Effetto Cassandra

Blackout a ripetizione (ancora) minacciano la produzione mineraria sudafricana

Da “Mining.com”. Traduzione di MR (h/t Maurizio Tron)

Di Andrew Topf

I problemi del fornitore elettrico del Sud Africa, Eskom, stanno impedendo alle grandi società minerarie che dipendo da una fornitura costante di elettricità di portare avanti le loro operazioni, ha avvertito un gruppo di utenti energetici. L’Energy Intensive Users Group del Sud Africa ha detto che le aziende minerarie rischiano di mancare i loro obbiettivi di produzione a causa di una serie di collassi delle centrali elettriche che le società trovano difficili da risolvere. Eskom, che fornisce il 95% dell’elettricità della nazione, è stata costretta a razionare l’elettricità per quattro giorni di fila e per la settima volta quest’anno.

“Alcune delle società hanno già indicato che sono limitate”, ha detto Bloomberg citando ciò che Robert Baxter, Capo Coordinatore Operativo della Camera delle Miniere del Sud Africa ha detto la scorsa settimana. “Non c’è dubbio che parte di questo stia condizionando la produzione”. Seconod Eskom, oltre un terzo, o il 37% della capacità installata è stata offline fino a giovedì scorso. Le maggiori società sudafricane di estrazione dell’oro hanno aumentato di 500 megawatt il consumo dal 2008 nei periodi non di picco per evitare il “distacco del carico”, un altro termine per blackout a ripetizione, ha detto Baxter a Bloomberg.

Eskom ha avvertito che c’è una “probabilità alta”  di distacco del carico durante l’Indaba di questa settimana a Citta del Capo, dove sono attesi 7.000 partecipanti alla conferenza mineraria annuale. Nel 2008, i blackout hanno bloccato le estrazioni della Anglo American Plc (LON: AAL.L), della Impala Platinum Holdings Ltd. (JSE: IMP) e della Harmony Gold Mining Co. (JSE: HAR), cosa che ha spinto i prezzi dell’oro e del platino a livelli record.

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La profezia di Keynes: il Bengodi che non arrivò mai

Di Jacopo Simonetta.

In una conferenza del 1928 (pubblicata nel 1930)   John Maynard Keynes si lasciò andare ad una “profezia”: Quali saranno le possibilità economiche dei nostri pronipoti?    Poiché quei pronipoti siamo noi e Keynes è stato certamente uno dei maggiori economisti, penso che sia interessante rileggere quelle pagine.

In sintesi, il nostro sostiene che dall’antichità fino al 1.700 circa ci fu solo un’alternanza di periodi migliori e peggiori, ma non un sostanziale progresso a causa della mancanza di importanti miglioramenti tecnologici e dell’incapacità ad accumulare capitale.

Per l’accumulo di capitale Keynes aveva un’idea precisa: cominciò con l’aumento dei prezzi e dei profitti che seguirono la massiccia importazione di oro ed argento dal Nuovo Mondo durante il XVI secolo.

In particolare per l’Inghilterra, Keynes indica l’inizio dei tempi moderni con il 1580.   Data in cui Drake consegnò alla Regina Elisabetta un carico di oro (rubato agli spagnoli che lo avevano saccheggiato in Perù), tale da permettere alla sovrana di saldare il debito ed finanziare le prime compagnie coloniali.   Dapprima la Compagnia del Levante, seguita dalla Compagnia delle Indie orientali.    Complessivamente, Elisabetta investì circa 40.000 sterline che, con un tasso medio di interesse del 3,5 % all’anno, portarono ai 4 miliardi di sterline che era l’ammontare degli investimenti esteri inglesi nel 1930.    In pratica, ogni sterlina portata da Drake, aveva fruttato 100.000 sterline in 250 anni.   Miracoli dell’accumulo degli interessi composti.

Circa un secolo più tardi, cominciò la grande èra del progresso tecnologico, con un numero incalcolabile di grandi invenzioni e lo sviluppo di ogni tipo di macchine.   E’ notevole il fatto che Keynes dichiara di non sapere perché il progresso tecnologico non fosse cominciato prima, malgrado tutte le tecnologie di base fossero già note da secoli.

Comunque, il risultato fu un enorme incremento della popolazione mondiale e dunque dei consumi.   Contemporaneamente, in Europa ed negli Stati Uniti il tenore di vita quadruplicava ed il capitale centuplicava.    Punto importante, Keynes si aspettava che, a quel punto, la popolazione globale tendesse a stabilizzarsi, mentre sia il miglioramento tecnologico che l’accumulo di capitale sarebbero proseguiti a crescere esponenin maniera esponenziale.

Questo straordinario progresso, prevedeva il nostro, avrebbe creato un serio problema di disoccupazione, ma si sarebbe trattato di una fase temporanea, legata alla velocità del processo.   Nel giro di un secolo da allora (dunque adesso) il tenore di vita nei paesi avanzati sarebbe stato fra le 4 e le 8 volte superiore.    Od anche più.

Quali gli effetti di questo straordinario benessere economico?  

Keynes classifica i bisogni umani un due grandi categorie:   i bisogni assoluti (quelli che sentiamo indipendentemente dagli altri) ed i bisogni relativi (quelli che soddisfano il nostro desiderio di essere superiori agli altri).   Mentre i secondi sono potenzialmente insaziabili, i primi non lo sono e si può presumere che, superato un certo grado di benessere, la gente preferisca dedicarsi ad attività non economiche.

Dunque, giunti ai giorni nostri, l’economia avrebbe cessato di rappresentare una preoccupazione per l’umanità, ma attenzione!   Solo a condizione che nel frattempo non si fossero verificate né grosse guerre, né grossi incrementi di popolazione.

Fin qui la parte più strettamente economica di questa “profezia” che, come generalmente accade con questo genere di previsioni, si presenta come un mosaico di aspetti centrati ed altri completamente sbagliati.    Bisogna dire che, a pensarci bene, qualche grossa guerra nel frattempo c’è stata.   E che la popolazione umana sia triplicata spiega sicuramente molti dei nostri attuali problemi.    Quello che mi ha colpito, piuttosto, è che non vi sia nessun cenno alla disponibilità di risorse (energetiche e non), come alla possibilità di un loro scadimento qualitativo o quantitativo.   Non vi è cenno al fatto che la possibilità di ricombinare un insieme di tecnologie medioevali per creare un sistema industriale sia stata data dall’invenzione più prometeica della storia: la macchina a vapore.   Mancando questo, è comprensibile che manchi anche il minimo cenno alla possibilità che l’alterazione degli ecosistemi possa portare a controindicazioni gravi, financo catastrofiche.   Così come al fatto che un’economia ed una tecnologia in crescita costante richiedono livelli crescenti di complessità che, oltre certi limiti, cominciano a loro volta e diventare limitanti.

In sintesi, colpisce la totale assenza di ogni riferimento alla legge dei “ritorni decrescenti” che, peraltro, il nostro conosceva benissimo.

La seconda parte della conferenza si concentra sulle conseguenze sociali di questo straordinario benessere.

In particolare, Keynes paventa il rischio che il venir meno in pochi decenni di preoccupazioni e necessità pratiche tanto profondamente radicate, possa provocare dei “crolli nervosi” in molte persone.   Analogamente a quanto, secondo lui, stava già allora accadendo alle donne della buona borghesia; infelici perché la ricchezza le aveva già allora private di divertimenti quali pulire, lavare, cucinare, accudire i figli.

Senza nulla togliere al piacere di accudire una casa ed una famiglia, non so quante signore dell’epoca avrebbero sottoscritto questa dichiarazione.    Ho perciò riletto più volte questo passaggio, cercandovi una traccia di “British humour” che non ho trovato.

Dunque, prosegue l’insigne economista, sarebbe stato necessario ancora per molto tempo mantenere un minimo di orario lavorativo.   Suggeriva che, probabilmente, 3 ore al giorno sarebbero state sufficienti ad evitare complicazioni eccessive.

Ma annunciava anche cambiamenti ben più importanti.   Una volta che l’accumulo di denaro fosse stato tale da perdere la sua importanza sociale, l’umanità avrebbe finalmente potuto sbarazzarsi dell’ipocrisia con cui si esaltano come virtù i vizi peggiori.

“Saremo liberi di tornare ad apprezzare i principi religiosi e le virtù tradizionali.   Di tornare a considerare che l’avarizia è un vizio, che l’usura è un crimine, che l’amore per i soldi è detestabile.  Potremmo tornare a valorizzare gli scopi più dei mezzi e preferire il buono ed il bello all’utile.   Ad apprezzare le deliziose persone che sanno metter gioia nella vita propria ed altri.”
 “Ma attenzione.   – Ammonisce. –  Tutto questo non ancora.   Per ancora cento anni dobbiamo pretendere da noi stessi e dagli altri che il giusto sia sbagliato e viceversa perché l’errore è utile e il giusto non lo è.   Bisogna che avarizia ed usura continuino ad essere i nostri dei ancora per un poco, perché solo loro possono condurci fuori dal tunnel  del bisogno, alla luce del benessere.”

Secondo l’autore, la velocità di avvicinamento a questo bengodi sarebbe stata governata da quattro cose: “La capacità di controllo della popolazione, la determinazione nell’evitare guerre e rivolte, la volontà di dare alla scienza una direzione propriamente scientifica, il margine di accumulo al netto dei consumi.”

“In conclusione, la strenua brama di coloro che fanno soldi ci potrà condurre tutti in un’epoca di abbondanza, ma saranno coloro che saranno riusciti a sopravvivere coltivando l’arte di vivere senza vendersi che potranno veramente godersi questa abbondanza.”

Singolare punto di vista.   Chissà cosa direbbe Keynes se oggi potesse vedere come se la stanno cavando i pronipoti di cui vagheggiava?   Sarebbe ancora così sicuro che l’insaziabile avidità può avere il potere taumaturgico di condurre l’umanità in una sorta di paradiso terrestre?   Non sta piuttosto accadendo il contrario?

Il Paese di Bengodi è, ch’io sappia, una favola medioevale che i nostri antenati si raccontavano per ingannare le lunghe serate trascorse a pancia vuota.    Nessuno ha mai creduto che potesse esistere davvero, fino ai giorni nostri in cui un’umanità dotata di mezzi e conoscenze prima inimmaginabili si sta rapidamente suicidando.    Perché?    In fin dei conti, per non rassegnarsi al fatto che il paese di Bengodi non esiste e non può esistere.    Una verità che i nostri analfabeti predecessori capivano benissimo.

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Picco del petrolio, picco del cibo, picco di tutto

Da “CyprusMail”. Traduzione di MR (h/t Maurizio Tron)

E’ cominciato tutto col picco del petrolio, il punto in cui il tasso massimo di estrazione viene raggiunto, dopo di che la produzione comincia a declinare.

Di Gwynne Dyer

Il picco del petrolio è stato l’anno scorso. Ora possiamo preoccuparci del picco di tutto: picco del cibo, picco del suolo, picco dei fertilizzanti, persino del picco della api. Cominciamo dal piccolo. Dipendiamo dalle api per impollinare le piante che costituiscono circa un terzo della disponibilità mondiale di cibo, ma dal 2006 gli sciami di api negli Stati Uniti sono morti ad un tasso senza precedenti. Più di recente lo stesso “disordine da collasso degli sciami” è apparso in Cina, Egitto e Giappone. Molti sospettano che la causa principale sia un tipo di pesticidi largamente usati chiamati neonicotinoidi, ma le prove non sono ancora conclusive. Rimane il fatto che un terzo della popolazione americana di api è scomparsa nell’ultimo decennio. Se le perdite si dovessero diffondere ed aggravare, potremmo avere di fronte gravi carenze di cibo.

Poi c’è il picco dei fertilizzanti, o più precisamente il picco della roccia di fosforo. Il fosforo è un ingrediente cruciale dei fertilizzanti ed è l’aumento di otto volte dell’uso di fertilizzanti che che ha consentito di triplicare la produzione di cibo nel mondo da circa la stessa area di terra negli ultimi 60 anni. Al momento stiamo estraendo circa 200 milioni di tonnellate di roccia di fosforo all’anno e la riserva globale che potrebbe essere estratta ad un costo ragionevole con l’attuale tecnologia viene stimata in 16 miliardi di tonnellate. All’attuale livello di produzione non finirà completamente nei prossimi ottanta anni, l’aumento della domanda di fertilizzanti per alimentare la popolazione in crescita significa che la produzione di fosforo sta aumentando rapidamente. Come per il picco del petrolio, la data realmente importante non è quella quando non rimarranno riserve di roccia di fosforo economicamente praticabili, ma quando la produzione comincia a diminuire. Il picco del fosforo attualmente è a non più di 40 anni da adesso – o molto meno, se l’uso di fertilizzanticontinua a crescere. Dopo di che, si torna ai fertilizzanti biologici, che significano principalmente l’urina e le feci di 10 o 12 miliardi di esseri umani e i loro animali addomesticati. Buona fortuna.

Il picco del suolo è una nozione più ingannevole, ma deriva dal concetto più concreto che stiamo “estraendo” il suolo: degradandolo ed esaurendolo coltivando “monocolture”, usando troppi fertilizzanti ed irrigando con troppo entusiasmo, tutto nel nome di maggiori rendimenti. “Sappiamo molto di più della quantità di petrolio che c’è a livello globale e quanto dureranno quelle riserve di quanto sappiamo a proposito di quanto suolo c’è”, ha detto John Crawford, direttore del programma per i Sistemi Sostenibili alla Rothamsted Research in Inghilterra. “Continuando col business as usual, i suoli attuali che si trovano in produzione agricola renderanno circa il 30% in meno… nel 2050 circa”. La FAO delle Nazioni Unite stima che il 25% dei suoli mondiali che sono attualmente coltivati siano gravemente degradati ed un altro 8% moderatamente degradato. (Anche il suolo “moderatamente degradato” ha perso la metà della propria capacità di immagazzinare acqua). Ed il solo modo per accedere a del suolo nuovo e non danneggiato è deforestare il resto del pianeta.

Tutto questo ci porta al problema del picco del cibo. Ed ecco che il concetto di “picco” subisce una sottile modifica, perché non significa più “produzione massima, dopo di che i rendimenti cominciano a diminuire”. Significa solo “il punto in cui la crescita della produzione smette di accelerare”: è il picco del tasso di crescita, non il vero picco di produzione. Ma anche quello è piuttosto infausto, se ci pensate. Durante la seconda parte del 20° secolo, la produzione di cibo è aumentata di circa il 3,5% all’anno, tranquillamente in vantaggio rispetto alla crescita della popolazione, ma l’aumento drammatico dei rendimenti dei raccolti è dovuto alla maggiore introduzione di fertilizzanti e pesticidi, all’irrigazione molto maggiore e alle nuove varietà di colture della “rivoluzione verde”. Ora quei miglioramenti una tantum hanno ampiamente fatto il loro corso e la produzione globale di cibo sta aumentando solo del 1,5% all’anno.

Anche la crescita della popolazione ha rallentato, quindi riusciamo più o meno a stare al passo con la domanda, ma ci sono segni che la produzione di cibo in molte aree stia correndo contro ciò che i ricercatori dell’Università del Nebraska – Lincoln hanno chiamato in un rapporto dell’anno scorso “un massimale di resa biofisica per la coltura in questione”. La produzione del cibo in questione smette di crescere, poi potrebbe anche diminuire – e l’investimento supplementare spesso non aiuta. Il “picco” in questo contesto è un primo avvertimento che alla fine ci sarà una completa cessazione della crescita, probabilmente seguita da un declino assoluto. Il picco del mais è avvenuto nel 1985, il picco del riso e del pesce naturale nel 1988, il picco dei latticini nel 1989, il picco delle uova nel 1993 e il picco della carne nel 1996. (I numeri provengono da un recente rapporto della rivista “Ecologia e Società” da parte di scienziati di Yale, dell’Università di stato del Michigan e del Helmholtz Centre in Germania.

I picchi più recenti sono stati quelli dei vegetali nel 2000, del latte e del grano nel 2004, del pollame nel 2006 e della soia nel 2009. Di fatto, 16 dei 21 cibi esaminati nel rapporto di “Ecologia e Società” hanno già raggiunto il picco e i livelli di produzione si sono appiattiti nelle regioni chiave che costituiscono il 33% della produzione di riso globale e il 27% di quella del grano. Quindi siamo già nei guai e peggiorerà anche prima che il cambiamento climatico peggiori. Ci sono ancora delle soluzioni rapide, in particolare riducendo gli scarti: più di un terzo del cibo coltivato per il consumo umano non viene mangiato. Ma a meno che non ci inventiamo una qualche “magia”, le cose si faranno piuttosto sinistre sul fronte del cibo verso gli anni 30 del 2000.

Gwynne Dyer è un giornalista indipendente i cui articoli sono pubblicati in 45 paesi.

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Scala Mercalli: i "Limiti" in prima serata

Così, la prima puntata di “Scala Mercalli” è andata in su Rai 3, ieri sera. Credo che sia stata la prima volta che si parlava di nuovo in prima serata di “Limiti alla Crescita” (o anche, come è rimasto in uso in Italia, di “Limiti dello Sviluppo”), forse dai primi anni 1970, quando uscì il rapporto del MIT con quel titolo.

Per il momento, ho avuto solo commenti favorevoli e posso testimoniare direttamente della qualità del team che lavora dietro Mercalli: un gruppo di persone molto professionali, competenti, e motivate. Basta vedere la qualità dei filmati dal Cile e dal Perù, per vedere che siamo su un livello eccellente. Per non parlare di Luca Mercalli stesso, che si è sobbarcato un lavoro massacrante ma che sta dimostrando una professionalità eccezionale. 

D’altra parte, bisogna anche tener conto dei limiti del mezzo televisivo, che è poco adatto a passare messaggi che non siano semplificati ai minimi termini. Ci sarà, sicuramente, chi criticherà la trasmissione; parleranno dei “soliti ambientalisti”, di “radical chic”, e mi immagino cosa non sarà detto sui “Limiti dello Sviluppo” dalla truppa di quelli che sono rimasti indietro con in testa ancora le critiche degli anni 1980. Non si sono accorti di quanto la visione dell’argomento sia cambiata negli ultimi anni, con nuovi dati che hanno vendicato la visione degli autori del libro del 1972.

Più che critiche dirette, tuttavia, la tattica generalizzata in queste cose è semplicemente di ignorare e/o oscurare i messaggi che non fa comodo diffondere. Vi posso raccontare in proposito che l’ultima volta che mi è capitato di apparire in TV su una rete nazionale è stato nel 2011, al tempo del dibattito sul ritorno al nucleare. Quelli che mi avevano invitato avevano fatto un piccolo errore di valutazione. Avevano letto da qualche parte che io studiavo l’esaurimento del petrolio. Dal che, si erano immaginati che “se questo qui parla di fine del petrolio, allora sarà di sicuro favorevole all’uranio.” In trasmissione, era tutto un coro in diretta a favore delle nuove centrali italiane. Quando mi hanno fatto parlare in collegamento da Firenze, ho cominciato a raccontare del “picco dell’uranio.” A quel punto, mi hanno immediatamente tolto il collegamento e non me lo hanno più ridato per tutta la trasmissione. E non mi hanno mai più invitato. Niente di male, solo viene voglia di citare le parole attribuite a Groucho Marx “Non vorrei mai far parte di un club che accetta gente come me fra i suoi membri”

Tutti facciamo quello che possiamo per passare il messaggio fondamentale che venne lanciato per la prima volta in forma quantitativa nello studio del 1972 dei “Limiti dello Sviluppo”. Il messaggio è che l’origine della difficile situazione in cui ci troviamo è il graduale esaurimento delle risorse naturali. Se ce ne rendiamo conto, possiamo prendere dei provvedimenti: usare le risorse con parsimonia, non sprecare quelle che sono preziose e rare, riusare e riciclare quello che possiamo. Se insistiamo, invece, a gridare che l’unica soluzione a tutti i problemi è “far ripartire la crescita” allora non andremo da nessuna parte. Non è un messaggio facile da passare nel clima del dibattito attuale, ma continuiamo. Senza aspettarci miracoli, ma continuiamo.

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Stasera, al via "Scala Mercalli" su Rai 3, a partire dalle 21:30


La miniera di rame nel deserto di Atacama, in Cile (foto di Radomiro Tomic)

Stasera su Rai 3, la prima puntata di “Scala Mercalli”. Ci sarà anche una breve apparizione del sottoscritto, Ugo Bardi, che parlerà dei “Limiti alla crescita” e dell’esaurimento delle risorse minerali.

Ho già visto gran parte del programma durante la registrazione; ci sono dei filmati interessantissimi e originali, specialmente delle miniere di rame di Atacama, in Cile, mai visti prima di oggi!

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Prima puntata diScala Mercalli

28-02-2015 21:30

Prima puntata

Sabato 28 febbraio alle 21.30 prende il via  un nuovo programma di Rai 3 “Scala Mercalli”, girato in uno studio realizzato appositamente all’interno della F.A.O.  e condotto da Luca Mercalli, climatologo e divulgatore scientifico. Sei puntate in prima serata, ogni sabato, dedicate ai problemi  più urgenti  per la salvaguardia del Pianeta Terra.

Nella prima puntata: che clima ci aspetta domani ? E quanto ancora potremo sfruttare le risorse del pianeta che ci ospita ?

“Scala Mercalli” mostrerà le evidenze scientifiche attraverso documentari originali girati in tutto il mondo, dove gli scienziati mostreranno i risultati delle loro ricerche e le popolazioni ci faranno capire le ricadute sulla loro vita quotidiana del cambiamento climatico.

In Australia  aumenta  la febbre della Terra e gli effetti del surriscaldamento sono tanto evidenti  da portare il Bureau of Meteorology, uno dei più importanti al mondo, a classificare con un nuovo colore le zone del continente che hanno già raggiunto i 50 gradi centigradi di temperatura.

In Cile la miniera di rame a cielo aperto più grande del mondo non produce più oro rosso a sufficienza per soddisfare i bisogni dell’umanità, che utilizza questo bene prezioso in tutte le tecnologie più avanzate e leggere, dal cellulare al tablet. Un’azienda italiana sta costruendo il più lungo tunnel per penetrare in profondità ed estrarre rame che soddisfi i bisogni planetari per i prossimi decenni.

In Svizzera Luca Mercalli ci mostra l’Osservatorio di Jungfraujoch, a quasi 3.500 metri di altezza.

A Londra e a Monteveglio in provincia di Bologna, scopriremo come i cittadini più consapevoli hanno aderito al movimento delle Transition Towns, per realizzare un futuro più ecosostenibile.

Ospiti in studio Ugo Bardi, docente di chimica all’università di Firenze, esperto in esaurimento delle risorse e Tim Jackson, docente di economia sostenibile, all’università di Surrey, in Inghilterra. 

– See more at: http://www.scalamercalli.rai.it/dl/portali/site/news/ContentItem-c06cfe04-3c61-4fb4-a866-48427b23ca1b.html?refresh_ce#sthash.2D2ThZAq.dpuf

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Le immagini satellitari rivelano l’acidificazione dell’oceano dallo spazio

Da “Phys.org”. Traduzione di MR

Alcalinità totale dell’oceano dallo spazio. Foto: Ifremer/ESA/CNES

Le tecniche pionieristiche che usano i satelliti per monitorare l’acidificazione dell’oceano stanno per rivoluzionare il modo in cui i biologi marini e gli scienziati del clima studiano l’oceano. Questo nuovo approccio, che verrà pubblicato il 17 febbraio 2015 sulla rivista Environmental Science and Technology, offre un monitoraggio remoto di ampie fasce di oceano inaccessibili da parte di satelliti che orbitano intorno alla Terra a circa 700 km al di sopra delle nostre teste. Ogni anno, più di un quarto delle emissioni globali di CO2 provenienti dalla combustione di combustibili fossili e dalla produzione di cemento vengono catturate dagli oceani terrestri. Questo processo rende l’acqua di mare più acida, rendendo più difficile la vita di alcune specie marine. Le emissioni di CO2 in aumento e l’aumento dell’acidità dell’acqua di mare del secolo scorso ha il potenziale di devastare alcuni ecosistemi marini, una risorsa di cibo dalla quale dipendiamo, quindi il monitoraggio accurato dei cambiamenti dell’acidità dell’oceano è cruciale.

I ricercatori dell’Università di Exeter, del Laboratorio Marino di Plymouth, dell’Istituto Francese di Ricerca per lo Sfruttamento del Mare (Ifremer), l’Agenzia Spaziale Europea e una squadra di collaboratori internazionali, stanno sviluppando nuovi metodi che permettano loro di monitorare l’acidità degli oceani dallo spazio. Il dottor Jamie Shutler dell’Università di Exeter che conduce la ricerca ha detto: “E’ probabile che i satelliti diventino sempre più importanti nel monitoraggio dell’acidificazione dell’oceano, specialmente nelle acque remote e spesso pericolose dell’Artico. Può essere difficile e costoso prendere misure annuali dirette in luoghi così inaccessibili. Stiamo sperimentando queste tecniche in modo da poter monitorare ampie aree degli oceani terrestri, permettendoci di identificare rapidamente e facilmente quelle aree più a rischio a causa della sempre maggiore acidificazione”. Gli attuali metodi di misurazione della temperatura e della salinità per determinare l’acidità sono limitate agli strumenti in situ e alle misurazioni prese da vascelli di ricerca.

Questo approccio limita il campionamento a piccole aree dell’oceano, in quanto i vascelli di ricerca sono molto costosi da far funzionare. Le nuove tecniche usano telecamere termiche montate su satelliti per misurare la temperatura dell’oceano mentre sensori a microonde misurano la salinità. Insieme, queste misure possono essere usate per valutare l’acidificazione dell’oceano più rapidamente e su aree molto più grandi di quanto sia stato possibile in precedenza. Il dottor Peter Land del Laboratorio Marino di Plymouth, che è l’autore principale del saggio, ha detto: “negli ultimi anni sono stati fatti molti progressi nella fornitura globale di dati satellitari e in situ. Ora è il momento di valutare come rendere tutti questi nuovi dati fonti che ci aiutino a monitorare l’acidificazione dell’oceano e stabilire dove i dati satellitari possano dare il contributo migliore”. Diversi satelliti esistenti possono essere usati a questo scopo e comprendono il sensore dell’ESA SMOS (Soil Moisture and Ocean Salinity) che è stato lanciato nel 2009 e il satellite Aquarius della NASA che è stato lanciato nel 2011. E’ probabile che lo sviluppo della tecnologia e l’importanza del monitoraggio dell’acidificazione dell’oceano sostengano lo sviluppo di ulteriori sensori satellitari nei prossimi anni.

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La lezione del 1847 che ha previsto il cambiamento climatico antropogenico

DaThe Guardian”. Traduzione di MR (h/t Bill Everett)

Un discorso quasi dimenticato fatto da un membro del Congresso statunitense avvertiva del riscaldamento globale e della cattiva gestione delle risorse naturali

George Perkins Marsh, 1801-1882, un diplomatico americano, è considerato da alcuni il primo ambientalista americano. Foto: Biblioteca del Congresso 

Quando pensiamo alla nascita del movimento di conservazione nel 19° secolo, i nomi che di solito saltano in mente sono del calibro di  John Muir e Henry David Thoreau, uomini che hanno scritto della necessità di proteggere le aree di natura selvaggia in un’era in cui il concetto di “destino manifesto” della specie umana era di gran moda. Ma un americano di gran lunga meno ricordato – un contemporaneo di Muir e Thoreau – può affermare di essere la persona che ha pubblicizzato per prima l’idea ormai ampiamente accettata che gli esseri umani possano influenzare negativamente l’ambiente che li sostiene. George Perkins Marsh (1801-1882) ha certamente avuto una carriera variegata. Ecco come l’Università Clark del Massachusetts, che ha nominato un istituto in sua memoria, lo descrive:

Nei suoi 80 anni, Marsh ha avuto molte carriere come avvocato (anche se, nelle sue stesse parole, “un praticante indifferente”), editore di quotidiani, allevatore di pecore, proprietario di un mulino, docente, politico e diplomatico. Ha anche provato varie imprese, ma ha fallito miserabilmente in tutte – cave di marmo, investimenti in ferrovie e produzione di lana. Ha studiato linguistica, conosceva 20 lingue, ha scritto un libro definitivo sulle origini della lingua inglese ed era conosciuto come il principale studioso scandinavo in Nord America. Ha inventato strumenti e progettato edifici, compreso il monumento a Washington. Come deputato a Washington (1843-49), Marsh ha aiutato a fondare e guidare lo Smithsonian Institute. E’ stato console in Turchia per gli Stati Uniti per cinque anni in cui ha aiutato i rivoluzionari rifugiati e sostenuto la libertà religiosa. Ha passato gli ultimi 21 anni della sua vita (1861-82) come console statunitense del nuovo Regno d’Italia. 

In altre parole, si è tenuto occupato. Ma direi che il suo momento decisivo è arrivato il 30 settembre 1847 quando, come deputato per il Partito Whig (un precursore del Partito Repubblicano), ha tenuto una lezione alla Società Agricola della Contea di Rutland, in Vermont. (Il discorso è stato pubblicato un anno dopo). Quel discorso si è dimostrato essere la scintilla intellettuale che lo ha portato ad andare avanti e a pubblicare nel 1864 il suo lavoro più famoso, Uomo e Natura: geografia fisica come è stata modificata dall’azione umana. Dopo più di 160 anni vale davvero la pena di rileggere il suo discorso in quanto oggi sembra notevolmente profetico. Dopo tutto, ha dato la sua lezione un decennio o più prima che John Tyndall cominciasse ad esplorare la tesi secondo cui piccoli cambiamenti nella composizione dell’atmosfera potrebbero causare variazioni climatiche. Ed è stato mezzo secolo pieno prima che Svante Arrhenius proponesse che il biossido di carbonio emesso dalla “enorme combustione di carbone da parte dei nostri stabilimenti industriali” potevano riscaldare il mondo (una cosa che pensava fosse benefica). Sì, nel suo discorso Marsh parla di “uomo civilizzato” e “barbari” – e il linguaggio è rigido in alcuni punti – ma diamogli un po’ di tregua: dopotutto era il 1847. E’ circa a metà strada che giunge alla parte che ci interessa gran parte di noi oggi:

L’uomo non può comandare a proprio piacere la pioggia e il sole splendente, il vento, il gelo e la neve, eppure è sicuro che il clima stesso sia stato gradualmente cambiato e migliorato o deteriorato in molti casi dall’azione umana. La bonifica delle paludi e l’abbattimento delle foreste condiziona percettibilmente l’evaporazione dalla terra e naturalmente la quantità media di umidità sospesa nell’aria. Le stesse cause modificano la condizione elettrica dell’atmosfera e il potere della superficie di riflettere, assorbire e irradiare i raggi del sole, di conseguenza influenzare la distribuzione di luce e calore e la forza e la direzione dei venti. Anche entro limiti stretti, i camini domestici e le strutture artificiali creano e diffondono un maggior calore, in misura tale da condizionare la vegetazione. La temperatura media di Londra è di un grado o due più alta di quella della campagna intorno, e Pallas credeva che il clima anche di un paese così poco popolato come la Russia fosse sensibilmente modificato da cause analoghe.

Parte della terminologia che usa è chiaramente un po’ arcaica per il nostro orecchio di oggi ma, in senso lato, la sua impressione in seguito si è rivelata corretta. Lo si può vedere alle prese con concetti che ora conosciamo come effetto isola di calore urbana ed effetto serra. Ma nel discorso ha anche fatto appello per un approccio più ragionato al consumo di risorse naturali, nonostante l’abbondanza quasi senza limite offerta dalle vaste estensioni del Nord America. Come osserva la biografia dell’Università di Clark, Marsh non era un sentimentale dell’ambiente. Piuttosto credeva che tutto il consumo dovesse essere ragionato e considerato, con l’impatto sulle future generazioni sempre in mente: stava sollevando il tema di ciò che ora chiamiamo “sviluppo sostenibile”. In particolare, sosteneva che il suo pubblico avesse dovuto rivalutare il valore degli alberi:

Il valore crescente della legna e del combustibile dovrebbero insegnarci che gli alberi non sono più quello che erano ai tempi dei nostri padri, un ingombro. Nel Vermont abbiamo già indubitabilmente una parte di terra disboscata maggiore di quella richiesta, con le colture adeguate, per il sostegno di una popolazione molto maggiore di quella che abbiamo ora ed ogni acro in più diminuisce i nostri mezzi per una zootecnia accurata, estendendo in modo sproporzionato la propria area, e depriva le generazioni successive di ciò che sarebbe un grande valore per loro, anche se relativamente inutile per noi. 

Le funzioni della foresta, oltre a fornire legna e combustibile, sono molto variegate. I poteri di gestione degli alberi li rende altamente utili nel ripristinare l’equilibrio distribuito del fluido elettrico, sono di grande valore nel dare riparo e protezione vegetali più teneri contro gli effetti distruttivi di siccità e venti essiccanti, del deposito annuale del fogliame degli alberi decidui e della decomposizione dei loro tronchi in decadimento, da un accumulo di terriccio vegetale, che dà la più grande fertilità a suoli spesso originariamente sterili sui quali crescono ed arricchiscono le terre più basse attraverso il dilavamento da parte delle piogge e dalla fusione delle nevi. 

Gli inconvenienti derivanti da una mancanza di lungimiranza dell’economia della foresta sono già gravemente percepiti in molte parti del New England e anche in alcune delle città più vecchie in Vermont. Pendii scoscesi e sporgenze rocciose sono adatte alla crescita permanente di legno, ma quando nella foga per il miglioramento vengono improvvidamente denudate dalla loro protezione, l’azione del sole, del vento e della pioggia presto li depriva del loro sottile rivestimento di terriccio vegetale e questo, quando si esaurisce, non può essere ripristinato da un’agricoltura ordinaria. Rimangono pertanto sterili e delle brutture antiestetiche, che non producono né grano né erba e non rendono alcuna coltura ma un raccolto di erbe nocive, che con i loro semi sparpagliati infestano le terre arabili più ricche più in basso. 

Ma ciò non è in nessun modo il solo male che risulta dalla distruzione senza giudizio dei boschi. Le foreste fungono da riserva e da equalizzatori di umidità. Nelle stagioni umide, le foglie decomposte e il suolo spugnoso dei boschi trattengono una grande percentuale delle precipitazioni piovose e ridanno indietro l’umidità in tempo di siccità, per evaporazione o attraverso sorgenti. Così controllano il flusso improvviso d’acqua dalla superficie nei torrenti e nelle terre basse e impedisce alle siccità estive di seccare i pascoli e di asciugare i ruscelletti che li innaffiano.  

D’altra parte, dove una percentuale troppo grande della superficie viene denudata dal bosco, l’azione del sole estivo e del vento brucia le colline che non sono più ombreggiate o riparate dagli alberi, le fonti e i ruscelletti che trovano alimento nel suolo assorbente della foresta scompaiono e il contadino è obbligato a cedere i suoi campi per il bestiame che non può più trovare cibo nei pascoli e a volte anche a spostarli per miglia per l’acqua.  

Ancora una volta, le piogge primaverili ed autunnali e le nevi invernali che fondono, non più intercettate ed assorbite dalle foglie o dal suolo aperto dei boschi ma che cadono ovunque su una superficie relativamente dura e liscia, scorrono rapidamente sul terreno liscio, dilavando il terriccio vegetale mentre cercano i loro sbocchi naturali, riempiono ogni forra con un torrente e trasformano ogni fiume in un oceano. La repentinità e la violenza dei nostri ruscelli aumenta in proporzione man mano che il suolo viene eliminato; i ponti vengono spazzati via, i terreni spazzati dai loro raccolti e recinzioni e coperti con sabbia sterile o abrasi dalla furia della corrente e c’è motivo di temere che le valli di molti dei nostri torrenti verranno presto trasformate da prati ridenti a grandi distese di ciottoli, ghiaia e sassi, deserti in estate e mari in autunno e primavera. I cambiamenti, che queste cause hanno diretto sulla geografia fisica del Vermont, in una sola generazione, sono troppo evidenti per aver eluso l’attenzione di chiunque osservi e di qualsiasi uomo di mezza età che rivisiti il proprio luogo di nascita dopo qualche anno di assenza, guarda un altro panorama rispetto a quello che è stato teatro delle fatiche e dei piaceri della sua giovinezza. I segni del miglioramento artificiale sono mescolati coi segni di rifiuti improvvidi e le isole nude e sterili, i letti secchi dei torrenti più piccoli, i fossati scavati dai torrenti primaverili e il bordo diminuito dell’intervallo che costeggia il letto allargato dei fiumi , sembrano tristi sostituti degli ameni boschetti, ruscelli ed ampi prati della sua antica proprietà paterna.   

Se l’attuale valore della legna e della terra non giustificherà la ri-piantagione artificiale delle terre imprudentemente disboscate, almeno si dovrebbe permettere alla natura di rivestirle con una crescita spontanea del bosco e nella nostra agricoltura futura dovrebbe essere fatta una selezione più attenta della terra per il miglioramento permanente. Da lungo tempo è una pratica in molte parti d’Europa, così come nei nostri insediamenti più vecchi, quella di tagliare foreste riservate alla legna e al combustibile ad intervalli stabiliti. E’ tempo che questa pratica venga introdotta anche fra noi. 

Dopo il primo abbattimento della foresta originaria passa infatti molto tempo prima che il loro posto venga alimentato, perché le radici degli alberi vecchi e completamente cresciuti raramente rigettano germogli, ma quando la seconda crescita viene stabilita, potrebbe essere tagliata con grande vantaggio, a periodi di circa 25 anni e rende un materiale, per tutti gli aspetti tranne le dimensione, molto superiore al legno dell’albero primigenio. In molti paesi europei, l’economia della foresta è regolata per legge, ma qui, dove l’opinione pubblica determina, o piuttosto in pratica costituisce legge, possiamo solo fare appello ad un illuminato interesse personale per introdurre le riforme, controllare gli abusi e preservarci da un aumento dei mali che ho menzionato.

Una nota finale: sono passati 150 anni da quando Marsh è stato designato da Abraham Lincoln quale primo ambasciatore statunitense in Italia. (Marsh è stato sepolto a Roma). Solo tre anni più tardi, Licoln ha approvato la legislazione che avrebbe portato alla creazione del Parco Naturale di Yosemite in California. Ciò ha costituito un precedente in tutto il mondo per i governi statali e federali per l’acquisto o la messa in sicurezza delle aree selvagge di modo che potessero essere protette perennemente dallo sviluppo o dallo sfruttamento. E’ una speculazione, naturalmente, ma mi sono sempre chiesto se Marsh e Lincoln avessero mai discusso tali materie, che fosse di persona o per corrispondenza. Esiste forse uno storico volonteroso la fuori che sa la risposta?

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Sbarazzarci dei vecchi reattori nucleari ci costerà molto di più di quanto non si pensi

Da “Business Insider Australia”. Traduzione di MR (h/t Cristiano Bottone)

Un reattore nucleare in un centro di ricerca  a Kiev.

Londra/Parigi (Reuters) – Il crollo della società di servizi tedesca E.ON ha portato a preoccupazioni sul fatto che i fondi messi da parte per lo smantellamento dei reattori non saranno sufficienti, ma globalmente il costo dello smantellamento del nucleare è incerto in quanto le stime variano ampiamente. Man mano che i vecchi reattori di prima generazione chiudono, il vero costo dello smantellamento sarà cruciale per il futuro dell’industria nucleare, già sofferente in seguito al disastro di Fukushima del 2011 e per la competizione da parte del gas di scisto a buon mercato, del crollo dei prezzi del petrolio e di un’inondazione di energia rinnovabile da eolico e solare. La IEA ha detto alla fine dello scorso anno che quasi 200 dei 434 reattori in funzione intorno al globo verrebbero dismessi entro il 2040 ed ha stimato il costo del loro smantellamento  a più di 100 miliardi di dollari statunitensi.

Ma molti esperti vedono questa cifra come troppo bassa, perché non comprende il costo dello smaltimento dei rifiuti radioattivi e lo stoccaggio a lungo termine e perché i costi di smantellamento – spesso spostati nel tempo di decenni – variano enormemente per reattore e paese. “Mezzo miliardo di dollari per reattore per lo smantellamento è senza dubbio grandemente sottostimato”, ha detto Mycle Schneider, un consulente nucleare residente a Parigi. Il capo della sezione analisi della generazione di energia elettrica della IEA, Marco Baroni, ha detto che anche escludendo i costi di smaltimento dei rifiuti, la stima di 100 miliardi di dollari statunitensi era indicativa e che il costo finale potrebbe essere anche il doppio. Ha aggiunto che i costi di smantellamento per reattore possono variare di un fattore di quattro. I costi di smantellamento variano per tipo e dimensione di reattore, posizionamento e condizione del reattore al momento dello smantellamento. Anche se la tecnologia usata per lo smantellamento potrebbe gradualmente diventare più economica, il costo finale dei depositi di rifiuti è in gran parte sconosciuto e i costi potrebbero complicarsi nel tempo. Le durate di vita dei reattori si misurano in decenni, il che significa che i costi finanziari e le provvigioni dipendono fortemente da li velli di tassi di interesse imprevedibili. “La stima della IEA è, senza dubbio, solo una cifra campata in aria. La realtà è che i costi sono fenomenali”, ha detto Paul Dorfman, associato di ricerca senior all’Energy Institute della University College di Londra.

Un reattore nucleare al MIT 

La Commissione Legislativa sul Nucleare statunitense stima che i costi di smantellamento negli stati Uniti – che hanno circa 100 reattori – va dai 300 ai 400 milioni di dollari per reattore, ma alcuni reattori costano molto di più. Il principale revisore dei conti pubblico e l’autorità nucleare francese stimano i costi dello smantellamento per il paese fra i 28 e i 32 miliardi di euro (32-37 miliardi di dollari statunitensi). Le società di servizi tedesche – come E.ON, che lo scosro mese ah detto che si dividerà in due, scorporando le centrale elettriche per concentrarsi sull’energia rinnovabile e sulle reti elettriche – ha messo da parte 36 miliardi di euro. Il conto dello smantellamento e lo smaltimento dei rifiuti per la Gran Bretagna ora è stimato in 110 miliardi di sterline (167 miliardi di dollari statunitensi) nei prossimi 100 anni, il doppio della stima di 50 miliardi di sterline fatta 10 anni fa. Le stime del governo giapponese pongo il costo dello smantellamento dei 48 reattori del paese a circa 30 miliardi di dollari statunitensi, ma sono considerate conservative. La Russia ha 33 reattori e i costi sono considerati andare da 500 milioni a 1 miliardo di dollari statunitensi per reattore. Baroni della IEA ha detto che il problema non era il costo esatto per reattore. “Ciò che importa è se sono stati messi da parte fondi sufficienti per garantirlo”, ha detto.

(1 US$ = 0.6588 sterline)
(1 US$ = 0.8601 euro)

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Ricapitoliamo: la situazione del petrolio

DaThe Oil Crash”. Traduzione di MR

Di Antonio Turiel

Cari lettori,

i movimenti dei mercati delle materie prime nelle ultime settimane hanno provocato parecchi scossone agli analisti specializzati in queste questioni. Quando il prezzo del petrolio ha iniziato a collassare, intorno a luglio dello scorso anno, è emersa una serie di analisi precipitose (che sono state in seguito rapidamente smentite dai fatti). Prima non si è data importanza alle correzioni del prezzo, attribuendolo loro un carattere temporale, poi si è insistito sul fatto che l’OPEC avrebbe fermato l’emorragia dei prezzi nel giro di qualche settimana. Vedendo che questo non accadeva, è stata accusata l’OPEC di inondare il mercato per affossare (e qui si presenta una cerca diversità di obbiettivi, a seconda dell’analista in questione e a volte lo stesso analista a seconda della settimana) la Russia, l’Iran e persino le esportazioni da fracking degli Stati Uniti. Solo recentemente è stato riconosciuto che c’è davvero un problema di domanda debole (cosa che da questo blog abbiamo ripetuto molte volte, per esempio descrivendo la spirale perniciosa di distruzione della domanda – distruzione dell’offerta nella quale ci troviamo) e si comincia a mettere da parte le teorie della cospirazione sull’OPEC, anche se è difficile abbandonare l’illusione del controllo. Curiosamente, pochi analisti hanno unito i puntini, rilevando il fatto che il prezzo di molte materie prime è crollato (cadute del 50% ed oltre) anche prima del petrolio, il che fa prevedere una recessione globale profonda. Cosa che, ovviamente, non fa piacere vedere, men che meno in Spagna, dove questo è un anno intensamente elettorale.

Oggi, gli analisti più affidabili si fanno eco delle dichiarazioni del principe dell’Arabia Saudita  Al-waleed, secondo il quale il prezzo del petrolio non tornerà mai a 100 dollari al barile e questo fa diffondere la preoccupazione per le estrazioni da fracking degli Stati Uniti, che nonostante le tante affermazioni magniloquenti che sono state fatte riguardo alla sua redditività durante questi mesi, non sono redditizi nemmeno a quella soglia alla quale il principe saudita dice che non torneremo. Pertanto cominciano ad essere frequenti le analisi che ci dicono che il regno dell’oro nero sta raggiungendo la sua fine, che per responsabilità corporativa molte grandi istituzioni stanno dismettendo le loro posizioni finanziarie sull’industria dei combustibili fossili e che, insomma, il mondo si trova agli albori di una grande transizione energetica, che apparentemente si verificherà perché ci risulterebbe molto conveniente in questo momento.

La realtà che abbiamo di fronte è tuttavia molto più complessa di queste semplici estrapolazioni lineari, basate sul principio secondo cui l’economia è una cosa separata dalla realtà fisica del mondo. Nel mondo reale, il petrolio è la principale fonte di energia del mondo e non è facile sostituirlo con altre fonti di energia, rinnovabili o meno, che non esistono su una scala che somigli nemmeno vagamente a quello che servirebbe. Si può insistere (e si è fatto e si fa moltissimo, specialmente in questi giorni nei quali si anticipano grandi cambiamenti istituzionali nel mio paese e in altre nazioni) sul fatto che le energie rinnovabili potrebbero subentrare, con un adeguato piano di implementazione. Lasciando da parte la persistente ignoranza o disdegno della discussione sui limiti delle energie rinnovabili (li hanno e devono essere discussi), gli articoli che incoraggiano questo futuro rinnovabile sono soliti insistere sul presentare ripetutamente gli attuali costi economici accessibili per questo tipo di sistemi, senza enumerare le promesse tecnologiche che si dovranno realizzare in un prossimo futuro, di nuovo perché semplicemente si d il caso che abbiamo disperatamente bisogno di qualcosa con cui coprire l’ansia energetica del nostro sistema economico, costretto a crescere all’infinito in un pianeta finito. In questo modo, accettano acriticamente il postulato erroneo che enumeravo sopra: credere che l’economia sia un soggetto isolato e indipendente dalla realtà del mondo fisico. Quindi queste persone, la maggior parte intelligenti, critiche, in buona fede e impegnate a spingere il cambiamento di cui abbiamo tutti bisogno (anche se è discutibile che vadano nella giusta direzione), ignorano nel loro entusiasmo che la potente e ciclopica macchina industriale attuale è alimentata da combustibili fossili, dall’estrazione di metalli dalla miniera alla raffinazione e fusione, dalla preparazione del cemento ai forni dove si fonde il silicio delle celle fotovoltaiche. Questa necessità di mantenere il mondo ancorato al fossile (che ha fatto sì che alcuni autori dubitino del fatto che le energie rinnovabili ed anche il nucleare non siano altro che estensioni dei combustibili fossili) viene semplicemente tralasciata, come se dalla sera alla mattina questi complessi processi produttivi, affinati a forza di decenni, potessero essere portati a termine prescindendo completamente o in larga parte dai combustibili fossili. Ma in realtà, anche quando una tale transizione si potesse portare a termine richiederebbe vari decenni ed alcune misure economiche eccezionali che non sono facilmente assumibili dai partiti attualmente al potere nei dai loro possibili sostituti.

In realtà, il corso prevedibile dei fatti non somiglia in nulla a questa narrativa di un petrolio permanentemente a buon mercato e di una transizione energetica, condita di risparmio ed efficienza dove serve. In realtà ciò che sta succedendo è che si sta verificando un adattamento economico della follia finanziaria che ha avvolto la produzione di idrocarburi liquidi negli ultimi tre anni. Si stava producendo petrolio e liquidi assimilabili a un prezzo inferiore a quello di produzione solo per mantenere la fiction secondo la quale non stava succedendo nulla, come mostrava il grafico seguente del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti (leggetevi il post relativo per la sua spiegazione):

E se le grandi società hanno sopportato questo salasso del propri conti economici è stato nella speranza (detto meglio, cieca fede) che il progresso tecnologico avrebbe finito per trasformare queste perdite in guadagni. Niente di ciò è successo, ma i prezzi ai quali veniva venduto il petrolio, già allora insufficienti per coprire le spese della nuova produzione non convenzionale, erano nonostante tutto troppo cari per i consumatori ed hanno finito per distruggere la domanda artificialmente gonfiata con misure di alleggerimento quantitativo e di ulteriore fuga in avanti. Tutte queste sciocchezze erano necessarie perché la produzione di petrolio greggio convenzionale sta già diminuendo ed è stato possibile contenere l’emorragia col fracking, i biocombustibili ed i petroli ultrapesanti. Tre tipi di idrocarburi liquidi troppo cari per poter essere redditizi, tre tipi di risorse che, se l’economia fosse realmente indipendente dalle sue necessità fisiche di consumare energia, non sarebbero mai state sfruttate. Per poterle sfruttare, tuttavia, si è dovuta pagare questa differenza, questo costo aggiuntivo, e si è dovuto pagare da quello che avevamo già. Per produrre questi idrocarburi sub prime le grandi imprese hanno dovuto consumare parte del proprio patrimonio, gli Stati hanno dovuto tagliare l’assistenza sociale e in generale le istituzioni pubbliche e private hanno trascurato la manutenzione delle proprie infrastrutture. Questa fuga in avanti insensata ora ci colloca in una situazione di debolezza economica de molte grandi imprese, di instabilità sociale nata dal malessere per i tagli e di prevedibile collasso di infrastrutture cruciali, esempio dell’Effetto Seneca coniato da Ugo Bardi. Insomma, ci siamo ficcati in una situazione peggiore e più prona a scatenare un processo di discesa caotica.

Gli eventi si succedono con rapidità e toneranno a confondere gli analisti di fama che menzionavamo all’inizio di questo post. Negli Stati Uniti, la bolla del fracking si sta sgonfiando rapidamente e questo provocherà una rapida discesa della produzione di petrolio in quel paese. A un ritmo un po’ più lento, in molti altri paesi si stanno congelando o abbandonando molti progetti di estrazione di idrocarburi liquidi di diversi tipi, dalle piattaforme petrolifere in alto mare all’estrazione del greggio extrapesante. La rapida discesa degli introiti della vendita di petrolio sta creando non poca instabilità economica, politica e sociale in un elenco di produttori sempre più vasto: Iraq, Iran, Libia, Nigeria, Algeria, Venezuela, Messico, Argentina, Brasile, Russia… Nei prossimi mesi vedremo una ripresa dei prezzi del petrolio dovuta fondamentalmente alla rapida caduta del fracking statunitense e sarà quasi immediatamente seguita da una nuova caduta dei prezzi originata dalla recessione economica successiva alla crisi finanziaria che darà origine al fallimento di molte banche che hanno prestato soldi all’impazzata ai progetti di fracking e che, come nel 2008, hanno creato prodotti derivati fantasiosi che amplificano le perdite su scala globale. La possibile sincronizzazione di entrambi i processi (ripresa dei prezzi dovuta alla caduta della produzione, diminuzione dei prezzi dovuta alla recessione globale), che provocherebbe una quasi neutralizzazione del movimento del prezzo del petrolio, non è del tutto da escludere anche se sembra improbabile vedendo la velocità alla quale si sta fermando il fracking negli Stati Uniti (mentre le richieste finanziarie, che non cessano di essere processi amministrativi, richiedono il loro tempo).

La conseguenza più ovvia di tutto questo è che entriamo nella fase di alta volatilità dei prezzi caratteristica di qualsiasi materia prima che scarseggi e che sarà la il contrappunto dei prossimi anni: mesi di prezzi bassi seguiti da mesi di prezzi alti, che si alternano ad un ritmo sempre più rapido nella misura in cui il declino della produzione di petrolio sia più forte e ci addentriamo nella tetra spirale di distruzione della produzione – distruzione della domanda. Esattamente come spiegavamo 5 anni fa, quando è partito questo blog. Per questo, nei prossimi mesi e anni sarà un esercizio divertente ascoltare le ragioni e le scuse che addurranno i grandi esperti per spiegare la congiuntura di ogni momento, contraddicendo quello che dicevano il momento prima.

Ho creduto conveniente ricapitolare in questo post i fatti e le questioni già discusse varie volte in questo blog, prima di affrontare un tema la cui dimensione mi sembra cruciale in questo preciso momento, in questo anno che con tutta probabilità sarà conosciuto come l’anno in cui si è arrivati al picco di tutti gli idrocarburi liquidi (in volume: in energia netta sappiamo già che è avvenuto anni fa): come affrontare la questione delicata dell’assegnazione di risorse durante il declino energetico. Questo sarà il tema di un prossimo post.

Saluti.
AMT

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Il “miracolo” del petrolio di scisto: come la crescita può falsamente indicare abbondanza

DaResource Crisis”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi

La produzione di petrolio (petrolio greggio e condensati in barili al giorno) negli Stati Uniti e in Canada. (Dal blog di Ron Patterson). E’ possibile che questa rapida crescita voglia dire che le risorse sono abbondanti e che tutte le preoccupazioni riguardo al picco del petrolio sono fuori luogo? Forse no…  

A volte usiamo un parametro semplice per valutare i sistemi complessi. Per esempio, una guerra è una cosa complessa in cui milioni di persone combattono, lottano, soffrono e si uccidono a vicenda. Tuttavia, in definitiva, il risultato finale viene visto in termini di domande con risposta sì o no: o vinci o perdi. Non per niente, il Generale McArthur una volta ha detto che “non c’è sostituto per la vittoria”.

Ora, pensate all’economia: è un sistema immenso e complesso in cui milioni di persone lavorano, producono, comprano, vendono e guadagnano o perdono soldi. Alla fine, tuttavia, pensiamo che il risultato finale possa essere descritto in termini di una semplice domanda con risposta sì o no: o cresci o no. E ciò che ha detto McArthur sulla guerra può essere applicato anche all’economia: “non c’è nessuno sostituto alla crescita”.

Ma i sistemi complessi hanno modalità di comportamento e capacità di sorprenderci che non possono essere ridotte ad un semplice giudizio sì/no. Vittoria e crescita potrebbero creare più problemi di quanti ne risolvono. La vittoria potrebbe falsamente segnalare una potenza militare che non esiste (pensate al risultato di alcune guerre recenti…), mentre la crescita potrebbe segnalare un’abbondanza che semplicemente non c’è.

Date un’occhiata alla figura all’inizio di questo post (dal blog di Ron Patterson). Mostra la produzione di petrolio (barili al giorno) negli Stati Uniti e in Canada. I dati riguardano “petrolio greggio e condensati” e la crescita rapida degli ultimi anni è in gran parte dovuta al tight oil (conosciuto anche come “petrolio di scisto”) e al petrolio da sabbie bituminose. Se seguite il dibattito su questo campo, sapete che questa tendenza alla crescita è stata salutata come un grande risultato e come la dimostrazione che tutte le preoccupazioni sull’esaurimento del petrolio e il picco fossero fuori luogo.

Bene. Ma lasciate che vi mostri un altro grafico, le catture di merluzzo del Nord Atlantico fino al 1980 (dati Faostat).

Non somiglia ai dati del petrolio negli Stati Uniti e in Canada? Possiamo immaginare quello che si diceva a quel tempo: “le nuove tecnologie di pesca scacciano tutte le preoccupazioni sullo sfruttamento eccessivo della pesca” e cose del genere. Ed è quello che si diceva, in effetti (vedi Hamilton et al. (2003)).

Ora, guardate i dati sulle catture di merluzzo fino al 2012 e vedete cos’è successo dopo la grande esplosione di crescita.

Non credo che servano molti commenti, eccetto un paio. Per prima cosa, vale la pena di notare come il sovrasfruttamento porta al collasso. La maggioranza delle persone non si accorgono che spingendo per la crescita a tutti i costi distruggono proprio quelle risorse che rendono la crescita possibile. Questo succede con la pesca altrettanto bene che con i campi petroliferi. Poi, notate come qui vediamo un altro caso di “Dirupo di Seneca,” ovvero una curva di produzione dove il declino è molto più rapido della crescita. Come diceva l’antico filosofo Romano “La strada per la rovina è rapida”. E questo potrebbe essere proprio quello che ci aspetta con il petrolio di scisto.

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