Effetto Cassandra

Colpo di frusta!

Da “Club Orlov”. Traduzione di MR

do Dmitri Orlov

Nel corso del 2014 i prezzi che il mondo paga per il petrolio greggio sono precipitati da oltre 125 dollari al barile ai circa 45 di adesso e potrebbero facilmente scendere ulteriormente prima di ricominciare a salire, prima di collassare ancora e risalire ancora. Avete afferrato l’idea. Alla fine, la folle altalena del mercato del petrolio, e quella persino più selvaggia dei mercati finanziari, delle valute e dei rutilanti fallimenti delle società energetiche, poi delle entità che le hanno finanziate, i default nazionali dei paesi che hanno sostenuto queste entità, causeranno a tempo debito il collasso delle economie industriali. E senza un’economia industriale funzionante il petrolio greggio verrà riclassificato come rifiuto tossico. Ma questo è fra due o tre decenni nel futuro.


Nel frattempo, i prezzi molto più bassi del petrolio hanno spinto gran parte dei produttori di petrolio non convenzionale fuori dal mercato. Ricordate che il petrolio convenzionale (il tipo di petrolio facile da produrre che esce fuori zampillando dai pozzi verticali trivellati non troppo profondamente nel terreno) ha raggiunto il picco nel 2005 e da allora è declinato. La produzione di petrolio non convenzionale, compresa la trivellazione offshore, le sabbie bituminose, la fratturazione idraulica per produrre petrolio di scisto ed altre tecniche costose, è stato generosamente finanziato per compensare l’ammanco. Ma al momento gran parte della produzione di petrolio non convenzionale costa più del prezzo al quale può essere venduto. Ciò significa interi paesi, compreso il Venezuela è il suo petrolio pesante (che richiede una riqualificazione prima di poter fluire), il Golfo del Messico e la sua produzione offshore (Messico e Stati Uniti), Norvegia e Nigeria, il Canada e le sue sabbie bituminose e, naturalmente, gli Stati Uniti e il petrolio di scisto. Tutti questi produttori in questo momento stanno bruciando soldi così come il petrolio che producono e se i prezzi del petrolio bassi persistessero, sarebbero costretti a chiudere.

Un problema in più è il tasso di esaurimento molto alto dei pozzi di petrolio di scisto “frackati” negli Stati Uniti. Attualmente, i produttori di petrolio di scisto stanno pompando a pieno regime stabilendo nuovi record di produzione, ma il tasso di trivellazioni sta collassando rapidamente. I pozzi di petrolio di scisto si esauriscono molto in fretta: i tassi di flusso scendono della metà in soli pochi mesi e sono trascurabili dopo un paio di anni. La produzione può essere mantenuta solo attraverso trivellazioni incessanti e quelle trivellazioni incessanti ora si sono fermate. Così, ci rimangono solo pochi mesi di surplus. Dopo di che, l’intera rivoluzione del petrolio di scisto, che qualche pupazzo aveva pensato che avrebbe trasformato gli Stati Uniti in una nuova Arabia Saudita, sarà finita. Non aiuterà il fatto che gran parte dei produttori di petrolio di scisto, che hanno fortemente speculato sui prestiti per le trivellazioni falliranno, insieme alle società di esplorazione, produzione e le società di servizi per i pozzi petroliferi. L’intera economia che è emersa negli anni recenti intorno al ripiego del petrolio di scisto negli Stati Uniti, che è stato responsabile di gran parte della crescita dei posti di lavoro ben pagati, collasserà, causando un’impennata dei tassi di disoccupazione. Vale la pena di sottolineare che l’eccesso di petrolio che ha fatto precipitare questo collasso del prezzo non è particolarmente grande. E’ cominciato tutto con uno sforzo concertato fra Arabia Saudita e Stati Uniti per riversare petrolio nel mercato internazionale, per far scendere i prezzi. I dirigenti degli Stati Uniti sa perfettamente che i loro giorni come maggiori produttori di petrolio si contano i giorni o mesi, non in anni. Si rendono conto di quali grandi postumi di sbornia risulteranno dal collasso della produzione del petrolio di scisto. I canadesi, rendendosi conto che la loro avventura delle sabbie bituminose è altresì prossima alla propria fine, vogliono stare al gioco.

Il gioco che stanno giocando è di fondo un “game of chicken” (n.d.t. quella sfida in cui i due contendenti si lanciano uno contro l’altro in automobile a tutta velocità). Se tutti pompano tutto il petrolio possono farlo a prescindere dal prezzo, poi ad un certo punto accadrà una di queste due cose: La produzione di petrolio di scisto collasserà, o altri produttori finiranno i soldi, e la loro produzione collasserà. La domanda è: quale delle due cose accadrà per prima? Gli Stati Uniti stanno scommettendo che i prezzi del petrolio bassi distruggeranno i governi dei tre maggiori produttori che non sono sotto i loro controllo politico e/o militare. Questi sono il Venezuela, l’Iran e, naturalmente, la Russia. Questi sono tempi lunghi ma, non avendo altre carte da giocare, gli Stati Uniti sono disperati. Il Venezuela è un premio sufficiente? I precedenti tentativi di cambiare il regime in Venezuela sono falliti, perché questo dovrebbe avere successo? L’Iran ha imparato a sopravvivere nonostante le sanzioni occidentali e conserva collegamenti commerciali con Cina, Russia e parecchi altri paesi per lavorare intorno a loro. Nel caso della Russia, al momento non è chiaro quale frutto, se ce n’è uno, porteranno le politiche occidentali contro di lei. Per esempio, se la Grecia decide di optare per l’Unione Europea per aggirare le sanzioni di ritorsione della Russia contro la UE, allora diventerà poco chiaro che abbia veramente sanzionato chi. Naturalmente, rovesciare i governi di tutti e tre i petro-stati, distruggendoli economicamente, “privatizzando” le loro risorse petrolifere e prosciugandole gratuitamente usando lavoro straniero sarebbe il colpo in canna di cui hanno bisogno gli Stati Uniti. Ma, se avete seguito, sembra che gli Stati Uniti non ottengono sempre ciò che vogliono e ultimamente non ottengono nulla. Quale mossa di politica estera recente degli Stati Uniti ha davvero ripagato come avrebbe dovuto? Hmm…

Quindi, per ora, tutti i produttori stanno continuando a pompare a pieno regime. Alcuni hanno un cuscino finanziario per produrre in perdita e lo useranno per proteggere la loro quota di mercato. Altri produttori hanno già messo i soldi nella trivellazione dei pozzi ed hanno pagato un numero sufficiente di prestiti mentre il prezzo del petrolio era alto per continuare a produrre con profitto anche a prezzi più bassi. Infine, diversi produttori (con la Russia in testa) possono fare un piccolo profitto anche a 25-30 dollari al barile (se non fosse per tasse e tariffe). Ogni produttore ha ragioni leggermente diverse per continuare a pompare a pieno regime. Sono state dette molte cose su Stati Uniti ed Arabia Saudita che si sono messi d’accordo per guidare il prezzo del petrolio. Ma la teoria della collusione può essere fatta a fetta col rasoio di Occam, visto che da loro ci si aspetterebbe esattamente lo stesso comportamento anche senza collusione. Gli Stati Uniti stanno facendo un tentativo disperato di rovesciare un petro-stato, o due, o tre, prima di finire il proprio petrolio di scisto, insieme ai canadesi le cui sabbie bituminose ora sono non redditizie, approfittando dei collegamenti, perché se questo tentativo non funziona, allora si spegne la luce sull’impero. Ma nessuna delle recenti scommesse ha funzionato. Questo è l’inverno del malcontento imperiale e l’impero è stato ridotto a mettere in piedi piccole acrobazie patetiche che sarebbero molto divertenti se non fossero anche sinistre e tristi. Prendete, per esempio, le parole pronunciate recentemente a Berlino dal primo ministro ucraino Yatsenyuk manovrato dal Dipartimento di stato degli Stati Uniti: risulta che l’URRS ha invaso la Germania Nazista, non il contrario!

Stiamo arrivando al 70° anniversario della vittoria sovietica sulla Germania nazista, quindi non c’è momento migliore per fare – ma cosa esattamente? I russi sono confusi. Ma i tedeschi hanno accolto questo urlatore e se ne sono stati zitti, quindi segna un punto per l’impero! O prendete le operazioni psicologiche di Charlie Hebdo a Parigi, che, per chi non avesse fatto attenzione, ricorda stranamente la bomba alla Maratona di Boston di due anni fa. Boston non si è ancora sbarazzata di tutti gli adesivi idioti “Boston strong” (no, Boston non è stata distrutta da qualche sparapetardi e da qualche attore amputato che ha fatto scoppiare sacchetti di sangue finto per far finta che gli avessero fatto saltare una gamba). Ed ora Parigi tappezzata da adesivi stranamente simili di “Io sono Charlie”. Uccidere un pugno di innocenti è, naturalmente, una procedura standard: poche atrocità reali aiutano a rendere la versione della “teoria della cospirazione” degli eventi impensabile per chiunque sia sotto il controllo mentale dell’impero perché, capite “loro sono quelli bravi” e “quelli bravi” non fanno queste cose. Ma quel controllo mentale sta scivolando via e anche qualche leader nazionale – come il turco Erdogan – ha dichiarato pubblicamente che l’evento è stato una messa in scena. Analogamente, i supposti responsabili sono stati giustiziati sommariamente dalla polizia prima che chiunque potesse scoprire qualcosa su di loro. E’ diventato piuttosto chiaro adesso che tali eventi sono stati inventati dallo stesso gruppetto di mercenari non troppo creativi. Sembra che stiano riciclando i PowerPoint: cancella Boston; inserisci Parigi. Ma i francesi hanno difeso il loro diritto di insultare musulmani (e cristiani) con impunità (ma questi diritti è sicuro che verranno sottratti quando nessuno guarda) – ma non gli ebrei o i gay, badate bene, perché questo vi porterà ad una pena detentiva. Segna un altro punto per l’impero!

O prendete l’abbattimento del volo Malaysia MH17 sull’Ucraina Orientale all’inizio dello scorso anno. I pubblici ufficiali occidentali e la stampa hanno istantaneamente dato la colpa ai “ribelli sostenuti da Putin” dell’abbattimento. Quando i risultati dell’investigazione seguente hanno portato ad una conclusione diversa, sono stati segretati. Ma ora i russi hanno un disertore ucraino sotto protezione come testimone che ha identificato il pilota ucraino che ha abbattuto l’aereo, usando un missile aria-aria sparato da un caccia. Visto che i ribelli non hanno aviazione, un missile aria-aria era un ordigno inusuale per gli ucraini ed è stato caricato per questa occasione. Quindi sappiamo chi, come e perché. La sola domanda che rimane è: per conto di chi? Le scommesse sono che sia stato ordinato da Washington. Questa è stata una grande notizia per la Russia, ma i media occidentali si hanno censurato la storia della sua esistenza e, ogni qualvolta viene nominato l’argomento, continuano a ripetere il mantra “E’ stato Putin”, così… segna un altro punto per l’impero!

Ma un gruppo di persone illuse che borbottano fra loro in un angolino oscuro, mentre il resto del mondo li indica e ride, non fanno un impero. Con questi livelli di prestazione, mi azzarderei a prevedere che niente di ciò che l’impero sperimenterà da qui funzionerà. L’Arabia Saudita in generale è scontenta degli stati Uniti, perché hanno fallito nel loro compito di poliziotti di quartiere e in generale di mantenere un coperchio sulle cose. L’Afghanistan si sta trasformando nel Talebanistan, l’Iraq ha ceduto territorio all’ISIS ed ora controlla solo il teritorio dei regni dell’età del bronzo di Accadia e Sumer. La Libia è in stato di guerra civile, l’Egitto è stato “democraticizzato” in dittatura militare, la Turchia (un membro della NATO e candidato membro della UE) ora sta commerciando principalmente con la Russia, la missione di rovesciare la Siria di Assad è nel caos, i “partner” degli Stati Uniti in Yemen sono stati appena rovesciati dalle milizie Sciite ed ora c’è l’ISIS, inizialmente organizzato e addestrato dagli Stati Uniti, che minaccia di distruggere la Casa di Saud. Aggiungete a questo che la joint venture Stati Uniti-Arabia Saudita per destabilizzare la Russia fomentando il terrorismo nel Caucaso Settentrionale è del tutto fallito. Non è riuscita ad organizzare una singola azione terroristica per interrompere le Olimpiadi di Sochi. (Il principe dell’Arabia Saudita Bandar bin Sultan ha perso il suo lavoro con quel fiasco). E quindi i sauditi stanno pompando a pieno regime non tanto per aiutare gli Stati Uniti quanto per altre e più ovvie ragioni: per far fuori i produttori a prezzi alti (Stati Uniti compresi) e mantenere la loro quota di mercato. Sono anche seduti su riserva di dollari statunitensi, che vogliono far fruttare finché valgono qualcosa.

La Russia pompa la quantità solita perché non c’è nessuna ragione per fermare e molte per continuare. La Russia è un produttore a basso prezzo e può aspettare gli Stati Uniti. Anche la Russia è seduta su una riserva di dollari, che potrebbero a loro volta essere usati finché valgono qualcosa. Il bene più grande della Russia non è il petrolio ma la pazienza della sua gente: capiscono che attraverseranno un periodo difficile mentre si azzufferanno per sostituire le importazioni (specialmente dall’occidente) con la produzione interna ed altre fonti. Possono permettersi una perdita, la recupereranno una volta che il prezzo del petrolio recupera. Perché recupererà. La soluzione dei prezzi del petrolio bassi è… i prezzi del petrolio bassi. Ad un certo punto i produttori con prezzi alti naturalmente smetteranno di produrre, la quantità in eccesso verrà bruciata e il prezzo recupererà. Non solo recupererà, ma probabilmente schizzerà in alto, perché un paese disseminato dei corpi delle società petrolifere fallite non è un paese che ha probabilità di tornare subito a produrre un sacco di petrolio mentre, dall’altra parte, oltre a pochi usi di combustibili fossili che sono voluttuari, la domanda è piuttosto inelastica. Ed un picco del prezzo del petrolio causerà un altro giro di distruzione della domanda, perché i consumatori, devastati dai fallimenti e dalla perdita di posti di lavoro dovuti al collasso del rattoppo petrolifero, falliranno presto a causa del prezzo più alto. E questo causerà ancora il collasso del prezzo del petrolio. E così via finché non muoia l’ultimo industriale. La causa della sua morte sarà elencata come “colpo di frusta”: la “sindrome dell’industriale scosso”, se volete. I prezzi del petrolio troppo alti/bassi in rapida successione gli avranno provocato la rottura dell’osso del collo. Alcuni artigiani raccoglieranno un po’ di petrolio da qualche vecchi pozzo che perde, lo raffineranno usando stoviglie di coccio scaldate con la legna e lo userà per alimentare un antico carro funebre che porterà l’ultimo industriale del pianeta al cimitero degli industriali.

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Anguille: un altro dirupo di Seneca

Da “Resource Crisis”. Traduzione di MR

Aggiungo a questo testo che queste “sandeels” (“cicerelli” in italiano) vengono pescate non per il consumo umano, ma come cibo per l’allevamento di pesci più pregiati, salmoni e cose del genere. L’allevamento viene spesso indicato come la soluzione a tutti i problemi di esaurimento degli stock ittici, ma questi dati fanno vedere come anche qui il problema esiste, viene soltanto spostato di una tacca più in su della catena alimentare (UB)

Di Ugo Bardi


Una volta che si inizia a cercare “dirupi di Seneca” nello sfruttamento di risorse naturali, li si trova in tutta la letteratura scientifica. Ecco la mia ultima scoperta di una curva di produzione in cui il declino è molto più rapido della crescita: le catture delle anguille chiamate “cicerelli”. Se non sapete cos’è un cicerello, eccone uno: 
Nel rapporto (2007), dove ho trovato la curva mostrata sopra, gli autori discutono le cause del collasso della pesca delle anguille, specialmente nell’ottica del cambiamento climatico. Non sembrano arrivare a nessuna conclusione definitiva e non usano il temuto termine “pesca eccessiva”. Ma dal fatto che è stata usata la pesca a strascico in questo tipo di pesca, deduco che sia chiaro che la riserva di pesce è stata distrutta in un processo analogo a quello che ha portato al collasso di tutta la pesca del Regno Unito. Più risorse sono state aggressivamente messe per cercare di mantenere la produzione, più la riserva di pesce è stata esaurita. Il risultato finale è stato il rapido collasso osservato.

Così, come in diversi altri casi, abbiamo un esempio classico del “Collasso di Seneca”, cioè una curva di produzione in cui il declino è molto più rapido della crescita. Sotto, potete vedere la curva di Seneca come mostrata in una simulazione effettuata con la dinamica dei sistemi che tiene conto dell’aumento della spesa di capitale nelle attrezzature di pesca (il modello è descritto qui).

Come ha detto Seneca, infatti, “la strada per la rovina è veloce”.

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Lo scorrere del tempo

Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR

Di Antonio Turiel

Cari lettori,

qualche giorno fa c’è stata una ricorrenza importante per me: sono passati 5 anni dalla mia prima conferenza divulgativa sul Picco del Petrolio. E’ stato di fronte al Dipartimento di Oceanografia Fisica dell’Istituto di Scienza del mare, il mio dipartimento nel mio istituto. Quel seminario è stato il culmine di un processo di diversi mesi nei quali, alla fine, mi ero messo a studiare in profondità il problema delle risorse naturali. Ricordo quei mesi  d’estate in cui stavo studiando per preparare il seminario e non riuscivo a credere quello che stavo scoprendo. Dato dopo dato, era sempre più chiaro che c’era una crisi energetica gravissima che stava cominciando a svilupparsi e che non c’erano soluzioni semplici per affrontarla. Che non si sarebbe una sostituzione rapida ed efficace delle vecchie energie fossili da parte di nessuna soluzione di quelle che allora si presumeva l’avrebbero sostituita, che fossero le rinnovabili o il nucleare. Per quanto lontana ed inverosimile mi sembrava tutto quanto, i dati erano lì. Da anni conoscevo (e mi preoccupava) il problema del picco del petrolio, anni in cui di tanto in tanto curiosavo fra le pagine di Crisis Energética e di altri siti web in inglese (Energy Bulletin, The Oil Drum), ma avevo sempre mantenuto una certa distanza, assumendo che il problema del petrolio sarebbe stato risolto da “coloro che sono al comando”. E’ stato in quei mesi che ho scoperto che nessuno è al comando o, forse anche peggio, che se non si provava una soluzione è perché non ce n’erano.

Conclusa la mia prima ricerca, essendo giunto a conclusioni che mi sembravano inesorabili, ho passato molti giorni con una sensazione di irrealtà (sensazione che ha iniziato a svanire soltanto, e molto gradualmente, quando ho cominciato a mettere in ordine le mie idee e a plasmarle per iscritto in questo blog), di futilità di tutto quello che aveva occupato il mio tempo fino a quel momento, di paura per i miei cari, di fine della civiltà… Cercavo disperatamente qualche notizia che confutasse tutti i dati che avevo letto e qualche giorno prima della mia conferenza al dipartimento – che ho tenuto con l’aiuto del mio collega Jordi Solé – sono stato ad una conferenza che Pedro Prieto ha casualmente ed opportunamente tenuto presso il Consorci del Far di Barcellona. Avevo ancora una lieve speranza che Pedro, che conoscevo per averlo letto in alcuni suoi articoli su Crisis Energética e di sapevo che era un grande studioso del tema energetico, avrebbe smontato i miei timori  facendo un bel resoconto dei grandi piani di sostituzione che mi erano sfuggiti. Ovviamente, è successo il contrario: Pedro ha confermato uno per uno i miei timori, ponendo l’accento sulle mie stesse conclusioni… Il giorno dopo ho preso la decisione di dedicarmi, perlomeno nel tempo libero, a fare divulgazione su questo tema tanto cruciale.

Cos’è cambiato in cinque anni?

Se potessimo guardare le cose sufficientemente in prospettiva vedremmo che ci sono stati moltissimi cambiamenti e molto radicali, ma facciamo fatica ad accettarlo, perché la nostra mente tende ad aggrapparsi a ciò che ha e non a ciò che può perdere. A livello locale, nel 2009 la disoccupazione in Spagna cominciava ad aumentare con forza, ma agli inizi di quell’anno era ancora al 14%, quasi dieci punti al di sotto di dove si trova ora (e potremmo stare peggio se l’emigrazione non stesse “alleviando” questo problema, anche se a costo di lasciare la Spagna più debole per il futuro). C’è stato un impoverimento generalizzato, una chiara diminuzione del reddito medio: stipendi congelati dei lavoratori pubblici e riduzioni di stipendio massicce attraverso il taglio dei tagli di più precari del settore privato e due terzi degli spagnoli soffrono di carenze in aspetti essenziali (secondo il rapporto FOESSA della Caritas). In questi anni si è parlato diverse volte di una possibile ripresa e dei problemi del debito pubblico. Le impropriamente chiamate “politiche di austerità” si sono trasformate in norma, generando molta disillusione, movimenti di protesta generalizzati (di cui il 15M è stato il loro esponente di punta) ed una rabbia crescente nei confronti della classe politica a delle istituzioni, sempre di più percepite come intrinsecamente corrotte, sempre più insultate perché la maggioranza crede che siano le cause della nostra disgrazia.  In Spagna il sentimento di rabbia cresce, senza che la ripresa promessa (che probabilmente sprofonderà nei prossimi mesi) riesca a calmare gli animi. E questo sta scatenando processi inimmaginabili cinque anni fa. Per esempio, 5 anni fa era impensabile che la Catalogna si separasse dalla Spagna, ora in questa comunità non c’è praticamente altro tema di discussione per le strade, nei giorni che precedono la consultazione, che non è una consultazione ma è una consultazione del 9 di novembre. La Catalogna ha optato di rigenerarsi attraverso il taglio a favore del sano, uscendo dalla povera e insultata Spagna, e lasciare che il resto marcisca. E quel resto ha optato per la propria vita rigenerativa, con uno spiegamento massiccio di elettori verso una nuova forza politica, Podemos, di orientamento progressista e martello dialettico (a volte con tono populista) della “casta politica”. L’irruzione di Podemos provoca sempre più inquietudine e sofferenza nei partiti tradizionali e in alcuni recenti sondaggi Podemos è diventato già la prima forza politica della Spagna per intenzioni di voto.

Ma se apriamo lo zoom e guardiamo l’Europa, ci renderemo conto che la Spagna non sta vivendo un fenomeno isolato. Nella vicina Francia si prevede che un movimento populista, in questo caso di tendenze di destra, potrebbe ottenere la prossima presidenza della repubblica; Italia e Grecia, legate nell’economia ed avendo sofferto, entrambe, di cambiamenti non molto dissimili da un colpo di stato; la Germania, che se la passa meglio ma che vede nuvoloni neri nel suo futuro… Se si guarda il fattore petrolio, siccome la domanda sta crollando in mezzo ad una crisi che non può finire mai, si capisce che la scarsità di energia, e in particolare di petrolio, probabilmente ha molto a che fare con quello che sta succedendo. La Germania è potuta ricorrere al carbone per diminuire il suo declino energetico, utilizzando in quantità la propria lignite, in un viaggio dal breve percorso e dal finale incerto. E tutti hanno dovuto affrontare la caduta, che in alcuni casi (Italia, Spagna e Portogallo) è stata semplicemente brutale.

Immagine da “Energy briefing: Global Crude oil demand & supply”, di Yardeni Research:http://www.yardeni.com/pub/globdemsup.pdf

Allargando di più l’obbiettivo e andando alle porte dell’Europa, possiamo vedere diverse guerre civili in questo momento: Ucraina, Libia, Siria, Egitto, ora l’Iraq… E se guardiamo infine il panorama globale, ci sono numerose fonti di preoccupazione in America Latina, Asia, Africa… Solo un pugno di paesi, che comprendono Stati Uniti e Cina, sono riusciti a venire a capo, con non poche difficoltà, al peggiore di questi danni, anche se in questo stesso momento in lontananza non si intravedono giorni di rose e fiori per questo gruppo eletto di paesi  (guardando per esempio il deterioramento delle prospettive economiche dei due paesi).

Per quanto sia stato drammatico il corso degli eventi durante l’ultimo lustro, non è stato così male come temevamo in molti di noi che ci siamo dedicati alla divulgazione della crisi energetica. Bisogna riconoscere che è emerso un freno imprevisto al crollo della produzione di petrolio, una risorsa che non consideravamo e che spiega la relativa stabilità dell’offerta di petrolio e del suo prezzo (anche se è stato alto) durante gli ultimi 5 anni: l’irruzione del fracking negli Stati Uniti. Grazie all’introduzione di questa tecnica su scala massiccia, prima nella ricerca di gas di scisto e poi per estrarre il molto più interessante e redditizio petrolio leggero di roccia compatta (Light Tight Oil), gli Stati Uniti sono riusciti ad invertire la tendenza al declino della loro produzione di petrolio, che stava già intorno ai 5 milioni di barili al giorno (Mb/g) ed aggiungervi in tempo record 3 Mb/g di LTO e condensati. E il Dipartimento per l’Energia sogna ancora che il prossimo anno gli Stati Uniti potrebbero raggiungere il loro massimo storico di produzione di petrolio greggio del 1970, che è stato di 10 Mb/g.

Nota per coloro che si sentano confusi perché hanno letto che gli stati Uniti superano già l’Arabia saudita nella produzione di petrolio: queste notizie si riferiscono a “tutti gli idrocarburi liquidi” o, come si dice a volte impropriamente,  “tutti i liquidi del petrolio”, il che include anche i biocombustibili  (che non apportano energia netta) e i liquidi del gas naturale (che possono sostituire il petrolio solo parzialmente).

Ma se una cosa non è cambiata negli ultimi 5 anni sono le strategie di negazione sul fatto che possa esistere un problema con l’energia. Continuiamo con le stesse sparate e tecno fantasie: continuiamo a parlare dell’energia nucleare (convenzionale, di quarta generazione, di fusione…) o dell’immenso futuro delle rinnovabili, con notizie ripetute fuori contesto ed esagerate che fanno pensare al lettore disinformato che sia prossima una rivoluzione energetica e che tutti i problemi si risolveranno presto… e siamo qui un lustro dopo, impantanati in problemi sociali ed economici crescenti e alla vigilia di una nuova ondata recessiva che nessuno vuole accettare che sia già qui. L’opzione nucleare ha perso di forza dopo il disastro di Fukushima e il progressivo abbandono del nucleare convenzionale in Europa. D’altra parte, tuttavia, sentiamo ancora canti di sirena che ci promettono di portarci nel paradiso rinnovabile. E’ vero che il governo spagnolo, questo e quello precedente, ha boicottato questa alternativa, ma non è meno sicuro che i nuovi sistemi di energia rinnovabile hanno molti limiti, poche volte riconosciuti (a cominciare dal fatto che non è l’elettricità che ci manca, ma quel 79% di energia finale non elettrica che è difficile da elettrificare. E nonostante questo, ogni volta che si parla di energia nei mezzi di comunicazione si insiste sul settore elettrico). L’unica rivoluzione energetica che è stata fatta realmente è quella del fracking ed è stato un costo disumano: con gli Stati Uniti che esportano inflazione nei paesi fornitori, sfruttando giacimenti dal rendimento economico, nonostante questo, più che incerto, incorrendo sempre di più in problemi economici… E tutto per cosa? Per portare alle 127 compagnie produttrici di gas e petrolio più grandi del mondo sull’orlo del fallimento che non si farà attendere a lungo, soprattutto ora che la domanda debole frutto della recessione nascente trascina i prezzi verso il basso. Abbiamo guadagnato qualche anno semplicemente per metterci in una situazione peggiore quando tutto scoppia, perché gli stati si vedranno obbligati a intervenire per salvare un sacco di imprese strategiche per il loro vincolo con l’energia. Ma qui continuano le strategie di negazione (l’ultima consiste nel dire che è l’Arabia saudita che sta aumentando la propria produzione per affossare i prezzi del petrolio e far fuori così il fracking americano, quando in realtà l’Arabia Saudita a settembre ha ridotto la sua produzione per contenere l’attuale emorragia dei prezzi).

Non solo le strategie di negazione della crisi energetica non sono cambiate negli ultimi 5 anni, nonostante i problemi sempre più gravi che ci affliggono. Si continua anche ad accusare noi che avvertiamo dei problemi e del fatto che non ci sono soluzioni facili di essere dei catastrofisti. Forse con maggiore virulenza e violenza verbale, ultimamente, quello sì. E, tuttavia, se nel 2009 avessimo raccontato che saremmo stati come stiamo in questo momento, ci avrebbero presi per pazzi indovini e ci avrebbero denigrati come irrimediabili catastrofisti. E, in realtà, siamo qui, nonostante tanti brindisi al Sole, nonostante tanti annunci fatti in questo lustro (come in tutti i precedenti) sul fatto che l’Eldorado energetico era alla nostra portata. Che contributo hanno dato, che contributo danno, coloro che definiscono la mera descrizione della nostra realtà come “catastrofismo”? Si potrebbe dire niente, ma non è vero. Tutta questa gente che reagisce con aggressività quando si parla della crisi energetica, questa gente che mi scrive adirata e con aria vanagloriosa, con un “Ah” in bocca ogni volta che legge una notizia in un quotidiano di un nuovo progresso che credono definitivo ma che non uscirà mai dal laboratorio o dai test preliminari. Tutta questa gente che crede con la fede del carbonaro nelle stesse stupidaggini e nelle nuove tecno fantasie che abbiamo visto negli ultimi 40 anni e che entro 5 anni verranno sostituite da altre allo stesso tempo uguali e nuove. Tutte queste persone che vanno avanti ingannate e cieche ad una realtà sgradevole, sognando un futuro “pieno di energia” mentre nel mondo reale il consumo energetico della Spagna crolla… tutte queste persone insomma, senza volerlo ovviamente, stanno facendo un danno terribile e stanno mettendo in pericolo il nostro futuro. Poiché il tempo di prendere decisioni, in modo adulto, valutando correttamente la situazione sia che piaccia sia che non piaccia, è adesso. I veri catastrofisti non siamo noi che denunciamo un sistema distruttivo che si sta disintegrando e sta facendo soffrire tanta gente, no. I veri catastrofisti sono coloro che si rifiutano di guardare la realtà in faccia; i veri catastrofisti sono coloro che rifiutano che ci possa essere un cambiamento e preferiscono continuare in questa disgrazia e approfondirla; i veri catastrofisti sono coloro ai quali costa meno immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo e che di fatto credono che le cose si equivalgono quando in realtà non è così, quando in realtà ci può essere un futuro brillante per l’Umanità se decide di smettere di fare l’adolescente (tentando l’impossibile crescita senza limiti in un pianeta finito) e di abbracciare una serena maturità. Accusano noi che parliamo come adulti di essere catastrofisti quando sono loro che ci trascinano verso una catastrofe perfettamente evitabile, semplicemente perché non vogliono immaginare altre possibilità e soprattutto se la sognano.

Sono anche passati 5 anni da quando la missione europea SMOS decollava da una base russa. Era il primo satellite capace di misurare la salinità superficiale dell’oceano dallo spazio. Questo lancio ha comportato un grande cambiamento nella mia vita, poiché la mia attività professionale si è andata progressivamente allineando con la gestione della nostra attività nella missione ed attualmente occupa una buona parte della mia giornata lavorativa. Una nuova realtà, quella della gestione di un gruppo di ricerca, che mi porta a dover viaggiare continuamente adempiendo a impegni e cercando soldi per mantenere in piedi la mia squadra, un gruppo di persone molto capaci e competenti (e, soprattutto, persone buone) che hanno la sfortuna di avere un capo schizofrenico che durante il giorno mantiene una intensa attività “Bautomatica”, mentre la sera nei tempi morti degli aeroporti, scrive della fine della società industriale su questo blog.

In questi 5 anni anche la mia vita personale è cambiata molto. Allora avevo una figlia, ora anche un figlio. Durante questo lustro ho perso capelli e vista ma non molto peso, solo un po’ quando stavo per morire solo pochi mesi fa. Anche questo terribile evento ha cambiato la mia vita. Non scrivo più all’alba, non mangio più quando capita per rimanere sveglio e cerco di fare una vita più sana, solo un pizzico, solo una mollica. Con più frequenza mi viene da pensare cosa sarà della mia famiglia quando io non ci sarò più. A volte ho il sentore che a lungo andare posso solo mettermi nei guai (come le minacce di morte di un pazzo che ho dovuto sopportare fino a poco più di un anno fa e come le cose che senza dubbio stanno per arrivare in questi tempi turbolenti che già si intuiscono) e che non vale la pena continuare per quel poco o niente che otterremo. Ma mi dico anche, sono ancora vivo.

Cosa succederà nei prossimi 5 anni? Non lo so. E’ difficile da sapere. Molte delle strategie della fuga in avanti che sono state intraprese negli ultimi anni sembra che stiano giungendo alla loro fine, senza aver migliorato la situazione globale e in molti casi avendola peggiorata, avendo creato più stress nel sistema e rendendo più probabile una caduta precipitosa e disordinata. 5 anni fa credevo che saremmo stati peggio di quanto stiamo in realtà. Oggi credo che in 5 anni staremo in una situazione francamente nefasta, spero di sbagliarmi. In realtà, dove arriveremo dipende solo da noi. E’ sempre stato così.

Saluti.
AMT

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Gli oceani si stanno scaldando sempre più in fretta

Da “The Guardian”. Traduzione di MR

Il NOAA ha dovuto riportare di nuovo in scala il suo grafico del calore oceanico per includervi il riscaldamento dell’oceano



Dati del contenuto di calore dell’oceano fino ad una profondità di 2.000 metri, dal NOAA.


Di John Abraham

Wow, questo è stato un brutto anno per coloro che negano la realtà e il significato del cambiamento climatico antropogenico. Naturalmente, c’è stata la recente raffica di rapporti sul fatto che le temperature di superficie avevano raggiunto i loro valori più alti mai registrati. Il record del 2014 è stato dichiarato per la prima volta su questo blog a dicembre e i risultati finali sono stati riportati a loro volta qui. Tutto ciò è successo in un anno che i negazionisti ci avevano detto non sarebbe stato molto caldo.

Ma quei negazionisti stanno passando un momento difficile ora mentre cercano una QUALSIASI prova sul pianeta che il cambiamento climatico non stia avvenendo. Il problema è che stanno calciando la palla fuori dai pali.

E proprio di recente è uscita l’informazione forse più importante sul 2014 – quanto si è veramente riscaldata la Terra. Ciò che troviamo è che il riscaldamento è così grande che il NOAA ha dovuto letteralmente rifare i suoi grafici. Lasciate un po’ che vi spieghi.

Tendiamo a concentrarci sulla temperatura globale media che è la media delle temperature dell’aria vicino alla superficie (del mare o della terraferma). Lo scorso anno, le temperature globali dell’aria sono state da record. Ma questo non definisce il riscaldamento globale. Il riscaldamento globale è opportunamente visto come la quantità di calore contenuto all’interno de sistema energetico terrestre. Così, le temperature dell’aria potrebbero salire e scendere in ogni particolare anno mentre l’energia si sposta verso o dall’aria (principalmente dall’oceano). Ciò che vogliamo veramente sapere è: l’energia della Terra è salita o scesa?

Il trucco per rispondere a questa domanda è misurare il cambiamento di energia negli oceani. Un’esame approfondito dei metodi di misurazione del calore dell’oceano si trova qui; abbiamo pagato la tassa necessaria per rendere accessibile il saggio. Tutti possono scaricarlo e leggerlo. Quindi, cosa mostrano i nuovi dati? Be’ risulta che l’energia immagazzinata nell’oceano (che costituisce il 90% o più del calore totale del “riscaldamento globale”) è aumentata significativamente. Sopra è mostrato un grafico del NOAA. Si può vedere che l’ultima parte dei dati è letteralmente fuori dal grafico. La gente del NOAA fanno un gran lavoro nell’aggiornare questo grafico ogni tre mesi circa. Ora possiamo dire che nel 2014 la Terra ha avuto più calore (energia termica) di qualsiasi altro anno registrato dagli esseri umani.

Possiamo anche dire che quelli del NOAA dovranno probabilmente riportare in scala il loro grafico per includere nuovi dati. Il sito del NOAA viene aggiornato dal dottor Tim Boyer si può trovare qui. Cliccate sulla seconda slide per vedere l’immagine rilevante.

Se le persone vogliono leggere una rassegna sul riscaldamento dell’oceano scritta per un pubblico generico, suggerisco il nostro recente saggio peer-reviewed che potete trovare qui. Quindi, quando guardiamo la 2014 e alle registrazioni riportate, ciò ci dà una pausa della cosiddetta pausa (h/t a Greg Laden per questa frase). Alcune persone hanno provato a raccontarci che il riscaldamento globale aveva avuto una “pausa”, che era finito  nel 1998 o che gli ultimi 15 anni circa non avevano visto un cambiamento nell’energia della Terra. Questi dati sul riscaldamento dell’oceano sono il più chiaro chiodo nella bara. Non c’è mai stata una pausa nel riscaldamento globale, non c’è mai stato uno stop e le persone che hanno cercato di raccontarci che c’è stata sono state… be’, lascio decidere voi. Per me, i fatti parlano da soli.

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Il ruolo dei collassi sociali nei cicli storici (I)

Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR

Di Antonio Turiel

Cari lettori,

qualche settimana fa Luis González Reyes ha offerto di pubblicare un estratto del libro “Nella spirale dell’energia”, opera congiunta di Luis e dello scomparso Ramón Fernández Durán. Dato l’interesse di questa opera (che potete acquistare, per esempio, nel sito di Ecologistas en Acción – potete anche leggerne il testo completo qui), mi è sembrata un’idea stupenda. In questo post e nel seguente pubblicheremo estratti di un tema che è sempre più pertinente: il collasso sociale (corrispondono al paragrafo 9.1 del libro. Sono sicuro che sarà di vostro interesse.

Saluti.
AMT

Il ruolo dei collassi sociali nei cicli storici 

[…]

Il ruolo dei collassi nei sistemi complessi

Un sistema complesso potrebbe definirsi come un sistema che ha parti molteplici interconnesse ed organizzate fra loro. Più sono e più diverse sono le connessioni, maggiore è la complessità. Così, le società con più persone interconnesse attraverso reti di comunicazione, di istituzioni e del sistema economico sono più complesse: lo sono anche quelle che hanno gradi più elevati di specializzazione sociale e diversità culturale. I sistemi complessi, la auto-organizzazione, nascono spontaneamente (Johnson, 2003). Si producono “strutture dissipative” che captano energia, e la maggior parte delle volte anche materia, per sostenerne l’ordine. Senza questa captazione continua di energia e materia, non sono in grado di mantenersi (Prigogine, 1993). I sistemi complessi sono a loro volta composti da sistemi complessi multipli in un’organizzazione di tipo frattale. E’ ciò che Holling (2001) ha denominato Panarchia. L’essere umano è un sistema complesso che ha altri sottosistemi complessi, come quello digestivo che, a sua volta, è composto da organi e questi da cellule, che sono a loro volta sistemi complessi. A livello superiore, l’essere umano è parte della società, che a sua volta si inscrive nel macro sistema della Terra. In questo modo, ci sono sistemi “superiori” ed “inferiori”. Ognuno dei livelli compie due funzioni. Da una parte dare stabilità al sistema. Per esempio, se un bosco brucia, il clima della regione fornisce le condizioni per la sua rigenerazione e il suolo fornisce i nutrienti. In questo lavoro di stabilizzazione il ruolo dei livelli macro è più importante. La seconda funzione è quella di generare innovazioni per l’adattamento ai continui cambiamenti. Qui sono i livelli inferiori che sono più attivi. In questo modo, i sistemi complessi sono anche sistemi con capacità di adattamento ai cambiamenti.

[…]

Una parte dell’adattamento continuo che caratterizza i sistemi complessi viene realizzata all’interno dello stesso stato di equilibrio dinamico, ma alcune delle perturbazioni lo possono portare a punti critici, a soglie, di biforcazione; verso nuovi stati. In questi punti sono gli elementi casuali e stocastici a governare. La transizione implica cambiamenti discontinui, non linearie rapidi, frutto di anelli di retroazione positiva che, al posto di riportare la perturbazione allo stato primigenio, la amplificano. Così, una volta superato il punto di biforcazione, è impossibile tornare indietro. Vale a dire che nei sistemi complessi ci sono delle irreversibilità. Un esempio è costituito dai cambiamenti del metabolismo che abbiamo visto (alimentari, agricoli, industriali). In questi si è modificata la matrice culturale e la relazione dell’umanità con la natura. Nelle transizioni ci sono state soglie critiche nelle quali i cambiamenti, che agiscono attraverso dimensioni multiple (tecnologica, istituzionale, culturale) si sono rafforzati ed amplificati. Alla fine, la struttura del sistema socio-ecologico sì è stabilizzata in un altro stato, che ha continuato ad evolversi all’interno di alcuni parametri comuni. Il nuovo equilibrio si è irradiato gradualmente, dai centri dove si era coagulato, attraverso meccanismi multipli (conquista, commercio, migrazione), ma altri modelli hanno continuato a sopravvivere in luoghi fisicamente remoti e culturalmente isolati. Nella transizione fra stati distinti di equilibrio in un sistema complesso si possono differenziare varie fasi, dove lo schema più usuale è quello della figura 9.1, con una prima tappa di “decollo”, un’altra di “accelerazione” e un’ultima di “stabilizzazione”. Ma possono anche esistere altre traiettorie (Raskin e col., 2006; Fischer-Kowalski e col., 2012; Carpintero e Riechmann, 2013). Queste transizioni fra stati distinti di un sistema possono partire dal collasso di quella iniziale o dalla sua evoluzione qualitativa.

Figura 9.1: Fasi di una transizione nei sistemi complessi.

Una tendenza dell’evoluzione dei sistemi complessi è verso gradi crescenti di complessità. La storia della vita è quella dell’aumento della complessità, anche se questo è avvenuto con alti e bassi: non si è soltanto generata più diversità interconnessa, ma esseri più complessi. Inoltre gli esseri sociali, che hanno molta più capacità di elaborare informazioni che non quelli individuali, hanno avuto un grande successo evolutivo. Gli esseri umani ne sono un esempio e la loro espansione e controllo di tutti gli ecosistemi, un altro sono le formiche. Ciò non esclude che altri esseri meno complessi, come i batteri, non abbiano avuto a loro volta successo. La complessità aumenta come risposta alle sfide che il sistema si trova di fronte, è la sua strategia principale. Nel corso del libro abbiamo passato in rassegna alcune delle cause che hanno spinto le società umane verso gradi crescenti di complessità. Per esempio, abbiamo analizzato come le transizioni del metabolismo di alimentazione agrario e poi industriale sono stati la conseguenza di una fuga in avanti di fronte ad una situazione di crisi di accesso alle risorse, fra gli altri fattori. Questo incremento della complessità richiede un aumento dell’energia gestita.

La (quasi) inevitabilità dei collassi nei sistemi basati su una crescita continua della complessità

I sistemi complessi vanno perdendo resilienza quando fanno dei salti nei fattori che aumentano la loro complessità. Ci sono vari fattori che contribuiscono a questo: 1) Si adattano sempre meglio ad alcune condizioni concrete, il che risulta nella perdita di capacità di evoluzione. 2) Con un incremento della specializzazione diminuiscono i nodi generalisti, pertanto diminuisce anche la potenzialità di adattamento di fronte ai cambiamenti. 3) La loro alta efficienza fa sì che diminuiscano le loro necessità di innovazione e di diverse delle ridondanze multiple. Produce anche la massimizzazione dell’utilizzo delle risorse e la limitazione dello spazio di manovra di fronte agli imprevisti. 4) la maggiore connettività fa sì che gli impatti si propaghino meglio e colpiscano più parti del sistema. In contrapposizione, questa maggior connettività aumenta la resilienza per potenziare l’innovazione. Può arrivare un momento in cui il primo fattore pesi più del secondo. 5) Aumenta la captazione di materia ed energia per sostenere più nodi, più specializzati e più connessi (più complessità), anche se le risorse totali in un sistema chiuso come la Terra (o un ecosistema) non variano, il che incrementa la loro vulnerabilità. 6) A tutto ciò si somma la tendenza a lungo termine alla degenerazione della materia disponibile in un sistema chiuso come la Terra.

In ogni caso è necessario distinguere fra sistemi complessi nei quali non si produce una crescita continua nella captazione di materia ed energia e quelli in cui si produce. Il salto delle società di cacciatori raccoglitori a quelle agricole ha implicato un aumento della complessità e, pertanto, della captazione di energia. Ma le prime società agricole si sono stabilizzate in un nuovo equilibrio che non implicava una crescita del consumo. La stessa cosa si può dire di un bosco maturo. Entrambi i sistemi sono passati da uno stato stazionario all’altro. Questi equilibri sono più vulnerabili dei precedenti, ma non di “molto”. In contrapposizione, il passaggio a società dominatrici rette da Stati, specialmente al capitalismo e ancora di più al capitalismo dei fossili, hanno comportato un salto nel consumo energetico e materiale che, oltretutto, aveva bisogno di un incremento costante di questo consumo. I sistemi dominatori sono molto più vulnerabili, poiché, alle ragioni annotate nel paragrafo precedente, se ne sommano altre tre: 7) Tendono al superamento, a sopravvalutare le risorse disponibili. 8) La rete di relazioni è molto più concentrata su pochi nodi, quelli per acquisire il potere (grandi banche, città), in mod che il collasso di questi nodi si espande a tutto il sistema. Al contrario, nelle reti più orizzontali la resilienza è maggiore. 9) La crescita costante della complessità è soggetta alla legge dei rendimenti decrescenti.   Cos’è la legge dei rendimenti decrescenti? Consiste nel fatto che, all’inizio, gli incrementi della complessità presuppongono più benefici che costi (energetici, economic, materiali, di gestione dei rifiuti) (figura 9.2). Ma il continuo aumento di complessità porta, inevitabilmente, ad un punto dal quale gli aumenti cominciano a dare rendimenti calanti, poiché i costi per il sostentamento della complessità aumentano più rapidamente dei flussi di energia disponibili (Tainter, 2009).

Figura 9.2: Il ritorno marginale dell’incremento della complessità (Tainter, 2009) (pag. 119).

La legge dei ritorni decrescenti è apprezzabile nell’evoluzione delle società dominatrici. Un aspetto fondamentale di queste società è l’elaborazione di grandi quantità di informazioni, Quando la dimensione di un gruppo cresce, la comunicazione di informazioni lo rende più rapido, fino a che la capacità di gestirla raggiunge un massimo a partire dal quale si comincia a trasformare in rumore. Nel campo tecnologico abbiamo già nominato l’effetto di rimbalzo e i limiti dell’efficienza. Viviamo anche l’esempio dell’estrazione dei minerali e degli idrocarburi, e dell’agricoltura, che hanno richiesto sempre più energia investita. Il fenomeno appare anche analizzando il comportamento del capitalismo nei cicli sistemici di accumulo, nei quali i benefici decadono col tempo. Inoltre, un incremento costante della complessità implica anche un aumento dei rischi, facendo schizzare i costi di riparazione. Questo è chiaro per l’energia nucleare. La soluzione solita ai rendimenti decrescenti nella società dominatrice è stata, paradossalmente, più complessità e il peggioramento dei problemi. Di fronte alla diminuzione della produttività agricola si è investito nella sua intensificazione; contro la perdita di legittimità dello Stato, si è deciso di spendere più risorse per consolidarla; la finanziarizzazione dell’economia è una risposta a un rendimento minore dell’economia produttiva. Torniamo alla perdita di resilienza. Come conseguenza di questo processo, arriva un momento in cui il sistema si fa talmente poco flessibile che persino delle piccole perturbazioni sono in grado di farlo evolvere oltre il punto di biforcazione, generando una nuova struttura. Questa transizione si può produrre come 1) salto in avanti, 2) crisi o 3) collasso.

Il salto in avanti richiede un aumento del flusso di energia. Di solito lo si è ottenuto mediante la conquista o il controllo di più territori, l’accesso a nuove fonti energetiche e/o con nuovi sviluppi tecnologici. Perché si rivelasse possibile, sono serviti requisiti fisici, ma anche sociali, come le strutture e i parametri culturali favorevoli al cambiamento. Il salto in avanti non comporta sempre un nuovo stato del sistema, molte volte è solo un’evoluzione. In altre occasioni lo è, come è stato per la Rivoluzione Industriale. Se il sistema continua a crescere in complessità, questa è sempre stata una soluzione temporanea con un brutto finale, come esemplificano l’Impero Romano, quello Spagnolo e, a breve, quello degli Stati Uniti. La situazione si può risolvere mediante una crisi che riduca un po la complessità sociale. E’ l’opzione più comune nei sistemi in stato stazionario. Nei sistemi in cui la complessità cresce in modo continuo, le crisi distruggono parte della struttura ponendo i costi del proprio mantenimento su livelli sostenibili. Inoltre, una parte sostanziale del capitalismo fisico si ricicla in un nuovo periodo di espansione. Sarebbe il caso delle “distruzioni creative” del capitalismo. Le crisi non sono, generalmente, punti di biforcazione nei quali il sistema si evolve verso una nuova organizzazione, ma meccanismi per sostenere la struttura stessa.

Prima o dopo, se il sistema non si è evoluto verso uno stato stazionario, l’unica alternativa che gli rimane è il collasso. Parlando di collasso di una struttura sociale ci riferiamo alla drastica diminuzione della complessità a livello politico, economico e sociale in modo relativamente rapido e in maniera che sorga una struttura radicalmente distinta da quella precedente. Il collasso non è un cambiamento di regime, non è l’occupazione di una potenza da parte di un’altra e non è nemmeno una crisi. In una società dominatrice, il collasso sarebbe segnato da una diminuzione in: stratificazione e differenziazione sociale, specializzazione del lavoro (tanto di classe quanto territoriale), centralizzazione del potere, del controllo dell’investimento in architettura monumentale e in arte, scambio di informazioni, commercio e coordinamento sociale. Come si può notare, non tutti gli indicatori del collasso di questa civiltà sono socialmente negativi. Un’altra cosa è come sia il processo. Riassumendo, il collasso è un’uscita dalla recente insostenibilità sistemica, poiché la perdita di complessità riduce i costi. Le infrastrutture, le istituzioni, i centri del sapere, ecc. che non possono essere mantenuti, vengono semplicemente abbandonati e, nel migliore dei casi, servono ad alimentare i nuovi sistemi che emergono. Pertanto le cause ultime dei collassi sociali non sono perturbazioni climatiche o crisi economiche, ma l’aumento della vulnerabilità che precede questi fatti. Al centro dei fattori che aumentano questa vulnerabilità c’è l’interazione fra la popolazione (la sua dimensione, ma soprattutto il consumo della élite e la tecnologia che usa) e le risorse (la loro disponibilità e qualità, senza dimenticare i rifiuti che generano). Ma il fatto che l’eccessivo sfruttamento dell’ambiente sia stato al centro del collasso di molte società dominatrici non significa che sia stato il motore unico: anche la rigidità sociale ha svolto un ruolo fondamentale (incapacità di cambiamenti culturali, popolazioni altamente urbanizzate, alta specializzazione sociale) e istituzionale (Stati “troppo” forti, grandi disuguaglianze sancite per legge), o la connettività “eccessiva” dei nodi che ha reso sistemiche le crisi di parti del tutto.

Il salto in avanti e il collasso implicano inevitabilmente una riorganizzazione del sistema. La struttura risultante può trovarsi in stato stazionario o tendere all’aumento della propria complessità. Un sistema sociale in stato stazionario può evolversi verso un altro. Alcuni esempi sono il passaggio dalle società di cacciatori raccoglitori alle prime società agricole, Papúa o El Sahel. E’ anche possibile che un sistema con tendenza alla crescita come le società dominatrici realizzi questa transizione. Questo è stato in parte il caso delle popolazioni chumash della California. Anche se questa opzione praticamente non si è verificata nelle società dominatrici. Una volta raggiunto lo stato stazionario, il sistema si deve dotare di meccanismi per i quali la complessità sociale non aumenti. Questa è una delle cose che si ottenevano coi potlatch, nei quali si consumavano le eccedenze senza che si dovesse progettare dei meccanismo per la loro gestione. Naturalmente, il risultato può anche essere un sistema che cresca in complessità in modo costante, come è avvenuto con il salto verso le società dominatrici, o è stata la conclusione della grande maggioranza dei collassi, salti in avanti e crisi al loro interno.

La storia come successione ciclica

In questo modo, i collassi, i salti in avanti e le crisi fanno parte dell’evoluzione dei sistemi complessi. Partendo da idee complementari di diverse/i autrici/tori (Prigogine, 1993; Lewin, 1995; Holling, 2001; Odum e Odum, 2001; Homer-Dixon, 2008; Mazur, 2013) segnaliamo 4 fasi-prototipo quando si verifica il collasso (alle quali non tutti i sistemi si adattano): 1) Collasso. La resilienza aumenta. Sottolineiamo che collasso non è sinonimo di apocalisse, ma di perdita di complessità. 2) Riorganizzazione. La resilienza è alta in conseguenza di un aumento della semplicità (ci sono meno connessioni che trasmettano i problemi a tutti gli individui) e della non specificità (si perde la specializzazione dei nodi). L’innovazione e la potenzialità di cambiamento diventano massime con l’apparire di nuovi nodi e nuovi modi di collegarli. In loro la complessità ricomincia a crescere. Le risorse, che erano stata sfruttate eccessivamente prima del collasso, recuperano lentamente. Per esempio, il cristianesimo o il buddhismo, come nuove cosmovisioni, sono sorti e si sono espansi in contesti di collasso delle istituzioni romana e, in parte, cinese. O i collassi di biodiversità sono stati seguiti da periodi di esplosione di forme di vita. 3) Crescita. Svilupo delle innovazioni di successo, mentre se ne scartano altre. 4) Consolidamento o climax. Il sistema si trasforma in specialistico, così come i suoi nodi. Potenza e connettività massime, ma resilienza bassa. Se succede una crisi, si passerebbe alla tappa 4 alla tappa 3, senza necessità di un collasso intermedio. Nel caso di un salto in avanti si passerebbe dalla 4 alla 2, ma in questa ultima fase la riorganizzazione non comporterebbe una diminuzione della complessità, ma tutto il contrario.

I collassi, le crisi e i salti in avanti, con le loro tappe distinte, si succedono gli uni dopo gli altri. Ciò significa una visione ciclica della vita e della storia. Ma non tornano ad accadere gli stessi fatti nello stesso ordine. Ogni nuovo tappa è unica, i tempi e l’organizzazione che si generano fra loro ugualmente unici. Come abbiamo detto, il ciclo somiglierebbe più ad una grande spirale che ad un cerchio. Così, il collasso dell’Impero romano d’Occidente è stato seguito da un processo di riorganizzazione e nuovo accumulo di complessità durante il Medioevo europeo. Da lì sarebbe sorto il capitalismo agrario, che sarebbe stato in grado di salvare due crisi, rappresentate dai periodi di caos sistemico fra le egemonie ispano-genovese ed olandese e fa quest’ultima e quella britannica. In seguito il capitalismo dei fossili ha realizzato un salto in avanti. Che ora sta entrando in un nuovo collasso. Tutti i sistemi complessi inglobati nella Panarchia seguono gli stessi cicli. Nei più piccoli, la velocità con la quale avvengono è alta e, quanto è più grande il sistema, più si distanziano i collassi (Holling, 2001). Inoltre, nei sistemi in stato stazionario, i collassi sono rari e le crisi sono i meccanismi prediletti di recupero della resilienza. In contrapposizione, quelli che tendono ad aumentare in modo sostenuto la complessità, subiscono più collassi e salti in avanti (quando possono).

Condizioni che determinano la profondità dei collassi

Una volta che il collasso del sistema complesso comincia, si attivano una serie di anelli di retroazione positiva che accelerano il processo e impediscono il ritorno. E’ la cosa che abbiamo già analizzato per il sistema climatico. O, detto in un altro modo, un’entità complessa cade in modo complesso, e questo processo non può essere controllato. La diminuzione della complessità che comporta il collasso si può produrre in gradi distinti. Può essere relativamente piccola e con una riorganizzazione successiva facile e rapida: o profonda, il che comporterebbe un recupero molto più lento e difficile giungendo a forme organizzative potenzialmente molto distinte da quelle precedenti. Questa profondità del collasso è in funzione de fattori distinti: 1) Il tempo necessario al tentativo di ricomporre il sistema. Quanto più si tarda, più profondo sarà il collasso e si raggiungeranno maggiori situazioni di irreversibilità. 2) Il grado di eccesso che abbia raggiunto il sistema. Come abbiamo visto, questa è una tendenza dei sistemi che aumentano costantemente la loro complessità. Se l’eccesso è alto, si può giungere a ciò che Greer (2005, 2008) chiama “collasso catabolico”, nel quale la perdita di complessità dev’essere molto grande per tornare a bilanciare costi e benefici (figura 9.2). In alcuni casi, i costi si abbassano lentamente (per esempio, perché si doveva ipotizzare il mantenimento di molte infrastrutture) e i benefici tardano a recuperare (perché le vecchie conoscenza non servono più o sono andate perdute, per cui non si possono rendere di nuovo redditizie, o perché il degrado ambientale è stato molto profondo). Dopo una diminuzione della complessità, il sistema continua ad avere alcuni costi di mantenimento (economici, materiali, energetici) insostenibili, per cui si rende inevitabile una maggiore riduzione e così via. In altre occasioni, la distruzione delle fonti di energia o di ricchezza è più rapida di quella della complessità, forzando una riduzione grande e sostenuta di quest’ultima. 3) La sovrapposizione di diversi livelli di complessità. Quando la massima vulnerabilità dei cicli di livelli distinti si sovrappone (i livelli “superiori” e “inferiori” sono in fase di consolidamento o climax). In questa situazione, il collasso di uno si può trasmettere al resto e far si che il fallimento sia molto più profondo, poiché alcuni cicli ne rialimentano altri (Holling, 2001; WEF, 2014). Crediamo che la cosa più probabile sia che il collasso della civiltà attuale sia molto profondo, comportando una ristrutturazione sociale forte e indeterminata.

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Ancora Seneca: il collasso dell’industria ittica del Regno Unito

Da “Resource Crisis”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi

Immagine da un articolo di Thurstan, Brockington e Roberts. Descrive il ciclo dell’industria ittica del Regno Unito, che è collassata a causa della pesca eccessiva alla fine degli anni 70.
I due grafici sopra (da un articolo di Thurstan et al. Del 2010) parlano da soli. Abbiamo qui un esempio dalla vita reale dell’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali, cioè, della tendenza delle persone a distruggere le proprie fonti di ricchezza. Altri esempi classici si possono trovare nell’industria delle balene del 19° secolo e nella pesca al merluzzo canadese.

L’eccessivo sfruttamento delle risorse genera tipicamente la “curva di Hubbert”, il nome dato al ciclo di produzione a forma di campana molto famoso per il caso del petrolio, ma che riguarda tutte le risorse che possono essere sfruttate più velocemente di quanto si possano riformare attraverso processi naturali. Il comportamento può essere spiegato mediante modelli matematici ma, qualitativamente, è il risultato della diminuzione dei profitti causati dalle riserve di risorse decrescenti. Sul lungo periodo, i profitti più bassi scoraggiano gli investimenti e il risultato è un declino generale della produzione. Un caso particolare di questo meccanismo è quando l’industria inizialmente reagisce ai ritorni decrescenti aumentando aggressivamente la quantità di capitale investito. In questo caso, le riserve di risorsa vengono esaurite molto rapidamente e il risultato è un collasso del tasso di produzione. Abbiamo ancora una curva a campana, ma inclinata in avanti. Il rapido declino che avviene dopo il picco è ciò che ho chiamato “Dirupo di Seneca”.

Ci sono diversi esempi storici del dirupo di Seneca. Nel caso della pesca, è particolarmente evidente nel caso della pesca al merluzzo canadese e in quella dello storione del Mar Caspio, ma è evidente anche nel caso dell’industria ittica del Regno Unito. Osservate, nella figura sopra, il declino ripido delle catture dei tardi anni 70, è significativamente più inclinato della crescita della parte sinistra della curva. E’ questa l’essenza del meccanismo di Seneca. E possiamo vedere molto bene cosa lo causa: l’inizio del declino della produzione corrisponde ad una rapida crescita degli investimenti. Il risultato è l’aumento di ciò che gli autori del saggio chiamano “potere di pesca” – una stima dell’efficienza e della dimensione della flotta di pescherecci.

I risultati sono stati disastrosi, un esempio da manuale di come “tirare le leve nella direzione sbagliata”, cioè di un caso in cui il tentativo di risolvere un problema lo peggiora considerevolmente. In questo caso, più efficiente era la flotta di pescherecci, più rapidamente la riserva di pesce veniva distrutta. E’ il meccanismo classico per cadere dal dirupo di Seneca: più si è efficienti nello sfruttare risorse non rinnovabili (o lentamente rinnovabili), più velocemente le si esaurisce. E più rapidamente si finisce nei guai. 

Questo caso, come gli altri, è un disastro talmente sconcertante che ci si chiede come sia stato possibile. Come è potuto accadere che nessuno all’interno dell’industria ittica o nel governo si sia reso conto di cosa stesse accadendo? Nel loro articolo su questo tema, Thurstan e i suoi colleghi non commentano su questo punto, ma possiamo citare un articolo di Hamilton et al sulla pesca del merluzzo dell’atlantico canadese dove dicono “Alcuni dicono di avere visto il guaio in arrivo, ma si sono sentiti impotenti nel fermarlo”. Questa frase sembra descrivere non solo l’industria ittica, ma la nostra civiltà intera.

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…..oppure torniamo tutti a guardare il TG1?

“Effetto Risorse” sta avendo un notevole successo; con una crescita nel numero dei contatti a dir poco impressionante. Siamo oggi consistentemente a oltre 50.000 contatti al mese – e cresciamo ancora. Nelle varie classifiche dei blog, per quanto possano valere, siamo costantemente entro i primi 10-20 fra i blog scientifici italiani. Da notare anche che “Effetto Risorse” fa quasi il doppio dei contatti della sua versione in inglese (resource crisis), nonostante che il potenziale di un blog in inglese sia enormemente superiore.

Sono risultati quasi incredibili per un blog che non ha nessuna promozione professionale, nessun SEO, niente del genere. La cosa più importante, direi e che con il blog stiamo coprendo dei soggetti che quasi nessun altro blog copre; quindi credo che a parte i numeri, la qualità di quelli che ci seguono sia il vero valore dello sforzo che stiamo facendo.

D’altra parte, va anche detto che rimaniamo qualcosa di estemamente marginale nel panorama dell’informazione in Italia. Quindi, ci dovremmo domandare che cosa vogliamo fare di questi numeri e di questi risultati.

Dobbiamo espanderci in un progetto editoriale più articolato e più professionale? E se si, come? (e, soprattutto, con quali risorse finanziarie?)

Oppure, torniamo tutti a guardare il TG1?

Che ne pensate?

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‘E’ redditizio lasciare che il mondo vada all’inferno’

DaThe Guardian”. Traduzione di MR

Mentre i politici e i capi d’impresa si incontrano a Davos, l’esperto di clima Jørgen Randers sostiene che la democrazia continuerà ad ostacolare l’azione climatica



Aurora boreale ad Uttakleiv, Norvegia. Ad un piano per risolvere il problema climatico non è stato dato il via libera – ogni norvegese dovrebbe pagare 250€ di tasse in più all’anno per la prossima generazione, più o meno. Foto: David Clapp/Getty Images 

Quanto sareste depressi se aveste passato più di 40 anni ad avvertire di un’imminente catastrofe globale solo per essere continuamente ignorati anche se vedete il disastro dispiegarsi? Pensate quindi un attimo a Jørgen Randers, che nel lontano 1972 è stato coautore del lavoro seminale “I Limiti dello Sviluppo” (pdf), che ha sottolineato gli impatti devastanti della crescita esponenziale dell’economia e della popolazione su un pianeta dalle risorse finite. Mentre i politici e i capi d’impresa si incontrano a Davos per cercare di infondere nuova vita alla battaglia globale per affrontare il cambiamento climatico, farebbero bene ad ascoltare la preoccupante prospettiva di Randers. Il professore di strategia climatica alla Norwegian Business School è stato molto vicino a mollare i suoi sforzi per svegliarci rispetto ai nostri modi insostenibili e nel 2004 ha pubblicato un aggiornamento pessimistico del suo rapporto del 1972 mostrando che le previsioni fatte allora risultano essere molto precise. Ciò che non può sopportare è che i politici di tutte le convinzioni non abbiano agito anche mentre le prove del cambiamento climatico si stanno accumulando e di conseguenza ha perso fiducia nel fatto che il processo democratico possa gestire problemi complessi. In un saggio appena pubblicato nella rivista svedese Extrakt, scrive:

E’ conveniente posticipare l’azione climatica globale. E’ redditizio lasciare che il mondo vada all’inferno. Credo che la tirannia del breve termine prevarrà nei prossimi decenni. Di conseguenza, diversi problemi a lungo termine non saranno risolti, anche se potrebbero essere risolti, anche se causano difficoltà gradualmente in aumento a tutti gli elettori.


Randers dice che la ragione dell’inazione è che non ci sarà un beneficio osservabile limitato durante i primi 20 anni di qualsiasi sacrificio fiscale, anche se regolamenti più duri e tasse garantiranno un clima migliore per i nostri figli e nipoti. Randers ne ha un’esperienza personale, essendo stato presidente di una commissione in Norvegia che nel 2006 ha elaborato un piano in 15 punti per risolvere il problema climatico se ogni norvegese fosse stato disponibile a pagare 250€ di tasse in più all’anno infavore della prossima generazione, più o meno. Se il piano fosse stato approvato, avrebbe permesso al paese di tagliare le proprie emissioni di gas serra di due terzi entro il 2050 e fornire un caso di studio dal quale gli altri paesi ricchi avrebbero potuto imparare. Randers dice:

Secondo me, il costo era ridicolmente basso, equivalente ad un aumento degli introiti dalle tasse dal 36 al 37%, dato che questo piano avrebbe eliminato la minaccia più grave al mondo ricco di questo secolo. 

Nonostante ciò, una grande maggioranza di norvegesi era contro questo sacrificio. Ad essere franco, gran parte degli elettori ha preferito usare i soldi per altre cause – come un altro viaggio del fine settimana a Londra o in Svezia per fare shopping. 

Quando si tratta di più regole o tasse più alte, Randers dice che gli elettori tendono alla rivolta e, di conseguenza, i politici continueranno a rifiutare di intraprendere passi coraggiosi per paura di essere sbattuti fuori alle elezioni successive. “Il sistema capitalistico non aiuta”, dice Randers. “Il capitalismo è accuratamente progettato per distribuire capitale ai progetti più redditizi. E ciò è esattamente ciò di cui non abbiamo bisogno oggi. Abbiamo bisogno di investire in energia eolica e solare più costose, non in carbone e gas economici. Il mercato capitalistico non farà questo da solo. Ha bisogno di condizioni diverse – prezzi alternativi o nuove regole”. Una soluzione ovvia è mettere un prezzo sul carbonio di modo che le società siano costrette a internalizzare i costi esterni delle emissioni di CO2 ma, nonostante molte società progressiste chiedano una tassa del genere, Randers dice che gli elettori saranno riluttanti a pagare di più. Gli ottimisti che credono che questo stallo finirà una volta che diventerà redditizio risolvere il problema climatico devono aspettare molto a lungo, secondo Randers.

“Costerà sempre di più produrre energia pulita dal carbone che produrre energia sporca dal carbone come facciamo oggi”, dice. “Costerà sempre raccogliere il CO2 emesso dalla combustione del carbone. E la società globale brucerà carbone per molto tempo, a meno che non si faccia qualcosa di drastico”. Di fronte ad una tale insolubile opposizione, cosa possiamo fare? Randers dice che il primo passo è quello di comunicare efficacemente ai cittadini che la visione a breve termine rappresenta una vera minaccia alla sostenibilità della società democratica. Secondo, dovremmo discutere dell’uso di tassi di sconto bassi nelle analisi pubbliche di costo-beneficio ed incoraggiare l’uso del buon senso piuttosto che le analisi quantitative quando decidiamo di fare investimenti a lungo termine. Un modo sarebbe quello di mettere da parte una percentuale del flusso di investimento della società per scopi a lungo termine, in modo analogo al bilancio militare. Un altro cambiamento sensibile, sostiene Randers, sarebbe prolungare il mandato elettorale per dare ai politici il tempo di implementare misure impopolari prima che perdano le elezioni successive e per garantire che tutti i lavoratori ricevano un salario adeguato dopo che i loro “lavori sporchi” siano stati chiusi e non avranno nuovi lavori “puliti”. Randers dice:

Queste cinque soluzioni sono state proposte tutte e tristemente rifiutate da una maggioranza democratica, così come la più ovvia sesta soluzione, che è quella di re-instaurare dittature illuminate per un limitato periodo in aree cruciali, come hanno fatto i Romani quando la città era minacciata e che è la soluzione attualmente perseguita dal Partito Comunista Cinese, con un successo ovvio nelle aree di povertà/energia/clima. Ma sono d’accordo che la soluzione ovvia di governi forti appare irrealistica nell’occidente democratico. 

Dato che Randers crede che queste proposte falliranno, cosa suggerisce? Piuttosto che essere idealisti, Randers dice che dobbiamo promuovere politiche che offrano soluzioni a lungo termine e benefici a breve termine. Fa l’esempio dell’auto elettrica di Tesla, che offre vantaggi a breve termine superiori che compensano il prezzo alto. Sottolinea anche che l’introduzione di enormi sussidi in Germania per coloro che erano disponibili ad installare pannelli solari sui loro tetti o parchi eolici nel loro campi, anche se Randers indica la fine del sistema dopo molti anni perché agli elettori non piacevano le tasse supplementari. Per molti decenni, Randers ha rifiutato di addolcire la pillola amara del cambiamento climatico e non comincerà adesso. Alcuni ritengono che il suo pessimismo appartiene al passato e sostengono che stiamo transitando ad una nuova era di azione climatica globale. Ma si sbaglierebbero se ignorassero gli avvertimenti di un anziano che ha sopportato le sue ferite con onore e dignità e che continua a dedicare la sua energia a risolvere le più grandi sfide che affronta l’umanità.

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Barile a 50 dollari: rischio di recessione per il settore petrolifero

L’articolo che segue è di solo due settimane fa. Ora, i prezzi sono scesi addirittura intorno ai 45 dollari al barile. (UB)
 

DaOil Man”. Traduzione di MR

Di Matthieu Auzanneau

Esistono le gare di fondo. Questa è una gara verso il fondo. I prezzi del petrolio cadono a 50 dollari questa settimana, come mai visto dai giorni successivi alla crisi del 2008. Tanto vertiginosa quanto inaspettata, la caduta del prezzo dell’oro nero ha ormai raggiunto il 55% dall’inizio di giugno.

E’ la prova di un ritorno duraturo dell’abbondanza petrolifera? Non corriamo troppo.

Conseguenza del boom del petrolio “di scisto” negli Stati Uniti e della fragilità della crescita economica mondiale, questo contro-shock petrolifero sta per mettere a nudo i re del petrolio. Da Ovest a Est, da Nord a Sud, tutti i produttori petroliferi del mondo, grandi e piccoli, oggigiorno pompano il greggio a rotta di collo al fine di salvaguardare un po’ il loro giro d’affari, con la speranza che la concorrenza crepi prima. Di fronte a difficoltà economiche molto gravi, la Russia di Putin, oggi prima produttrice mondiale di oro nero davanti all’Arabia Saudita, ha ampiamente contribuito a rilanciare il giro infernale in questo inizio d’anno, annunciando una produzione record per il mese di dicembre (anche se Mosca l’estate scorsa lasciava intendere che le estrazioni russe dovrebbero diminuire nel 2015, mancanza di investimenti sufficienti…). I prezzi non sono in procinto di tornare a crescere nei prossimi mesi, come prevede la maggior parte degli analisti: la crescita economica rimane debole (eccetto per gli Stati Uniti, dopati fin qui dal gas e dal petrolio “di scisto”) e dei barili in più arrivano sul mercato provenienti dall’Iraq, ma anche dall’Africa Occidentale, dal Brasile, dal Canada e dagli Stati Uniti.

L’Arabia Saudita, il cui rifiuto di prendere l’iniziativa di una riduzione delle estrazioni in seno all’OPEC ha amplificato la caduta dei prezzi, si è preparata per far fronte ad almeno due anni di prezzi del petrolio più bassi, rivela il Financial Times. Peso massimo dei pesi massimi fra i paesi produttori, l’Arabia Saudita non ha paura di arrivare sull’orlo della guerra dei prezzi. In un’intervista recente concessa ad un’agenzia specializzata, il ministro del petrolio saudita, Ali al-Naimi, si è spiegato un po’ più chiaramente:

“Se riduco [la produzione saudita], che cosa arriva dalla mia parte del mercato? Il prezzo salirà di nuovo e i russi, i brasiliani e i produttori americani di petrolio di scisto recupereranno la mia parte”.

Finché non ne resterà uno solo…. Con le casse piene, riserve di greggio favolose e uno dei costi di estrazione più favorevoli del mondo (intorno ai 10 dollari al barile), Riyad può permettersi di stare a guardare cosa succede.

Non è così per tutti.

(Sorvoliamo sulle prime vittime evidenti: questo contro-shock costituisce anche una pessima notizia per l’ecologia ed il clima. Gli industriali europei del riciclaggio, per esempio, dicono che questi giorni stanno venendo schiacciati, mentre le alternative alle auto a benzina sembrano più politicamente invendibili che mai – i berretti rossi si tingono di rosa dalla gioia?) (i “berretti rossi” sono un movimento politico francese che si oppone alle “tasse ecologiche” sulla benzina – n.d.t.).

Si preannuncia un’ondata di effetti secondari, potenzialmente devastatrice per l’industria petrolifera, che costituisce di gran lunga il primo settore industriale del mondo, sia in termini di giro d’affari che di investimenti. Lo era prima della caduta dei prezzi in ogni caso. Gli annunci in questi giorni si moltiplicano e si somigliano: i suddetti investimenti petroliferi stanno per essere fortemente ridotti, in primo luogo nel campo dei nuovi petroli estremi e non convenzionali, così costosi e indispensabili al fine di compensare il declino di numerose zone d’estrazione di petrolio convenzionale (e di ritardare così l’avvento del “picco del petrolio”).

Una sintesi dell’AFP pubblicata ieri sera riassume:

“I tagli dovranno essere particolarmente gravi in Nord America (dal 25 al 30%), in particolare per l’Artico, le sabbie bituminose canadesi e le installazioni di petrolio e gas di scisto”.

E stata accesa una bomba economica a miccia corta negli Stati Uniti?

Il settore dell’energia, e in primo luogo quello degli idrocarburi,  fino al 30% delle spese di investimento del S&P 500, l’indice faro di Wall Street, sottolinea l’AFP, che evoca “lo spettro di un rischio sistemico”. Le azioni dell’azienda americana Halliburton, leader mondiale delle infrastrutture petrolifere, hanno perso la metà del loro valore dall’estate scorsa. Dipendenti dal debito, le società americane specializzate nel gas e nel petrolio “di scisto” devono far fronte dal mese di giugno ad un aumento dei tassi di interesse sui mercati dei prestiti ad alto rendimento, sottolineava a dicembre l’agenzia Bloomberg. Caduta dei prezzi in borsa, rialzo dei prestiti a rischio: il granchio è in trappola… Oltre agli Stati Uniti, tutte le industrie petrolifere sono condizionate. Il valore delle azioni della francese Total per esempio è in ritirata di circa un quarto dal mese di giugno. Segno che qualcosa minaccia di marcire tutt’intorno all’industria dell’oro nero: lunedì, il primo passaggio dei prezzi del barile sotto la soglia dei 50 dollari dal dicembre 2008 ha “messo paura” agli operatori dei mercati di borsa, secondo l’espressione di un giornalista del New York Times. Questo passaggio sotto i 50 dollari è stato accompagnato da un crollo del S&P 500 degli Stati Uniti, così come dell’indice Nikkei giapponese, quando in realtà lo stesso petrolio a buon mercato dovrebbe incoraggiare una ripresa dei consumi in tutto il mondo.

Crisi di mezza età? I cinquantenni sotto steroidi non invecchiano bene. Il contro-shock petrolifero promette di avere delle conseguenze enormi sui progetti petroliferi futuri, in particolare nel campo decisivo dei petroli non convenzionali ed estremi.

Inizia un contrappunto pericoloso.

Se la produzione dovesse rimanere sovrabbondante quest’anno di fronte ad una domanda debole, il seguito degli avvenimenti si annuncia fra i più precari. Come minimo, le possibilità di replicare altrove i “miracolo” del petrolio di scisto del Texas e del Nord Dakota, sembra allontanarsi immediatamente. Nel frattempo, il tasso di declino medio detto “naturale”, cioè in assenza di tutti i nuovi investimenti, della produzione esistente di greggio, oggi raggiunge il 4-6% all’anno, secondo diverse stime. Ricordate (per gli habitués di questo blog): un tale tasso di declino “naturale” implica che ormai bisogna sostituire la metà della produzione petrolifera mondiale ogni dieci anni, ovvero l’equivalente di 4 Arabie Saudite, soltanto per mantenere la produzione al livello attuale. Mi sembra sensato concludere che dopo il picco storico raggiunto nel 2008 dal petrolio convenzionaleil quale costituisce ancora il 4/% delle estrazioni – potremmo stare per assistere ad una seconda fase sul “plateau ondulato” della produzione mondiale di greggio. Dopo numerose analisi scientifiche solide (le più recenti) prodotte da esperti di petrolio nel corso di dieci anni, questo “plateau ondulato” precede un declino inesorabile della produzione mondiale di oro nero e con lui della società termo-industriale così come la conosciamo dalla metà del 19° secolo.

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Un dirupo di Seneca in divenire: gli elefanti africani sull’orlo dell’estinzione

Da “Resource Crisis”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi



Il grafico sopra è riferito agli effetti della caccia di frodo agli elefanti africani. Proviene da un saggio recente di Wittemyer et al.  

Una volta che si è dato un nome ad un fenomeno e comprese le sue cause, lo si può usare come guida alla comprensione di molte altre cose. Così, il concetto di “dirupo di Seneca” ci racconta che l’eccessivo sfruttamento di risorse naturali porta spesso ad un declino improvviso che, spesso, prende le persone di sorpresa. Nel caso delle risorse biologiche, come la pesca, il declino potrebbe essere così rapido ed incontrollabile da portare all’estinzione o alla quasi estinzione delle specie sfruttate. E’ successo, per esempio, con le balene nel XIX secolo e con il merluzzo dell’Atlantico.

Se si tengono in mente questi esempi storici, si possono esaminare altri casi e identificare possibili dirupi di Seneca in corso. Un caso del genere è il commercio d’avorio dalla caccia agli elefanti africani. Se si guardano i grafici sopra (da un articolo recente), si vede che la massa d’avorio sequestrata ha mostrato un aumento considerevole a partire circa dal 2008. Ha raggiunto il picco nel 2011, poi ha declinato. Probabilmente possiamo prendere questi numeri come “proxy” del numero di elefanti africani uccisi – che è visibile anche come linea rossa nel box superiore.

Ciò è molto preoccupante, perché se le uccisioni declinano potrebbe essere proprio perché ci sono meno elefanti ancora da uccidere – proprio come le catture dell’industria ittica tendono a declinare quando le riserve di pesce sono esaurite. Considerando quanto improvvisamente accadano le cose (“Effetto Seneca”), allora potremmo assistere ad una tendenza analoga per gli elefanti africani: cioè, il preludio di un collasso improvviso del loro numero. Considerando che gli elefanti sono grossi e si riproducono lentamente, questo potrebbe davvero portare alla loro estinzione.

Su questo tema, gli autori dell’articolo sembrano a loro volta essere molto preoccupati. Il titolo, di per sé, dice tutto: “La caccia illegale per l’avorio porta un declino globale degli elefanti africani”. Nel testo possiamo leggere, fra le altre cose, che:

La popolazione [di elefanti africani] è stata soggetta a tassi insostenibili di uccisioni illegali fra il 2009 e il 2012, salendo da una media dello 0,6%; (SF = 0.4%) fra il 1998 e il 2008 ad un massimo del 8% nel 2011 (Fig. 1). Le uccisioni illegali annuali di elefanti fra la popolazione Sambury (1988-2008) con una stima aggregata del 20,8% degli elefanti conosciuti uccisi illegalmente durante un periodo di 4 anni…  tassi di uccisioni illegali  sono state fortemente correlate ai prezzi dell’avorio al mercato nero nell’ecosistema di Sambury… In conseguenza di queste uccisioni illegali, la popolazione soffre attualmente della presenza di pochi maschi in giovane età, rrapporti sessuali fortemente diminuiti  e distruzione sociale sotto forma di alcune famiglie collassate e di aumento del numero di orfani (elefanti immaturi senza un genitore).

Perderemo per sempre gli elefanti? Ora non possiamo dirlo con certezza, ma quando sarà chiaro che sta avvenendo, probabilmente sarà troppo tardi per farci qualcosa. Non suona familiare?

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