Effetto Cassandra

CONFINI – 3. Deglobalizzazione: il ritorno dei confini

Nei precedenti due post (qui e qui) abbiamo visto che i sistemi tendono ad integrarsi in unità funzionali più grandi ed efficienti. Principalmente, questo consente di dissipare più energia e, perciò, di prevalere su altri sistemi.   Una tipica retroazione positiva: “più cresci, più diventi forte per crescere”.   Sappiamo però che niente cresce indefinitamente, ma anzi che, prima o poi, i sistemi grandi e complessi si disintegrano a vantaggio di altri più piccoli e semplici.  Semplificando al massimo, gli organismi muoiono e nutrono colonie batteriche; gli imperi e gli stati centralizzati si disgregano in stati più piccoli, oppure in sistemi feudali o tribali, ecc.   Naturalmente, ogni caso ha la sua storia di crescita, picco e declino, ma tutti seguono questo schema.  
Ci devono quindi essere dei buoni motivi.

Limiti della crescita e limiti dei sistemi

Se esista o meno una sorta di legge universale dell’invecchiamento e morte dei sistemi è un argomento molto dibattuto.   Chi fosse interessato, troverà qualcosa a questo link.

Qui tralasceremo la questione, limitandoci a considerare un solo aspetto del problema.  Abbiamo visto che sistemi più grandi e complessi sono più efficienti, ma necessitano di maggiori risorse e di un “fuori” in cui scaricare l’aumento di entropia corrispondente all’aumento di informazione che avviene “dentro”, man mano che il sistema cresce.

Con riferimento alla società industriale, entrambi questi temi sono stati ampiamente dibattuti.  In estrema sintesi, la linea di pensiero dominante è che il progresso tecnologico può compensare il decadimento quali/quantitativo delle risorse e l’inquinamento, aumentando indefinitamente la propria efficienza.   Un punto di vista contestato da coloro che pensano che le leggi naturali facciano aggio sulle teorie filosofiche.   Ma qui stiamo trattando solo dei limiti di un sistema, un aspetto poco considerato, malgrado sia molto interessante.

Un sistema economico consiste in un insieme di processi termodinamici (estrazione, trasporto, trasformazione, riciclo, ecc.) e serve a produrre un accumulo di vari tipi di capitale all’interno del sistema stesso (popolazione, oggetti, infrastrutture, conoscenze, ecc.).  In altre parole, aumenta la quantità di informazione che il sistema contiene, riducendo quella di altri, da cui preleva risorse ed in cui scarica la propria entropia sotto forma di rifiuti, guerre, sovrappopolazione, ecc.  I sistemi che riescono a crescere più degli altri hanno un vantaggio, ma che succede se tutti i sistemi di un determinato tipo vengono integrati in un unico super-sistema?

La globalizzazione è stato un gigantesco esperimento che ci ha effettivamente portati molto vicini ad un sistema economico unico.  Cioè privo di un “fuori” da sfruttare a vantaggio del “dentro”.   Necessariamente, l’entropia prodotta dal sistema si deve quindi scaricare all’interno del sistema stesso, sotto forma di un peggioramento delle condizioni di vita di una parte della popolazione a vantaggio di altri.   Ad esempio mediante la pauperizzazione della classe media occidentale e la schiavizzazione della mano d’opera di  molti paesi “in via di sviluppo”.  Lo spalancarsi dell’abisso fra il leggendario 1% e tutti gli altri non che un effetto di questa dinamica.   Ma ancor più dei perdenti umani, ne ha fatto le spese la Biosfera che rappresenta la discarica finale (sink) di qualunque processo economico.   Ed è proprio questo aspetto, sempre più trascurato a livello politico, che sta già creando i presupposti per l’implosione del sistema.  Ancor più di altri aspetti, assai più di moda sui social e sulla stampa.

La disgregazione sociale è infatti un fenomeno classicamente associato alle fasi critiche dei sistemi umani e gioca un ruolo fondamentale nel destabilizzare i sistemi statali e sovra-statali nei tempi brevi (anni e decenni).  La perdita di biodiversità determinerà invece se fra qualche secolo sulla Terra ci saranno foreste, campi e civiltà, oppure colonie di batteri estremofili.   O qualunque scenario intermedio vorrete immaginare.

La trappola globale

Come già accennato, non era necessario globalizzare il sistema per immaginare che sarebbe finita male.  Processi simili si erano già visti tante volte nella storia, anche se su scala molto più piccola, e sempre con risultati analoghi: l’integrazione è vantaggiosa finché il sistema in crescita mantiene la capacità di scaricare fuori di sé i danni che la crescita comporta.

Nei millenni in cui gli imperi si sono alternati nel dominio di grosse parti del pianeta, ognuno di essi è entrato in crisi quando è rimasto a corto di risorse per mantenere la propria complessità e per proteggere i propri confini.   Oppure quando ha perso la capacità di scaricare sui vicini i propri problemi, ad esempio mediante guerre od emigrazione.

Era prevedibile che man mano che il sistema economico mondiale veniva integrato, la capacità produttiva aumentasse, ma a costo di “parane il fio” in tre forme: la crescita esponenziale delle disparità sociali,  l’erosione accelerata delle risorse e l’aumento di entropia interna del sistema stesso sotto forma di inquinamento, perdita di biodiversità,  tumulti, ecc.

Il meccanismo della “crisi malthusiana” è probabilmente intrinseco alla dinamica della nostra specie fin dal suo apparire.   Tuttavia, oggi è la prima volta che qualcosa del genere avviene in modo quasi contemporaneo in tutto il mondo, minando la capacità del Pianeta di mantenere condizioni ambientali compatibili con la civiltà.   Forse perfino con la vita umana.

La globalizzazione è stata quindi la trappola in cui il capitalismo si è cacciato. Dopo aver annientato ogni resistenza tradizionale ed ogni reazione moderna, pare proprio che si stia suicidando.  Perlomeno  nella sua forma attuale.

La decrescita in teoria

Uno degli errori che più spesso si commettono, è quello di credere che facendo il contrario di quanto fatto in passato, il sistema possa tornare in una condizione uguale o simile a quella di partenza.   Per fare un esempio classico, mettendo un uovo sodo in congelatore a -100 C° per tre minuti non avremo un uovo crudo.   Un esempio forse più stringente, è che non entrare a far parte di una struttura sovranazionale qualunque (alleanza, federazione, moneta unica o altro) porta a risultati completamente diversi dall’uscirne.

Ilya Prigogine ha vinto un Nobel dimostrando che, almeno per le strutture dissipative complesse, il tempo esiste, è direzionale (si chiama la “freccia del tempo”) ed è irreversibile.   Significa che non si torna MAI in uno stato precedente e se ci sembra di si, dobbiamo solo guardare cosa è successo intorno al nostro esperimento.

Dunque, se un aumento dei flussi attiva una retroazione positiva di crescita, un riduzione quali/quantitativa dei medesimi necessariamente attiva una retroazione parimenti positiva, ma stavolta di de-crescita.   Si ponga attenzione al fatto che la riduzione dei flussi può avvenire sia dalla parte delle risorse, quanto da quella degli scarti.   Cioè, sia che il sistema trovi difficoltà ad ”alimentarsi” (in senso latissimo), sia che le trovi nello scaricare i proprio “cataboliti” (sempre in senso latissimo), il risultato non cambia.   Ne siamo un esempio noi stessi.  La società industriale globale sta trovando il proprio limite nell’accumulo di inquinamento prima ancora che nella ridotta disponibilità di risorse.   Per fare un solo esempio, più di metà del petrolio scoperto è ancora sottoterra, ma se continueremo a pomparlo, ridurremo il nostro pianeta ad un deserto.

Il punto chiave qui è proprio il fatto che i sistemi in crescita esponenziale sono particolarmente instabili e vulnerabili.  E’ infatti molto difficile che possano passare da una fase di crescita convulsa ad una di equilibrio dinamico.   Sistemi che evolvono lentamente e che contengono anelli di retroazione negativa sono tendenzialmente più stabili.   Il che significa che crescono molto meno quando le condizioni sono favorevoli, ma incassano meglio quando le condizioni peggiorano.   E, soprattutto, contribuiscono assai meno al peggioramento del loro “fuori”,  proprio perché assorbono meno bassa entropia ed espellono meno alta entropia.

Una condizione certa per il disastro è poi quando un sistema riesce a crescere oltre la capacità del meta-sistema di cui fa parte di provvedere la bassa entropia ed assorbire l’alta.   L’esempio dei manuali è quello di un gregge sul pascolo.   Finché le pecore sono poche, l’erba abbonda e si possono moltiplicare.   Se ci sono fattori esterni che limitano la crescita del gregge, ad esempio il contadino che mangia una parte degli agnelli,  il sistema può tirare avanti indefinitamente.   Se invece le pecore aumentano continuamente di numero, prima o poi cominciano a danneggiare il suolo; la fertilità diminuisce e l’unico modo per salvare il gregge è eliminare abbastanza pecore da ristabilire l’equilibrio con un pascolo impoverito ed eroso.

La decrescita in pratica

Il decadimento quali/quantitativo dell’input energetico e gli effetti nocivi connessi con la crescente entropia mondiale renderanno le strutture economiche e sociali particolarmente complesse sempre meno sostenibili.    Ciò significa che la de-globalizzazione che sta ora prendendo le mosse, accelererà e diverrà una tendenza inarrestabile nei prossimi decenni.   Prima di festeggiare, consideriamo però che, se con la globalizzazione ci siamo fatti parecchio male, con la de-globalizzazione ci faremo peggio.

La progressiva integrazione dei sistemi socio economici locali in sistemi nazionali, poi transnazionali ed infine in un unico sistema globale è stata infatti la strategia che ha permesso all’umanità di aumentare la propria capacità di dissipare energia e crescere.   Se in un grafico riportassimo la curva del livello di integrazione dei sistemi economici del mondo, vedremmo che è strettamente correlata con le curve che descrivono l’incremento demografico e la dissipazione di energia.    Senza la globalizzazione, non saremmo diventati i quasi 8 miliardi che siamo oggi ed i nostri consumi non sarebbero cresciuti, semmai diminuiti.   Perché?

Facciamo un esempio: la quantità di energia fossile disponibile è tuttora fantastica, ma i giacimenti sono sempre più difficili e costosi da raggiungere e sfruttare.   Solo organizzazioni estremamente vaste ed integrate possono avere i mezzi per farlo e solo se possono poi accedere ad un mercato globale in cui vendere la propria merce.

Per farne un altro, l’epidemia di Ebola del 2014 è stata messa sotto controllo a fatica e solo grazie all’afflusso di personale specializzato, materiali costosissimi ed aiuti di vario genere dal mondo intero.   Tutte cose che solo organizzazioni della potenza dell’OMS, l’UE, gli USA e la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale potevano fare.  Senza strutture di tale vastità e complessità, i morti sarebbero stati probabilmente dei milioni in gran parte dell’Africa.

Piccolo è meno dissipativo, ma più scomodo

Quando si parla di de-globalizzazione, volentieri si pensa al proprio orto e di come sarebbero belle delle comunità agricole in cui ognuno contribuisce come può al benessere collettivo.  

A parte il fatto che tra il mercato globale ed il mio giardino ci sono parecchi livelli organizzativi intermedi, è vero che piccole comunità rurali rappresentano un modello socioeconomico molto più adatto a tempi di scarsezza.   Penso quindi che sia sicuramente una buona idea quella di prepararsi a cavarsela in economie locali, scarsamente connesse col resto del mondo.  Ma non bisogna illudersi che queste possano far vivere 8 miliardi di persone, men che meno fino ad 80 anni e passa.

In sintesi, un’economia locale può provvedere cibo, acqua, abiti ed alloggio, ma non potrà mai consentire una connessione internet, cure ospedaliere moderne, viaggi lontani, tecnologie avanzate e tutti gli altri vantaggi che ci ha dato la progressiva integrazione delle economie mondiali.

Man mano che i sistemi socioeconomici maggiori si disarticoleranno in sotto-sistemi via via più piccoli, diminuiranno la massa e l’impatto globale dell’umanità.   Ma diminuirà anche la nostra capacità di sfruttare le residue risorse del pianeta.  In pratica, la stessa retroazione che ha prodotto il fenomeno che chiamiamo “progresso”, se lo rimangerà.   Se del tutto od in parte, lo vedremo, dipende da molti fattori.   In ogni caso, la popolazione diminuirà, forse anche rapidamente.

Un fatto questo che si tende a tacere, anche se è l’unica speranza che ci rimane.   Solo un’abbastanza rapida riduzione del carico antropico potrebbe infatti salvare la Biorfera e, dunque, anche la nostra discendenza.

Per essere chiari: era prevedibile che la globalizzazione ci sarebbe costata cara, ma era difficile evitarla.  E’ altrettanto prevedibile che la de-globalizzazione ci costerà ancora di più ed anche stavolta sarà inevitabile.   Tuttavia, una brutale decrescita è probabilmente la migliore speranza che ci resta di non distruggere la Biosfera (moi compresi).

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Apocalisse Zombie: il nostro futuro?

DI UGO BARDI
Traduzione di Gaia Galassi. (leggermente adattato e corretto da UB).
Per quelli di noi che si dilettano a studiare i trend a lungo termine, la diffusione del genere cinematografico sugli Zombie è un rompicapo affascinante. Non c’è dubbio che ci sia un trend netto: guardate a questi risultati da Google Ngrams.
Il termine “zombie” era completamente sconosciuto prima degli anni ’20, poi ha cominciato lentamente a guadagnare attenzione. Negli anni ’70 è esploso, soprattutto dopo il successo del film del 1968 di George Romero “La notte dei morti viventi”. Il termine “zombie” non è stato usato nel film, ma il concetto è diventato rapidamente popolare e ha creato il genere chiamato “apocalisse zombie”. Oggi l’idea si è estesa: riguarda l’improvvisa comparsa di una gran quantità di non-morti che attaccano periferie e centri commerciali alla ricerca di umani vivi da mangiare. Sono normalmente il bersaglio dell’attacco di gruppi di persone pesantemente armate ma molto meno numerose che sono sfuggite all’epidemia o a qualunque cosa abbia trasformato le persone in zombie.
Ora, se qualcosa esiste, deve esserci un perché. Allora, perché questa attrazione per gli zombie? Come mai abbiamo creato un genere che non è mai esistito prima nella storia umana della letteratura? Vi immaginate Omero raccontarci che la città di Troia è assediata dagli zombie? Dante Alighieri ha forse trovato zombie nel suo viaggio all’inferno? O Shakespeare ci ha forse raccontato di un Enrico V che combatte gli zombie a Agincourt?
Io credo ci sia una ragione: la letteratura riflette sempre paure e speranze della cultura che la crea; a volte in maniera davvero indiretta e simbolica. E, in questo caso, gli zombie potrebbero riflettere una paura non detta dei nostri tempi, una paura che è presente più che altro nel nostro subconscio: la fame.
Iniziamo con una caratteristica tipica degli zombie: i cerchi neri intorno agli occhi.
Gli zombie dovrebbero essere “non-morti”, cadaveri che in qualche modo tornano a un’apparenza di vita. Ma i cadaveri hanno forse questo genere di occhi? devo ammettere che non ho molta esperienza nelle autopsie (a dire il vero, nessuna) ma, da quando vedo dal web, mi sembra raro che i cadaveri abbiano queste borse nere sotto gli occhi, a meno che non abbiano sviluppato lividi prima di morire. E’ vero che un cadavere in decomposizione perde lentamente i tessuti molli e, alla fine, gli occhi scompaiono lasciando solo cavità nere in un teschio mummificato. Ma questo non sembra combaciare con l’aspetto facciale degli zombie così come compare nei film. (Lo so, questa è una ricerca piuttosto orribile, ma la faccio in nome della scienza).
Invece, per quello che so, gli occhi cerchiati di nero possono essere una caratteristica delle persone malnutrite, spesso come conseguenza dello sviluppo di un edema facciale. Qui, per esempio, la foto di una ragazza Olandese durante la carestia del 1944-1945 in Olanda.Non è sempre una caratteristica delle persone malnutrite, ma compare abbastanza di frequente.

Un altro esempio è la Grande Carestia in Irlanda iniziata nel 1845. Non abbiamo foto di quei tempi, ma gli artisti che dipingevano gli Irlandesi che morivano di fame percepivano chiaramente questo dettaglio. Qui, per esempio un’immagine abbastanza famosa di Bridget O’Donnell, una delle vittime della grande carestia. Notate i suoi occhi anneriti.
Quindi, abbiamo qualche idea di chi questi zombie potrebbero rappresentare. Sono persone affamate. Ed è chiaro che lo sono. Nei film, sono descritti mentre avanzano inciampando, disperatamente alla ricerca di cibo. Sembrano la rappresentazione perfetta degli effetti di una carestia. Guardate il memoriale della carestia irlandese, a Dublino.

Non sembrano zombie di un film moderno? Si, lo sembrano. Questa non è una mancanza di rispetto per le donne e gli uomini irlandesi che morirono in una delle più grandi tragedie dei tempi moderni. E’ solo per notare come, nella nostra immaginazione, persone reali che muoiono di fame possono essere trasposte in immaginari zombie.

Ora, immaginate che una carestia stia decimando la nostra società, oggi. E’ vero che il mondo non ha visto grandi carestie negli ultimi 40 anni circa, ma ciò non vuol dire che le carestie non potrebbero tornare di nuovo. Oggi, il nostro sistema commerciale globale è fragile, basato su lunghe catene di fornitura che coinvolgono trasporto marittimo e distribuzione su strada. Il sistema ha bisogno di combustibili fossili a basso costo per funzionare e, più ancora, ha bisogno di un sistema finanziario globale che funziona. Se il cibo viaggia attraverso tutto il mondo, è perché qualcuno paga per farlo viaggiare. Una crisi valutaria farebbe collassare l’intero sistema. Le conseguenze potrebbero essere, ebbene, immaginiamo l’inimmaginabile.
Le persone che vivono nelle aree suburbane non hanno fonti di cibo nei loro negozi. Ora, immaginate che, improvvisamente, e le navi e i camion smettano di girare. Allora, gli scaffali dei supermercati non potrebbero più essere riempiti. Gli abitanti dei sobborghi sarebbero prima sorpresi, poi arrabbiati, quindi disperati e, infine, quando le loro riserve di cibo domestiche fossero finite, affamati. Anche prima di questo, avrebbero finito il carburante delle loro macchine, l’unico mezzo di trasporto a loro disposizione. Ora, supponiamo che le classi dirigenti decidano che è più facile per loro lasciare che gli abitanti dei sobborghi muoiano di fame piuttosto che tentare di sfamarli. Supponiamo che decidano di confinare con delle recinzioni i sobborghi e di istruire l’esercito di sparare a vista a chiunque tenti di fuggire. Chi li costringerebbe a fare diversamente?
Possiamo immaginare quale sarebbe il risultato. Gli abitanti dei sobborghi diventerebbero persone emaciate, impacciate, affamate che attaccano i vicini e i centri commerciali alla disperata ricerca di qualcosa da mangiare: qualsiasi cosa. Arriverebbero al cannibalismo? Forse, è probabile addirittura. Alcuni di loro riuscirebbero a mettere le mani su una buona fornitura di armi e munizioni, quindi giocherebbero al re del castello, accaparrandosi la maggior parte del cibo che rimane e sterminando i poveri disgraziati che ancora barcollano per le strade, almeno fino a che non finiranno cibo e munizioni anche loro. Sarebbe l’apocalisse degli zombie, nulla di meno che questo.
Certo, questo è solo uno scenario. Tuttavia, ritengo sia un’interessante rappresentazione di come funziona la mente umana. In un post precedente, avevo notato che il meme “sovrappopolazione” sia scomparso dal cyberspazio in conseguenza di come la gente ha gradualmente sviluppato una sorta di “anticorpi”. Il meme zombie sembra collegato allo stesso aspetto, ma è un meme molto più infettante e sta ancora crescendo e diffondendosi nella popolazione mondiale.
C’è una ragione per il successo del meme zombie. Le catastrofi ridotte a fiction (“è solo un film!”) sono di sicuro meno minacciose di quelle descritte come se fosse possibile che accadessero sul serio. Così il concetto di “prepariamoci agli zombie” si sta facendo strada. Apparentemente, prepararsi per un’apocalisse zombie è più socialmente e politicamente accettabile che prepararsi alle conseguenze dell’esaurimento delle risorse e dei cambiamenti climatici. Questo è un aspetto curioso della mante umana, ma è il modo in cui funziona. Rende il concetto di “fantaclima” (cli-fi) qualcosa di attraente per generare preparazione ai cambiamenti climatici.
Può essere che il solo modo che ha a nostra mente per riconoscere le catastrofi che stanno arrivando è vederle come una favola. In irlanda, prima della grande carestia, c’era qualche premonizione dell’imminente disastro. Qui quello che il poeta irlandese Clarence Mangan ha scritto nel 1844 a proposito di un “evento” non descritto che si aspettava accadesse in futuro.
Spegni la lampada, e seppellisci la ciotola,
tu dal cuore pieno di fede!
E, come i tuoi veloci anni si affrettano verso la meta
dove le parole se ne sono andate,
usa forza, vigore, anima sul tuo lavoro per espiare
l’ozio e gli errori del passato;
così che al meglio tu possa arrivare ad incontrare da solo
l’Evento e i suoi terrori.
Gli irlandesi avevano avuto una specie di premonizione dell’”evento” che stava arrivando per ucciderli, la grande carestia del 1845, anche se questo non li aveva aiutati molto ad evitarla. Un simile “Evento” sta arrivando anche per noi? Forse è già iniziato.
Ugo Bardi
20.03.2017
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di GAIA GALASSI

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Perché non riusciamo a fare la Transizione? Il problema dell’economia (terza parte)

(Pubblicato anche su Appello per la Resilienza, https://appelloperlaresilienza.wordpress.com/)

In questo articolo indago la relazione fra consumi e crescita economica. In particolare, dato che i consumi della popolazione richiedono “a monte” consumi di energia, non sembra possibile ridurre i consumi per il semplice motivo che questi sono la conditio sine qua non di qualsiasi economia.
 
La consunzione come processo economico
Se si pensa all’estensione che il consumo ha assunto nelle nostre attività quotidiane è difficile non percepirlo come qualche cosa di “osceno”. La parola implica un esaurimento, una delapidazione di materia. Effettivamente è proprio questo il significato che assume nelle nostre società. Esse vivono del consumo di qualcosa in maniera tale da impedire o rendere difficoltoso il riutilizzo. E’ molto interessante consultare la definizione che ne dà il vocabolario, per esempio il Treccani dice: “logorare, finire a poco a poco con l’uso” e “Ridurre al nulla un bene, un prodotto adoperandolo per particolari necessità, per il soddisfacimento di proprî bisogni, o in genere sfruttarlo per un uso determinato”.

Una ri-sorsa è tale perché può rinnovarsi nel tempo. Ma bisogna prendere delle precauzioni affinchè possa continuare a generarsi. Il processo economico in quanto tale vive della “fine” o morte di un oggetto, di una merce. Questa è la condizione affichè il processo produttivo possa perpetuarsi (su questo Jean Baudrillard ha scritto pagine memorabili ne La società dei consumi). Come sarebbe possibile il consumo altrimenti? Come sarebbe possibile il “consumismo” senza la consunzione dell’oggetto? Il livello dei consumi può aumentare solo se vi è un ciclo incessante di ricreazione di oggetti (la sfida dell’economia circolare consiste nello sfruttare questa fatalità del processo economico. Sarà possibile trasformare il rifiuto in risorsa e generare addirittura maggiore valore tramite ulteriori cicli di trasformazione della risorsa? Ne parlerò nella quarta parte). Solo così si comprende il fenomeno della “obsolescenza programmata”. Tutti possono notare che le auto si rompono più facilmente di una volta. Ciò avviene affinchè se ne possano produrre e comperare regolarmente di nuove.

 

Dunque il sistema economico per definizione necessita dell’esaurirsi del “valore d’uso” di una merce affinchè sia possibile far ricominciare lo scambio. Economia è “circolazione”, cominciata storicamente con la circolazione delle merci ma oggi ridotta a scambio di denaro. La nota-di-cambio di una merce (banconota) da mezzo diventa fine (valore di scambio) (si vedano gli scritti di E. Severino e U.Galimberti).

Il circolo vizioso
Abbiamo ricordato che l’obiettivo degli “ecologisti” (per riunire in un’unica categoria tutti coloro che hanno sensibilità verso le sorti del pianeta e dell’uomo) è ridurre i consumi: la cosiddetta sostenibilità, lo sviluppo sostenibile (anche se secondo alcuni la sostenibilità non dovrebbe implicare una riduzione del consumo di materia ed energia, qui interessa solo comprendere il meccanismo interno dell’economia). Ora, c’è un signore, il già citato Serge Latouche, che ha capito che questo non è possibile. Lo sviluppo sostenibile è un ossimoro, diceva.

Ovunque si sente parlare di “rilanciare i consumi”. Ebbene, come possiamo ridurli se l’economia ha bisogno di “rilanciarli” per continuare a crescere? E’ chiaro: senza vendite, senza spese, senza consumi, l’economia non può andare avanti.

Forse non abbiamo compreso tutte le implicazioni della crescita, soprattutto a livello economico. L’economia non può sussistere senza crescita perché il sistema socio-economico è una CAS (Complex Adaptive System), è adattato alla crescita, come dice David Korowicz (c’è un tasso di crescita fisso, ignoto, al di sotto del quale l’economia collassa). Che cos’è la crescita? E’ l’aumento di denaro nel mondo (come si è visto nella prima parte) a tassi esponenziali.

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Fonte: Gail Tverberg – Our Finite World

Dal grafico qui sopra però si può notare come la vera e propria crescita delle nostre economie sia avvenuta durante il “boom economico”, dalla fine della seconda guerra mondiale alll’inizio degli anni ’70 (in corrispondenza della prima grande crisi petrolifera). Un trentennio, “i trenta gloriosi” sono chiamati in Francia. Tale crescita non è avvenuta solamente in maniera esponenziale, ma iperesponenziale, in quanto gli stessi tassi di crescita sono aumentati. Questo non significa che in seguito l’economia abbia smesso di espandersi, ma che non si sono più raggiunti quei tassi di crescita. La crescita implica che ogni anno si produca di più del precedente, non mi stanco di ripetere questo mantra (per esempio: se nel 2017 +1%= dovremo produrre la stessa quantità di merci del 2016 e l’1% in più!). Ora, la crescita economica (insieme all’aumento di popolazione, secondo Limits to growth, I nuovi limiti dello sviluppo, 2004) genera un anello di retroazione positivo che alimenta la crescita “secondaria” degli altri settori economici.

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Il tema di questo articolo è mostrare che l’economia genera questo meccanismo autocatalitico che impedisce per definizione una diminuzione dei consumi. Possiamo considerare, nella sua essenza, il sistema economico come un circuito INPUT-OUTPUT, quello della domanda e dell’offerta. Sebbene, come hanno fatto notare alcuni, non sembrano più valere le leggi classiche della domanda e dell’offerta, ciò non cambia in nulla il fatto che da un lato ci debba essere qualcuno che produce e vende qualcosa (input) e dall’altro qualcuno che lo deve comperare (output) (su questo anche seconda parte).

Perché dunque non è possibile ridurre i consumi? Perché solo il continuo aumento dei consumi può alimentare il continuo aumento della produzione, sebbene ciò non sia possibile a lungo termine per le ragioni legate alla finitezza degli stock di materia della Terra (situazione picco dei minerali segnalata da Ugo Bardi nel 2011). Ed è proprio questo a generare il problema. Il sogno degli economisti è una crescita illimitata disincarnata dalla fisica dell’energia e della materia (lo scenario 0 di LTG 2004, per intendersi). L’economia umana è una struttura dissipativa che per mantenersi richiede flussi continui e in aumento.

Risultati immagini per world consumption

Risultati immagini per world consumption
Fonte: Gail Tverberg – Our Finite World
   
La materia (non) è energia!
La crescita del PIL dipende in tutto e per tutto dal consumo di energia e secondo Gail Tverberg vi è una correlazione lineare al 99,9% fra crescita mondiale del PIL (GDP Growth) e crescita mondiale del consumo di energia (Energy growth).

Risultati immagini per gail tverberg gdp energy
Se l’economia si serve nell’Antropocene di una quantità enorme di energia primaria (corrispondente a 17 TW di potenza nel 2013, secondo Ugo Bardi), ciò è di ordini di grandezza molto inferiori a quanto sarebbe possibile attuare tramite i PV (celle solari). Solamente coprendo 1/5 del Sahara si potrebbero ottenere 50 TW.

La questione si sposta: come sopperire al problema dei flussi di materia? L’economia necessita della produzione materiale per il processo di scambio, non può vivere a lungo di scambi meramente virtuali (come fa dagli anni ’80: il 97% del denaro è virtuale, secondo David Korowicz). Nella quarta parte cercherò di chiarire se l’economia costituisce un “ostacolo” verso quella successiva rivoluzione metabolica che, come ha indicato Ugo Bardi, in un articolo straordinario,

“avvierebbe l’ecosfera verso un livello di trasduzione nuovo e maggiore di quello attuale

Se è così, siamo nei guai.  
 Risultati immagini per voragine economia

Mi piace questa immagine dei gironi infernali di Dante. Interpretandola in modo fantasioso per raffigurare la situazione odierna, si potrebbe leggere il cerchio in basso come la base di risorse sulla quale si è edificato il castello di complessità sul quale crediamo di prosperare. Una piramide rovesciata, un gigante coi piedi d’argilla. Come dice Serge Latouche: “L’economia è una menzogna”.

(continua…)

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Perché l’energia nucleare non è un’alternativa ai combustibili fossili


Di Alice Friedmann



Da “Energy skeptic”. Traduzione di MR (via Maurizio Tron e Jacopo Simonetta)

[ Le ragioni economiche sono l’ostacolo maggiore ora per le nuove centrali nucleari, con costi di capitale così alti che è quasi impossibile ottenre prestiti, specialmente quando il gas naturale è così tanto più economico e meno rischioso. Ma ci sono anche altre ragioni per le quali l’energia nucleare è nei guai. Ci sono molte più centrali in pericolo di chiusura di quante ne vengano costruite (37 o più potrebbero chiudere)]. 

Questa è una crisi di combustibili liquidi da trasporto. Il tallone di Achille della civiltà è la nostra dipendenza da camion di ogni genere, che vanno a gasolio perché i motori diesel sono di gran lunga più potenti di vapore, benzina, elettricità o qualsiasi altro motore sulla Terra (Vaclav Smil. 2010. Principali motori della globalizzazione: la storia dell’impatto dei motori diesel e delle turbine a gas. MIT Press). A miliardi camion (e macchinari) è richiesto di mantenere in funzione le catene di fornitura dalle quali dipendono ogni persona ed ogni azienda, così come estrazione mineraria, agricoltura, strade/costruzioni, camion per il legname e così via. Visto che i camion non possono andare a corrente elettrica, qualsiasi cosa che generi corrente non è una soluzione, quindi qualsiasi cosa generi elettricità non è una soluzione, né è probabile che la rete elettrica possa mai essere 100% rinnovabile (leggete “Quando i camion smettono di andare”, questa cosa non può essere spiegata così in breve), o che potremmo sostituire miliardi di motori diesel nel tempo che ci rimane.

Alice Friedemann www.energyskeptic.com autrice di “Quando i camion smettono di andare: energia e futuro dei trasporti”, 2015, Springer e di “Crunch! Chips e crackers di grano integrale”. Podcast: Practical Prepping, KunstlerCast 253, KunstlerCast278, Peak Prosperity, XX2 report


L’energia nucleare costa troppo

Le centrali nucleari statunitensi sono vecchie e in declino. Per il 2030, la generazione di energia nucleare potrebbe essere fonte di solo il 10% dell’energia elettrica, metà della produzione attuale, perché 38 reattori che producono un terzo dell’energia nucleare hanno superato i 40 anni di vita ed altri 33 reattori che producono un altro terzo di energia nucleare hanno più di 30 anni. Anche se ad alcuni verranno rinnovati i permessi, 37 reattori che producono metà dell’energia nucleare sono a rischio di chiusura per cause economiche, guasti, inaffidabilità, lunghe interruzioni, sicurezza e costosi aggiornamenti post Fukushima (Cooper 2013. L’energia nucleare è troppo costosa, 37 costosi reattori sono previsti in chiusura e Un terzo dei reattori nucleari moriranno di vecchiaia nei prossimi 10-20 anni).


Non vengono costruiti nuovi reattori perché ci voglioni anni per ottenere i permessi e devono essere raccolti dagli 8,5 ai 20 miliardi di dollari di capitale per una nuova centrale nucleare da 3.400 MW (O’Grady, E. 2008. Il luminare cerca un nuovo reattore. Londra: Reuters.). Questo è praticamente impossibile visto che una più sicura centrale a gas da 3.400 MW può essere costruita con 2,5 miliardi di dollari in metà tempo. Quale società di servizi vuole spendere miliardi di dollari es aspettare un decennio prima di ottenere un centesimo di introito e che venga generato un watt di elettricità?
Negli Stati Uniti ci sono 104 centrali nucleari (in gran parte costruite negli anni 70 e 80) che contribuiscono al 19% della nostra elettricità. Anche se tutte le centrali over 40 ottenessero il rinnovo per operare per 60 anni, a partire dal 2020 è improbabile che possano ottenere il rinnovo per altri 20 anni, quindi per il 2050 quasi tutte le centrali nucleari saranno fuori mercato. Joe Romm in “Il nucleare del rischio: un anno dopo Fukushima, l’energia nucleare rimane troppo costosa per essere una grande soluzione climatica” spiega in dettaglio perché l’energia nucleare è troppo costosa, per esempio:

  • I nuovi reattori nucleari sono costosi. Le recenti stime dei costi per le nuove singole centrali hanno superato i 5 miliardi (per esempio, vedete Scroggs, 2008; Servizio investimenti di Moody’s, 2008)
  • I nuovi reattori sono intrinsecamente costosi perché devono essere in grado di sopportare praticamente ogni rischio che si possa immaginare, compreso l’errore umano e i grandi disastri
  • Sulla base di un rapporto fondamentale del 2007, dovremmo aggiungere una media di 17 centrali ogni anno, costruendo una media di 9 centrali all’anno per sostituire quelli che verranno messi in pensione, per un totale di una centrale nucleare ogni due settimane per quattro decenni – più 10 Yucca Mountain per stoccare le scorie
  • Prima del 2007, le stime del prezzo di 4.000 dollari/kw del nucleare statunitense erano comuni, ma dall’ottobre del 2007 il rapporto del Servizio agli Investitori di Moody’s, “La nuova generazione nucleare negli Stati Uniti”, ha concluso: “Moody’s crede che il costo tutto compreso di un impianto generatore nucleare potrebbe aggirarsi a circa 5.000-6.000 dollari/kw”. 
  • Lo stesso mese, la Florida Power and Light, “un leader nella generazione di energia nucleare”, ha presentato la sua stima dettagliata del costo di nuove centrali nucleari alla Commissione di Servizio Pubblico della Florida. La stima ha concluso che due unità per un totale di 2.200 megawatt costerebbero dai 5.500 agli 8.100 dollari per kilowatt – da 12 18 miliardi di dollari!
  • Nel 2008, Progress Energy ha informato i legislatori di stato che le due centrali gemelle da 1.100 megawatt che intendevano costruire in Florida sarebbero costate 14 miliardi di dollari, cosa che “triplica le stime fatte dalla società di servizi più di un anno fa”. Sarebbero più di 6.400 dollari a kilowatt. (E questo non tiene nemmeno conto della linea di trasmissione lunga 320 km da 3 miliardi di dollari di cui ha bisogno la società di servizi, che farebbe salire il prezzo alla cifra impressionante di 7.700 dollari a kilowatt). 

Estratto da L’energia nucleare è il nostro futuro energetico o una spirale di morte? 6 marzo 2016, di Dave Levitan, Ensia:

In generale, più si accumula energia con una data tecnologia, meno costa costruirla. Ciò è stato illustrato drammaticamente dal crollo dei costi di energia eolica e solare. Il nucleare, tuttavia, è andato in controtendenza, dimostrando invece una specie di “curva di apprendimento negativa” nel tempo. 

Secondo la Union of Concerned Scientists (UCS), il costo reale di 75 dei primi reattori nucleari costruiti negli Stati Uniti hanno superato le stime iniziali di più del 200%. Più di recente, i costi hanno continuato a gonfiarsi. Sempre secondo la UCS, il prezzo di una centrale nucleare è balzato dai circa 2-4 miliardi di dollari del 2002 ai 9 miliardi di dollari nel 2008. Detto in un altro modo, il prezzo è schizzato da meno di 2.000 dollari statunitensi per kilowatt all’inizio del 2000 agli 8.000 dollari statunitensi a kilowatt nel 2008.   

Steve Clemmer, direttore di ricerca ed analisi energetica presso la UCS, non vede un cambiamento di questa tendenza. “Non vedo prove del fatto che vedremo i tipi di riduzione dei costi di cui parlano i sostenitori. Non molto scettico a riguardo – bello se succede, ma non vedo come”, dice. 

Alcuni progetti negli Stati Uniti sembrano fronteggiare ritardi e sforamenti ad ogni piè sospinto. Nel settembre 2015, un tentativo della Carolina del Sud di costruire due nuovi reattori in una centrale già esistente è stato ritardato di tre anni. In Georgia, una ordinazione di una centrale del proprietario Southern Co. del gennaio 2015 diceva che i suoi due reattori aggiuntivi avrebbero fatto fare un salto di 700 milioni di dollari al costo e avrebbe richiesto 18 mesi in più per essere costruita. Questi problemi hanno diverse cause, dai ritardi nei permessi a semplici errori di costruzione e non è probabile che si trovino soluzioni facili al problema.  

In Europa la situazione è analoga, con un paio di esempi particolarmente clamorosi che gettano una cappa sull’industria. La costruzione di un nuovo reattore della centrale finlandese di Olkiluoto 3 è iniziata nel 2005, ma non finirà prima del 2018, nove anni in ritardo e più di 5 miliardi di dollari americani oltre il preventivo. Un reattore in Francia, dove il nucleare è la fonte principale di energia elettrica, è sei anni in ritardo rispetto al programma e più del doppio più costosa di quanto preventivato.  

“La storia di 60 anni o più di costruzione di reattori non offre prove che i costi scenderanno”, dice Ramana. “Man mano che la tecnologia nucleare è maturata, i costi sono aumentati e tutte le indicazioni attuali sono che questa tendenza continuerà”.
Le centrali nucleari richiedono sistemi di rete enormi, visto che sono lontane dai consumatori di energia. Il Financial Times stima che questo richiederebbe l’investimento diecimila miliardi di dollari in tutto il mondo in sistemi elettrici nei prossimi 30 anni. 

In sintesi, gli investitori non investiranno in nuovi reattori perché:

  • Ci sono miliardi in gioco in responsabilità in caso di fusione o incidente
  • potrebbe esserci uranio sufficiente soltanto per alimentari le centrali esistenti
  • il costo per centrale lega il capitale troppo a lungo (possono servire 10 miliardi di dollari in 10 anni per costruire una centrale nucleare)
  • i costi di smantellamento sono molto alti
  • trattare in modo appropriato le scorie è costoso
  • non c’è luogo in cui mettere le scorie – nel 2009 il Segretario all’Energia Chu ha chiuso Yucca Mountain e non c’è sostituto in vista. 

Né il governo statunitense pagherà per i reattori nucleari, dato che l’opinione pubblica è contraria – il 72% ha detto no (su E&E news), non erano favorevoli al fatto che il governo pagasse i reattori nucleari tramite garanzie per miliardi di dollari di nuovi prestiti federali per i nuovi reattori.
Cembalest, un analista di J.P. Morgan, ha scritto “In qualche modo, il pollo nucleare era cotto dal 1992, quando il costo della costruzione di una centrale da 1 GW è aumentato di un fattor 5 (in termini reali) rispetto al 1972” (Cembalest).

Picco dell’uranio

Gli esperti di energia avvertono che una carenza acuta di uranio sta per colpire l’industria dell’energia nucleare. Il dottor Yogi Goswami, co-direttore del Centro di Ricerca per l’Energia Pulita dell’Università della Florida avverte che le riserve provate di uranio dureranno meno di 30 anni. Nel 2050, tutte le riserve provate e quelle non scoperte di uranio saranno finite. Le attuali centrali nucleari consumano circa 67.000 tonnellate di uranio di alta qualità all’anno. Con le attuali riserve mondiali di uranio di 5,5 milioni di tonnellate, ne abbiamo abbastanza da durare 42 anni. Se vengono costruite altre centrali, allora ci rimangono meno di 30 anni (Coumans).

La produzione di uranio ha raggiunto il picco negli anni 80 ma le disponibilità hanno continuato a soddisfare la domanda grazie al fatto che le armi nucleari smantellate dopo la Guerra fredda sono state convertite in combustibile commerciale. Quelle fonti ora stanno finendo e un nuovo picco dovuto alla domanda potrebbe essere all’orizzonte.

Il solo modo in cui potremmo estendere le nostre disponibilità di uranio è costruire reattori autofertilizzanti. Ma non abbiamo idea di come farlo e ci stiamo provando dagli anni 50.
La Cina ha accesso il suo diciannovesimo reattore nucleare in quanto vuole accelerare la sua generazione nucleare. Il paese pensa di accendere 8.64 GW di capacità di generazione nucleare nel 2014 rispetto ai 3,24 GW di nuova capacità del 2013. la disponibilità di uranio per l’industria nucleare cinese sta diventando un problema. Pechino potrebbe dover importare circa l’80% del suo uranio per il 2020, rispetto all’attuale 60%. Potrebbe persino non esserci abbastanza uranio per alimentare le centrali esistenti.

Fonte: Colorado Geological survey

L’energia nucleare è troppo pericolosa

Nel 2016, la prestigiosa rivista Science, sulla base delle lezioni apprese dalla Accademia Nazionale delle Scienze a Fukushima, ha scritto che un incendio di combustibile nucleare esaurito a Peach Bottom, in Pennsylvania, potrebbe costringere all’evacuazione di 18 milioni di persone.  Questo perché non c’è ancora un luogo dove mettere le scorie nucleari, che quindi vengono stoccate in piscine di acqua in situ che non si trovano dentro cupole di contenimento, ma all’aria aperta e un obbiettivo primario per i terroristi in oltre 100 località. Se l’energia elettrica mancasse per più di 10 giorni a causa di un disastro naturale, all’impulso elettromagnetico di un’arma nucleare/flare solare o qualsiasi altra ragione, queste piscine nucleari potrebbero incendiarsi e sputare radiazioni per molti chilometri quadrati e costringere milioni di persone ad evacuare. Vedete anche: Lo stato schioccante dei siti nucleari più rischiosi del mondo.

I pericoli delle scorie nucleari sono la ragione principale per cui la California e molti altri stati non permetto l’apertura di nuove centrali. Per scoprire di più sui pericoli delle scorie nucleari e sul perché non abbiamo un luogo dove stoccarle, leggete la recensione del libro “Troppo caldo da toccare”.
Greenpeace ha una critica dell’energia nucleare intitolata Pericoli dei reattori nucleari (2005) che fa le seguenti considerazioni:

  1. Man mano che le centrali nucleari invecchiano, i loro componenti diventano fragili, corrodono ed erodono. Questo può succedere a un livello microscopico che è rilevabile quando scoppia una tubatura. Man mano che una centrale invecchia, le possibilità di incidenti gravi aumentano. Anche se alcuni componenti possono essere sostituiti, guasti nel contenitore a pressione del reattore porterebbero a un rilascio catastrofico di materiale radioattivo. Il rischio di incidente nucleare cresce significativamente ogni anno dopo 20 anni, L’età media delle centrali in tutto il mondo ora è di 21 anni.
  2. In un blackout, se i generatori di emergenza non si accendono, c’è il rischio di una fusione. Questo è accaduto di recente in Svezia alla centrale elettrica di Fosmark nel 2006. Un ex direttore ha detto: “E’ stata una pura fortuna che non ci sia stata una fusione. Visto che la fornitura elettrica dalla rete non ha funzionato come avrebbe dovuto, avrebbe potuto essere una catastrofe”. Ancora poche ore e si sarebbe potuta verificare una fusione. Non dovrebbe sorprendere nessuno che i blackout diventeranno sempre più comuni e più lunghi man mano che l’energia declina. 
  3. Le centrali nucleari di terza generazione sono maiali col rossetto – sono solo centrali di seconda generazione travestite – non sono più sicure delle centrali esistenti. 
  4. Molti guasti sono dovuti ad errore umano e questo sarà sempre così, a prescindere da quanto siano ben progettate le future centrali.
  5. Le centrali nucleari sono obbiettivi attraenti per i terroristi ora e nelle future guerre di risorse. Ci sono dozzine di modi per attaccare centrali nucleari e di ritrattamento. Sono obbiettivi non solo per l’enorme numero di morti che potrebbero causare, ma come fonte di plutonio per fare bombe nucleari. Ce ne vogliono solo pochi chili per fare un’arma e pochi microgrammi per causare il cancro. 

Se Greenpeace ha ragione sui rischi che aumentano dopo i 20 anni, allora è destinato ad esserci un incidente di fusione entro 10 anni, cosa che renderebbe quasi impossibile raccogliere il capitale. (E infatti c’è stato, Fukushima ha avuto una fusione nel 2011). E’ già difficile trovare il capitale, perché i proprietari vogliono essere completamente esenti dai costi di fusioni nucleari ed altri incidenti. Ecco perché non sono state costruite nuove centrali per decenni negli Stati Uniti.

Anche l’EROEI potrebbe essere troppo basso per gli investitori. Se considerate l’energia necessaria per costruire una centrale nucleare, che necessita di una quantità enorme di cemento, tubi d’acciaio ed altre infrastrutture, potrebbe servire un tempo lungo perché l’energia di ritorno paghi l’energia investita. La costruzione delle centrali nucleari statunitensi degli anni 70 richiedeva 40 tonnellate di acciaio e 190 metri cubi di cemento per megawatt medio di capacità di generazione di elettricità (Peterson 2003). La quantità di gas serra emessi durante la costruzione è un’altra ragione per cui molti ambientalisti si sono allontanati dall’energia nucleare. I costi del trattamento delle scorie nucleari sono andati alle stelle. Un impianto di trattamento immensamente costoso per la pulizia della centrale nucleare di Hanford è passata dal costo di 4,3 miliardi di dollari nel 2000 a 12,2 miliardi di dollari di oggi. Se l’impianto di trattamento finale verrà mai costruito, sarà alto 12 piani e lungo come 12 campi da football (Dininny 2006).

Ci vuole troppo tempo per costruire centrali nucleari

Ci vogliono spesso più di 10 anni per costruire una centrale nucleare perché ci vogliono anni per avere i permessi, fabbricare i componenti ed altri 4-7 anni per costruire materialmente. Questo è un tempo d’attesa troppo lungo per gli investitori, che vogliono dei ritorni molto più rapidi di questi. I tecno ottimisti possono obiettare che qualche tipo di reattore moderno potrebbe essere costruito più rapidamente. Ma l’opinione pubblica ha paura dei reattori (giustamente), quindi è destinato a procedere lentamente, in quanto le proteste delle persone chiederanno ispezioni più severe ad ogni passo del percorso. L’opinione pubblica è preoccupata anche dai problemi di stoccaggio a lungo termine delle scorie. Quindi anche un reattore piccolo e semplice avrebbe diversi ostacoli da superare.

I mercati finanziari sono cauti ad investire in nuove centrali nucleari finché non sarà dimostrato che possano essere costruite secondo i preventivi e nei tempi stabiliti. Non sono state costruite centrali nucleari per decenni negli Stati Uniti, ma ci sono ricordi spiacevoli, perché la costruzione di alcune delle attuali centrali in opera è stata associata al superamento dei costi e a ritardi consistenti. C’è anche un divario significativo fra quando inizia la costruzione e quando si realizzano ritorni sugli investimenti.

Una crisi irrigidirà l’opinione pubblica contro la costruzione di nuove centrali nucleari

Ho scritto questa sezione prima del disastro di Fukushima e ci saranno altri disastri man mano che le vecchie centrali nucleari, usate oltre il loro tempo di vita e spinte a produrre elettricità a pieno regime, cedono ai molti pericoli descritti in dettaglio dal rapporto di Greenpeace International “I pericoli dei reattori nucleari”. E’ solo una questione di tempo perché i nostri reattori fondano. Quando questo accade, l’opinione pubblica combatterà lo sviluppo di ulteriori centrali nucleari. Altri fattori oltre all’età che potrebbero causare un disastro sono i disastri naturali, i guasti della rete elettrica, l’aumento di alluvioni e siccità più gravi, le condizioni meteorologiche più instabili dovute al cambiamento climatico, la mancanza di personale man mano che i lavoratori anziani vanno in pensione con pochi ingegneri istruiti disponibili per sostituirli.

Persino Edward Teller, padre della bomba all’idrogeno, pensava che le centrali nucleari fossero pericolose e dovessero essere messe sottoterra per sicurezza in caso di guasto e per renderne più facile la sistemazione. Cinque dei sei reattori della centrale di Fukushima in Giappone erano reattori mark 1. Trentacinque anni fa, Dale G. Bridenbaugh e due dei suoi colleghi della General Electric si sono licenziati dopo che si è convinto che il progetto del reattore nucleare Mark 1 che stavano revisionando era così sbagliato che poteva portare a un incidente devastante (Mosk). Le centrali nucleari sono obbiettivi estremamente attraenti per i terroristi e in una guerra. L’uranio non è immagazzinato solo al centro, ma nell’area delle “scorie” vicino alla centrale, fornendo un sacco di materiale per bombe atomiche “sporche” o esplosive. Per i dettagli, leggete il documento originale o il mio riassunto del rapporto di Greenpeace.

EROEI e smantellamento

Vedete: Smantellare un reattore nucleare
L’energia per costruire, smantellare, trattare le scorie, ecc. potrebbe essere di più di quella che l’impianto genererà mai, un EROEI negativo. Una revisione di Charles hall et al. degli studi sull’energia netta dell’energia nucleare ha scoperto che i dati sono “idiosincratici, pregiudiziali e poco documentati” ed ha concluso che le informazioni più affidabili sull’EROEI erano troppo vecchie per essere utilizzabili (i risultati variavano da 5:1 a 8:1) I dati più nuovi erano ingiustificabilmente ottimistici (15:1 o più) o pessimistici (bassi, persino meno di 1:1). Una delle principali ragioni per cui l’EROEI è basso è a causa delle enormi quantità di energia usata per costruire le centrali nucleari, cosa che crea una grande quantità di emissioni di gas serra.

Scala

“Per produrre energia nucleare sufficiente ad uguagliare l’energia che otteniamo attualmente dai combustibili fossili, si dovrebbero costruire 10.000 delle più grandi centrali nucleari possibili. Si trata di un’iniziativi enorme e probabilmente non fattibile e a quel tasso di combustione le nostre riserve conosciute di uranio durerebbero soltanto 10 o venti anni”. (Goodstein). Ci sono abbastanza siti per 10.000 centrali vicino all’acqua per il raffreddamento ma non troppo in basso per evitare che l’aumento del livello dei mari le distrugga o che le siccità rimuovano le disponibilità di acqua per il raffreddamento?

Personale

L’energia nucleare è stata impopolare per molto tempo che non ci sono abbastanza ingegneri nucleari, operatori di centrale e progettisti, o aziande produttrici da portare rapidamente in scala (Torres 2006). Il numero di certificati della Società Americana di Ingegneria Meccanica (ASME) ottenuti in tutto il mondo è crollato da 600 nel 1980 a 200 nel 2007. C’è anche una insufficiente disponibilità di persone con la necessaria preparazione o formazione in un momento in cui venditori, contractor, architetti, ingegneri, operatori e legislatori staranno cercando di mettere insieme il loro personale. In aggiunta, il 35% del personale negli impianti nucleari statunitensi sono vicini alla pensione nei prossimi 5-10 anni.

Potrebbero esserci carenze di certi pzzi di ricambio e componenti (specialmente grandi pezzi forgiati), così come di mestieri qualificati e personale tecnico, se l’energia nucleare si espande significativamente in tutti il mondo. Ci sono meno fornitori di pezzi di ricambio e componenti nucleari ora che in passato.

Proliferazione nucleare e obbiettivi del terrorismo

Possiamo davvero impedire che dei dittatori folli usino plutonio ed altre scorie nucleari per fare la guerra per 30.000 anni? Anche se una bomba nucleare fosse oltre le capacità della società in futuro, le scorie potrebbero essere usate per fare bombe sporche. Nel frattempo, i reattori costituiscono dei buoni obbiettivi per i terroristi che hanno i soldi per assumere scienziati che li aiutino a fare una bomba nucleare dell’uranio rubato o dal plutonio.

Acqua

Le centrali nucleari devono essere costruite vicino all’acqua per il raffreddamento e ne usano una quantità enorme. Gli scienziati sono sicuri che il riscaldamento globale farà aumentare il livello del mare – circa la metà delle centrali nucleari esistenti verrebbe allagata. Il cambiamento climatico causerà siccità più lunghe e gravi, col potenziale di far restare le centrali senza acqua di raffreddamento sufficiente, e tempeste più gravi porteranno più uragani e tornado.

Sindrome NIMBY

Non sottovalutate mai la sindrome NIMBY, che sta già impedendo alle centrali nucleari di essere costruite. L’opposizione politica alla costruzione di migliaia di centrali nucleari sarà impossibile da superare.

Nessun buon modo di immagazzinare l’energia

Una delle necessità cruciali dell’energia elettrica è è un modo per immagazzinarla. Accumulatori su scala non sono stati inventati nonostante decenni di ricerca ed esistono solo poche materie prime sulla terra per costruire batterie NaS ad un costo di oltre 44 trilioni di dollari che occuperebbero 2448 kmq di territorio (Friedemann 2015). Una grande quantità di energia elettrica generata dovrebbe essere usata per sostituire i miliardi di macchine e veicoli con motore a combustione  piuttosto che fornire calore, raffrescamento, energia per cucinare e luce a case ed uffici. Ci vogliono decenni per passare da una fonte energetica ad un’altra. E’ difficile vedere come si possa ottenere questo senza grande disagio e caos sociale, cosa che rallenterebbe il processo di conversione. E’ probabile che la disperazione porti al furto di componenti importanti della nuova infrastruttura per vendere il metallo di scarto, come sta già succedendo a Baltimora dove vengono rubati lampioni di 9 metri vengono rubati (Gately 2005).

Reattori autofertilizzanti. Servirebbero 24.000 reattori autofertilizzanti, ognuno di essi una potenziale bomba nucleare (Mesarovic)

  • Sappiamo dal 1969 che avevamo bisogno di costruire reattori autofertilizzanti per allungare il tempo di vita del materiale radioattivo a decine di migliaia di anni e per ridurre le scorie radioattive generate, ma ancora non sappiamo come farlo. (NAS) 
  • Se ma dovessimo riuscirci, questi reattori sono molto più vicini ad essere bombe nucleari di quelli convenzionali – gli effetti di un incidente sarebbero catastrofici economicamente e per il numero di vite perse se succedesse vicino ad una città (Wolfson). 
  • Il prodotto di scarto di una reazione autofertilizzante è il plutonio. Il plutonio 239 ha un tempo di dimezzamento di 24.000 anni. Come possiamo garantire che nessun terrorista o dittatore userà mai questo materiale per costruire una bomba nucleare o una bomba sporca in questo periodo di tempo? 

Ipotizzate, come vogliono che facciamo i tecno ottimisti, che in 100 anni tutta l’enegia primaria sarà nucleare. Seguendo i modelli storici ed ipotizzando un quadruplicarsi della popolazione non improbabile, avremo bisogno, per soddisfare le richieste di energia del mondo, di 3.000 “parchi nucleari”, ognuno consistente, diciamo, di 8 reattori autofertilizzanti. Questi 8 reattori, lavorando al 40% di efficienza, produrranno collettivamente 40 milioni di kilowatt di elettricità. Pertanto, ognuno dei 3.000 parchi nucleari convertirà energia nucleare primaria equivalente a 100 milioni di kilowatt termici. I più grandi reattori nucleari attualmente in funzione convertono circa 1 milione di kilowatt (elettrici), ma noi daremo il beneficio del dubbio ed ipotizzeremo che i nostri 24.000 reattori mondiali siano in grado di convertire 5 milioni di kilowatt ciascuno. Per produrre l’energia mondiale fra 100 anni, quindi, dovremo costruire appena ogni anno da adesso ad allora, 4 reattori a settimana! A quella cifra non tiene conto del tempo di vita dei reattori nucleari. Se i nostri reattori nucleari futuri durano in media 30 anni, alla fine dovremo aver costruito 2 reattori al giorno per sostituire quelli esausti. Nel 2025, affidarsi al solo nucleare richiederebbe più di 50 grandi installazioni nucleari, in media, in ogni stato dell’unione.

Ai fini di questa discussione, non teniamo conto se questo tasso di costruzione sia tecnicamente ed organizzativamente fattibile in vista del fatto che, al momento, i tempi di consegna per la costruzione di centrali molto più piccole e più semplici è dai sette ai dieci anni. Non teniamo neanche conto del costo di circa 2.000 miliardi di dollari all’anno – o il 60% della produzione mondiale totale di 3.400 miliardi di dollari – solo per sostituire i reattori usurati e la disponibilità di capitale di investimento. Potremmo anche ipotizzare di poter trovare impianti di stoccaggio sicuri per i reattori dismessi e i loro macchinari accessori irradiati ed anche per le scorie nucleari. Ipotizziamo che la tecnologia si sia occupata di tutti questi grandi problemi, lasciandoci solo qualche bazzecola di cui occuparci.
Per far funzionare 24.000 reattori autofertilizzanti, avremmo bisogno di trattare e trasportare, ogni anno, 15 milioni di kg (16.500 tonnellate) di plutonio 239, il materiale chiave della bomba atomica di Hiroshima.

Servono solo 250 grammi di plutonio per costruire una bomba. Se inalati, slo dieci microgrammi di plutonio 239 è probabile che causino un cancro al polmone fatale. Una palla di plutonio della dimensione di un chicco d’uva contiene veleno sufficiente ad uccidere quasi tutte le persone in vita oggi. Inoltre, il plutonio 239 ha una vita radioattiva di più di 24.000 anni. Ovviamente con molto più plutonio in mano, ci saranno problemi tremendi nella salvaguardia dei pachi nucleari – non uno o due, ma 3.000. E che dire del loro posizionamento, della sovranità nazionale e della giurisdizione? Un paese può permettersi una protezione inadeguata in un paese vicino quando il più piccolo incidente potrebbe avvelenare le terre adiacenti e le popolazioni per migliaia e migliaia di anni? E chi deve decidere cosa costituisce una protezione adeguata, specialmente in caso di agitazione sociale, guerra civile, guerra fra nazioni o anche solo quando un leader nazionale cade per un caso di nevrosi? Le vite di milioni di persone potrebbero facilmente essere legate ad un singolo individuo audace e sconsiderato.

Riferimenti

Cembalest, M.21 Nov 2011. Occhio al mercato. La ricerca donchisciottesca di soluzioni energetiche.
J P Morgan Coumans, C.  4 Sep 2010. Riserve di uranio in essere per il 2050. Deccan Chronicle

Dininny, S. 7 Settembre 2006. Il costo del trattamento delle scorie della centrale di Hanford arrivano a 12,2 miliardi. The Olympian / Associated Press.
Friedemann, A. 2015. Quando i camion smettono di andare: energia e futuro dei trasporti. Springer.

Gately, G. 25 Nov 2005. Pali della luce scomparsi – si pensa vengano venduti come rottami da ladri. 130 impianti stradali sono stati abbattuti a Baltimora. New York Times.

Goodstein, D. April 29, 2005. Trascrizione della conferenza La fine dell’era del petrolio

(Greenpeace) H. Hirsch, et al. 2005. Pericoli dei reattori nucleari: pericoli attuali dell’utilizzo di tecnologia nucleare nel XXI secolo http://www.greenpeace.org/raw/content/international/press/reports/nuclearreactorhazards.pdf

Heinberg, Richard. Settembre 2009. Alla ricerca di un miracolo. “Energia netta, limiti e il destino della società industriale. Post Carbon Institute.
Hoyos, C. 19 OCT 2003 Il settore elettrico ‘ha bisogno di 1..000 miliardi di dollri nei prossimi 30 anni’. Financial Times.

Mesarovic, Mihajlo, et al. 1974. Specie umana al punto di svolta: Il secondo rapporto al Club di Roma.  E.P. Dutton, 1974 pp. 132-135

Mosk, M. 15 Mar 2011. Fukushima: il progetto del reattore nucleare Mark 1 ha causato le dimissioni per protesta dello scienziato della GE. ABC World News.
(NAS) “E’ chiaro, pertanto, che per la transizione ad un programma completo di reattori autofertilizzanti prima che la disponibilità iniziale di uranio 235 sia esaurita, possono essere rese disponibili forniture molto più ampie di quelle esistenti ora. Il fallimento nel fare questa transizione costituirebbe uno dei più grandi disastri della storia umana” Accademia Nazionale delle Scienze. 1969.

Risorse e uomo. W.H.Freeman, San Francisco. 259.

Peterson, P. 2003. Gli Stati Uniti avranno bisogno di un secondo deposito geologico? The Bridge 33 (3), 26-32.

Torres, M. “Esaurimento dell’uranio ed energia nucleare. Siamo al picco dell’uranio?” http://www.theoildrum.com/node/2379#more

Wolfson, R. 1993. Scelte nucleari: guida per il cittadino alla tecnologia nucleare. MIT Press

Per vedere quali centrali sono aperte, in chiusura o in costruzione (excel):

Appendice A: Reattori commerciali ad energia nucleare degli Stati Uniti – Reattori in funzione

Appendice C: Reattori commerciali ad energia nucleare degli Stati Uniti – Reattori ad energia nucleare autorizzati ad operare in precedenza

Appendice D: Reattori commerciali ad energia nucleare annullati
Commissione di regolamentazione nucleare degli Stati Uniti 2014-2015 Compendio informativo. Materiali nucleari, scorie tossiche, reattori nucleari, sicurezza nucleare.

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Il futuro è alle nostre spalle

Il futuro è alle nostre spalle ma i grillini non lo sanno

Ho partecipato sabato al convegno Capire il futuro organizzato da Davide Casaleggio per onorare, a un anno dalla morte, la figura di suo padre. Gianroberto Casaleggio era uno strano animale, un uomo molto pragmatico (alla sua intuizione della piattaforma sul web si deve in buona parte, com’è noto, la fortuna dei Cinque Stelle) e insieme un idealista, un ottimista che credeva nel futuro dell’uomo, soprattutto attraverso lo sviluppo delle tecnologie, come ci dicono certe sue teorie che si spingevano verso un orizzonte molto lontano. 

Il Convegno, vista l’importanza dei temi che ha cercato di mettere a fuoco, aveva secondo me innanzitutto lo scopo di dimostrare che i Cinque Stelle non sono affatto quei ‘baluba’, ignoranti e impreparati, che tutti, o quasi tutti, vogliono far apparire. 

A me è toccato in sorte di trattare, nell’ultimo degli interventi degli ospiti, di un tema che, in un certo senso, ricomprendeva tutti gli altri: “Il futuro dell’uomo”. 

Innanzitutto ci sarebbe da capire se la specie umana avrà un futuro. Il problema più importante, tra l’altro molto sentito da quasi tutti, non è l’inquinamento globale. Non perché, come pensa Grillo, e molti altri con lui, attraverso nuove tecnologie troveremo, come in parte abbiamo già trovato, nuove e più pulite fonti di energia. Grillo non sa ciò che mi disse un tempo Paolo Rossi, che non è l’ex centravanti della Nazionale e nemmeno il comico, ma un importante filosofo della Scienza, e cioè che “la tecnologia, in qualunque campo applicata, come risolve un problema ne apre altri dieci ancora più complicati”. Ed è quindi un moltiplicatore di complessità e perciò di difficoltà che usurano la nostra vita. Noi ci salveremo dall’inquinamento semplicemente perché l’uomo, nel corso della sua storia, ha dimostrato di essere un animale estremamente adattabile, superato in questo solo dai topi. In Cina, a Pechino, gli abitanti vivono praticamente in una nube tossica e pur vivono.
Il vero pericolo ci viene proprio da quella Tecnologia di cui oggi tutti, non solo i grillini, sembrano entusiasti e alla quale affidiamo il nostro futuro. Un articolo da me scritto per il Gazzettino (10/10/2014) era così titolato: “Il più grande pericolo per la civiltà non è l’Isis ma la Scienza”. Naturalmente non intendevo, e non intendo qui, affermare che la Scienza in sé è il pericolo, la Scienza in sé è la conoscenza e quindi come tale consustanziale all’uomo ciò che lo distingue dagli altri esseri del Creato, ma appunto la scienza tecnologicamente applicata che è cosa diversa. I nuovi e inesausti Frankenstein stanno già lavorando a un programma, quello della società Neuralink di Elon Musk, per impiantare nel cervello umano un chip che ne sviluppi le capacità intellettive, ma questo non è che l’ultimo degli orrori, molti già applicati o in fase di applicazione e dei quali si è abbondantemente sentito parlare al Convegno.
Il fatto è che abbiamo perso il senso del limite. Ha prevalso la tanto strombazzata linea ideologica giudaico-cristiana che attraverso gli innesti della tecnologia e dell’economia ci ha alla fine portato alla società che oggi stiamo vivendo in cui si ritiene che tutto ciò che conosciamo, che tutto ciò che possiamo fare dobbiamo, prima o poi, più prima che poi, farlo.
Ma alle spalle della nostra civiltà c’è un’altra cultura molto più profonda di quella giudaico-cristiana. Ed è quella Greca. I Greci, attraverso Pitagora, Filolao e gli altri grandi matematici e pensatori, avrebbero potuto creare macchine molto simili alle nostre. Ma non lo fecero perché intuivano o piuttosto capivano che andare a manipolare e replicare la natura è pericoloso. Avevano il senso del limite. Sul frontespizio del Tempio di Delfi era scritto: “Mai niente di troppo”. E molti dei loro miti fondativi ruotano intorno a questo concetto. Parlando nei loro termini, l’ubris, vale a dire il delirio di onnipotenza dell’uomo (che è proprio ciò di cui oggi siamo preda) provoca la fzonos zeon, l’invidia dei Dei, e quindi l’inevitabile punizione (Prometeo). 

Nel nostro caso la punizione verrà repentina, improvvisa, “senza darci avvisaglia” come canta De André in un suo brano significativamente intitolato La Morte. Perché il nostro sistema è basato sulle crescite esponenziali che esistono in matematica ma non in natura. Noi siamo come una lucente macchina che partita a metà del XVIII secolo con la Rivoluzione scientifica e industriale ha percorso gli ultimi due secoli e mezzo a grandissima velocità, ma ora si trova davanti a un muro che non può valicare, però si ostina a dare di gas per cui prima o poi fonde (chiunque oggi parli di crescita –mi riferisco naturalmente alle classi dirigenti non al cosiddetto uomo comune- è un criminale). 

Naturalmente poiché questo collasso non avverrà oggi né domani ma è spostato in là nel tempo, le classi dirigenti se avessero un po’ di cultura potrebbero risponderci ironicamente con Oscar Wild “ma che cosa hanno fatto i posteri per noi?”. Ma il fatto è che alla velocità in cui stiamo andando siamo diventati i posteri di noi stessi. In un vorticoso andamento circolare siamo arrivati alle nostre spalle e ce lo stiamo mettendo nel culo da soli. In questo sistema che ho definito ‘paranoico’ noi non possiamo mai trovare un momento di equilibrio, di armonia, di pace. Raggiunto un obbiettivo dobbiamo immediatamente inseguirne un altro e un altro ancora finché “morte non ci colga”. La situazione di grande disagio esistenziale che tutti, o quasi tutti, noi avvertiamo, qualsiasi sia la classe sociale cui si appartenga, è dovuta a questo meccanismo. E quindi stress, angoscia, nevrosi, depressione, droga e ogni sorta di dipendenza per colmare questo vuoto esistenziale. Noi siamo come i levrieri, fra gli animali più stupidi della terra, con buona pace degli animalisti, che al cinodromo inseguono la lepre meccanica, ricoperta di stoffa, che per definizione non possono raggiungere. La lepre ha solo la funzione di farli correre. Se la raggiungessero il gioco, cioè il sistema, sarebbe finito.

La grande rivoluzione che accompagna quella scientifica e industriale, è quella, ancora più determinante, della concezione del tempo. Allo statico e quieto presente basato sui ritmi circolari delle stagioni, si è sostituito il dinamico futuro che non solo contiene in sé i germi della propria autodistruzione ma è precisamente la causa del nostro malessere.
In questo affannoso inseguimento dell’impossibile (la lepre meccanica della metafora) noi abbiamo perso la consapevolezza che il vero valore della vita non è né il denaro né il lavoro, ma il Tempo, il padrone inesorabile delle nostre esistenze. Consapevolezza che era presente nella cultura greca e nell’Europa medievale (ma esiste anche in alcune civiltà contemporanee, almeno quelle che non abbiamo distrutto a suon di civilissime bombe).
Non si tratta di ritornare all’età delle caverne ma di recuperare alcune suggestioni delle società che ci hanno preceduto e una sapienza antica. E capire che il futuro non è davanti ma dietro di noi.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 11 aprile 2017

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CONFINI – 2 – La scomparsa dei confini

Abbiamo visto che qualunque sistema, di qualunque taglia e natura, necessita di una delimitazione che serve a controllare gli scambi fra ciò che è “dentro” e ciò che è”fuori”.  La dimensione e il grado di permeabilità di questa barriera devono necessariamente cambiare nel tempo, per adattarsi al divenire dalla situazione sia interna, che esterna al sistema in esame.  Pena la disintegrazione.

Nascita degli stati e degli imperi.

Passando ad osservare le società umane, vediamo che, fin dall’inizio, ogni clan o piccola tribù ha costituito un sistema (perlopiù formato da sotto-sistemi familiari), facenti parte di sistemi più grandi (popoli ed umanità).  A loro volta parte della Biosfera e così via.

I limiti erano costituiti da barriere genetiche (grado di parentela), ma più spesso da limiti immateriali come quelli culturali (lingua, religione, faide, ecc.).  A questi si associavano spesso (ma non sempre) anche limiti materiali, ad esempio geografici.

Abbiamo però visto che i sistemi più grandi e complessi sono più efficienti nell’estrazione delle risorse e nella dissipazione dell’ energia.  Ad esempio, sempre parlando di società primitive, una tribù più numerosa si può permettere persone specializzate come artigiani, guerrieri e sciamani.  E questo le può consentire di prevalere sui vicini, raziandoli; oppure eliminandoli per estendere il proprio territorio.

Vi è quindi un vantaggio notevole nella collaborazione ed integrazione fra sistemi diversi.  Una progressiva integrazione che, man mano che cresce, rende progressivamente più permeabili i confini dei sotto sistemi, rafforzando di conserva il confine comune che si va formando.

Ricordate la foglia?  Le cellule perdono buona parte della loro individualità, costituendo tessuti ed organi.   In questo modo, ogni cellula perde qualcosa in termini di “sovranità”, ma guadagna parecchio in termini di una maggiore e più regolare disponibilità di energia ed alimenti.   Un’alga monocellulare può sfruttare una frazione di millimetro cubo di acqua.   Un albero può sfruttare migliaia di metri cubi sia sopra che sotto terra.   Può anche usare la porpria ombra per uccidere altre piante concorrenti e, viceversa, favorire organismi che gli sono utili.

Analogamente, un clan familiare di contadini autosufficienti può sfruttare un paio di ettari di terra, usando attrezzi di legno e di pietra.  I grandi imperi della storia hanno costellato il Pianeta di meraviglie.

Vantaggi e svantaggi dell’integrazione

Dunque, il punto qui è che un sistema più ampio permette una maggiore abbondanza e regolarità nei flussi di materia e di energia sia in entrata che in uscita.

Per esempio, nelle economie locali semi-autosufficienti bastano due-tre cattivi raccolti di seguito, oppure una calamità importante, e la gente comincia a morire di fame.   Mentre lo sviluppo dei commerci e dei trasporti su grande scala e distanza, così come la nascita di grandi stati e potenti organizzazioni sovra-nazionali,  rendono possibile far affluire nelle zone di crisi il surplus di altre.

Il rovescio della medaglia è però che, in questo modo, ogni sotto-sistema dipende da altri.   Trattando di società umane, la perdita di sovranità è il prezzo da pagare per aumentare le proprie potenzialità di difesa, di crescita e di contenimento delle crisi.

Sempre parlando di società umane, aumentare la complessità significa anche la nascita e lo sviluppo della specializzazione professionale e, di conseguenza, delle classi sociali.  Man mano che i confini interni si erodono, aumenta infatti la produzione complessiva di beni e servizi, ma questi non sono mai ugualmente distribuiti, in nessuna società complessa.   Ed il livello di ineguaglianza tende a crescere con le dimensioni del sistema ed il suo grado di integrazione.   L’Impero Romano di Traiano, fortemente integrato e centralizzato, era molto meno egalitario dell’Impero Carolingio, basato su una miriade di capi locali legati fra loro da un giuramento. Ovviamente, non è questo l’unico fattore, ma è una tendenza.

In pratica, le sperequazioni presenti fra i sistemi separati che si integrano tendono a sparire, mentre ne sorgono altre, diversamente distribuite.  Per questo, la creazione degli stati nazionali ha richiesto l’eliminazione, spesso violenta, delle società precedenti.  Per fare un esempio, la formazione della Francia, fra Luigi XIII e XIV, ha comportato la sostituzione di gran parte della classe dirigente di tradizione feudale con un’altra formata da burocrati e proto-capitalisti.  Mentre la formazione della Francia moderna è passata attraverso il Terrore e le guerre napoleoniche.

Un esempio di natura diversa, ma analogo, è lo sviluppo del capitalismo industriale che eliminò ogni traccia delle tradizioni che davano identità e resilienza alle classi popolari.  Queste si adattarono, creando un nuovo confine culturale: l’identità della classe operaia.  Il capitalismo finanziario ha eliminato anche questa.   Il primo passaggio era stato ampiamente previsto da Marx ed Engels, il secondo assolutamente no.

In sintesi, l’integrazione di sotto-sistemi in sistemi maggiori comporta un vantaggio complessivo, ma necessariamente questo avviene a danno di alcuni elementi, per il maggior vantaggio di altri.   Un “effetto collaterale” che può essere fortemente mitigato scaricando i danni ad altri soggetti esterni.  Finché questi soggetti sono altre società umane, la cosa è crudele, ma sostenibile.  Quando il “soggetto esterno” è invece la Biosfera (come di norma, almeno in parte) è più problematico.  Infatti, anche se siamo abituati a considerare la Biefera come esterna al nostro sistema socio-economico, è invece il nostro sistema umano ad essere interno all’ecosistema globale.  In altre parole, danneggiando la Biosfera necessariamente danneggiamo noi stessi.

Il pericolo più insidioso è quindi che la maggiore crescita economica e demografica che accompagna la complessità metta sotto crescente stress il sistema maggiore di cui le società umane fanno parte (ecosistema e financo la Biosfera).   Ci torneremo.

Internazionalizzazione

Nel XVIII secolo, i principali stati europei avevano raggiunto un notevole grado di integrazione interna, ma il commercio internazionale era assai limitato.  Lo sviluppo di questo fu indicato da David Ricardo e dagli altri padri dell’economia liberale come una delle chiavi di volta per la crescita economica ed il progresso.   In estrema sintesi, si sostenevano due punti fondamentali.

Il primo è quello già citato della possibilità di sopperire con il surplus di alcuni alle carenze di altri.

Il secondo era che i diversi paesi e le diverse regioni hanno vocazioni produttive diverse.   Per esempio, in Sicilia si fa del vino migliore che nello Shropshire, mentre le pecore inglesi producono una lana migliore di quella siciliana.   Parimenti, i giacimenti di minerali e le fonti energetiche (all’epoca soprattutto il carbone) non sono uniformemente distribuiti.  Rendere i confini statali più permeabili alle merci  poteva quindi consentire ad ogni paese di specializzarsi nelle produzioni per le quali era più vocato, aumentando l’efficienza e quindi la ricchezza complessiva delle popolazioni.  Inoltre,  aumentando il grado di interdipendenza, diminuiva il rischio di conflitto.

Una teoria coerente con quello che oggi sappiamo sulla dinamica dei sistemi e, difatti, ha sostanzialmente funzionato, anche se non sempre così bene come Ricardo sperava.

Europeizzazione

La formazione di una struttura sovrastatale europea ha seguito una schema analogo, ma con alcune importanti novità.  Tanto per cominciare, l’integrazione è avvenuta in modo volontario, sulla base di trattati approvati dai parlamenti nazionali e non, come di solito avviene, tramite un’invasione militare e/o l’imposizione di una nuova classe dirigente.

Un secondo punto importante è che, fino al 1995, l’integrazione è avvenuta in modo molto graduale.

Il terzo è che non ha riguardato solo accordi commerciali, ma che politici.  Di conseguenza, la permeabilità dei confini è cresciuta non solo nei confronti delle merci, ma anche delle persone e dei capitali.

Come in tutti i processi di trasformazione, anche questo ha avuto i suoi perdenti, ma nel complesso, l’Europa occidentale è diventata la società di gran lunga più prospera e pacifica dell’intera storia dell’umanità.  Un dato di fatto che è di moda dimenticare.

Con l’integrazione dei paesi dell’ex-impero sovietico (nel 2004 e nel 2007) furono invece commessi diversi errori.   I due principali penso che siano stati la scelta sbagliata dei valori fondanti e la fretta.   I valori fondanti di Coudenhove-Kalergi e, successivamente, di Shuman, de Gasperi e gli altri “padri fondatori”  erano soprattutto la fine delle guerre in Europa e lo sviluppo di una società liberale.   Viceversa, negli anni ’90 e 2000, fu in nome del benessere materiale che società ed economie furono sconvolte nel giro di pochi anni.   Ovviamente, il contraccolpo generò una serie di squilibri che siamo lontanissimi dall’aver recuperato.

Globalizzazione

Ma in quegli anni, tutto questo era invisibile per una classe dirigente completamente ebbra di vittoria (in occidente). Oppure completamente sedotta dalla prospettiva di una facile ricchezza (in tutti gli altri paesi).

Sorse così l’idea di estrapolare un processo simile a quello europeo a livello mondiale. Era nata la globalizzazione.   Nei sogni dei suoi promotori, avrebbe dovuto integrare tutti i paesi della Terra in un unico mercato, governato da organismi internazionali indipendenti e sovraordinati agli stati.  Col tempo, si diceva, ciò avrebbe portato anche ad un’unica società, con un’unica lingua, un’unica cultura, un unico governo, eccetera.  L’intera umanità finalmente affratellata in una sorta di villaggio globale grazie al commercio ed alle nuove tecnologie.

Sappiamo che è andata diversamente per una lunga serie di fattori. Limitandoci qui al punto di vista sistemico, si può però dire che è accaduto esattamente quello che ci si poteva aspettare.

Nell’internazionalizzazione, capitali e persone rimangono ancorati al loro luogo d’origine. Ciò significa che chi si arricchisce con il commercio internazionale è costretto a investire nel proprio paese e questo, almeno in linea di principio, crea lavoro per la popolazione locale che è anch’essa vincolata al proprio territorio.  Non solo; i capitalisti si posso arricchire a dismisura, ma non possono lasciare il proprio paese, pena perdere tutto.  Inoltre, se si rendono sufficientemente odiosi, potrebbero anche subire delle conseguenze molto sgradevoli, come molte volte è effettivamente accaduto nella storia.

Nell’europeizzazione, i confini dei singoli stati veniìvano progressivamente erosi, ma contemporaneamente si formava e rafforzava un confine esterno comune. In pratica, anche se il processo di europeizzazione e quello di globalizzazione vengono spesso confusi, sono intrinsecamente antitetici.

Gli accordi di globalizzazione permettono lo spostamento ovunque sia dei capitali finanziari, sia del capitale culturale (in particolare know-how e tecnologie). Permettono altresì ai capitalisti di spostarsi quasi liberamente da un luogo all’altro in quello che, per loro, è effettivamente un villaggio globale.   E permettono anche lo spostamento di masse di manodopera, creando un mercato globale del lavoro che, in pratica, diventa un sistema di crumiraggio mondiale.

Paradossale ed istruttivo è il fatto che la UE e gli USA furono fra i principali promotori di questa follia planetaria.   Senza rendersi conto che  i loro stessi confini ed i loro stessi sistemi socio-economici sarebbero stati  fra quelli che avrebbero subito il contraccolpo maggiore.   In un processo di integrazione rapida a tutti i livelli, ci sono infatti necessariamente sotto-sistemi (regioni, gruppi di persone, imprese, o altro) che avranno il più dei vantaggi, se non tutti.  Mentre altri soggetti avranno gli svantaggi corrispondenti.  In altre parole, si crea un mondo di vincenti e perdenti assoluti.  E dovremmo sapere tutti da un pezzo che la civiltà industriale è un “gioco” in cui chi ha le manifatture vince, chi ha le cave, le miniere e le discariche perde.  Esattamente quello che, guarda caso, è accaduto.   Nessuna sorpresa.

Il seguito, al prossimo post.

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Perché non riusciamo a fare la Transizione? Il problema dell’economia (seconda parte)

 (Pubblicato anche su Appello per la Resilienza: https://appelloperlaresilienza.wordpress.com/)

 Post di Michele Migliorino

 

DISEGUAGLIANZE ECONOMICHE

Vi sono molti aspetti connessi con la nostra difficoltà di trovare soluzioni ai cambiamenti climatici e al problema delle risorse. Come cerco di dimostrare in questa serie di articoli, ciò sembrerebbe essere causato dal fatto che il sistema economico impedisce uno sviluppo etico e sociale autentico.

In questi ultimi anni si è fatto sempre più evidente il crescente divario dei redditi. Si tratta di una situazione generata dal funzionamento del sistema o è temporanea e risolvibile? In che modo va ad incidere questo sulla nostra capacità di trovare risposte pratiche ai problemi globali?

Non può esistere economia senza crescita. Ciò significa che la quantità di denaro nel mondo deve continuamente aumentare. Ma come si distribuisce la ricchezza?

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fonte: www.lteconomy.it

Il tema della disuguaglianza è anche emerso nel corso degli incontri al World Economic Forum a Davos (19 gennaio 2015), quando, Winnie Byanyima, direttore esecutivo di Oxfam International, ha presentato i risultati di una delle ultime pubblicazioni di Oxfam sulla disuguaglianza, ‘Wealth: Having It All and Wanting More,’ evidenziando che la ricchezza aggregata dell’ 1 per cento più ricco della popolazione mondiale supererà quella del restante 99 per cento entro il 2016. 

Nella prima parte avevo argomentato che il sistema economico si basa sulla crescita del capitale. Tutto ciò è noto sotto il nome di Capitalismo. Vediamo un paio di grafici la cui idea è mettere in relazione la grandezza del continente, la % di popolazione e la % di ricchezza. Qui sotto la situazione nel 1990.

fonte: www.wordmapper.org

Vediamo di seguito invece come sia cambiata nell’arco di quasi 30 anni. Il Sud del mondo si assottiglia ancora di più a favore del Nord, ma dopo 30 anni è l’Asia che sta crescendo, non l’Occidente.

fonte: www.wordmapper.org. La situazione odierna, nel 2015.

Ma sappiamo bene che è all’interno dei singoli paesi che si manifestano la diseguaglianze. Non v’è una distribuzione egualitaria della ricchezza e questo, secondo Thomas Piketty (Il Capitale nel XXI secolo; Income inequality in the US, 1913-1998) e Gail Tverberg (Why we have a wage inequality problem – Our finite world) è una componente fondamentale – se non primaria – dell’attuale crisi economica.

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fonte: google immagini.

L’Occidente e il mondo intero è travagliato dal problema delle diseguaglianze. Lo hanno dimostrato le lotte degli ultimi due secoli fra ricchi/poveri, capitalisti/comunisti. Sembra che il sistema sociale debba scindersi, per via delle condizioni necessarie alla creazione di capitale: chi stipendia e chi è stipendiato; chi possiede i mezzi per poter produrre e chi lavora; produttori e consumatori (è evidente che anche i “produttori” sono consumatori. Qui si allude a quella divisione dei redditi che avviene a monte del semplice atto di acquisto. Come produttori si intendono gli “imprenditori”. Ogni imprenditore è anche consumatore, in quanto vivente, e ogni consumatore contribuisce a produrre dei beni. Ciò non toglie che i capitali si spostino – come si vede qui di seguito – dalla parte di chi possiede i “mezzi di produzione”). 

E’ questa spaccatura la matrice di tutte le disuguaglianze sociali in quanto i profitti si spostano necessariamente dalla parte di chi possiede i “mezzi di produzione”. Da chi viene prodotta la ricchezza e in quali tasche finisce? Ai lavoratori o agli imprenditori? Questo spostamento graduale dei redditi è ben documentato.

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Al consumatore, ironicamente, viene lasciato il “potere d’acquisto” e l’illusione di poter partecipare attivamente alla vita economica mentre è del tutto eterodiretto dalle logiche commerciali globali (cosa può il piccolo agricoltore contro la FAO?). Ma come avviene questo spostamento? Un illustre sociologo italiano, Luciano Gallino, ha ben chiarito la questione nel libro Il colpo di stato di banche e governi (Einaudi, 2015) (e in Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegata ai miei nipoti – Einaudi, 2015). Dopo aver parlato delle origini strutturali della crisi attuale (2007-2008) – che hanno avuto origine negli anni ’80 quando è cominciato un predominio della finanza sull’economia reale come risposta alla crisi del regime di accumulazione – egli spiega che l’accumulazione è la:

crescita del capitale esistente mediante nuove dosi di altro capitale derivante da eccedenza del valore realizzato della produzione sul consumo in un determinato periodo. 

E continua dicendo:

L’accumulazione accresce costantemente la frazione di capitale investita in mezzi di produzione mentre diminuisce proporzionalmente la frazione investita in forza lavoro. 

Queste due citazioni difficili ci dicono che il capitale si accresce solo perché una parte sempre maggiore di profitto resta in mano all’imprenditore, mentre una sempre minore in mano al dipendente. E’ questo il processo che ha generato la grande disoccupazione di questi anni e la tendenza alla meccanizzazione/robotizzazione delle aziende: ridurre i costi di sussistenza dei lavoratori. I robot non hanno bisogno di stipendio! Qui di seguito Gail Tverberg mostra il trend di discesa dei redditi dal 2000.

  

Fonte: Gail Tverberg – Our Finite World. Rapporto fra i redditi (wage) e il PIL (GDP).

La maggior parte dei profitti generati dalla forza-lavoro finiscono all’imprenditore. Si alimenta sempre più il divario fra una popolazione disoccupata e con sempre minor salario e degli imprenditori ultra-ricchi. Si è visto sopra come questa situazione sia omogenea su tutto il pianeta per via del mercato “unico”, la globalizzazione. Una sola è la legge che unifica il Nord ricco e il Sud povero. Ma è una situazione che può durare? Il capitalismo può continuare ad esistere in eterno?

(La divisione che abbiamo creato fra i membri della nostra specie (infraspecifica, in termini ecologici), comporta un surplus di distruttività che si aggiunge a quella “naturale” relazione interspecifica che già da sola creava molti guai. Si veda per esempio la storia della diffusione nel pianeta dell’uomo cacciatore-raccoglitore come descritta da Jared Daimond nei primi capitoli di Armi, acciaio e malattie).

Marx credeva che il capitalismo portasse in sé i germi del suo superamento e che ciò sarebbe avvenuto già a fine XIX secolo attraverso una socializzazione della produzione ad opera delle masse dei lavoratori. Ciò non è avvenuto e un secolo di lotte comuniste si è risolta infine in una netta vittoria del neo-liberismo. Oggi del comunismo resta solo uno spettro. Perché ha perso? In definitiva il marxismo-comunismo restava solidale con quella “colossale visione del mondo” del suo acerrimo nemico capitalista. Non viene mai meno l’esigenza produttiva – e il capitalismo si è dimostrato più potente nel portare avanti questa logica.

Come hanno mostrato – fra gli altri – Jean Baudrillard e Naomi Klein, esso utilizza ogni mezzo per fortificarsi, persino la critica che gli viene rivolta – le lotte rivoluzionarie; il pensiero critico – viene ri-prodotta dal sistema per autoalimentarsi.

Voi potete redistribuire tutti i redditi che volete; potete regolare l’economia in maniera da facilitare le classi più povere e potete persino (forse) allungarne la vita in maniera che possa sembrare un sistema sempiterno, ma ciò non toglie che un sistema che vuole crescere indefinitamente dovrà prima o poi crollare. E’ l’effetto Seneca, una semplice legge di natura.

(continua…)

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CONFINI – 1. Confini dei sistemi

di Jacopo Simonetta

I confini politici sono qualcosa di particolarmente complicato.   La loro posizione e le loro caratteristiche cambiano infatti rapidamente (rispetto ai tempi storici) e dipendono da un insieme molto vasto di fattori fisici e geografici, ma anche storici, culturali, economici ecc.

La dinamica dei sistemi è solo uno dei molteplici approcci possibili alla questione, ma può essere utile per mettere in luce degli aspetti spesso trascurati.  Tenterò di chiarire questo punto in una serie di post di cui questo è il primo.

Confini dei sistemi.

Secondo la definizione di Ludwig von Bertalanffy, padre della teoria dei sistemi, “Un sistema è un complesso di elementi che interagiscono fra loro” (1968).   Una definizione successivamente integrata da numerosi altri autori, fra cui James Grier Miller, che per primo focalizzò il punto essenziale in questa sede: “Un sistema è una regione delimitata nello spazio-tempo” (1971).   Concetto ripreso ed ampliato da J. Gougen e F. Varela: “Un sistema origina attraverso una distinzione che divide il mondo in due parti, come quello e questo, oppure ambiente e sistema” (1979).

In altre parole, possiamo analizzare come un “sistema” qualunque cosa sia composto da vari elementi che interagiscono fra loro all’interno di un confine, anche immateriale, che permette di distinguere un “dentro” da un “fuori”.

Matrioske

Ovviamente, il “dentro” sarà spesso suddiviso in sotto-sistemi, ognuno dei quali delimitato in qualche modo.  

 Ed il “fuori” altro non è che il meta-sistema di cui il sistema che stiamo osservando è parte.

Se vogliamo essere pignoli, in realtà esiste infatti un unico sistema: l’universo (o, per essere ancora più pignoli: almeno un universo) e non sappiamo se ha dei limiti.  Non lo sappiamo e non lo sapremo mai perché dei limiti li ha invece l’universo conoscibile.   Per la felicità di S. Tommaso, questo è una sfera geocentrica, avente per raggio la distanza percorsa da un fotone in circa 13,7 miliardi di anni.   Quello è infatti il limite, in espansione costante,  da cui in via del tutto teorica ci possono giungere delle informazioni.

All’interno di questo sistema, entro certi limiti oggettivo, ci sono miliardi di sottosistemi rappresentati da galassie, nebulose e molto altro, ognuno dei quali contiene miliardi di stelle, molte delle quali con i loro sistemi di pianeti e così via, a scendere di scala fino ad arrivare alle cellule che compongono gli organismi.   Ci sono altri livelli organizzativi più piccoli, ovviamente, ma il loro grado di complessità diminuisce e non è detto che siano definibili come “sistemi”.   Men che meno come “sistemi complessi”.

Il sistema minimo

Per fare un ragionamento su come sono fatti e come funzionano i sistemi, forse conviene partire proprio dall’estremo minimo della gamma, dalla matriosca più piccola e cioè dalla cellula.   Non solo per omaggio a von Bertalanffy (che era un biologo), ma anche perché è più facile.

Una cellula è composta da diversi organuli che svolgono varie funzioni, immersi in un citoplasma delimitato da una membrana.   Perlopiù contengono un sotto-sistema, il nucleo, ma non sempre e qui lo ignoreremo.

Dunque torniamo alla membrana cellulare: come è fatta e a che serve?   La cellula, per restare funzionale, deve mantenere sotto il proprio controllo una serie di parametri interni, ad esempio la pressione osmotica.   Se ci sono troppi ioni, la cellula si risecchisce e muore, se c’è troppa acqua la cellula scoppia.   A questo serve la membrana: regolare gli scambi con il meta-sistema di cui la cellula fa parte secondo le necessità vitali di questa.   Per questo la membrana è semipermeabile.  Cioè consente il passaggio di alcune cose (ad esempio l’acqua), ma non altre (ad esempio ioni e virus).   Ma per controllare l’ambiente interno e nutrire la cellula non basta.   La membrana contiene dunque delle strutture specializzate che, dissipando energia, sono in grado di “mangiare”, oppure di espellere singoli ioni, acqua, molecole ed altro in modo da mantenere l’omeostasi necessaria.  In altre parole, la membrana è una struttura funzionale che, dissipando energia, protegge la cellula, assicurandone l’integrità e la funzionalità.

Salendo di scala

Saliamo di scala.   In una foglia, ad esempio, troviamo che le cellule non sono tutte uguali.   Quelle esterne sono blindate e svolgono la funzione specializzata di proteggere il tessuto interno che, al contrario, è assai più tenero e biologicamente attivo.   Anche a questo livello, abbiamo un confine che delimita il sistema foglia, costituito dall’epidermide (più eventuali elementi esterni) la cui funzione è quella di proteggere l’interno dall’esterno.   Ma abbiamo visto che nessun sistema vivente può esistere se isolato. Dunque l’epidermide ha dei fori, gli stomi, controllati da strutture apposite che lasciano passare la quantità di aria necessaria per la fotosintesi.  Nel frattempo, i pigmenti dell’epidermide fanno passare la quantità giusta di luce.  Né tanta da bruciare le cellule, né poca da farle morire di fame.  Cioè, la foglia è avvolta da qualcosa che, sempre dissipando energia, la mantiene funzionale.

Mutatis mutandis, lo stesso, identico schema si ripropone ai livelli crescenti di complessità a cui si organizzano la Vita ed il Pianeta nel suo insieme.   La più esterna delle barriere protettive terrestri è la ionosfera, che ci protegge dai raggi gamma, ma lascia passare la luce ultravioletta, visibile ed infrarossa.

A cosa servono i confini

Un punto fondamentale è dunque questo: qualunque sistema, per esistere, necessita di una barriera che lo delimita e deve quindi dissipare energia per costruire e far funzionare tale barriera.   Questo perché è necessario che le condizioni interne siano controllate.   D’altronde, Carnot ci ha insegnato che un sistema isolato vedrebbe la sua entropia crescere fino ad un massimo, mirabilmente definito da Nietzsche “morte termica”.

Dunque, se nessun sistema può esistere se non delimitato, nessun sistema può esistere se isolato.   In altre parole, ogni confine, dalla membrana di una singola cellula alla ionosfera ed oltre, ha la funzione non di isolare il sistema, bensì quello di controllarne gli interscambi con il sistema più ampio di cui fa parte, il quale a sua volta avrà i suoi propri confini e così via.

Questo è il secondo punto fondamentale: ad ogni livello di organizzazione corrisponde una diversa delimitazione, con differenti funzioni.    Se ogni cellula avesse la permeabilità di quelle dell’epidermide foliare, la pianta morirebbe, anzi non esisterebbe neppure.   Dunque è necessario che le cellule si differenzino per svolgere funzioni specializzate.  In altre parole, per aumentare la propria efficienza, un sistema deve dissipare energia per aumentare la propria complessità.   Cioè diventare un più ampio insieme funzionale di elementi e di relazioni.

Livelli superiori di complessità consentono di assorbire e dissipare maggiore energia.  Dunque di prevalere nella competizione con altri sistemi e sotto-sistemi, ma richiede più risorse.  Per questo su di una roccia nuda nascono dei licheni. Non appena si forma un po’ di suolo, le erbe sostituiscono i licheni e quando c’è abbastanza terra, gli alberi prevalgono sull’erba.

Si badi bene che tutto questo non ha niente a che fare con questioni etiche e scelte umane, ma solo con quello che Tommaso Campanella chiamava il “senso delle cose” e che noi chiamiamo “gradiente termodinamico”. (Ai fisici non piace sentirselo dire, ma buona parte del loro lavoro consiste nel mettere a punto e chiarire le intuizioni dei migliori maghi del rinascimento).

Ma se livelli superiori di organizzazione hanno maggiori potenzialità,  necessitano anche di maggiori risorse e, di conseguenza, scaricano maggiore entropia nel meta-sistema di cui fanno parte.   Vale a dire che erodono più rapidamente le riserve di energia ed informazione del loro ambiente.  Riserve che possono essere reintegrate a scapito dei meta-sistemi via via sovraordinati, fino alla matrioska più grande: l’universo conoscibile.
Molto si discute del se e come, entro o fuori di questo, vi siano “fabbriche” di entropia negativa.   Oppure se tutto esista ed evolva solo grazie alle scorte di bassa entropia che abbiamo ereditato dal “big bang”.   Ma tutto questo, per quanto affascinante, ci riguarda molto poco.   A noi basta sapere che sulla Terra abbiamo una sola “macchina” che pompa l’entropia al contrario: la vegetazione.   Tutto il resto, compresi noi, dipende da lei.  Ovviamente, ciò avviene a spese del Sole e fra un paio di miliardi di anni saranno guai.

Ma non credo siano in molti a preoccuparsene. Piuttosto, nei prossimi post vedremo invece di utilizzare questi concetti per capire come ha funzionato la globalizzazione e come, in grandissime linee, probabilmente funzionerà la de-globalizzazione.

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Perché non riusciamo a fare la Transizione? Il problema dell’economia (prima parte)

Guest Post di Michele Migliorino. 

Introduzione

Forse non abbiamo ancora compreso fin dove arriva il “problema umano” dietro a tutta questa faccenda delle risorse e del picco del petrolio.

In accordo con la nostra epoca scientifica, siamo convinti che per poter dare risposte alla “crisi” siano sufficienti i mezzi tecnici, mentre dovrebbe apparire evidente – dopo secoli di guerre e distruzione ambientale – che la tecnologia nelle mani dell’uomo può portare più danni dei benefici che crea.
E’ importante ricordare l’avvertimento di quel grande pensatore che ha dato inizio allo studio del Sistema-Terra in maniera così innovativa, Dennis Meadows:

Ci comportiamo come se il cambiamento tecnologico possa sostituire il cambiamento sociale“. (fonte: http://ugobardi.blogspot.it/2014/06/dennis-meadows-e-troppo-tardi-per-lo.html)

Bisognerebbe chiedersi dunque, che cosa blocca lo sviluppo sociale? Il che equivarrebbe a domandare: perché i nostri tentativi di operare dei cambiamenti concreti (la transizione alle rinnovabili) non riescono ad arrivare a buon fine? Perché la società è così lenta nel cercare di salvare se stessa?

E qui troviamo un aspetto ancora del tutto incompreso che cercherò di chiarire, infatti: il problema è l’Economia. Non perché non abbiamo abbastanza denaro da mettere in campo – ora che siamo al termine della partita? – ma perché pretendiamo di risolvere il problema esattamente nel modo in cui l’abbiamo creato. Ricordiamo le parole di Einstein:

Non puoi risolvere un problema con lo stesso tipo di pensiero che hai usato per crearlo

Infatti il problema non è il petrolio di per sé (o qualsiasi altra fonte energetica), bensì il fatto che ne abbiamo subordinato l’estrazione e l’utilizzo alle dinamiche economiche, le quali sviluppano un sistema e una logica che non dipende più dagli attori che vi partecipano, ma che li trascende (in un sistema il tutto è “maggiore” della somma delle parti).

Sebbene abbia generato una enorme “complessità” in termini di sviluppo scientifico e sociale, l’Economia è quella cosa che ci impedirà di giungere all’obiettivo di una “società solare” basata su energie rinnovabili (nel senso indicato per esempio da Ugo Bardi nel libro La Terra svuotata) – obiettivo che sarebbe degno di una specie umana compiuta.

In questi cinque articoli cercherò di mostrare che Economia non è una così bella parola e non può aiutarci nel viaggio verso un futuro sostenibile – un futuro che sembra drammaticamente vicino in realtà, perché come ci ricorda sempre Dennis Meadows:

è tardi per lo sviluppo sostenibile, dobbiamo mettere più enfasi sulla resilienza del sistema” (fonte: articolo sopra citato)

La domanda che si pone è dunque a) se è possibile può fare la transizione energetica all’interno del sistema economico, e b) se non lo è, che soluzioni ci rimangono? Perché ci è così difficile pensare in termini diversi da quello che Serge Latouche chiamava “immaginario economico”?

Il cambio di paradigma che ci serve non riguarda il tipo di energia che dobbiamo utilizzare o quali tecnologie mettere in campo, bensì la necessità di uscire dalla “legge del valore”. La nostra cultura erige lo scambio monetario a valore imprescindibile, ma questo è basato su di un meccanismo che lo porta ad una accumulazione senza via d’uscita (la ben nota “crescita”). Ovviamente, non si tratta di qualcosa di così semplice nè da comprendere nè da accettare, perché coinvolge l’intera cultura sopra la quale “prosperiamo”.

Crescita e sistema monetario

“Dal 1820 al 2003 l’economia è cresciuta con un tasso medio del 2.25% l’anno” (fonte: David Korowicz, Trade-off. Financial System Supply-chain Cross Contagion – a Study in Global Systemic Collapse, www.davidkorowicz.com).

Lo scopo primario di un’economia oltre alla produzione di merci, lo sappiamo tutti, è ottenere denaro. Ora, non c’è crescita senza aumento di denaro. La produzione di merci è contrassegnata nel nostro sistema da un simbolo, la moneta, che utilizziamo per valutare (dar-valore) le merci. Siamo abituati a considerare in termini monetari quasi ogni attività che facciamo. Per questo il PIL (in inglese GDP) è considerato l’indicatore principale delle economie.

Ma al di là di questo vi sono questioni decisive connesse all’uso del denaro come mediatore delle attività economiche. Esser parte del sistema economico significa condividerne implicitamente alcuni assunti. Qualunque attività commerciale o azienda, pubblica o privata, per sussistere dovrà adeguarsi ad una regola fondamentale: il capitale finale deve essere più grande del capitale iniziale.

E’ evidente: se dalla mia attività non ho ricavato un surplus, o sono in pareggio o sono in rosso, entrambi risultati negativi. L’unico risultato possibile in economia è il profitto. Ogni azienda, ogni attività che produce reddito ha questa esigenza. Tutti devono “crescere”, ciò implica che: la quantità di denaro pro capite deve aumentare progressivamente

Anche una persona povera dovrà avere alla fine di più di quanto aveva all’inizio (in intervalli di tempo), altrimenti dovrà affidarsi ad altri o perirà. Il passo successivo è comprendere le implicazioni di questo meccanismo a livello macroeconomico, infatti: la quantità totale di denaro nel mondo deve aumentare progressivamente 

https://www.blia.it/debitopubblico/grafico2012.png

fonte:www.blia.it. A sinistra la percentuale debito/PIL in % visualizzata dalle colonne in blu. L’andamento del grafico illustra la serie storica per l’ITALIA dal 1861 al 2012.

Il grafico mostra la tendenza alla crescita, macroscopica soprattutto nella parte destra in corrispondenza della fine della Seconda guerra mondiale e del boom economico. Condizione della crescita oltre alla disponibilità di risorse naturali, è il “debito”. Per far si che il denaro nel mondo possa aumentare continuamente vi deve essere un meccanismo che ne permette l’espansione. (Su questo Gail Tverberg: https://ourfiniteworld.com/2016/05/02/debt-the-key-factor-connecting-energy-and-the-economy/ la quale cita Kenneth Rogoff: http://voxeu.org/article/debt-supercycle-not-secular-stagnation ).

Come “produrre” denaro se tutti devono ottenere un aumento relativo del loro capitale? Ciò è possibile solamente tramite lo scambio del denaro stesso. Il denaro è debito di per se stesso! Come si vede dal grafico, vi è una netta correlazione fra la crescita della moneta e la crescita del debito. Ciò non è un effetto casuale prodotto dal sistema ma è il funzionamento stesso della moneta, in quanto è necessario che lo scambio di denaro-con-merce produca un surplus del denaro iniziale, altrimenti non si potrebbe creare alcuna “circolazione” e non vi sarebbe crescita.

Tale meccanismo è possibile grazie all’ammontare di una quantità di denaro “fantasma” – il debito appunto – che funge da “pompa” (leva finanziaria) per la crescita. Ebbene, i debiti non possono venire ripagati perché è il debito che fornisce al sistema la possibilità stessa dello scambio di denaro e dunque gli permette di crescere.

Scopriamo così che la struttura stessa della nostra economia si regge su di un meccanismo paradossale. In quanto fornitrici di credito, gli istituti bancari sono i principali strumenti di leveraggio della nostra economia (nonchè dello Stato, che così si trova in posizione scomoda di sudditanza). E’ noto quale è stato il loro ruolo in numerose crisi finanziarie (fenomeni di “bank run”). Per ulteriori spiegazioni: Luciano Gallino, Il colpo di stato di banche e governi; anche Il denaro, il debito e la doppia crisi, oppure Chris Martenson, Crash course visibile su https://www.youtube.com/watch?v=Ec85sWSn7iQ&list=PLB048101DAAD68046&index=10
(continua)

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Vita su Marte? Ma a noi cosa ce ne importa?

Vi segnalo un articolo di Pietro Cambi che va contro tutte le regole del Web che dicono di non pubblicare niente sopra le 1000 parole sui blog. Questa invece è una discussione approfondita sulla possibilità che sia esistita vita su Marte in tempi remoti. Sostiene Cambi che un’analisi dettagliata della storia geologica di Marte implica quasi certamente l’esistenza di vita sul pianeta – e anche vita abbondante – in tempi remoti. 

Direte voi, elfetti del bosco, cosa ce ne frega a noi della vita su Marte? L’importante non è piuttosto uscire dall’Euro e cacciare via gli immigrati? 
Certo, certo…. ma c’è un problemetto che si chiama il “Gaian Bottleneck” che ha a che vedere con la resilienza dell’ecosistema. Dategli una perturbazione sufficientemente forte, è il sistema esce dalla zona abitabile e viene sterilizzato. Questo è male per gli sterilizzati. 
Il bello della faccenda è che non sappiamo bene quanto sia resiliente il sistema Terra e se la perturbazione che stiamo creando con le emissioni di gas serra è sufficiente per buttarlo fuori dalla zona abitabile. Per quanto ne sappiamo, potrebbe esserlo. E’ una domandina molto interessante che ha a che vedere con l’evoluzione dei pianeti rocciosi, i feedback abiotici, e molte altre cosette. Ha anche a che fare, e parecchio, con la nostra comprensione della vita su Marte in tempi remoti.  Tutta la faccenda viene discussa in dettaglio in un articolo interessantissimo di Aditya Chopra e Charles Lineweaver pubblicato su Astrobiology, 16, 2016, 7 (è dietro un paywall, se volete una copia, scrivetemi)

Quindi, elfetti cari, se certe interpretazioni sono vere, la faccenda del riscaldamento globale potrebbe rivelarsi un tantinello più drammatica di quanto non sembrebbe. Ma non vi preoccupate: ci sono tanti pianeti nella galassia e sicuramente ce ne sono di abitati oltre al nostro. Uno più, uno meno…. 






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