sovranità nazionale delle banche tendono verso il denaro facile, più debito e business as usual. Il commercio globale genera le sue stesse pressioni che necessariamente, in nome della stabilità del commercio globale, devono essere saldamente basate su quanta energia, lavoro e capitale di investimento sono andati realmente nella produzione dei beni che sono stati scambiati. Qui le tendenze non sembrano così buone.

http://www.oftwominds.com/blogapr16/triffins-paradox4-16.html

Sembra un sistema che tende a resistere al cambiamento ed alla pressione interna per riformarlo finché le cose non si spezzano in una sorta di versione globale di un “momento Minsky” in cui le garanzia finanziarie cadono per un effetto domino, pensate alla fine del 2008 prima dei salvataggi di emergenza. Cercare di prevedere quanto può essere spinto un sistema fuori equilibrio prima che si rompa o vada in stallo è impossibile.

Quando ciò accade, non c’è motivo di aspettarsi una contrazione ordinata verso l’equilibrio di domanda e offerta più basso necessario per incoraggiare nuovi investimenti petroliferi. Potrebbe sembrare più un aumento caotico del prezzo in un mondo pieno di drogati di petrolio arrabbiati che lottano per la produzione esistente. O forse è già così più di quanto ci piaccia ammettere.

Torniamo all’economia del petrolio. Quella che segue è una bella analisi di quando ci potremmo aspettare il prossimo picco del prezzo del petrolio, considerando le attuali tendenze. Forse all’inizio del 2018, come si stima qui? Ho visto altre ipotesi, forse il 2017, per un lento ritorno ad un mercato globale del petrolio difficile. A qualsiasi tasso, questa analisi da un creditro appropriato alle molte cose che nel frattempo possono andare storte. Ciò contiene una considerazione geopolitica utile delle varie regioni di produzione del petrolio a livello globale, compresa la mappa piuttosto scoraggiante di Art Berman della redditività del petrolio di scisto dei depositi del Permiano.

http://attheedgeoftime.blogspot.co.uk/2016/05/this-is-peak-oil.html

Jeffrey Brown pone la questione molto importante del fatto che si dovrebbe porre un’attenzione focalizzata sulle frazioni altobollenti del petrolio conosciute come distillati. Si possono “rompere” le grandi molecole di idrocarburi (distillati) in molecole piccole durante la raffinazione, ma non si può andare nell’altra direzione (in modo conveniente) per fare molecole grandi dalle piccole.

Il problema qui è che ciò che possiamo chiamare la potenza muscolare mobile pura per la nostra civiltà ed il suo commercio dipende in modo cruciale dalla disponibilità di queste molecole più grandi che provengono prevalentemente dal petrolio convenzionale. Camion, aerei, navi ed  attrezzature pesanti per l’estrazione non funzioneranno usando le molecole di idrocarburi più piccole predominanti nella benzina. Queste frazioni più leggere tendono ad essere preferite nel petrolio di roccia compatte a causa della geologia e della fisica coinvolte.

Per questa ragione, ogni qualvolta vediamo ritornare a un prezzo trasparente del petrolio a causa del ritorno di un mercato globale del petrolio, se operante in condizioni di mercato ordinate, dovremmo aspettarci di vederlo espresso come un passaggio di prezzo globale del combustibile. Un passaggio in cui il prezzo dei distillati aumenta ostinatamente, in relazione al prezzo delle frazioni del combustibile più leggere come la benzina.

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La Brexit e l’equazione energetica

Da “Resource Insight”. Traduzione di MR

Di Kurt Cobb

La preoccupazione dei mercati finanziari dopo che i votanti del Regno Unito hanno deciso di misura di lasciare l’Unione Europea (UE), un passo denominato Brexit, è stata in misura minore per gli effetti immediati – non ce ne sono, visto che ci vorrebbero fino a due anni perché la Gran Bretagna si distacchi – e in misura maggiore per un presagio che altri paesi vorranno a loro volta uscire.

Inoltre, alcuni pensano che sia probabile che l’indipendenza scozzese sarà di nuovo nell’agenda. Gli scozzesi erano fortemente a favore di rimanere nell’UE. Le forze politiche centrifughe sono negative per gli affari visto che gettano incertezza ed alla fine disgregazione se giungono a compimento come accaduto in Gran Bretagna riguardo alla UE. E, naturalmente, la Gran Bretagna non è il solo paese in Europa che ha movimenti secessionisti. Il popolo della regione della Catalogna, in Spagna, per qualche tempo ha inseguito un referendum per l’indipendenza dalla Spagna. Solo lo scorso anno i separatisti catalani hanno ottenuto la maggioranza del governo regionale. Il movimento cita ragioni culturali e linguistiche per dichiarare l’indipendenza, ragioni che potrebbero esse sostenute da molti gruppi in tutta Europa e portare ad ulteriore instabilità.


La domanda principale è perché c’è uno scontento montante rispetto all’integrazione globale economica e politica, non solo in Europa, ma anche negli Stati Uniti, come evidenziato dalle candidature di Donald Trump e Bernie Sanders.

La sconfitta di misura delle forze pro Europa è stata spiegata come un voto contro le politiche di regolamentazione di immigrazione ed affari della UE e contro la perdita di sovranità nazionale. Ma c’è anche un sentimento in atto secondo cui il passaggio verso una maggiore integrazione tramite la UE e trattati globali e regionali di commercio siano progettati principalmente per arricchire le élite finanziarie globali – mentre sottopongono i lavoratori dipendenti delle classi medio-basse a redditi stagnanti o persino in diminuzione in quanto competono contro il lavoro sottopagato dei paesi in via di sviluppo.

Nella conversazione sulla repulsione montante contro un’ulteriore integrazione, un fattore non viene discusso: l’energia. Con petrolio, gas naturale e carbone, le fonti di energia primaria mondiale, tutte ben al di sotto i loro prezzi alti dello scorso decennio, sembrerebbe tutto a posto sul fronte energetico. La Gran Bretagna, naturalmente, ha raccolto i benefici dei depositi di petrolio e gas naturale nel suo settore del Mare del Nord sin dagli anni 70. Tuttavia, dopo il 2005 il paese ha smesso di essere un esportatore netto di petrolio greggio e di liquidi del gas naturale. Le importazioni di gas naturale sono aumentate vertiginosamente con le importazioni del 2014 che sono giunte ad essere 19 volte quello che erano nel 2000. Entrambe queste tendenze puntano al declino dei giacimenti del Mare del Nord e al rientro della Gran Bretagna nella lega degli importatori di petrolio e gas, un’inversione improvvisa di una precedente tendenza a lungo termine ed una tendenza netta negativa per l’economia britannica.

Come vedrete sotto, questa tendenza combinata con gli effetti dei prezzi dell’energia alti sulla crescita della produttività hanno avuto un effetto negativo sui redditi dei votanti di classe medio-bassa che simultaneamente hanno pagato una percentuale maggiore dei loro redditi per le aumentate bollette energetiche. Questo doppio smacco probabilmente ha contribuito allo scontento fra tali votanti che stavano cercando un modo per esprimere la loro frustrazione e l’hanno trovato nel voto sulla Brexit.

Per tornare alle tendenze menzionate sopra, il 2005 si è rivelato essere non solo un punto di svolta per i giacimenti del Mare del Nord, ma anche per i mercati petroliferi di tutto il mondo. I prezzi sono saliti inesorabilmente ed hanno raggiunto il loro picco massimo nel 2008. Dopo che i prezzi sono scesi a circa 35 dollari al barile sulla scia del crash finanziario che ne è seguito, sono risaliti nettamente riguadagnando i 100 dollari al barile dall’inizio del 2011 e sono rimasti su medie record per più di 3 anni e mezzo. I prezzi alti erano collegati all’aumento della domanda da parte dell’Asia, ma anche da un drammatico rallentamento della crescita della produzione di petrolio in tutto il mondo.

Se la causa delle attuali difficoltà economica sono stati, in parte, i prezzi del petrolio alti che hanno rallentato l’economia mondiale, allora si intravede una ‘Energy connection”. Gli attuali prezzi del petrolio bassi diventano un sintomo di debolezza economica piuttosto che un mero riflesso di un eccesso di offerta (gran parte del mondo al di fuori del Nord America ha anche sperimentato prezzi del gas naturale alti durante questo periodo sotto forma di costi elevati del gas naturale liquefatto in Giappone ed Europa, di gran lunga più alti del prezzo da conduttura degli Stati Uniti durante lo stesso periodo).

Inoltre, i prezzi alti dell’energia in generale possono essere collegati ad una crescita della produttività più lenta. Ed abbiamo visto la crescita della produttività globale ben al di sotto della tendenza attesa dal 2005, un anno che ha registrato un punto di svolta dei prezzi del petrolio. Ora, ecco la parte importante: la crescita della produttività è la base dell’aumento dei salari. Col declino della crescita della produttività è meno probabile che i datori di lavoro aumentino i salari in quanto quegli aumenti si mangerebbero la redditività.

Ci sono altre ragioni per cui chi percepisce dei salari potrebbe non avere degli aumenti, ma la mancanza di crescita della produttività è una importante.

Così, ecco cosa tutto ciò aveva a che fare col voto della Brexit: standard di vita stagnanti o in declino producono scontento fra il popolino abituato agli standard in ascesa. Le forze a favore del libero mercato e dell’integrazione economica sostengono che tale integrazione in federazioni di scambio più grandi porta ad una prosperità maggiore. Quando la prosperità è scomparsa come è accaduto in Irlanda, Spagna e Grecia, sono nati movimenti politici significativi nelle ultime due (Podemos in Spagna e Syriza in Grecia) che mettono in discussione l’ulteriore integrazione e suggeriscono perlomeno un cambiamento sostanziale dei termini per essere membri della UE. L’effetto su chi percepisce dei salari in Gran Bretagna è stato più subdolo, ma ha trovato la sua espressione nel voto della Brexit.

Analogamente, gli stipendi medi americani sono generalmente crollati dal 2007. La ripresa lungamente attesa della crescita dei salari deve ancora apparire negli Stati Uniti anche mentre un boom di petrolio e gas naturale collegato all’estrazione dai depositi di scisto ha gonfiato i redditi negli stati in cui si è verificato il boom stesso.

Come in Europa, gli elettori americani hanno cercato una ragione per le loro prospettive in declino e due candidati a presidente quest’anno hanno suggerito una ragione che ha senso per quegli elettori: gli accordi sul commercio globale hanno depresso i salari americani. Donald Trump ha detto che “rinegozierebbe” il North American Free Trade Agreement (NAFTA). Bernie Sanders si è opposto completamente al NAFTA nel 1993 mentre era parlamentare e continua ad opporsi ai trattati che crede puniscano il lavoro interno.

Mentre probabilmente il commercio non equo e gli accordi finanziari potrebbero essere la causa del declino delle fortune delle classi medio basse, non possono esserne l’unica causa. Questo perché la stagnazione dei salari è cominciata ben prima del NAFTA e ben prima dell’introduzione dell’Euro. E’ istruttivo notare che negli Stati Uniti i salari orari medi si sono livellati nel 1973, l’anno dell’embargo petrolifero arabo. I costi energetici negli Stati Uniti sono aumentati drammaticamente dopo di ciò, anche se sono tornati a livelli più bassi negli anni 70 e 80. Eppure, il paese è stato sempre più dipendente dal petrolio estero ed ha spedito sempre più del suo reddito all’estero durante questo periodo per pagare quel petrolio. Durante il boom di petrolio e gas naturale recentemente esauritosi negli Stati Uniti, i prezzi alti hanno arricchito quelli coinvolti, trasferendo ricchezza da coloro che non lo erano. L’effetto sui salari complessivi sembra essere stato leggermente negativo. Niente di tutto ciò prova con certezza che i salari stagnanti sono causati dai prezzi alti dell’energia, amento delle importazioni energetiche o accordi commerciali sfavorevoli. Ma ci sono forti prove che siano implicati tutti e tre. In modo non sorprendente, l’energia è il tema che è stato trascurato in questa discussione, perché l’energia attualmente si trova in una depressione del prezzo ciclica, una depressione che potrebbe facilmente essere conseguenza dell’effetto ammortizzante che i prezzi alti precedenti hanno avuto sulla crescita dell’economia e della produttività.

Tali effetti sono difficili da inquadrare. E la mitologia che ci ha portato il braccio delle pubbliche relazioni dell’industria dei combustibili fossili è che non dobbiamo preoccuparci della fornitura di energia sufficiente – una storia che hanno propagandato sin dai tempi dei prezzi bassi del petrolio del 1998. Ad ogni passo sul cammino della strada verso il picco del prezzo del 2008, l’industria ha detto che le grandi forniture erano appena dietro l’angolo.

Quando un tipo speciale di fratturazione idraulica ha reso disponibili nuovi depositi di petrolio negli Stati uniti, solo prezzi prossimi ai 100 dollari li hanno resi economicamente praticabili (come possiamo vedere dai diffusi fallimenti fra quelle società che dipendono da quei depositi nell’ambiente dei prezzi bassi recente). Sono quei prezzi alti , secondo me, che hanno rallentato l’economia, facendo apparire ora il petrolio come apparentemente abbondante. Se non entriamo in una grande recessione o depressione, un aumento della domanda potrebbe fare lievitare i prezzi e mettere ulteriore pressione sulla produttività complessiva e nel frattempo aumentare le bollette energetiche per le famiglie. Ciò costituirebbe una fase di ulteriore scontento fra coloro che credono che l’aumento dell’integrazione economica globale stia facendo lor male piuttosto che aiutarli.

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Il grande complotto delle mucche sul cambiamento climatico

Da “Union of Concerned Scientists”. Traduzione di MR

Di Doug Boucher, consigliere scientifico su clima ed energia.

Serata cinematografica lo scorso fine settimana a casa mia, proiezione di Cowspiracy. Il nome dice tutto. Il film del 2014/2015 con quel nome – “Il film che le organizzazioni ambientali non vogliono che voi vediate”, secondo il suo sito web – ha scoperto un’immenso complotto ordito in combutta dai governi e le più grandi organizzazioni ambientali, per ingannare l’opinione pubblica sulla causa principale del riscaldamento globale. Ma la premessa del film è basata su interpretazioni gravemente viziate – e rifiutate quasi in modo unanime – della scienza. Lasciate che vi spieghi…


Secondo Cowspiracy, la più grande fonte di inquinamento che provoca il riscaldamento globale non sono i combustibili fossili come carbone, petrolio e gas naturale, come ci dicono gli scienziati di tutto il mondo. No, è l’allevamento – non solo mangiare mucche, ma tutti gli altri tipi di carne, uova, latte ed anche pesce. Quindi la soluzione principale al riscaldamento globale non è l’energia rinnovabile. E’ che tutti diventino vegani.

Mucche peggio dei combustibili fossili. No, neanche lontanamente

Al centro della teoria della cospirazione di Cowspiracy c’è il presunto “fatto” secondo cui uno studio del 2009 ha scoperto che il 51% di tutte le emissioni di gas serra sono prodotte dall’allevamento. Buona parte del film è utilizzato per interviste con persone delle organizzazioni ambientaliste, come Rainforest Action Network, Oceana e il Natural Resources Defense Council, che non sembrano accettare questo “fatto” e che quindi devono essere parte della cospirazione per nasconderlo. Greenpeace ha gentilmente rifiutato, due volte, di essere intervistata, dimostrando che anch’essa fa parte della cospirazione.

Visto che il valore del 51% è un elemento chiave della teoria della cospirazione del film, vediamo lo studio da cui proviene. Ironicamente, alla luce della tesi di Cowspiracy che le ONG stanno nascondendo la scienza, questo studio, che propone il valore sul quale si basa così pesantemente, non è stato pubblicato su una rivista scientifica, ma in un rapporto di una organizzazione ambientalista, il Worldwatch Institute. Gli autori del rapporto, Jeff Anhang e Robert Goodland, non sono stati nominati nel film ma sono stati descritti semplicemente come “due consiglieri della Banca Mondiale”.

Gonfiare le emissioni del bestiame interpretando male la biologia di base

In che modo Goodland ed Anhang se ne sono usciti con il 51% invece di circa 15% di gas serra di cui è responsabile il bestiame secondo il consenso scientifico (che comprende le emissioni dirette degli animali, delle emissioni per la produzione di mangimi, dell’uso di terreno e del letame)?

La differenza più grande è che Goodland ed Anhang contano anche il biossido di carbonio emesso dagli animali addomesticati – cioè la respirazione. Probabilmente ricordate i fondamentali di questo dalle lezioni di biologia. La biosfera è fondamentalmente alimentata dalla fotosintesi delle piante, che cattura le molecole di CO2 dall’atmosfera ed usa l’energia solare per collegare insieme quelle molecole, facendo zuccheri, amidi, grassi e (aggiungendo altri elementi)proteine, DNA e tutte le altre parti del mondo vivente. Facendo questo, le piante emettono ossigeno, che ora costituisce circa il 21% dell’atmosfera.

Gli “eterotrofi” del pianeta – animali, funghi e gran parte dei batteri ed altri microbi – non sono in grado di fare la fotosintesi, quindi devono prendere la loro energia mangiando o decomponendo le molecole prodotte dalla fotosintesi. Generalmente, gli eterotrofi lo fanno invertendo il processo di fotosintesi – prendendo l’ossigeno ed usando per spezzare le molecole ricche di energia create dalle piante e rilasciando CO2 nell’atmosfera. Questo è il processo della respirazione. Ma l’aggiunta del CO2 prodotto dal bestiame alle emissioni di gas serra planetarie fatta da Anhang e Goodland ignora un punto semplice ma cruciale: anche le piante respirano. Svolgono entrambi i processi fondamentali, non solo fare la fotosintesi ma anche respirare.

Questa respirazione è il modo in cui prendono l’energia di cui hanno bisogno per sostenersi, assumono acqua e nutrienti ed effettuano tutte le altre reazioni chimiche necessarie alla vita. Nel processo, rilasciano gran parte del CO2 che hanno assunto. E quello che non rilasciano viene quasi tutto rilasciato dopo la loro morte, dalla respirazione fatta dagli organismi decompositori come funghi e batteri.

Di conseguenza, il CO2 che le piante prendono dall’atmosfera, torna nell’atmosfera, che vengano o meno mangiate da animali. Pertanto, il bestiame (ed altri animali, compresi quelli selvaggi e quelli domestici) non aggiungono niente alla quantità di CO2 che viene emessa in atmosfera. Ecco perché gli scienziati hanno rifiutato il conteggio fatto da Goodland e Anhang sulla respirazione del bestiame come fonte antropogenica aggiuntiva di gas serra. Non è aggiuntiva – succederebbe comunque, quindi non si è giustificati nell’aggiungerla.

Cambiare l’impatto del metano

C’è una differenza importante quando si tratta di un piccolo  numero di specie animali. Questi sono i ruminanti, che comprendono specie addomesticate come mucche, pecore e capre così come quelli selvaggi come cerci ed antilopi.
Il loro sistema digestivo comprende un “rumine”, che contiene microbi che possono spezzare la cellulosa, che gran parte degli animali non possono fare. Sfortunatamente, nel processo questi microbi metanogenici trasformano parte del carbonio in metano (CH4), che è un gas serra molto più forte del CO2. Causa un riscaldamento globale di circa 25 volte per molecola più grande del CO2, secondo il recente consenso scientifico.

Il rilascio di metano nell’atmosfera da parte dei ruminanti, sia direttamente da entrambi gli orifizi dell’animale (quella che viene chiamata “fermentazione enterica”) e dal loro letame, è aggiuntivo. Non si verificherebbe se i ruminanti non mangiassero le piante, permettendo ai microbi metanogenici dei loro rumini di spezzarle ed usarle per produrre metano. Così gli scienziati tengono decisamente conto del metano dei ruminanti nelle loro stime dell’inquinamento che genera riscaldamento globale, infatti è il contributo maggiore, di quasi un quarto del totale delle emissioni, che proviene dall’agricoltura globale. Tuttavia, Goodland ed Anhang non lo hanno conteggiato allo stesso modo in cui lo fanno la maggioranza degli scienziati. Invece di misurare il contributo del metano come 25 volte maggiore, per molecola, rispetto al CO2, loro usano un fattore di misura di 72 volte, aumentando il suo impatto stimato quasi di 3 volte.

Perché lo fanno? Invece di usare il metodo standard che stima l’impatto di riscaldamento globale delle molecole di gas su un secolo, loro contano solo il suo impatto su un periodo di 20 anni, così come per il CO2. Visto che il metano dura solo per un decennio o due in atmosfera prima di spezzarsi, mentre il CO2 vi rimane per molti secoli, contare gli effetti di entrambi solo per i primi 20 anni aumenta l’impatto relativo del metano in modo considerevole. Quindi, anche se non ci fosse stato nessun cambiamento nella quantità di CO2 o nella quantità di metano che vengono emessi realmente, la stima dell’inquinamento che produce riscaldamento globale sale in modo sostanziale – con gran parte della colpa che viene attribuita ai bovini .

C’è stata molta discussione scientifica sul modo migliore per mettere insieme l’impatto in termini di riscaldamento globale delle diverse molecole ed è probabile che questo continui.

Dipende solo da quanto tempo si pensa che il riscaldamento globale è probabile che sia un problema urgente. Se è una cosa che sarà cruciale per la società umana per il resto del XXI secolo, questo è l’uso del periodo standard di 100 anni per il calcolo dell’effetto dei gas serra. Se si è pessimisti e si pensa che non saremo in grado di stabilizzare le temperature globali anche più a lungo di così, allora si può sostenere un periodo anche più lungo di 100 anni.
D’altra parte, scegliere di prendere una media su soli 20 anni, come ha fatto lo studio del Worldwatch, equivale a dire che ci interessa solo di noi stessi, non dei nostri figli, dei nostri nipoti e delle future generazioni. Se il riscaldamento globale continua oltre i prossimi due decenni, è il problema di qualcun altro. Non trovo accettabile questo approccio, sia scientificamente sia moralmente.

Queste due discrepanze dal consenso scientifico – conteggiare il CO2 non aggiuntivo respirato dal bestiame e misurare il metano emesso dagli animali ruminanti quasi tre volte in più di quanto faccia la maggior parte degli scienziati – costituiscono le differenza più grandi fra il consenso scientifico di circa il 15% delle emissioni e il valore del 51% usata da Cowspiracy.

Ci sono altre differenze che aggiungono quantità più piccole – per esempio la stima delle emissioni della deforestazione alimentata dall’allevamento, il loro uso di un conteggio maggiore riguardo alla quantità di bestiame presente globalmente rispetto a quanto fa l’ONU, il loro dividere il loro totale di “allevamento” per un denominatore relativamente piccolo, il che rende la percentuale maggiore, ecc. Tutte queste cose hanno debolezze scientifiche simili, che hanno tutte lo stesso tipo di impatto sulla percentuale, facendola risultare molto più grande (e quindi rendendo l’importanza dei combustibili fossili e dell’energia minore) di quanto non dica il consenso scientifico.

Come ha risposto la comunità scientifica allo studio del 2009 di Goodland ed Anhang e al loro valore del 51%? L’abbiamo rifiutato, in modo quasi unanime, per le ragioni che ho spiegato.

Né una replica al loro studio in una rivista scientifica, né i più recenti articoli di ricerca sul tema, Nè le ultime revisioni dello stato della scienza, né il più recente rapporto del IPCC, scritto da migliaia di scienziati di tutto il mondo ed accettato come il consenso scientifico sulla scienza del clima – nessuno di questi ha adottato il valore del 51%.

Nonostante gli sforzi di entrambi i sostenitori, gli autori di Cowspiracy e l’industria dei combustibili fossili (vedete il recente rapporto di Union of Concerned Scientists – UCS – I dossier sull’inganno del clima per i dettagli), c’è un forte consenso fra gli scienziati così come fra l’opinione pubblica che il cambiamento climatico sta avvenendo e gli esserei umani, principalmente tramite i combustibili fossili che bruciamo, ne sono la causa principale.

Cowspiracy ignora questo ampio consenso, infatti gli scienziati sono praticamente assenti fra le molte teste parlanti del film. Ciò ci dice che anche se ci sono un sacco di affermazioni riguardo a presunti numeri scientifici, le persone che fanno quelle dichiarazioni non sono identificate come scienziati, ma piuttosto da didascalie come “Scrittore di ambiente ed etica”, “Fondatore di Greenpeace Alaska”, “Ex dirigente di mercato della Whole Foods”, “Ex allevatore di bovini” e “Agricoltore vegano”.

E chi altri c’è in combutta?

Devo ammettere che c’è un’altra ragione, più personale, per cui mi risulta difficile credere che ci sia una grande cospirazione fra le ONG e gli scienziati per nascondere l’impatto dell’allevamento sul clima.

Ed è perché i miei colleghi di UCS ed io – scienziati di una ONG che si concentrano sul cambiamento climatico – abbiamo scritto e parlato in modo esteso dell’impatto climatico del bestiame ormai per diversi anni. E in particolare sull’impatto delle mucche, specialmente dei bovini da carne, che hanno un’impronta molto più pesante sul riscaldamento globale rispetto ad altre fonti di cibo (compresi gli altri alimenti animali).

Abbiamo diffuso questa informazione scientifica non solo in questo blog (sia di recente sia anni fa) ma anche in ampi rapporti come  Radici del problema (2011), Soluzioni per una carne senza deforestazione (2012), Un uso della terra amico del clima (2013), così come in articoli scientifici e nel libro del 2012 Più freddo, più intelligente.

Immagino che si debba concludere che gli autori di Cowspiracy, nonostante le affermazioni del suo narratore di aver fatto ricerche estese, non siano proprio riusciti a trovare nessuno di questi lavori. O forse è solo che il nostro rifiuto del valore del 51% mostra che, insieme al resto della comunità scientifica, siamo anche noi parte della cowspirazione.

Una recente ricerca da parte di sociologi ha scoperto che i negazionisti della scienza del clima tendono ad essere a loro volta associati con altri tipi di teoria della cospirazione. Come dice l’articolo di Stephen Lewandosky e colleghi, “La NASA ha simulato l’atterraggio sulla luna – pertanto la scienza del clima è una truffa”.

Sebbene i temi siano diversi, ciò che hanno in comune teorie della cospirazione sul luogo di nascita del presidente Obama, sugli attacchi del 11 settembre, sulle scie di cndensazione degli aerei, sulle vaccinazioni, e sul cambiamento climatico, è che ci raccontano che un numero incredibilmente vasto di persone – nei governi, nei media e, nel caso di Cowspiracy, della scienza e anche della comunità ambientalista, si sono accordate per nascondere una parte di informazione fondamentale all’opinione pubblica.

Film come Cowspiracy non sono credibili, non solo perché manipolano la scienza, ma anche a causa di quello che ci chiedono di credere: che l’industria dei combustibili fossili – le ExxonMobil del mondo – non siano la causa principale del riscaldamento globale; che la transizione all’energia pulita non sia ciò che importa di più per il nostro futuro o per quello dei nostri nipoti e che migliaia di scienziati abbiano nascosto la verità sul problema ambientale del nostro tempo.

Nota del traduttore: chiedo scusa per l’insistenza su questo tema particolare ma, come sappiamo bene, il diavolo è nei dettagli. Il meme vegano si sta diffondendo a ritmi vertiginosi, spesso legato a cospirazionismi ed atteggiamenti irrazionali ed antiscientifici quantomeno problematici ai fini di interpretare correttamente le cose. Anche la Union of Concerned Scientists ha ritenuto opportuno dire la sua su questo tema ed ho pensato che valesse la pena di diffondere questo loro articolo. In ogni caso, se potete, mangiate meno carne, specie di manzo. Ma, soprattutto, verificate sempre da dove viene il vostro cibo e come è stato prodotto. A volte è meglio una bistecca che viene dall’allevatore vicino casa vostra di un cibo biologico che viene dall’altra parte del mondo. Buona lettura. 

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