Effetto Cassandra

Il fattore EROI: come il declino della resa energetica dei combustibili fossili sta danneggiando l’economia

DaSRSRocco Report”. Traduzione di MR (h/t Maurizio Tron)

C’è un grande malinteso oggi negli Stati Uniti che fa pensare che la tecnologia ci ha resi più efficienti sia nell’industria che nell’economia. Per esempio, gran parte di quelli di noi che hanno guidato lungo il Sistema delle Strade Interstatali statunitensi ha visto gli enormi trattori e mietitrebbie che lavorano il suolo del Midwest. Quando ci passiamo vicino, tendiamo a stupirci di come piccole squadre di agricoltori possano produrre tutto quel cibo col solo ausilio di attrezzature agricole di alta qualità. Mentre queste operazioni sembrano a prima vista molto efficienti, le nostre percezioni sono praticamente l’opposto della realtà.

L’efficienza della produzione di un particolare bene o servizio è collegata in realtà con la quantità di energia spesa nel suo sviluppo. L’EROI – Energy Return on Investment – è un eccellente indicatore della vera natura della nostra efficienza nel produrre ed usare energia. Che rifletta gli esiti del lavoro umano e animale o lo si trovi in una delle varie fonti di energie alle quali possiamo attingere quotidianamente per produrre beni e servizi, come petrolio, carbone, gas, eccetera, l’EROI di un particolare processo è la  stessa cosa. Questo termine è stato etichettato anche come EROEI – Energy Return on Energy Investment. Entrambi descrivono lo stesso principio.

Per esempio, i metodi agricoli preindustriali che utilizzano lavoro manuale o cavalli ed aratro forniscono fra 1 e 5 calorie di energia (cibo) per ogni caloria di energia consumata nel piantare e raccogliere. Dall’altra parte, la moderna industria della produzione alimentare, con un agricoltore che siede su un trattore John Deere con l’aria condizionata che è guidato dalla localizzazione satellitare, consuma incredibilmente 10 calorie di energia per ogni caloria di energia (cibo) consegnata al mercato.

La moderna produzione e distribuzione di cibo ora consuma 10 volte più energia di quella che fornisce. Scienziati “al corrente” come il professor Kent Klitgaard del Wells College e Charles Hall del SUNY College di Scienza Ambientale e Forestale considerano questa palese cattiva gestione delle risorse il cavallo di Troia dei nostri tempi **

Guardate con attenzione questo grafico*:


L’EROI del petrolio e gas del (specialmente negli Stati Uniti), sta crollando dai primi anni 30, cosa che ora ha cominciato ad infliggere una pressione forte su tutti i settori e le industrie dell’economia. Nel 1930, l’industria del petrolio e del gas poteva produrre 100 barili di petrolio per il mercato per ogni barile di costo energetico. Nel 1970, la produzione è crollata ad un rapporto di 30 a 1 e nel 2000 si trovava a soli 11 a 1.

Fondamentalmente, il crollo dell’EROI di petrolio e gas fornisce meno energia netta per il mercato. Così, ma mano che l’energia netta declina, i prezzi aumentano a causa dell’aumento dei costi di produzione l’economia. SRSRocco Report esplorerà e discuterà di come il crollo dell’EROI avrà un impatto sul futuro dell’economia così come fornirà idee su come proteggere la propria ricchezza.

** Vedi l’eccellente fonte di Hall e Klitgaard Energia e ricchezza delle nazioni: capire l’economia biofisica

* Nota: alcuni recenti risultati pubblicati da Hall e Gupta indicano che il declino dell’EROI dei combustibili fossili è stato meno forte di quanto mostrato nella figura. Le conclusioni proposte nell’articolo, tuttavia, non cambiano. (Hall, CAS, and Ajay Gupta. 2011. “A Review of the Past and Current State of EROI Data.” Sustainability 3: 1796–1809)


more

Le oscillazioni climatiche e la falsa pausa del riscaldamento globale

Dahuffingtonpost”. Traduzione di MR

Di Michael Mann

No, il cambiamento climatico non sta attraversando uno iato. No, attualmente non c’è una “pausa” del riscaldamento globale.

Nonostante le diffuse dichiarazioni di questo genere nei circoli degli oppositori, il riscaldamento antropogenico del globo procede senza sosta. Infatti, come riportato qui su The Huffington Post proprio il mese scorso, l’ultimo anno (2014) è stato probabilmente l’anno più caldo mai registrato.

E’ vero che la superficie della Terra si è riscaldata un po’ meno di quanto abbiano previsto i modelli negli ultimi due decenni e mezzo circa. Ciò non significa che i modelli siano sbagliati. Piuttosto, ciò indica una discrepanza che è probabilmente emersa da una combinazione di tre fattori principali (vedete la discussione sul mio pezzo dello scorso anno su Scientific American). Questi fattori includono la probabile sottostima del reale riscaldamento che si è verificato, a causa di lacune nei dati osservati. In secondo luogo, gli scienziati non hanno incluso nelle simulazioni del modello alcuni fattori naturali (eruzioni vulcaniche di basso livello ma persistenti e una piccola diminuzione dell’attività solare) che avevano un’influenza leggermente raffreddante sul clima terrestre. Infine, c’è la possibilità che le oscillazioni naturali interne della temperatura potrebbero aver mascherato parte del riscaldamento di superficie negli ultimi decenni, proprio come un’infiltrazione di aria artica può mascherare il riscaldamento stagionale della primavera durante un tardo episodio freddo. Lo si potrebbe chiamare “dissuasore di velocità” del riscaldamento globale. In effetti l’ho fatto.

Alcuni hanno sostenuto che queste oscillazioni abbiano contribuito in modo sostanziale al riscaldamento del globo negli ultimi anni. In un articolo i miei colleghi Byron Steinman, Sonya Miller ed io, nell’ultimo numero della rivista Science, mostriamo che la variabilità interna del clima ha in vece parzialmente compensato il riscaldamento globale. Ci siamo concentrati sull’Emisfero Nord ed il ruolo giocato dalle due oscillazioni climatiche conosciute come l’Oscillazione Atlantica Multidecennale o “AOM” (un termine da me coniato nel 2000, come ho raccontato nel mio libro La mazza da hockey e le guerre del clima) e la cosiddetta Oscillazione Pacifica Decennale  o “OPD” (noi usiamo un termine leggermente diverso – Oscillazione Pacifica Multidecennale o “OPM” per chiamare le caratteristiche più a lungo termine di questa oscillazione apparente). L’oscillazione nell’Emisfero Nord in temperature medie (che chiamiamo Oscillazione Multidecennale dell’Emisfero Nord o “OMEN”) si è scoperto che risulta da una combinazione della AOM e della OPM.

In numerosi studi precedenti, queste oscillazioni sono state collegate a qualsiasi cosa, al riscaldamento globale, alla siccità nella regione di Sahel in Africa, all’aumento dell’attività degli uragani nell’Atlantico. Nel nostro articolo, mostriamo che i metodi usati in gran parte se non in tutti questi studi precedenti, sono stati errati. Non danno la risposta corretta se vengono applicati alla situazione (una simulazione di un modello climatico) in cui la vera risposta è conosciuta.

Proponiamo e testiamo un metodo alternativo per identificare queste oscillazioni, che fa uso delle simulazioni climatiche usate nel più recente rapporto dell’IPCC (la cosiddetta simulazione “CMIP5“). Queste simulazioni sono usate per stimare la componente dei cambiamenti di temperatura dovuta all’aumento delle concentrazioni di gas serra e di altri impatti umani più gli effetti delle eruzioni vulcaniche e dei cambiamenti osservati nell’attività solare. Quando vengono rimosse tutte queste influenze, la sola cosa che rimane devono essere le oscillazioni interne. Mostriamo che il nostro metodo dà la risposta corretta se viene testato con le simulazioni dei modelli climatici.


Storia stimata della “AOM” (blu), del “OPM” (verde) e del “OMEN” (nero). Le incertezze sono indicate dalle ombreggiature. Notate come la AOM (blu) ha raggiunto un leggero picco di recente, mentre la OPM  sta scendendo molto drammaticamente. La seconda rappresenta la recente discesa precipitosa della OMEN. 

Applicando il nostro metodo alle osservazioni climatiche reali (vedi figura sopra), scopriamo che la OMEN ha attualmente una tendenza al ribasso. In altre parole, la componente oscillatoria interna sta attualmente compensando parte del riscaldamento dell’Emisfero Nord che altrimenti sperimenteremmo. Questa scoperta si espande sul nostro lavoro precedente giungendo a conclusioni analoghe, ma nello studio attuale localizziamo meglio la fonte della flessione. La tanto decantata AOM sembra avere dato un contributo relativamente piccolo ai cambiamenti di temperatura su vasta scala negli ultimi due decenni. La sua ampiezza è stata piccola e attualmente è relativamente piatta, avvicinandosi alla cresta di un piccolo picco verso l’alto. Ciò contrasta con la OPM, che tende nettamente verso il basso. E’ quel declino della OPM (che è collegato alla predominanza di condizioni fredde di tipo La Niña nel Pacifico tropicale nell’ultimo decennio) che sembra responsabile del declino della OMEN, vedi il rallentamento del riscaldamento o la “falsa pausa” come l’ha definita qualcuno.

La nostra conclusione che il raffreddamento naturale nel pacifico è un contributo principale al recente rallentamento del riscaldamento su vasta scala è coerente con alcuni altri studi recenti, compreso uno studio sul quale ho commentato precedentemente mostrando che i venti più forti del normale nel pacifico tropicale durante il decennio scorso hanno condotto ad una maggiore risalita dell’acqua fredda di profondità nel Pacifico orientale equatoriale. Un altro lavoro Kevin Trenberth e John Fasullo del Centro Nazionale per la Ricerca Atmosferica (CNRA) mostra che c’è stato un aumento dello sprofondamento del calore al di sotto della superficie nell’Oceano Pacifico in questo lasso di tempo, mentre un altro studio ancora di James Risbey e dei suoi colleghi dimostra che le simulazioni del modello che seguono più da vicino la sequenza di eventi osservata di El Niño e La Niña nell’ultimo decennio tendono a riprodurre il rallentamento del riscaldamento.

E’ possibile che la flessione della OPM stessa rifletta una “risposta drammatica” del clima al riscaldamento globale. Infatti, ho suggerito questa possibilità in precedenza. Ma le simulazioni del modello climatico allo stato dell’arte analizzate nel nostro studio attuale suggeriscono che questo fenomeno è una manifestazione di oscillazioni interne puramente casuali al sistema climatico.

Questa scoperta ha ramificazioni potenziali per i cambiamenti climatici che vedremo nei prossimi decenni. Come osserviamo nell’ultima frase del nostro articolo:

Dati gli schemi della variazione storica passata, questa tendenza probabilmente si invertirà con la variabilità interna, andandosi ad aggiungere al riscaldamento antropogenico nei prossimi decenni.

Questa forse è l’implicazione più preoccupante del nostro studio, perché implica che la “falsa pausa” potrebbe semplicemente essere stata una causa di falsa compiacenza, quando si tratta di evitare il cambiamento climatico pericoloso.

Michael Mann è Professore Emerito di Meteorologia all’Università di Stato della Pennsylvania ed autore de La mazza da hockey e le guerre del clima: dispacci dalla linea del fronte (ora disponibile in edizione economica con una prefazione speciale di Bill Nye “The Science Guy”).

more

Cosa possiamo ancora imparare da “Star Trek”: una saga di armonia nella diversità

DaResource Crisis”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi


Star Trek, una serie TV a basso costo. Modellini di cartone, pochi e semplici effetti speciali, un numero di attori ridotto sempre impegnato nello stesso set del ponte di comando di una astronave. Eppure, ha influenzato un’intera generazione. 

La morte di Leonard Nimoy, l’attore che impersonava Spock nella serie TV originale di “Star Trek” ha messo fine a un’era. Star Trek è stata la saga del XX secolo, un modo di vedere il mondo. Ad alcuni di noi potrebbe sembrare una visione del tutto obsoleta, oggi, ma deve averci raccontato qualcosa di profondo, di importante, se ha avuto così successo, se è stato così seguito, così venerato da così tante persone. Qual è stato quindi il segreto della serie? Non sono state le diavolerie tecnologiche, è stato il lato umano della storia. E’ stata una storia che ci ha raccontato come fosse possibile avere armonia nella diversità.

Le origini letterarie di Star Trek risalgono all’Odissea, ma il suo antenato più prossimo è “Moby Dick” di Herman Melville. Con tutte le differenze del caso, le similitudini sono molte ed ovvie. Una è che il Pequod, la nave di Moby Dick, e la Enterprise, l’astronave di Star Trek, non attraccano da nessuna parte, vagabondano semplicemente sugli oceani e nello spazio interstellare. E, nonostante tutte le diavolerie tecnologiche coinvolte, il ponte di comando dell’Enterprise somiglia praticamente a quello di una nave del XIX secolo. (E forse, Ulisse in persona non si sarebbe trovato a disagio sulla sedia del capitano Kirk sull’Enterprise)-

E’ stato osservato molte volte che il microcosmo di Melville riecheggia la struttura della società americana dei suoi tempi, una società che doveva integrare ed armonizzare i suoi diversi elementi culturali. Pensate al personaggio di Quequegg, l’isolano tatuato che appare molto presto nel racconto e che, in un certo senso, lo caratterizza. Ma se il Pequod è l’America, è anche una società che sta già affrontando i suoi limiti nella ricerca di una risorsa che sta scomparendo: le balene. E’ per questo che ho descritto “Moby Dick” come “La più grande storia del picco del petrolio mai scritta”.

Con “Star Trek”, abbiamo di nuovo un microcosmo della società americana, anche se, in questo caso, è un microcosmo galattico. Ma questa società futura ha ancora di fronte il problema che aveva il Pequod, un problema sentito molto profondamente negli anni 60, quando è nata la serie: quello dei limiti dell’espansione umana. In Star Trek, gli esseri umani possono viaggiare nella Galassia ma non possono (o non vogliono) espandersi in essa. L’economia della “Federazione Unita dei Pianeti” sembra essere un’economia di stato stazionario, non sembra che siano ossessionati dalla crescita, di fatto potrebbero non usare nemmeno i soldi! In Star Trek non vediamo nessuna crescita economica, nessun aumento della popolazione, nessuna produzione industriale, nessun tentativo umano di sterminare razze aliene per colonizzare altri pianeti. La Enterprise salta di pianeta in pianeta senza fermarsi mai da nessuna parte, senza lasciare mai una traccia durevole al suo passaggio. E’ come la scia lasciata dalla Pequod sul mare, che scompare senza lasciare traccie.

Con Star Trek, quindi, se il problema sono i limiti, e non si può continuare a sterminare alieni per impadronirsi dei loro pianeti, allora la soluzione è l’armonia nella diversità, come uno dei temi principali di “Moby Dick” con l’equipaggio multirazziale della Pequod. Il punto centrale di “Star Trek” non è la tecnologia, non è il futuro, sono le persone. Ed un personaggio in particolare: il primo ufficiale Spock, l’equivalente di Quequegg in Moby Dick. L’alieno da integrare e, allo stesso tempo, rispettare. Notate come la relazione del Capitano Kirk e Spock riflette quella di Quequegg e Ishmael di Moby Dick. In tutti e due i casi, i protagonisti riconoscono la loro rispettiva diversità culturale e si rispettano l’un l’altro. Come a bordo della Pequod, il ponte della Enterprise è un luogo in cui le diversità individuali non sonoignoraterifiutate, sono accettate e valorizzate. In Star Trek manca il personaggio negativo del Capitano Achab di Moby Dick, quindi enfatizza ancora di più i risultati positivi della collaborazione dei diversi individui. E’ questo il “segreto” di Star trek: amonia nella diversità.

In un certo senso, il messaggio di Star Trek riecheggia quello dei “Limiti dello Sviluppo (Crescita)”, lo studio del 1972 che per primo ha quantificato i limiti fisici della crescita umana sulla superficie della terra. Lo studio è stato il risultato dell’intuizione di un uomo, Aurelio Peccei, che si è posto la domanda di come gli esseri umani potessero vivere in giustizia e prosperità su un pianeta limitato. La risposta che ha ottenuto dagli scienziati è stata un’affermazione dell’ovvio: la specie umana non può crescere per sempre in un pianeta finito. Poco è stato detto nello studio dei “Limiti” sul destino della specie umana al di là dei freddi grafici e delle tavole e questa è stata una delle ragioni della sua caduta nei decenni successivi alla sua pubblicazione. Ma Peccei non aveva in realtà chiesto dei grafici. Aveva posto una domanda a cui i computer non potevano rispondere a quel tempo e a cui non possono rispondere oggi. La vera risposta era che non ci serve crescere per sempre per vivere in armonia senza perdere la nostra diversità.

E’ una risposta che Peccei aveva sicuramente in testa, ma che è stata messa in ombra, e alla fine persa, dal grande rumore creato dal dibattito sui Limiti della crescita. Ma forse possiamo ancora trovarla ancora ed uno dei luoghi in cui la possiamo trovare è nelle parole di Spock “Lunga vita e prosperità”. Semplicemente, potremmo vivere a lungo e prosperare se volessimo, ma non abbiamo imparato a farlo. Probabilmente non lo faremo mai e il ponte di comando dell’astronave Terra rimane occupato da psicopatici omicidi.

h/t ad Alexander Stefes per la discussione che mi ha portato a scrivere questo post.

more

Declino energetico e allocazione delle risorse

DaThe Oil Crash”. Traduzione di MR

Cari lettori,

nelle ultime settimane ho percepito una certa ondata di commenti, su diversi forum di Internet (nel forum di Crashoil naturalmente, ma anche in commenti di notizie nei quotidiani ed altri media digitali) in cui si pretende di fare a meno del problema del declino energetico. In generale, questi commenti – molte volte dal tono dispregiativo e vessatorio, a volte perfino personalizzando gli attacchi contro le persone che, come me, ci dedichiamo a parlare di questi temi – di solito basano le loro “contro-argomentazioni” ai gravi problemi esposti qui su una qualche meraviglia tecnologica o risorsa favolosa che stanno per arrivare nelle nostre case. Così, un giorno si ricorre alla vecchia falsità della “sempre incombente” rivoluzione degli idrati di metano o clatrati, mentre altri danno un eco smisurato all’ultimo annuncio commerciale della società Tesla Motor o si fa girare la quintessenza del grafene. Qualche mese fa i temi di moda erano i reattori a fusione portatili o il riutilizzo delle plastiche per fare combustibile domestico (tema, di sicuro, già affrontato da tempo in questo blog). Seguendo il solito ordine nell’avvicendamento di messia energetici, nei prossimi mesi sentiremo parlare del grande potenziale dello sfruttamento dei residui e probabilmente di qualcosa collegata all’idrogeno, la fotosintesi artificiale o i miglioramenti nel rendimento dei pannelli solari. E così in un ciclo perpetuo in cui le tecno fantasie si avvicendano senza fine da un insieme di queste che dopotutto, come attestato dalla loro ripetizione continua, è abbastanza limitato.

E’ relativamente normale, quando si comincia a discutere con una certa profondità dei problemi energetici della nostra società, che qualche commentatore se ne esca con qualche idea letta qua e là sulla soluzione miracolosa di sua preferenza. Ma nel caso attuale richiama l’attenzione la grande quantità di commenti che abbondano in questi giorni, così come l’estremo di alcune esagerazioni (per esempio, dando per scontato che la prossima rivoluzione energetica arriverà in poche settimane) e anche il rancore, a volte abbastanza brutale, contro coloro che non sostengono questa visione di vino e rose (la definizione più leggera che ho letto dedicata a me in questi giorni è “spaventa vecchie”). Oltre agli insulti ho incontrato alcune cose curiose, come alcune rozze dichiarazioni false riguardo alla mia posizione reale sulla crisi energetica e il problema delle risorse (gente che improvvisamente apprende – c si felicita del “mio cambiamento di opinione”che io penso che il problema è più sociale che tecnico, nonostante che sono anni che lo dico) o quello che mi ripete continuamente quanto fosse sbagliato il rapportoContinuously less and less”, sul qualesecondo questa persona – “Turiel si basa per trarre le sue conclusioni sul picco di tutto”, alludendo a dei post che ho scritto cinque anni fa, come se nel frattempo Alicia Valero non avesse difeso le sue tesi, non avesse pubblicatoThanatia” o Jeremy Grantham, fra i tanti, non avesse analizzato il problema. Se persino la IEA comincia a riconoscere timidamente che diverse materie prime sono prossime al loro massimo produttivo!

Non credo che questa offensiva sia casuale, assolutamente. C’è una gran necessità di nuovi idoli e di nuove rivoluzioni in un anno, questo 2015, nel quale, se non si verifica un cambiamento radicale di tendenza, passerà alla storia come l’anno in cui la produzione di idrocarburi liquidi è arrivata al suo massimo volumetrico (sappiamo già che il massimo in energia è stato qualche anno fa). Quelle persone che scommettevano tutto sul fatto che la cosiddetta “comunità picchista” si sbagliasse radicalmente, e fra loro alcuni che vivono della disinformazione su questi temi, stanno cercando con ansia un appiglio, un punto di appoggio per evitare che la gente cominci a mettere in dubbio aspetti fondamentali del nostro modello energetico, il che porta irrimediabilmente a mettere in dubbio aspetti fondamentali del nostro sistema economico (e ciò è intollerabile per loro). Pertanto, c’è una certa disperazione e la necessità di coprire l’enorme buco che sta lasciando il collasso dell’ultima “rivoluzione energetica”: il fracking. I segni del fatto che il boom del fracking negli Stati Uniti sta giungendo alla fine si moltiplicano giorno dopo giorno e comincia già ad essere di dominio pubblico che il numero di pozzi di petrolio attivi negli Stati Uniti è diminuito di circa il 30% dal suo massimo della fine dell’anno scorso, come mostra il grafico seguente.

Allo stesso tempo, persino gli analisti più ritardati si sono resi conto del fatto che l’attuale “eccesso di offerta di petrolio” si deve più al crollo della domanda di petrolio su scala mondiale che a un grande incremento dell’offerta a causa di un’offensiva saudita o di qualche altra teoria della cospirazione, frutto di una illusione del controllo. Come prevedevamo, molti analisti sono completamente persi rispetto all’evoluzione dei prezzi del petrolio e reagiscono con eccesso ai movimenti degli ultimi giorni, qualcuno pensando che schizzerà a valori in dollari al barile di tre cifre, mentre altri credono che potrebbe crollare fino a metà del suo valore attuale. E praticamente nessuno vuole contemplare la possibilità che stiamo cominciando una pericolosa spirale di distruzione della domanda – distruzione dell’offerta che minaccia di sovvertire gran parte del nostro mondo.

Se il 2015 è l’anno in cui comincerà la nostra inevitabile discesa energetica su scala globale o no è una cosa che sapremo solo fra qualche anno. Anche se sempre peggiori, esistono ancora alcune opzioni per stiracchiare la situazione attuale ancora per qualche anno (Ugo Bardi poco tempo fa ha fatto riferimento alla possibilità di usare il carbone per trasformarlo in idrocarburi liquidi, un processo poco redditizio che è conosciuto da decenni). Ognuna di queste opzioni implica implicitamente il fatto di destinare o dirottare risorse da alcune attività ad altre e dato che le fonti di energia residuali sono di EROEI minore (con ciò che questo significa a livello economico), puntare su questo rattoppi significa che arriverà meno energia alla società e che questa nel suo complesso sarà più povera. Per fare un esempio concreto e particolare, se decidiamo di puntare sulla conversione del carbone in un cattivo succedaneo del petrolio, ci troveremo a dover destinare molti più soldi a questa attività di quelli che destiniamo attualmente a comprare petrolio e ciò implicherà più tagli sociali, più diminuzioni degli stipendi e più disoccupazione. Ma dall’altra parte se non troviamo nessun idrocarburo liquido che possa essere prodotto a buon prezzo ci saranno molte attività economiche che non potranno andare avanti, si chiuderanno fabbriche e ci sarà più disoccupazione, si raccoglieranno meno imposte e si faranno più tagli sociali. Insomma, a quanto pare possiamo scegliere fra il fuoco e la brace.

Ciò non è del tutto sicuro. Se si comprende e si assume che lo scenario più realistico che abbiamo davanti è quello della decrescita energetica, a partire da questo si possono adottare misure che portano a gestire le risorse che rimangono in modo più efficiente o socialmente più equo. Insomma, che c’è una certa libertà di scegliere come vogliamo realizzare la nostra decrescita energetica. Ma per questo è molto importante comprendere che siamo già dentro al processo di decrescita energetica, perché diversamente non solo l’assegnazione delle risorse sarà altamente inefficiente, ma socialmente molto distruttiva. Il nostro sistema economico attuale si basa su una premessa di fondo: che la quantità di energia disponibile aumenterà ogni anno ed avrà prezzi accessibili. Per questo il suo modello di assegnazione delle risorse è espansivo: si deve produrre sempre maggior attività economica per sfruttare quella pletora di energia e materie prime che abbiamo a nostra disposizione. E proprio per questo, lasciando da parte la questione ambientale – che è a sua volta grave – questo modello è potenzialmente catastrofico quando la tendenza nella disponibilità di energia si inverte, che è proprio ciò che sta succedendo adesso.

Definire le linee guida dell’assegnazione di risorse nella decrescita energetica non è un compito facile. Come sempre, quando affronto temi di questo genere, proporrò una serie di questioni generali che giustificherò con argomenti e le difficoltà implicate nella loro implementazione. Ma naturalmente niente di quello che dirò adesso è l’ultima parola sul tema e tutto e rivedibile; si tratta di cominciare un dibattito largamente ritardato ma imprescindibile.

Ecco la lista questioni di cui si dovrebbe tener conto nel momento dell’assegnazione delle risorse in una situazione di decrescita energetica.

  • Pianificazione: Se le risorse non sono tanto abbondanti come vogliamo e se ogni anno avremo in realtà di meno a nostra disposizione, è necessario razionare il loro possesso, visto che non ce ne sono per coprire tutte le opzioni che possiamo immaginare. Quindi, si deve decidere quali attività sono prioritarie e quali sono accessorie o superflue. Non solo questo: si deve fare una previsione informata e realista di come evolverà negli anni a venire la disponibilità di risorse, visto che attività che oggi ci possiamo permettere forse ci sarà impossibile mantenerle l’anno successivo. Peggio ancora: forse per conservare una certa capacità di soddisfare le necessità della popolazione negli anni a venire dovremmo cominciare ora a destinare parte delle risorse che abbiamo in questo momento e che se non facciamo questo investimento non avremo in futuro (in linea con le conclusioni del lavoro fatto qualche anno fa). Il nostro futuro può dipendere in modo determinante dalle azioni che intraprendiamo nel presente. Senza una pianificazione adeguata, la nostra evoluzione più probabile non sarà certo ottimale. Per esempio, può essere che investire ora in sistemi di produzione di energia rinnovabile, o in miglioramenti dell’isolamento delle case, o nel riorganizzare la popolazione, o cambiando gli usi del suolo, o in altre forme molteplici di ottenere una società meno dipendente dall’energia. Tutti questi cambiamenti sarebbero molto più facili da fare con tutta l’energia che abbiamo adesso. Potrebbe persino essere che alcune di queste siano impossibili se non abbiamo fatto le adeguate trasformazioni in tempo. Per questo si deve analizzare il problema con attenzione sulla base delle necessità locali (vedere più in basso) e fare un piano di transizione, condiviso con tutte le parti in causa. Il problema più grave posto dalla pianificazione nell’assegnazione delle risorse è che cozza frontalmente con idee molto consolidate durante gli anni di abbondanza di materie prime, fondamentalmente con due: l’ideale del libero mercato e il timore di un eccessivo interventismo da parte dello Stato. L’ideale del libero mercato è un’ipotesi condivisa dalla maggioranza degli economisti e responsabili politici, secondo cui un mercato libero è il sistema migliore di assegnazione delle risorse. Proprio per questo, qualsiasi tentativo di controllare il mercato porta a inefficienze e ad una dispersione di risorse. E di tutte le forme di intervento, quella che abitualmente viene considerato più dannoso è l’intervento dello Stato, in parte perché la sua grande dimensione gli permette di squilibrare il mercato più di altri attori e in parte perché, secondo questa visione parziale delle cose, gli enti pubblici sono i più inefficaci nella gestione economica. Coloro che sostengono questo tipo di argomentazioni di solito basano la loro visione su una sfilza di dati che mostrano la bontà delle loro ipotesi, ma in generale la premessa è contenuta nelle sue conclusioni (il che le rende inconfutabili). In realtà le cose sono molto più complicate: anche quando il libero mercato, come ente ideale, potrebbe essere efficiente nell’assegnazione delle risorse, quello che si ha nella pratica è un mercato naturale, che somiglia di più alla legge del più forte. Si difende il fatto che il mercato è libero, quando se lo si osserva in dettaglio si vede che è fortemente condizionato dagli attori economici più potenti. In quanto al ruolo dello Stato, molte volte questo agisce cooperando coi grandi poteri economici (mi spingo oltre: a mio modo di vedere, Stato e capitalismo hanno bisogno l’uno dell’altro). Lo Stato è interventista, sì, ma con troppa frequenza in favore di interessi privati e questo si riflette non solo nel mercato ma anche in molte altre relazioni umane ora “mercificate”. Con tutto ciò, l’interventismo dello Stato è ancora un passo indietro di ciò che avverrebbe nel contesto di un mercato completamente naturale, in cui i forti imporrebbero le proprie regole. Da un lato, la pianificazione è già una parte essenziale del capitalismo: le grandi imprese pianificano con mesi di anticipo le tendenze di consumo della stagione seguente e manovrano per compensare qualsiasi deviazione. La supposta soddisfazione piena dei desideri dei consumatori non è altro che una finzione. In realtà l’unica cosa che serve cambiare sono gli obbiettivi di questa pianificazione, che al posto di essere la massimizzazione del profitto del capitale dovrebbero essere la soddisfazione delle necessità fondamentali della popolazione con criteri di vera sostenibilità.
  • Riforma finanziaria: Semplificando in modo un po’ furbo, potremmo dire che in un sistema economico feudale il signore del feudo aveva il diritto di ricevere una remunerazione annuale che era una percentuale della produzione dei suoi vassalli, tipicamente un 10%. Il nostro sistema economico è caratterizzato dal fatto che il capitale, per il semplice fatto di esistere, ha diritto ad una remunerazione annuale che è una percentuale del capitale stesso, tipicamente il 5% nominale (in modo effettivo, questa percentuale si riduce a un 3% tenendo conto dei vari effetti di riduzione del capitale: investimenti falliti, inflazione, usura del patrimonio, ecc.). Con tutte le ingiustizie che aveva il sistema feudale (e il continuo tira e molla fra il signore e i vassalli e il viavai di ufficiali giudiziari che si assicuravano del corretto pagamento al proprio signore) era un sistema sostenibile: se la produzione era minore, la remunerazione era minore e se la remunerazione era maggiore era in conseguenza di una maggiore produzione. Invece, il sistema capitalista è intrinsecamente insostenibile: ogni remunerazione che riceve il capitale lo fa crescere e ciò obbliga al fatto che l’anno successivo la remunerazione necessaria sia ancora maggiore, poiché è proporzionale alla dimensione del capitale. Ad un ritmo effettivo del 3% il capitale si moltiplica per 20 in un secolo, il che obbliga la produzione a crescere nella medesima proporzione soltanto per poter pagare i suoi interessi. Ciò obbliga a crescere in continuazione, ad aumentare la produzione senza sosta per soddisfare le ansie di un nuovo signore feudale la cui ingordigia non conosce limiti e cresce a ritmo esponenziale. Il problema grave che si pone nella situazione attuale di declino energetico è che è impossibile far crescere la produzione. Con la scarsità dell’energia e alla fine delle materie prime, la produzione non può continuare ad aumentare. Tuttavia, il signor capitale esige il pagamento delle obbligazioni, che vengono imposte attraverso titoli di debito (prestiti ed ipoteche) ed ha lo Stato come ufficiale giudiziario per assicurarsi che siano pagati. Questa impossibilità fisica di continuare a pagare i debiti farà sì che il capitale, incapace di alimentarsi di una produzione che non crescerà più ma che addirittura diminuirà al diminuire della rendita disponibile di coloro che dovrebbero pagarla, cannibalizzerà – come sta già facendo – il resto degli attori, principalmente la classe media (la Grande Esclusione) e il proprio Stato (attraverso salvataggi forzati di imprese considerate strategiche e i cui debiti hanno la loro origine ultima nella fagocitazione del grande capitale). La prima cosa che bisogna capire, pertanto, è che non ha senso mantenere il sistema attuale del debito, perché la sola cosa alla quale può portare in una situazione di decrescita energetica è liquidazione frettolosa di attività che saranno preziose nella transizione, unicamente per ingrassare il capitale e rendere ancora più grande il problema della devoluzione dei debiti futuri (visto che questo capitale ora incrementato, in virtù del nostro sistema finanziario, sarà prestato per mettere in moto altri progetti e imprese che a loro volta falliscono a causa della decrescita energetica). Nella misura in cui si mantenga l’attuale struttura del nostro sistema finanziario, il pompaggio di risorse col solo obbiettivo dell’accumulo improduttivo di capitale continuerebbe fino a che non rimanga virtualmente niente da pompare. Nel cammino, si distruggeranno tutte le strutture che servono a creare la coesione sociale (in particolare che siamo tutti a far parte di un progetto comune che chiamiamo società). E’ ovvio che un tale modo di assegnare le risorse provocherebbe carestie, epidemie, rivolte ed alla fine guerre, sia civili sia con altri paesi. Dall’altra parte, quando la suzione di risorse da parte del capitale giungesse al limite del sostentamento minimo vitale della maggior parte della popolazione, già esclusa, il capitalismo come tale cesserebbe di esistere e si trasformerebbe, probabilmente, in un sistema feudale tradizionale, in cui la democrazia risulterebbe definitivamente abolita. E’ per questo che risulta imprescindibile spezzare una dinamica tanto nociva. Il modo più logico per farlo è di “hackerare” completamente il sistema finanziario. Il primo passo sarebbe, ovviamente, ristrutturare tutti i debiti: se la prospettiva è che non ci sarà crescita, concedere prestiti sarà sempre più complicato fino a diventare impossibile (come non si stanca mai di ripetere Gail Tverberg). Ma il primo giubileo del debito non è sufficiente. Dato che l’economia nel suo complesso si contrarrà per la perdita di capacità produttiva implicata dalla perdita di energia disponibile, non si può aspirare a portare avanti progetti che si basino su un finanziamento in cui il capitale abbia un interesse percentuale esattamente per lo stesso motivo: anche se si ponesse il debito a zero, la mancanza di sostenibilità finanziaria dei nuovi progetti si manifesterà dal primo minuto, perché in un mondo in contrazione energetica la maggioranza dei progetti non hanno un rendimento sufficiente a garantire il pagamento degli interessi (Gail Tverberg ha scritto recentemente un lungo saggio sul perché eliminare i debiti pendenti non serve in un mondo con energia limitata). Questo problema di scarso rendimento è una manifestazione della diminuzione generalizzata dell’EROEI delle fonti energetiche delle quali ci riforniamo ed è nell’origine dello scarso entusiasmo dell’investimento attuale in progetti di produzione di energia rinnovabile in Molti paesi del mondo. E tuttavia forse sono quei progetti che potrebbero garantire loro un accesso ragionevole all’energia dei prossimi decenni. Dato che l’iniziativa privata, continuando con la logica finanziaria appresa durante gli ultimi secoli di prosperità energetica, non investirà mai nella maggior parte dei progetti, si rende necessario non solo cancellare i debiti pregressi e impagabili, ma bisogna anche stabilire un sistema pubblico di finanziamento, senza interesse associato, il cui dovere sarebbe di fomentare la rapida implementazione di quei sistemi e attività che si considerano più convenienti per garantire una decrescita energetica ragionevole. Inoltre, si dovrebbero proibire tutti i prestiti con interesse, compresi quelli non destinati ai fini prioritari, data l’urgenza della situazione, il che nella pratica significherebbe la proibizione o sorveglianza molto stretta del credito privato e la persecuzione dell’usura (intesa come la richiesta di qualsiasi interesse per un prestito). Il problema di questa riforma tanto profonda del sistema finanziario è anche maggiore di quello con la pianificazione che ponevamo sopra. Se questa poneva ostacoli all’espansione del commercio non tutelato, questa riforma punta contro il cuore stesso del capitalismo. Chi tenti di promuovere questi cambiamenti sarà tacciato di essere un comunista obsoleto o di qualcosa di peggio, visto che un tale grado di intervento suona come appropriazione e statalismo. Critica questa fatta un po’ alla leggera, poiché il comunismo di taglio statalista che il mondo ha conosciuto è nocivo tanto quanto il capitalismo o di più (come abbiamo già discusso a suo tempo). Ma di sicuro c’è un fondo di ragione in essa, visto che i marxisti classici attaccavano i diritti remunerativi del capitale e in questo senso la coincidenza con ciò che è esposto sopra è piena. Dato che l’enorme carico ideologico del dibattito capitalismo-comunismo durante i decenni della Guerra Fredda non si è ancora dissipato del tutto e potrebbe ravvivarsi mentre si mettono in discussione le basi teoriche e pratiche del nostro sistema economico, mi sembra praticamente impossibile avere un dibattito ragionevole fra i cittadini sull’impossibilità logica di mantenere il credito con interessi e l’imperiosa necessità delle riforme espresse sopra: qualsiasi tentativo di procedere con questa discussione si impantanerà in diatribe interminabili sui vecchi argomenti di 30 anni fa. Come modalità più pratica, il mio suggerimento sarebbe, semplicemente, di prescindere da qualsiasi tipo di finanziamento convenzionale, ricorrendo all’appoggio delle comunità locali per portare avanti piccoli progetti concreti, mentre il sistema finanziario collassa da solo. Questa strategia ha il rischio che lo Stato possa lanciare qualche iniziativa legislativa per perseguire queste strade alternative (i recenti movimenti del governo spagnolo per regolare il crowdfunding sono un indizio di questa possibilità). Pertanto, le comunità dovranno che sondare molto bene il terreno che calpestano ed assicurarsi che le loro iniziative siano sempre scrupolosamente legali e che quindi non vengano individuate dal radar.  
  • Cambiamento del sistema produttivo: In un mondo con energia disponibile in netta decrescita e risorse sempre più scarse, è impossibile conservare un sistema orientato alla produzione: Strategie come l’obsolescenza programmata dovranno essere progressivamente abbandonate e gli sforzi dovranno essere diretti ad ottenere nuovi progetti che assicurino una maggior riparabilità, riciclabilità e riutilizzo. Ciò crea un problema per le imprese, che dovranno re-orientare i loro modelli d’affari in modo che i loro risultati non dipendano dal vendere di più ma dal vendere meglio. Nel caso delle imprese che producono beni di consumo di massa, che siano materiali o immateriali, il cui target di clientela sia la classe media calante, avranno il problema aggiuntivo di adattarsi alla diminuzione della capacità d’acquisto dei loro clienti e la diminuzione obbiettiva del loro mercato potenziale. In aggiunta, le imprese dovranno ricorrere sempre di più alle proprie risorse finanziarie visto che la loro prospettiva non sarà quella di crescere, ma all’inizio di calare e alla fine, se hanno fortuna, di stabilizzarsi. Ciò renderà tutto molto più difficile e l’evoluzione generale dei progetti molto più lenta, a meno che non possano contare sul finanziamento partecipativo a interesse zero (e non aggirino i problemi indicati sopra). Aggiungete a tutto quanto si è detto che assegnare le risorse per riscattare le imprese la cui sostenibilità a lungo termine è dubbia è una strategia destinata al fallimento. Per esempio, pensando a medio e lungo termine non ha senso aiutare il settore dell’automobile, come di certo non ha senso puntellare le compagnie aeree o il settore del trasporto su strada, nonostante il peso economico così importante che questi settori hanno in questo momento. Il grande problema del cambiamento di sistema produttivo è che le riforme proposte sono anche molto radicali e sono diametralmente opposte a tutto ciò che si insegna oggigiorno nelle scuole di economia di tutto il mondo. Gli specialisti di queste scuole obbietteranno che tutti questi cambiamenti portano ad una perdita di produttività e di efficienza economica enorme. Ed hanno tutte le ragioni. Ciò che succede è che il problema è di impossibilità, non di convenienza: con risorse limitate ed in decrescita il loro modello semplicemente non funziona. E’ dubbio che accetteranno tali argomenti, così non si può far altro che aspettare che la forza degli eventi li finisca per convincere. E’ anche vero che, durante la transizione, un’impresa che puntasse fortemente sul cambiamento di modello sarebbe meno competitiva, mentre ancora c’è una certa abbondanza energetica, pertanto avrebbe molti problemi a sopravvivere fino al momento in cui il modello fossile attuale smette di funzionare. Per questo motivo molti autori danno per assodato che la società industriale finirà necessariamente con la fine dei combustibili fossili. Che l’industria dovrà essere ridefinita è evidente, che scompaia del tutto dipenderà dalle decisioni che si prendono e in ogni luogo la storia sarà diversa.
  • Gestione delle infrastrutture: Nel momento in cui sono state create, le infrastrutture hanno fornito un grande valore tanto economico quanto sociale: le ferrovie mettevano in comunicazione città un tempo lontane, i porti permettevano di trasportare grandi volumi di mercanzie su grandi distanze, la rete elettrica portava luce nella notte… Ma nella misura in cui le infrastrutture stavano crescendo in dimensione ed estensione, ed allo stesso tempo invecchiavano, si sono trasformate progressivamente in un maggior carico, il che implica un maggior consumo di risorse. Salvo eccezioni onorevoli, nella maggior parte delle infrastrutture è mancata una pianificazione a lungo termine e il beneficio marginale che supponeva ogni nuovo livello delle infrastrutture è andata diminuendo (e probabilmente in alcuni casi è diventata negativo). Riasfaltare periodicamente le strade è molto oneroso, la rete elettrica ha bisogno di essere controllata e mantenuta, le ferrovie richiedono una manutenzione continua – specialmente le linee ad alta velocità… persino mantenere accesi di notte implica una spesa costante. Ma se le risorse disponibili calano, la parte necessaria per mantenere tutte le infrastrutture semplicemente non ci sarà. Di fronte a questo problema ci sono due possibilità. La prima è far finta di far vedere all’opinione pubblica che non c’è alcun problema, ma di fatto trascurare alcune infrastrutture, in modo poco ordinato, per cui i problemi si aggravano – e sono pertanto più costosi da sistemare – col tempo (cosa che ci porterebbe ad un brusco Dirupo di Seneca, come abbiamo già spiegato in queste pagine). La seconda opzione consiste nel prendere decisioni audaci – non sempre ben recepite dall’opinione pubblica – e procedere con uno smantellamento ordinato di alcune infrastrutture con l’intenzione di sostituirle con altre meno costose e più resistenti. Per esempio, la decisione che hanno preso alcune contee degli Stati Uniti di non riasfaltare le strade sotto la loro responsabilità e, al contrario, riportarle a strade di terra e ghiaia. Fra tutte le infrastrutture in pericolo di abbandono volontario o involontario, quelle collegate al trasporto sono particolarmente a rischio: in un mondo con meno energia l’ipermobilità che ha caratterizzatogli ultimi decenni è condannata a scomparire, quindi così tante strade, porti, aeroporti e persino ferrovie che per giunta sono anche molto costose perdono di senso. La cosa ideale, di nuovo, sarebbe progettare un piano di decrescita energetica e, in base a quello, decidere cosa si deve abbandonare, cosa si deve sostituire e a cosa fare manutenzione. Ed anche prendere decisioni su ciò che ora non esiste ma che è necessario costruire per affrontare il futuro (per esempio, porti fluviali). Il problema più grande per il cambiamento di modello di gestione delle infrastrutture ha radici, soprattutto, nella grande capacità di pressione ed influenza che ha il settore dei trasporti, che interpreterà qualsiasi decisione in linea con la decrescita energetica che lo colpisca come un’aggressione, negando probabilmente di accettare che non solo i giorni di gloria del trasporto non torneranno, ma che le cose andranno sempre peggio. E’ problematica anche le tendenza elitaria, che convergerà verso la creazione di mezzi di trasporto per ricchi e mezzi di trasporto per poveri.
  • Rilocalizzazione: Giustamente, se manca l’energia né i materiali né le persone potranno viaggiare per lunghe distanze. Dall’altra parte, mentre diminuisce la dimensione dell’economia diminuiranno anche i legami di lunga distanza e sarà l’attività locale quella che genererà una parte sempre maggiore del reddito delle persone. Insomma, i soldi non viaggeranno per grandi distanze e l’industria locale sarà quella che crea l’impiego locale e soddisfa il consumo locale, formando un ecosistema economico chiuso in se stesso e di dimensioni sempre più piccole. Per evitare la carenza di beni e servizi cruciali, come lo sono gli alimenti o i vestiti ma anche la sanità e l’educazione e cose più prosaiche ma fondamentali come motori di base e macchine elementari, così come veicoli ed automobili semplici, si dovrebbe pianificare accuratamente quello che si produrrà e dove, in modo da assicurare un minimo livello di funzionalità senza dover uscire dalla scala locale. Il grande problema delle rilocalizzazione è che la parola è già stata abbastanza umiliata da queste parti e molto spesso si trova in discorsi vuoti, senza contenuto. E’ molto più facile parlarne che fare qualcosa di positivo nella sua direzione. 

  • Riumanizzazione: E richiesta l’introduzione di valori più solidi per le relazioni umane e il rispetto per tutti, per non dover discutere cose ovvie come che il sistema non sta funzionando bene se ci sono bambini il cui unico pasto avviene nella mensa della scuola, o che è più importante avere meno sfratti che più produttività, o che se il problema della disoccupazione cronica colpisce diversi milioni di persone, non è perché queste persone sono inutili o svolgiate, ma perché c’è qualcosa di profondamente sbagliato nel settore e nella struttura del lavoro, in particolare nella sua completa sottomissione ad un sistema economico inflazionistico e suicida; o che soddisfare i banali capricci dei consumatori di oggi è meno rilevante che proteggere la qualità di vita delle generazioni a venire. Inoltre, bisogna migliorare la qualità della stampa: è del tutto impossibile che i cittadini possano essere tali se non si pone l’accento sulla necessità e l’obbligo di diffondere informazioni complete e veritiere e molta meno propaganda meramente al servizio di alcuni interessi economici non sempre confessabili. Il problema più grave della riumanizzazione è che si scontra coi valori promossi dal capitalismo per creare una società acritica e consumista: in fondo, promuovere nuovi valori per una nuova società è, fra tutte, la proposta più sovversiva. Si può lavorare in questo ambito con minor pericolo che, per esempio, nell’ambito finanziario, poiché stiamo parlando dell’ambito delle convinzioni personali, che è intangibile. Ma allo stesso tempo è più difficile salvarsi dall’enorme trappola della propaganda contraria, del discredito, della ridicolizzazione e dell’indifferenza.  

Come vedete, la difficoltà maggiore per implementare i modelli di assegnazione necessari si scontrano con l’ideologia imperante. E per questo che per poter fare il cambiamento di modello economico si dovrà produrre un cambiamento del modello culturale. Ma questo sarà un tema di un altro post.

Saluti.
AMT

more

Accenditi, sintonizzati, abbandonati

Dahowtosavetheworld.ca”. Traduzione di MR (h/t Paul Chefurka)

Di Dave Pollard

Sfondo da psp.88000.org 

Marshall McLuhan ha avuto l’idea giusta sul fatto di lottare per essere presenti in un mondo che è sempre più assente, inquieto, sconnesso e distratto. Il processo di passare dall’assenza mentale alla presenza, sto apprendendo, comporta tre fasi, catturate perfettamente nella celebre espressione “Accenditi, sintonizzati, abbandonati” (l’espressione è stata resa popolare da Timothy Leary, ma almeno secondo Wikipedia lui ha riconosciuto che è stata coniata da McLuhan).

Accenditi significa lasciar andare il mito del sé e riconnettersi e lasciarsi portare come parte dell’indifferenziazione e dell’ambiguità incredibilmente complesse della nostra esistenza collettiva, usando qualsiasi metodo funzioni per voi – meditazione, droghe psicoattive, ecc. Ciò comporta il riconoscimento del fatto che ciò che intendiamo come il nostro “sé” è solo una storia inventata, un mito collettivo. La comparsa dell’ego, il senso di sé, sembrerebbe essere una conseguenza involontaria della compulsione di nostri cervelli grandi e pieni di proteine a trovare schemi e a rappresentare la realtà attraverso l’uso di modelli. Questi sono strumenti utili finché non portano alla psicosi – finché “noi” pensiamo che queste rappresentazioni siano reali e che i nostri “sé” siano reali e separati. Questa sensazione astratta di sé separato e di identità ci viene insegnata senza sosta dalla nascita ed è stata rinforzata e sfruttata, con le migliori intenzioni, dalla nostra cultura.

Il nostro senso di separazione ci ha permesso di fare delle cose stupefacenti e orribili. Uno dei tratti distintivi della cultura umana civilizzata è stato la scoperta e l’uso della punta di freccia – l’antica invenzione che ci ha permesso, per la prima volta, di uccidere “in modo impersonale” – senza mettere sé stessi a rischio o avere un contatto fisico con la nostra preda nel momento in cui la distruggiamo e divoriamo. Il drone, il velivolo senza pilota in grado di seminare la distruzione di massa su milioni di persone, non è altro che l’ultima manifestazione high-tech della modesta e terribile punta di freccia. Con queste invenzioni abbiamo perso il senso della sacralità quando una parte del noi collettivo ne consuma un’altra, per il “nostro” beneficio collettivo. Con queste invenzioni abbiamo potuto, per la prima volta, rifiutarci di accettare l’inevitabilità della nostra morte sacra come cibo essenziale per un’altra parte di noi, per il “nostro” beneficio collettivo. La nostra paura e la nostra avversione per la morte sono state, penso, una conseguenza diretta del nostro nuovo falso senso della separazione, della nostra sconnessione. Accendersi è riconnettersi, lasciare andare i miti del sé e della separazione ed essere veri e vivi.

Sintonizzati significa impara, apprezza e capisci come funziona davvero il mondo ed i suoi complessi sistemi adattivi. Ciò comporta il riconoscere che i sistemi complessi (vedi tutti i sistemi organici, sociali ed ecologici) sono intrinsecamente in gran parte inconoscibili, incontrollabili e imprevedibili, a differenza dei sistemi meccanici coi quali cerchiamo di rappresentarli. Ciò comporta il riconoscere che, per pura forza delle azioni collettive di miliardi di esseri umani ben intenzionati, passati e presenti, che fanno tutti del loro meglio, i sistemi economico ed ecologico dai quali dipendiamo totalmente ora sono insostenibili e stanno accelerando verso un collasso inarrestabile. E quel collasso sta per causare la fine della cultura della civiltà globale e con essa una drastica riduzione del numero di esseri umani, della complessità della società umana e, a seconda della gravità del cambiamento climatico fuori controllo, l’estinzione di gran parte o di tutte le specie viventi sul pianeta in questo secolo. Sintonizzarsi significa apprezzare la conoscenza meravigliosa e terribile di dove tutti noi ci troviamo, ora, e di come ci siamo arrivati.

Abbandonati significa allontanati da questa cultura dannosa, malsana e morente e smetti di esserne partecipe e di sostenerla. Ciò comporta la non partecipazione in nessuno dei sistemi interdipendenti e cadenti della cultura ormai globale – politici, economici, sociali, educativi, sanitari, tecnologici, legali, dei media, ecc. Significa non attenersi più alle regole di questi sistemi che stanno uccidendo il nostro pianeta e che ci hanno reso tutti quanti fisicamente o emotivamente malati. La maggior parte delle civiltà non finiscono con scontri devastanti fra i loro cittadini, ma quando i loro cittadini si rendono conto che la civiltà non può più sostenerli convenientemente, semplicemente ed in massa, se ne allontanano. Abbandonarsi significa raggiungere questa consapevolezza e comportarsi di conseguenza.

Ho passato gran parte dell’ultimo decennio nella parte della sintonizzazione, studiando i sistemi complessi e la natura e la storia dei nostri sistemi economico, energetico ed ecologico. Ciò mi ha reso un allegro pessimista – un pessimista perché mi rendo conto che il collasso ci porterà sofferenze e perdite enormi e allegro perché ho smesso di stressarmi per cercare di riformare o mitigare questi sistemi. Sto imparando ad apprezzare semplicemente il miracolo della vita, dell’amore, dell’apprendimento e delle straordinarie possibilità di un mondo molto migliore dopo il collasso di questo terribile ma (nel più ampio scema delle cose) fugace civiltà agri-industriale. Sarà un mondo con molti meno esseri umani con un impatto minore e re-tribalizzati, o forse senza nessun essere umano.

Quella parte è stata facile, nonostante il senso di cordoglio, vergogna e terrore che la consapevolezza del collasso inevitabile mi ha portato. Le altre due parti, l’accendersi e l’abbandonarsi, apparentemente sono al di là delle mie capacità.

Mentre continuo a provare diverse modalità di Accensione – meditazione e altri metodi per mettere a tacere il pensiero che spero mi porteranno oltre il mito del sé verso una reale presenza e riconnessione, non mi pare di fare grandi progressi. E confesso di essere impaziente: mi arrendo (troppo) facilmente. Sto cercando un modo più facile e veloce. Sono curioso di provare le tecniche di biofeedback come quelle che ha suggerito Gary Weber. Sono ancora troppo codardo per provare l’ayahuasca o psicoattivi simili che si dice rendano più facile raggiungere uno stato costante di riconnessione. Ciononostante, sono motivato, e a volte mi sento esasperatamente vicino a raggiungere una svolta nel rendermi conto che lo stato di presenza, riconnessione e “mancanza del sé” che conosco intellettualmente e che bramo così profondamente è possibile.

Posso capire perché molti di coloro che provano a guarire dalla malattia della Civiltà cerchino in percorso più facile ed accessibile – come apprezzare il proprio “sé” di più anziché rimproverarsi e in modo da costruire autostima e resilienza personale attraverso metodi di autoaffermazione piuttosto che di trascendenza del sé. Ma mi pare che se puoi trascendere il sé, il bisogno di guarire non scompare?

Per quanto riguarda l’Abbandonarsi, sto cominciando ad imparare alcune delle capacità essenziali per l’autosufficienza personale e collettiva, di modo che sarò pronto per essere un membro utile di una comunità drasticamente rilocalizzata quando i sistemi centralizzati raggiungono uno stadio più avanzato ed ovvio di collasso irreversibile. Ma lo sto facendo molto, molto lentamente. Mi trovo ancora troppo a mio agio come dipendente della cultura della civiltà, anche se so che non durerà molto a lungo. E’ troppo presto, mi dico, perché la maggior parte di queste capacità siano necessarie o valorizzate nell’immediato, quindi doso le forze. Se le cose cominciano a peggiorare più rapidamente, aumenterò il ritmo. Non è nella nostra natura, penso, imparare cose che al momento non sono utili, anche se ci aspettiamo che lo saranno prima o poi.

Quindi sto qui, Sintonizzato, cercando senza successo di Accendermi e preparandomi ad Abbandonarmi. Mentre ho fatto i miei compiti per imparare, apprezzare e capire come funziona il mondo e dove ci troviamo, sono per natura un San Tommaso e continuo a mettere criticamente in dubbio ogni cosa che sento e credo. Mentre finora non sono riuscito a ottenere la capacità di lasciar andare e di riconnettermi a tutta-la-vita-sulla-Terra, questa sarà una ricerca lunga una vita e mi faccio coraggio con le storie di molte persone che, dopo anni di lotta con l’impresa apparentemente impossibile di “arrivare là da qui”, all’improvviso si ritrovano là e si chiedono perché, col senno di poi, sia stato così difficile. Forse si tratta dell’equivalente esistenziale dell’imparare ad andare in bici: ricordo la fatica enorme e la frustrazione che ho sentito cercando di imparare e immediatamente dopo non riuscivo a capire  perché fosse così difficile. E mentre è probabilmente troppo presto per me per imparare altre capacità essenziali necessarie da usare nelle comunità autosufficienti reali (e quali capacità imparare dipenderà molto da dove si trova quella comunità e chi altro c’è al suo interno quando il collasso raggiunge uno stadio avanzato). Ho un elenco e ci sto lavorando lentamente (in cima all’elenco quest’anno c’è migliorare la mia consapevolezza di me, l’attenzione, le capacità di conversazione e imparare finalmente a nuotare e a ballare).

In questi giorni mi sento impaziente, insoddisfatto, irrequieto e non sono proprio sicuro di cosa fare di me stesso ogni giorno, o cosa dovrei fare del resto della mia vita. Mi sono reso conto con riluttanza che non posso nascondermi dallo stress e dovrò vivere con parecchia incertezza, ambiguità, apparente mancanza di realizzazione e persistente mancanza di resilienza personale ancora per un bel po’ e forse per il resto della mia vita. Eppure, a quello che sembra essere un altro punto di svolta della mia vita, sono straordinariamente grato per tutto ciò che ho e per quanto sia facile la mia vita in confronto a quella della maggior parte delle persone. A differenza della maggior parte delle persone che lottano per sopravvivere in un mondo sempre più duro, ho il lusso di avere tempo e risorse sufficienti per Accendermi, Sintonizzarmi e Abbandonarmi. Ben lungi dall’essere uno slogan sulla fuga e l’irresponsabilità,  penso che sia un percorso per diventare un modello di come vivere durante il collasso e per mostrare agli altri come fare altrettanto. Credo sia folle non intraprenderlo.

more

La popolazione è il vero problema

Dalla pagina FB di Bodhi Paul Chefurka. Traduzione di MR

C’è una vecchia argomentazione ripetuta su cosa abbia più impatto sul pianeta – la popolazione o il consumo, i nostri numeri o i nostri livelli di attività. Ho creduto per diversi anni che i livelli di attività, o il consumo, siano il fattore chiave, uno che dovrebbe essere affrontato anche più urgentemente della crescita della popolazione. Tuttavia, sto per cambiare i miei punti di vista. Mentre il nostro consumo è di fatto la causa immediata dell’impatto ambientale umano, mi sono reso conto che la popolazione è in realtà la chiave del puzzle in alcuni modi non banali.

Gli scienziati Luis Bettencourt e Geoffrey West (ex direttore dell’Istituto Santa Fe) hanno pubblicato una serie di saggi sulla relazione dell’attività umana con le popolazioni delle città. Ciò che hanno scoperto è che le attività che si basano sulla creatività umana (comprese le attività economiche e di ricerca e sviluppo) hanno seguito una curva di crescita che è collegata alla popolazione. Man mano che la popolazione di una città aumenta, la sinergia raggiunta mettendo più persone in contatto più ravvicinato fra loro causa che i livelli della loro attività crescano più rapidamente della popolazione. Bettencourt e West hanno identificato un’equazione conosciuta come “legge di potenza” che ne descrive l’effetto, ne ho parlato brevemente in una nota su FB sul fenomeno dello scaling superlineare.

Di recente ho lavorato ulteriormente sulla connessione fra la nostra popolazione mondiale in crescita e la crescita dell’attività umana complessiva come viene rappresentata dal PIL a dollaro costante nel periodo dal 1950. Essenzialmente, ho considerato il mondo come una singola “città” la cui popolazione cresce nel tempo. Ciò che ho scoperto valida le scoperte di West e Bettencourt a livello globale. Man mano che la nostra popolazione cresce, la nostra attività economica creativa (e quindi il nostro impatto planetario) cresce anche più rapidamente, con una connessione di legge di potenza chiaramente osservabile fra le due. Inoltre, l’esponente che collega le due è altamente superlineare – un valore notevole di 2,65 negli ultimi 60 anni. In altre parole, quando la nostra popolazione raddoppia, la nostra attività economica, ed i suoi conseguenti impatti ambientali, aumenta di sei volte.

Il grafico dimostra questa connessione. La linea blu è il PIL reale dal 1950. La linea rossa mostra la curva del PIL da me calcolata derivata dalla sola popolazione mondiale usando l’equazione della legge di potenza mostrata nel grafico. Come potete vedere, la correlazione è notevolmente stretta.
Questo mi suggerisce che senza accordi internazionali draconiani per regolare l’attività economica, fino a quando la nostra popolazione continua a crescere, il nostro impatto sul pianeta continuerà a surclassarla. Ciò è dovuto alla sinergia creativa del numero di persone in aumento, che sono collegate sempre più da vicino all’interno della “città” globale, attraverso le reti di trasporto e comunicazione in espansione.

more

Le Erinni: mitologia del collasso della civiltà.

di Jacopo Simonetta.

Se ci fidiamo di Georges Dumézil, una delle peculiarità delle civiltà indo-europee è organizzare i concetti  per triadi.   Secondo l’illustre studioso, fra le mitologie derivate dalla (presunta) mitologia arcaica comune, quella greca è quella più aperta agli influssi ed ai “prestiti” provenienti da altre culture e tradizioni.
   Questo la rende una fonte poco affidabile per chi studia la tradizione indio-europea arcaica, ma in cambio la rende una fonte inesauribile di ispirazione e conoscenza.

Fra le numerose “triadi” della tradizione ellenica, ve ne sono alcune decisamente rilevanti, soprattutto fra le divinità ingiustamente definite “minori” dai libri di scuola.   Ingiustamente perché molte di queste divinità detengono invece un potere più antico e profondo di quello degli stessi Dei olimpici.

Questa singolare predilezione per il numero tre potrebbe risultare semplicemente dalla tradizione, ma sono molti i casi in cui i fenomeni naturali si presentano ad un’analisi scientifica contemporaneamente unici e triplici.  

In un mio precedente post ho proposto un’analogia fra le Parche e le tre leggi della termodinamica (sensu Roddier 2012).Qui vorrei parlare di un’altra triade della mitologia greca: le Erinni.   Solitamente chiamate Eumenidi, o con altri appellativi, per evitare di pronunciarne il nome.
Come molte altre divinità, sono nel numero di tre, ma costituiscono un’unità inscindibile.   Ma a differenza delle Chere, delle Arpie o delle Gorgoni, le Erinni vengono evocate dal compimento di un delitto particolarmente efferato, in particolare l’uccisione di uno od entrambi i genitori
Chi è perseguitato da esse non ha scampo.   Tutto ciò che farà per migliorare la propria sorte gli si ritorcerà contro, tutto ciò che gli dava piacere gli darà dolore, tutto ciò che gli dava speranza si dimostrerà catastrofico.   Finché diventerà pazzo; sarà travolto da una furia autodistruttiva che lo condurrà ad una morte orribile.

Molta letteratura ha interpretato queste divinità in chiave psicologica, cioè come personificazioni del rimorso.   E’ una delle molte chiavi di lettura possibili; un’altra è cercare realtà fisiche dietro il simbolo. Può il mito delle Erinni aiutarci a capire quello che sta accadendo a tutti noi ora?   Ovviamente, è opinabile, ma propongo la seguente corrispondenza.

Aletto (“l’incessante).    Sappiamo, o dovremmo sapere, che la nostra civiltà e la nostra stessa vita dipendono dalla disponibilità di risorse.   Risorse che ci permettono di fare cose diverse a seconda della loro natura, qualità e quantità, al netto del lavoro e delle risorse che dobbiamo impiegare per estrarle dall’ecosistema e trasformarle in modo da poterle utilizzare.    E sappiamo, o dovremmo sapere, che cominciamo ad avere dei problemi seri con parecchie delle risorse principali e meno sostituibili come acqua, suolo, biodiversità, petrolio, ecc.

Tisifone (“la vendicatrice).   Tutto ciò che proviene da una qualche forma di fonte, finisce dopo l’uso in una qualche discarica.   Le discariche principali sono gli oceani e l’atmosfera, in cui si accumulano la maggior parte dei nostri rifiuti solidi, liquidi e gassosi.    Ma molte altre ce ne sono, in particolare i suoli e le acque dolci.    Da queste discariche, una parte dei materiali può essere recuperata sotto forma di risorse, generalmente previo un complicato e lungo giro attraverso quei cicli bio-geo-chimici che stiamo con successo facendo a pezzi.    Non solo, l’inquinamento danneggia le risorse ( si pensi alle acque) e dunque aggrava l’azione di Aletto.

Megera (“la maligna).   Ma la “tenaglia” che sta stritolando il nostro presente ed il nostro futuro non ha due sole ganasce, bensì tre.   Fra le fonti e le discariche, si trova l’intero nostro mondo fatto di processi produttivi, reti  di comunicazione, organizzazioni sociali, sistemi politici ecc.    Un mondo che sta cercando di mantenere il controllo della situazione mediante livelli crescenti di complessità.   Ma ad ogni incremento della complessità, aumentano i costi della medesima, non solo in termini monetari, ma anche di materiali, energia, spazio, ecc.   Chi  è minimamente pratico di ciò che sono oggi gli uffici di un normale comune, stenterebbe a credere come erano solo 30 anni addietro.   Per citare un solo, banale esempio.

Inoltre, incrementare la complessità richiede incrementare i consumi e dunque contribuisce sia ad impoverire le fonti, in particolare di energia, sia a saturare le discariche.  

Dunque esaurimento delle fonti (wells), saturazione delle discariche (sinks) ed aumento della complessità costituiscono un infernale girotondo al cui centro ci siamo noi.

Se un’analogia esiste fra le Erinni e la triplice tempesta che si sta scatenando sulle nostre teste, quale delitto può essere stato così terribile da evocarle?

Quando si parla di orrori, la nostra mente moderna corre immediatamente alle guerre ed alle infinite forme di  violenza con cui gli uomini tormentano se stessi.    Ma nella mitologia greca l’aver compiuto stragi e saccheggi non vale assolutamente ad evocare la calamità suprema impersonata dalla Erinni.   Per giungere a tanto è necessario che la violenza sia portata contro la propria stessa stirpe ed in particolare i genitori.   Possiamo considerare che, collettivamente, l’umanità si sia macchiata di un simile delitto?    Direi proprio di si, se consideriamo che la Biosfera è sicuramente la “famiglia” da cui l’umanità è nata e nel cui seno è finora vissuta.

In quest’ottica, la furia autodistruttiva che sta dilagando nel mondo appare essere esattamente il risultato della persecuzione erinnica.   Tutto ciò che facciamo ci si ritorce contro.   Tutto ciò in cui speriamo, si rivela una minaccia; Laddove cerchiamo piacere troviamo dolore.   Cerchiamo di aumentare la produttività e l’efficienza, per scoprire che così spingiamo la disoccupazione e la miseria.   Facciamo figli per perpetuare la nostra stirpe, ma questo non fa che accrescere la minaccia di catastrofe per la nostra specie.   Sviluppiamo tecnologie per ridurre gli effetti negativi della nostra economia, e li usiamo per accrescerli ulteriormente.    Speriamo che la crescita economica ci salvi dal collasso, ma è proprio questa crescita che spalanca la voragine sotto i nostri piedi.

Alla fine, molti sono travolti dalla folle idea che fare qualcosa di terribile può portarci fuori dalla trappola.   La furia autodistruttiva con cui gli integralisti islamici si accaniscono sul loro stesso patrimonio di civiltà e perseguitano la loro stessa gente mi pare appartenga a questa categoria.   Come vi appartengono la furia masochista dei rinascenti nazionalismi e la follia con cui il capitalismo agonizzante si avventa contro qualunque cosa potrebbe assicurare la vita degli uomini in un futuro oramai molto prossimo.

La potenza del mito risiede nella sua capacità di suggerire per via intuitiva concetti che sarebbero troppo difficili da analizzare.    I limiti dello sviluppo appartengono a questa categoria.   Anche i migliori gruppi di studio interdisciplinare, dotati dei più fantasmagorici strumenti di rilevazione ed analisi riescono ad analizzare solo una piccola parte di ciò che sta accadendo.

La fiducia nella mitologia dei nostri avi avrebbe potuto farci capire, molto più semplicemente, che devastare la propria casa e cercare di asservire o distruggere l’intera Biosfera erano un viatico sicuro per una bruttissima fine.   Abbiamo invece avuto fiducia in un altro mito, molto più moderno : quello del progresso che, al contrario, ci ha convinti del nostro buon diritto nel compiere le stesse azioni che le “antiche superstizioni” sconsigliavano.

Chi aveva ragione lo stiamo vedendo.   E se qualcuno non è ancora convinto, nessun problema: basterà aspettare ed osservare quel che succede.

more

Pentagono e Cambiamento Climatico: in che modo i negazionisti mettono a rischio la sicurezza nazionale

DaRolling Stone”. Traduzione di MR (h/t Paul Chefurka)

I capi delle nostre forze armate sanno cosa sta per succedere – ma i negazionisti al Congresso stanno ignorando gli avvertimenti

Di Jeff Goodell


Matt Mahurin 


La stazione navale di Norfolk è il quartier generale della flotta della Marina statunitense nell’Atlantico, una straordinaria raccolta di potere militare, ovvero, in un modo terribile, il culmine della gloria della civiltà americana. 75.000 marinai e civili ci lavorano, il loro l’affare quotidiano di mantenere la flotta lucida e pronta per il dispiegamento in qualsiasi momento. Quando l’ho visitata in dicembre, la portaerei USS Theodore Roosevelt era in porto, una macchina da guerra galleggiante di 1000 piedi di lunghezza che è stata centrale per le operazioni militari in Iraq e Afghanistan. Attrezzature caricate sul ponte dalle gru, marinai che si affrettavano su e giù lungo le passerelle. Elicotteri della marina ci sorvolavano. La sicurezza era stretta ovunque. Mentre stavo osservando uno dei nuovi piloni massicci di cemento a due piani della base che sono grandi quasi come un parcheggio di un ipermercato, mi sono avvicinato per dare un’occhiata più da vicino al USS Gravely, un cacciatorpediniere con missili teleguidati che ha passato molte ore di guardia nel Mediterraneo. Uomini armati sul ponte mi guardavano con circospezione – anche il mio ufficiale di scorta sembrava nervoso (“Penso che dovremmo fare un passo indietro”, ha detto, afferrandomi il braccio).

Non si possono passare 10 minuti in questa parte della Virginia senza percepire il senso profondo della storia: La Battaglia di Hampton Roads, una famosa battaglia decisiva fra due corazzate della Guerra Civile è avvenuta poco al largo. La base è stata un punto di partenza chiave per migliaia di marinai durante la Seconda Guerra Mondiale, molti dei quali non sono mai ritornati. I loro fantasmi sono ancora presenti. La zia o lo zio di chiunque ha una storia da raccontare su una notte in un porto a Brisbane o Barcellona, o sul modo in cui rimbombavano le loro orecchie la prima volta che hanno sentito un cannone sparare dal ponte di una nave.

Ma entro la durata di vita di un bambino nato adesso, tutto ciò potrebbe svanire nell’Oceano Atlantico. La terra su cui è costruita la base sta letteralmente sprofondando, il che significa che i livelli del mare in Norfolk stanno aumentando circa il doppio più velocemente della media globale. Non c’è nessuna altura, nessun luogo in cui ritirarsi. Sembra una palude che è stata dragata ed asfaltata – ed è praticamente così. Basta un temporale o una grande mareggiata e l’Atlantico invade la base – le  strade vengono sommerse, i cancelli d’ingresso invalicabili. Il giorno prima della mia visita, nell’area era passato il grecale. Sull’Isola di Craney, il principale deposito per il rifornimento della base, i veicoli militari erano sotto l’acqua di mare fino agli assi. L’acqua ha invaso una lunga area erbosa vicino ad Admiral’s Row, dove i comandanti delle navi vivono in case sontuose costruite per l’Esposizione di Jamestown del 1907. “E’ la più grande base navale del mondo e dovrà essere spostata”, dice l’ex vice presidente Al Gore. “E’ solo questione di quando”.

Ci sono 29 basi militari, cantieri navali ed installazioni nell’area e molti di loro hanno gli stessi guai. Nella vicina base dell’Aeronautica di Langley, sede di due squadroni di caccia e quartier generale del Air Combat Command, i comandanti della base tengono 30.000 sacchetti di sabbia pronti da posizionare intorno agli edifici quando arriva una grande tempesta. Al Wallops Flight Facility della NASA, l’agenzia ha corazzato la linea costiera con 3 milioni di iarde cubiche di sabbia per proteggere le proprie rampe di lancio dai sollevamenti del mare. “La prontezza militare è già stata condizionata dall’aumento del livello del mare”, dice Virginia Sen. Tim Kaine, dice che con tutti gli allagamenti sta diventando difficile vendere una casa in alcuna parti di Norfolk. Se la fusione della Groenlandia e dell’Antartide Occidentale continua ad accelerare ai tassi attuali, gli scienziati dicono che Norfolk potrebbe avre più di sette piedi di aumento del livello del mare per il 2100. In 25 anni, le operazioni in gran parte di queste basi è probabile che verranno seriamente compromesse. Entro 50 anni, gran parte di esse potrebbero essere spacciate.

Se la regione venisse colpita da un grande uragano, la resa dei conti potrebbe arrivare anche prima. “Si potrebbero spostare alcune navi in altre basi o costruire nuove basi più piccole in posti più protetti”, dice il Capitano della Marina in pensione Joe Bouchard, un ex comandante della Stazione Navale di Norfolk. “Ma i costi sarebbero enormi. Parliamo di centinaia di miliardi di dollari”.

Il Contrammiraglio Jonathan White, l’oceanografo capo della Marina e capo della sua task force sul cambiamento climatico, è una delle persone più ben informate fra i militari su cosa stia veramente accadendo nel nostro pianeta in rapido riscaldamento. Ogni qualvolta un altro ufficiale o un deputato mette all’angolo White e lo incalza sul perché passi tanto tempo a pensare al cambiamento climatico, lui non cerca nemmeno di spiegare l’espansione termica degli oceani o le dinamiche del ghiaccio nell’Artico. “Li porto semplicemente a Norfolk”, dice White. “Quando vedi cosa sta succedendo laggiù, ti da un’idea di cosa significhi il cambiamento climatico per la Marina – e per l’America. E si può capire perché siamo preoccupati”.

Coloro che parlano prevalentemente di cambiamento climatico – scienziati, politici, attivisti ambientali – tendono ad inquadrare la discussione in termini economici e morali. Ma il mese scorso, con una svolta drammatica, il presidente Obama ha parlato di cambiamento climatico in un contesto esplicitamente militare: “Il Pentagono dice che il cambiamento climatico pone rischi immediati alla nostra sicurezza nazionale”, ha detto nel suo Discorso sullo Stato dell’Unione. “Ci dovremmmo comportare di conseguenza”.

Da un lato, questa è solo politica scaltra, un modo per parlare del cambiamento climatico a persone alle quali non importa dei tassi di estinzione fra i rettili o dei prezzi del cibo in Africa Orientale. Ma è anche un modo di colpire tutti i negazionisti del Congresso che hanno bloccato l’azione climatica – molti dei quali risultano essere grandi sostenitori dei militari. La Commissione per i Servizi Armati del Senato è costituita da personaggi come James Inhofe dell’Oklahoma, Ted cruz del Texas e Jeff Sessions dell’Alabama ed è condotto da John MacCain dell’Arizona che, prima di correre per la presidenza nel 2008, era stato un esplicito sostenitore dell’azione climatica, ma negli ultimi anni è rimasto in silenzio riguardo al problema. La Commissione per i Servizi Armati  ora è presieduta dal repubblicano Mac Thornberry del Texas, che nel 2011 in un editoriale ha sostenuto che la preghiera è una risposta migliore del taglio dell’inquinamento da carbonio alle ondate di calore e alla siccità.

A qualsiasi ufficiale che abbozzi un collegamento fra cambiamento climatico e sicurezza nazionale è garantita una reazione rabbiosa da parte della destra. Il Segretario alla Difesa uscente Chuck Hagel di recente ha definito il cambiamento climatico “un moltiplicatore di minacce” che “ha il potenziale di esasperare molte delle sfide che stiamo affrontando oggi – dalle malattie infettive al terrorismo”. In risposta, l’editoriale del Wall Street Journal ha trattato Hagel come un delirante ‘abbraccia alberi’: “Agli americani che potrebbero morire per mano dello Stato Islamico non importerà del fatto che il signor Hagel si mobiliti contro la fusione dei ghiacciai”. In un discorso a Jakarta dello scorso anno – una città di quasi 30 milioni di abitanti che sta rapidamente sprofondando – il Segretario di Stato John Kerry a definito il cambiamento climatico “forse la più spaventosa arma di distruzione di massa del mondo” e lo ha paragonato al terrorismo, alle epidemie e alla povertà. McCain ha immediatamente respinto le preoccupazioni di Kerry e lo ha accusato di “svolazzare per il mondo dicendo qualsiasi cosa”; l’ex leader repubblicano Newt Gingrich ha twittato, “Ogni americano a cui importi della sicurezza nazionale deve richiedere le dim issioni di kerry. Un segretario di stato delirante è pericoloso per la nostra sicurezza”.

Prima che il cambiamento climatico diventasse un tabù per i repubblicani, era possibile anche per i politici conservatori avere discussioni razionali sul tema. Nel 2003, sotto Donald Rumsfeld, l’ex segretario alla difesa del presidente George W. Bush, il Pentagono ha pubblicato un rapporto intitolato “Uno scenario di cambiamento climatico improvviso e le sue implicazioni per la sicurezza nazionale degli stati uniti”. Commissionato da  Andrew Marshall, che a volte all’interno del Pentagono viene scherzosamente chiamato Yoda – e che era un favorito di Rumsfeld – il rapporto avvertiva che le minacce alla stabilità globale poste da un rapido riscaldamento eclissavano ampiamente quelle del terrorismo. Parte della scienza climatica del rapporto era sbagliata, ma le conclusioni più ampie non lo erano. “Distruzione e conflitto saranno caratteristiche endemiche della vita”, affermava il rapporto. “La guerra definirà di nuovo la vita umana”.

Un tempo voce autorevole sul cambiamento climatico, il senatore John McCaine, presidente dellla Commissione per i Servizi Armati del Senato, ora parla raramente dei problemi. Andrew Harper/Bloomberg/Getty

Anche McCain, ora fermamente nel campo negazionista, non esitava a delineare la connessione fra cambiamento climatico e sicurezza nazionale. “Se gli scienziati hanno ragione e le temperature continuano a salire”, ha detto al Senato nel 2007, “potremmo essere di fronte a conseguenze ambientali, economiche e di sicurezza nazionale ben al di là della nostra capacità di immaginazione”.

Questo tipo di discorso è svanito dal partito dopo il 2008, quando il Partito Repubblicano si è trasformato in una succursale delle Industrie Koch. Da allora, i Repubblicani hanno lavorato duramente per minare qualsiasi connessione fra clima e sicurezza nazionale. Caso in questione: nel 2009 l’allora direttore della CIA Leon Pennetta ha silenziosamente fatto partire il Centro per il Cambiamento Climatico e la Sicurezza Nazionale. E’ stato un tentativo diretto da parte della comunità dell’intelligence di mettere insieme una migliore conoscenza dei cambiamenti in arrivo. Fra le altre cose, il Centro ha finanziato un grande studio sulla relazione fra cambiamento climatico e stress sociale, con il patrocinio dell’Accademia Nazionale delle Scienze, una delle organizzazioni scientifiche più rispettate del paese. I negazionisti climatici del Congresso non hanno gradito, specialmente il repubblicano John Barrasso del Wyoming, uno stato Big Coal. Quando il rapporto è stato completato, Panetta aveva lasciato la CIA e il suo successore, il generale David Petraeus, lo ha lasciato in un cassetto. “Abbiamo percepito una pressione costante ad annacquare le nostre conclusioni”, dice uno dei coautori del rapporto dell’Accademia Nazionale. Il giorno in cui è stato pubblicato il rapporto, la conferenza stampa è stata improvvisamente cancellata e il rapporto è stato sepolto. Poche settimane dopo, il Centro per il Cambiamento Climatico e la Sicurezza Nazionale è stato sciolto.

Barrasso è stata anche una figura chiave nel far deragliare le audizioni al Senato sulla connessione fra clima e sicurezza nazionale. Lo scorso anno Daniel Chiu, uno dei maggiori strateghi del Pentagono, ha intelligentemente testimoniato sulle implicazioni di sicurezza nazionale del cambiamento climatico. Ma nelle domande e risposte che sono seguite, Barasso è finito in un mondo di fantasia, facendo a Chiu domande sui “sindacati criminali internazionali globali” che stanno manipolando le politiche ambientali europee “per aiutare e sostenere le organizzazioni terroriste e i cartelli della droga che vogliono danneggiare noi e i nostri alleati”.

I negazionisti del Congresso hanno incalzato il Pentagono dove gli ufficiali militari sono più sensibili: il loro bilancio. Lo scorso anno, i repubblicani hanno presentato un emendamento sul disegno di legge per gli stanziamenti alla difesa che ha proibito al Pentagono di spendere soldi nell’implementazione delle raccomandazioni dell’ultimo rapporto dell’IPCC dell’ONU. “L’emendamento non ha avuto effetti sul bilancio della difesa, visto visto che le raccomandazioni dell’IPCC in realtà a noi non si applicano”, mi ha detto un interno del Pentagono. “Ma l’intento era chiaro: questa sarà una guerra”.

La scala delle risorse militari che sono a rischio a causa del clima che cambia rapidamente è sbalorditiva. Il Pentagono gestisce più di 555.000 strutture e 28 milioni di acri di terreno – virtualmente tutti subiranno l’impatto del cambiamento climatico in qualche modo.

Quasi ogni base navale o aeronautica nella costa orientale è vulnerabile all’aumento del livello del mare e alle tempeste, compresa la base dell’aeronautica di Eglin, la più grande base aerea degli Stati Uniti, che si trova nel bassopiano di Panhandle in Florida e la base aeronautica di Patrick sulla costa atlantica della Florida. Ad occidente, il problema spesso sono le siccità e le alluvioni improvvise. Fort Irwin, una base dell’esercito di sette miglia quadrate nel sud della California, sul margine del deserto del Mojave, ha problemi con entrambi. L’epica siccità della California ha messo in discussione le forniture idriche a lungo termine della base. Fort Irwin è una delle sole basi negli Stati Uniti con lo spazio e l’isolamento da permettere la simulazione di una guerra di carri armati in scala. Allo stesso tempo, la base è stata colpita da eventi piovosi estremi. Nell’agosto del 2013, quando l’equivalente di un anno di pioggia è caduto in 80 minuti, l’alluvione ha causato alla base 64 milioni di dollari di danni.

Su in Alaska, il problema è lo scongelamento del permafrost e l’erosione costiera causata da tempeste più forti e maree più alte. E installazioni radar di primo avvistamento dell’aeronautica, che aiutano gli Stati Uniti a mantenere una stretta sorveglianza da qualsiasi cosa possa essere lanciata verso di noi dalla Corea del Nord o dalla Russia, sono state colpite in modo particolarmente duro. In un’installazione, sono stati persi 40 piedi di spiaggia, mettendo in pericolo l’affidabilità del radar. Presso altre installazioni, il permafrost che si scongela ha causato l’inclinazione e il disallineamento dei radar.

In alcuni luoghi, questi impatti sono poco più che costosi fastidi. Ma in alti, il futuro di intere installazioni, molte delle quali virtualmente insostituibili a causa del loro posizionamento geografico e strategico, è messo a repentaglio. La base navale statunitense Diego Garcia, un piccolo atollo corallino nell’Oceano Indiano, come le vicine Maldive, è sicuro che scompaia. Costruita durante la Guerra Fredda, la Diego Garcia ha dato ai militari statunitensi appoggio per contrastare l’influenza sovietica nella regione, così come per proteggere le linee navali al di fuori del Medio oriente. In anni più recenti, questo raro bene strategico è diventato un nodo logistico cruciale per mandare approvvigionamenti alle forze alleate in Medio Oriente, nel mediterraneo e nell’Europa Meridionale. La base ospita anche l’attrezzatura della Rete di Controllo Satellitare dell’aeronautica usata per controllare il GPS. Le navi e l’attrezzatura possono essere spostate abbastanza agevolmente, ma abbandonare un punto d’appoggio militare in una parte vitale ma infiammabile del mondo non è una cosa che i militari amano fare. “Per la Marina, la presenza conta”, dice il Contrammiraglio in pensione David Titley.

Il Pentagono sta esaminando le sue 704 installazioni e siti costieri in un grande studio per cercare di capire quali basi siano più a rischio. Alla fine dovranno essere prese alcune decisioni difficili su quali chiudere, spostare o proteggere. Anche speculando sul numero di possibili chiusure, è un argomento troppo caldo da toccare per chiunque al pentagono in questo momento. Ma il processo non può essere rimandato a lungo. Il prossimo incontro della Commissione per il Riallineamento e la Chiusura delle Basi (BRAC) potrebbe tenersi nel 2017. “Nel BRAC, tutte le decisioni sono basate sul valore militare”, dice John Conger, il vice sottosegretario della difesa, che è responsabile del BRAC. “Il cambiamento climatico condizionerà il valore militare dell’installazione?. Be’, certo che lo condizionerà. La domanda è: dominerà l’equazione? E non credo che lo farà – ancora”.

Proprio come ci sono punti caldi del cambiamento climatico, ci sono anche punti caldi del negazionismo climatico – e la Virginia è uno di questi. L’Assemblea Generale della Virginia dominata dai repubblicani è stata ostile alla discussione del cambiamento climatico – un legislatore ha chiamato l’aumento del livello del mare “un termine di sinistra”. La frase politicamente accettabile in Virginia è invece “alluvione ricorrente”.

Man mano che i livelli del mare si alzano, le alluvioni sono diventate più comuni nella base. Michael Pendergrass/U.S. Navy

Ciò rende difficile per la Marina affrontare il problema più immediato che ha Norfolk: mantenere aperte le proprie strade. Uno studio dell’Istituto per la Scienza Marina della Virginia ha identificato quasi 300 miglia di strade vulnerabili alle alluvioni nell’area di Norfolk. “Se le persone non possono andare al lavoro alla base perché le strade vengono allagate, abbiamo un grande problema”, dice il Capitano J. Pat Rios, che è il responsabile delle strutture della Marina nella regione dell’Atlantico centrale. Ma le strade a Norfolk sono responsabilità dello stato e ricostruirle ora non è una priorità. Siccome molti degli uomini e donne della legislatura della Virginia non credono che il cambiamento climatico sia un problema urgente, non vogliono spendere troppi soldi nell’affrontare le minacce che pone. “Trovano strade da sistemare in altre parti dello stato”, dice Joe Bouchard.

Per ora, la strategia della Marina è quella di guadagnare tempo. Alla fine degli anni 90, gli ingegneri della Marina si sono resi conto che 13 moli della base, alcuni dei quali risalgono alla Seconda Guerra Mondiale, stavano raggiungendo la fine del loro ciclo di vita. Siccome erano stati costruiti in un periodo in cui nessuno pensava all’aumento del livello del mare, i moli erano relativamente bassi rispetto al livello dell’acqua. Con l’alta marea, le strutture presenti lungo il lato inferiore delle piattaforme dei moli – elettriche, di vapore, telefoniche, Internet – venivano spesso sommerse dall’acqua, rendendole inutilizzabili. “Non era un problema da poco – non era un problema operativo minore”, dice Bouchard. “L’aumento del livello del mare stava interferendo con la prontezza al combattimento della flotta atlantica”.

Finora, sono stati costruiti 4 nuovi moli, che sono più alti, più forti e meglio progettati di quelli vecchi. Bouchard, che è stato comandante mentre i primi moli nuovi venivano costruiti, dice “sono stati costruiti con l’aumento del livello del mare in mente”. Ma sulla base nessuno vuole parlare direttamente di spendere soldi per affrontare l’aumento del livello del mare, principalmente perché sono preoccupati di attrarre il giudizio da parte dei negazionisti climatici del Congresso, che sono felici di sottolineare qualsiasi spesa che abbia la parola “clima” dentro. Piuttosto, molte persone fra i militari finiscono per parlare di clima come gli adolescenti parlano di sesso – con parole in codice e un linguaggio suggestivo. “Non abbiamo alzato i moli a causa del cambiamento climatico”, mi dice il Capitano Rios durante la mia visita alla base. Non è che mi faccia l’occhiolino, ma quasi.
“Allora perché li avete alzati?” Chiedo.

“Perché ci servono nuovi moli. E visto che li stavamo costruendo, non costava tanto di più farli più alti”.

Ma costruire moli più alti non salverà la base di Norfolk. A prescindere da quanti soldi spenda il Pentagono, non importerà se le persone non possono raggiungere la base perché le strade sono sott’acqua o nessuno vuole vivere nell’area perché il valore delle loro case cola a picco. “Per salvare la base, bisogna salvare la regione”, dice Bouchard. Con l’aiuto della Casa Bianca, lo stato e i funzionari locali di recente approntato di recente un progetto pilota biennale con la Marina per cominciare ad affrontare questi problemi. Ma al momento le soluzioni sono molto lontane.

L’aumento del livello del mare è solo una delle minacce alimentate dal clima che stanno rendendo il mondo più pericoloso e volatile. Le siccità hanno contribuito all’aumento del prezzo del cibo che ha innescato la rivolta della Primavera Araba in Egitto nel 2011; ha anche aiutato ad innescare la guerra civile in Siria. Nelle Nigeria settentrionale, una regione destabilizzata da cicli di siccità e alluvioni estremi, Boko Haram sta terrorizzando i villaggi e uccidendo migliaia di nigeriani.

Il cambiamento climatico sta anche rimodellando i confini dei continenti. In nessun luogo più che nell’Artico, che è probabile che diventi un grande punto critico nelle dispute territoriali e nelle guerre per le risorse del futuro. “La fusione del ghiaccio sta aprendo un nuovo oceano”, dice l’Ammiraglio Gary Roughead, che è stato capo delle operazioni navali statunitensi dal 2007 al 2011. “E’ un evento che si verifica una volta ogni millennio”. Il 13% del petrolio non scoperto del mondo si trova al di sotto dell’Artico, così come il 30% del gas naturale non scoperto e più di un trilione di dollari di ricchezza in minerali. “Il modo migliore in cui l’ho sentito spiegare”, dice il Contrammiraglio Daniel Abel della Guardia Costiera statunitense, è questo: “immaginate se aveste un canale di Panama e un’Arabia Saudita in energia che si manifestano nello stesso posto in un’area sotto la vostra responsabilità. Come la prendereste?”

Si possono già intravedere i segni di un futuro militarizzato nell’Artico. Nel 2007, i soldati russi si sono immersi a 17.000 piedi sotto il Polo Nord in un mini sottomarino ed hanno piantato la bandiera russa nel fondo del mare, marcandolo come loro territorio. “Non siamo nel 15° secolo – non si può andare in giro a piantare bandiere” per rivendicare dei territori, ha detto sprezzante il ministro per gli Affari Esteri canadese Peter MacKay. Lo scorso settembre, sei jet da combattimento russi sono stati individuati vicino all’Alaska; quando i jet statunitensi e canadesi hanno intercettato gli aerei russi a circa 55 miglia dalla costa – ancora al di fuori dello spazio aereo americano, ma più vicino di quanto non volino normalmente – i russi hanno girato e si sono diretti verso casa, ma è stato un incontro ravvicinato, un incontro che si sta verificando con frequenza crescente negli ultimi mesi. A novembre, un sottomarino russo nel mare di Barents, vicino alla Groenlandia, ha testato un missile intercontinentale Bulava – il Bulava è l’ultima mortale arma nucleare russa. Il missile ha una gittata di circa 5.000 miglia e può essere caricato con 10 testate nucleari, ognuna delle quali può essere manovrata individualmente. Un Bulava lanciato da un sottomarino nell’Artico potrebbe facilmente raggiungere Boston, New York o Washington D.C.

All’interno del Pentagono, queste provocazioni sono state viste come qualcosa di più dei vecchi giochi della Guerra Fredda. Agli occhi di alcuni pianificatori, Putin stava mandando un messaggio neanche tanto nascosto del fatto che pensa che all’Artico allo stesso modo in cui gli americani un tempo pensavano al Far West: un territorio vasto e non civilizzato di risorse che sarà dominato da chiunque lo rivendichi per primo.

Dopo la Guerra Fredda, i militari statunitensi hanno ampiamente dimenticato l’Artico. Era troppo ostile, troppo proibitivo, troppo costoso operare lassù e senza i sovietici di cui preoccuparsi, c’erano poche ragioni per farlo. Negli anni 90, man mano che Big Oil ha sviluppato progetti per esplorare la regione per il petrolio e il gas, la preoccupazione della Marina è cresciuta – Roughead dice che una grande esplosione di una piattaforma di trivellazione nell’Artico “farebbe sembrare la Deepwater Horizon una passeggiata”. Ma date le complessità della trivellazione nell’Artico, questa sembrava una minaccia lontana nel futuro.

Nel 2007 un sottomarino russo ha piantato la bandiera del suo paese sul fondo del mare dell’Artico. La fusione delle calotte glaciali hanno aperto un nuovo oceano nella regione ricca di risorse che gli Stati Uniti sono mal equipaggiati a proteggere. RTR Russian Channel/AP Images

I capi della Marina hanno cominciato a pensare alla regione in modo diverso nel 2007 che, quando la storia del cambiamento climatico sarà scritta, risulterà uno dei punti di svolta. Quell’estate, gli scienziati erano sorpresi della sparizione inattesa del ghiaccio marino che ha liberato 1 milioni di miglia quadrate di acqua – 6 California – oltre della media, da quando i satelliti hanno cominciato le misurazioni nel 1979. Roughead ha messo insieme una task force della Marina per capire cosa stesse succedendo. “Volevo capire realmente le tendenze a lungo termine così potevamo cominciare a pensare strategicamente alle sfide che avremmo potuto affrontare nell’Artico e cosa avremmo dovuto fare lassù”, dice Roughead. “L’idea era di approfondire questo aspetto anziché seguire le grida del Pentagono, ‘Hey ragazzi, il cambiamento climatico è una cosa grossa’”.

Gli scienziati della Marina stimano che per l’estate del 2025 la fusione dl ghiaccio marino estivo nell’Artico sarà abbastanza grande da permettere che i trasporti transpolari si espandano sulla Rotta del Mare del Nord, che passa attraverso il Mare di Barents lungo la costa russa e riduce il tempo di transito fra Asia ed Europa di un terzo. Man mano che il ghiaccio si scioglie, ci saranno più turisti che navigano nel Passaggio a Nordovest lungo la costa canadese. Ci saranno più trivellazioni nel Mare di Chukchi Sea a ovest  dell’Alaska. Ci sarà più traffico verso la Groenlandia, dove le società minerarie si stanno già mettendo in coda per estrarre i minerali che verranno resi accessibili dal ritiro delle calotte polari. Con tutto questo nuovo traffico marittimo, è inevitabile che la Marina dovrà rispondere a sempre più incidenti lassù, dalle missioni di ricerca e salvataggio al probabile contrasto delle azioni aggressive della Marina russa. O, allo stesso modo probabile, da parte dei cinesi, che sono desiderosi di attingere dalle ricche riserve di petrolio e gas dell’Artico. “La Marina degli Stati Uniti non cede un oceano a nessuno”, sostiene Titley. “Siamo una grande potenza”.

Ma la Marina degli Stati Uniti è anche, secondo Roughead, “tristemente impreparata” ad operare nel ghiacciato e spietato Artico. La Marina non ha buone capacità di previsione meteo lassù; le comunicazioni satellitari sono inaffidabili; solo circa il 10% del fondo del mare è stato scandagliato, quindi i naviganti sono inconsapevoli degli ostacoli sottomarini. Le missioni sottomarine sono diventate anche più pericolose a causa dell’imprevedibilità dei cicli di congelamento del ghiaccio marino .La cosa più importante, siccome nessuno nella Marina aveva dato priorità alla necessità di operare nell’Artico, poche navi della Marina sono preparate al freddo. I loro sistemi di idraulici e di ventilazione non funzionano appropriatamente a temperature di congelamento, i loro scafi non sono rinforzati per il ghiaccio. Come dice Titley, “L’incubo di ogni comandante della Marina è che succeda qualcosa nell’Artico – una nave piena di turisti che affonda, un attacco terroristico, un incontro coi militari russi – e di dovere prendere il telefono e dire, ‘Mi dispiace, signor Presidente. Vorremmo fare qualcosa per questo, ma non abbiamo proprio l’equipaggiamento che ci permette di rispondere a questa situazione’”.

Quando si tratta di sicurezza nell’Artico, nessun equipaggiamento è importante quanto un rompighiaccio. Virtualmente ogni nazione che rivendica l’Artico sa questo: la Russia ha 43 rompighiaccio (sei dei quali sono alimentati da propulsori nucleari); il Canada ne ha 13; la Finlandia ne ha 9. Gli Stati Uniti ne hanno uno, il Polar Star, che è gestito dalla Guardia Costiera statunitense. Ha quasi 40 anni. Entro un decennio, verrà rottamato e non ci sono progetti per costruirne un altro. “Non finanziandoli”, dice Titley, “mandiamo un telegramma al resto del mondo dicendogli che l’Artico non ci interessa”.

Il cartellino del prezzo di un nuovo rompighiaccio è di un miliardo di dollari – non economico, ma circa un terzo del prezzo di un cacciatorpediniere. E non è una cosa che il repubblicano Duncan Hunter, il negazionista climatico di San Diego che presiede il sottocomitato della Casa che sovrintende agli affari della Guardia Costiera, voglia sentirsi dire. (Anche se sembra essere a favore di un Artico libero dal ghiaccio: “Migliaia di persone muoiono ogni anno di freddo, quindi se avessimo un riscaldamento globale salverebbe delle vite”, ha detto a un gruppo di californiani nel 2009). Dal punto dell’osservatore del Pentagono, il problema non  è solo che i negazionisti come Hunter non vedono la necessità di rompighiaccio, “non vedono la necessità di nessuno pensiero strategico riguardo all’Artico”. Senza rompighiaccio in attività, il californiano John Garamendi, il rappresentante democratico nel subcomitato di Hunter, ha detto alla Associated Press che “il controllo dell’Artico è nelle mani della Russia”.

L’altro problema è la mancanza di leggi del nuovo oceano, specialmente quando si tratta di esplorazione per petrolio e gas sotto il ghiaccio in ritirata. Ogni nazione gode dei diritti di sovranità fino a 200 miglia al largo della proprie coste – ma oltre a quel limite? Come dovrebbe essere suddiviso?Nel 2010, un Ammiraglio cinese ha dichiarato che siccome la Cina ha il 20% della popolazione mondiale, dovrebbe avere il 20% delle risorse dell’Artico. Giusto o meno, questo non è certamente un punto di vista che la Russia – o gli stati Uniti, per quello che vale – è improbabile che approvi.

Per risolvere questo tipo di rivendicazioni, così come per dare una struttura legale ai diritti e alle responsabilità dei paesi rispetto agli oceani, i membri delle Nazioni Unite hanno passato decenni a negoziare un accordo, formalmente conosciuto come Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS). Fra le altre cose, la UNCLOS riconosce che le nazioni hanno il diritto di rivendicare le risorse lungo quello che è conosciuto come “estensione della loro piattaforma continentale”, che fondamentalmente significa qualsiasi caratteristica del terreno che si estende al di là del confine delle 200 miglia. L’accordo è stato portato a termine nel 1982 ed ora è stato firmato da altri 60 paesi, compresa la Russia e tutte le altre nazioni artiche – eccetto gli Stati Uniti. Anche se l’accordo è ampiamente sostenuto da Big Oil, dai capi  militari statunitensi e da tutti i presidenti americani da Reagan in poi, i contrari come il senatore Inhofe, decano dei negazionisti climatici al Congresso, e il repubblicano dell’Ohio Jim Jordan sono stati capaci di bloccare la partecipazione degli Stati Uniti affermando che l’accordo contrasta con la libertà americana e che la distribuzione delle royalty dell’accordo favorirebbero un “una burocrazia corrotta in stile ONU” per deviare miliardi di dollari dall’economia statunitense “tassando” i profitti delle multinazionali.

Le risorse che gli Stati Uniti potrebbero giustificabilmente rivendicare se riconoscessero il Diritto del Mare sono ampie. Nella sola Alaska, la piattaforma continentale si estende a 600 miglia dalla costa, con 73 miliardi di barili di petrolio stimati e di gas naturale equivalente al petrolio. I sostenitori dell’accordo stimano che queste risorse potrebbero generare 193 miliardi di dollari di introiti federali, statali e locali in un periodo di 50 anni.

Mettendo da parte le conseguenze economiche, da un punto di vista della sicurezza nazionale, è folle rimanere fuori dal solo accordo internazionale che può risolvere dispute sulle rivendicazioni territoriali prima che crescano. “Credo che la nostra presenza nel trattato costituirebbe una maggiore stabilità e sicurezza e non solo nell’Artico”, sostiene Roughead. “Favorirebbe anche che le nostre rivendicazioni sulla piattaforma continentale estesa vengano riconosciute a livello internazionale”. In quanto all’argomentazione avanzata da Inhofe ed altri per cui aderendo al trattato indeboliremmo i poteri della marina statunitense e della Guardia Costiera e passeremmo l’autorità alle Nazioni Unite, Roughead è immediatamente liquidatorio: “Non è per niente così”.

Man mano che il mondo si scalda, i militari statunitensi verranno inevitabilmente evocati per condurre più missioni per catastrofi e per aiuto umanitario. I militari statunitensi, naturalmente, non sono un’operazione di salvataggio dell’orso polare. “I militari hanno molti ruoli importanti, dice Sharon Burke, una ex assistente della segreteria alla difesa. “Ma il lavoro principale è quello di combattere guerre. Questo significa distruggere cose e uccidere persone”. Ma i militari sono anche fieri della loro mentalità pratica, sia in tempo di guerra sia in tempo di pace. I capi militari hanno abbracciato l’abolizione della segregazione razziale molto prima del resto della nazione, in parte perché volevano le persone migliori che potevano trovare, a prescindere dal colore. “E’ il nostro lavoro avere a che fare col mondo com’è, non come vogliamo che sia”, dice Robert Freeman, un meteorologo e membro della task force sul cambiamento climatico della Marina.

L’Ammiraglio Samuel Locklear III, responsabile della forze armate statunitensi nel Pacifico, è uno degli uomini più rispettati fra i militari statunitensi – e quello col lavoro più difficile, con la Cina e la Corea del Nord da controllare. “L’agitazione politica e sociale che è probabile che vedremo a causa del nostro pianeta in rapido riscaldamento” ha detto Locklear al Boston Globe nel 2013, “probabilmente è la cosa più probabile che… paralizzerà l’ambiente della sicurezza, forse più probabile degli altri scenari a cui spesso pensiamo”.

Poco dopo, Locklear è stato convocato dalla Commissione per i Servizi Armati del Senato, dove Inhofe gli ha chiesto di “chiarire” le sue osservazioni. E lui lo ha fatto, con calma e forza, insegnando ai senatori come le popolazioni costantemente in crescita dell’Asia metterebbero solo più persone a rischio di tempeste ed altri disastri collegati al clima. “OK, la interromperò qui”, ha detto Inhofe, rendendosi conto che stava perdendo la battaglia. Ed ha rapidamente cambiato discorso.

Il senatore James Inhofe in convenevoli con l’Ammiraglio Samuel Locklear III. J. Scott Applewhite/AP Images

Ciò che Locklear prevede correttamente è che un mondo di caos generato dal clima è già qui e peggiorerà soltanto. E dobbiamo cominciare a parlarne adesso, perché non solo le minacce si moltiplicheranno, ma lo faranno anche le questioni che dovremo affrontare. Una cosa è pianificare l’invasione della spiaggia della Normandia o l’assedio di Falluja, tutt’altra cosa è pianificare di essere la squadra di salvataggio dell’intero pianeta. Abbiamo già speso più di un trilione di dollari in Iraq e Afghanistan senza nessun successo misurabile. Quanto possiamo ancora permetterci di fare? “Penso che dobbiamo fare delle scelte strategiche”, dice Roughead. “Di quali parti del mondo ci importa di più? Quali sono i punti critici strategici? Vogliamo essere in grado di operare nell’Artico o no? Per quale tipo di mondo ci stiamo preparando?” Alcuni analisti di intelligence sostengono che la superiorità militare statunitense sarà il vantaggio meno significativo in futuro perché nessuno ci attaccherà con massicce forze convenzionali. Piuttosto, verremo tirati sempre più dentro a piccoli conflitti alimentati del terrorismo, dagli stati falliti e dai disastri naturali.

“Quando gli oceani salgono, l’instabilità fluisce”, dice il Segretario della Marina Ray Mabus. Ashton Carter, la scelta di Obama come Segretario alla Difesa, non è conosciuto dagli insider del Pentagono per il suo focus sulle minacce del cambiamento climatico. E le possibilità di qualsiasi azione significativa al Congresso prima del 2016 sono pari a zero. Ma il caos aumenta, è inevitabile che chiederemo ai nostri militari di fare di più. Ad un certo punto, il negazionismo climatico si trasformerà in panico climatico e la richiesta di legge, ordine e stabilità prevarrà (così come prevarranno le richieste di soluzioni tecnologiche rapide e pericolose come la geoingegneria per raffreddare il pianeta e fermare l’aumento del livello dei mari). Come ha sottolineato un analista militare, i militari statunitensi sono la sola forza sul pianeta con capacità di fare da poliziotti, trattare, alloggiare, nutrire e spostare i rifugiati in massa. Ma si può capire quanto questo quadro possa farsi oscuro in fretta – una delle minacce a lungo termine più grandi che pone il cambiamento climatico potrebbe essere alle libertà civili e alla libertà in generale. “Non è questione di cosa i militari possano fare per il cambiamento climatico”, dice un ex funzionario del Pentagono. “E’ cosa farà il cambiamento climatico ai militari ed alle loro missioni”. E’ un’idea spaventosa, ma è lì che siamo diretti. Alla fine, non importa quante road map di adattamento climatico il Pentagono presenti. Ora siamo impegnati in un futuro di disordine e conflitto – un futuro in cui le emergenze di oggi interromperanno sempre i piani per domani.

Un membro della Casa Bianca ricorda di essere entrato nell’ufficio di un generale dell’esercito non molto tempo fa. “Vorrei parlarle del cambiamento climatico” gli ha detto. Il generale non si è nemmeno disturbato a guardarlo. “Vorrei”, ha detto. “Ma devo scrivere una lettera ad una famiglia alla quale è morto un figlio”.

more

L’aumento del livello del mare minaccia di affogare Miami,

DaMiamiNewTimes”. Traduzione di MR (h/t Maurizio Tron

Di Tim Elfrink

Foto di Bill Cooke
Un’alluvione lampo ha lasciato la Spiaggia Sud sott’acqua nel 2009.

Vivere a Miami nel 2015 e nutrire dubbi sull’aumento del livello del mare equivale più o meno ad essere un negazionista dei vulcani a Pompei nel 79 DC. La catastrofe sta avvenendo. La sola domanda è quanto in fretta il cambiamento climatico allagherà alcune parti della Florida. La risposta, secondo un nuovo lavoro di un ricercatore dell’Università di Miami: più velocemente di quanto pensiamo.

“Mi chiedono sempre: ‘Quando accadrà? Quando cominceremo a vedere l’aumento del livello del mare?’”, dice Brian McNoldy, un associato di ricerca senior alla Scuola Rosentiel di Scienze Marine e Atmosferiche dell’Università di Miami. “Ci siamo già dentro. Sta accadendo”.

Per mettere su grafico questo aumento, McNoldy di recente si è digerito due decenni di dati di una stazione di monitoraggio delle maree sulla Virginia Key. Per prima cosa, ha verificato le altezze del livello del mare massime, minime e media misurate alla stazione dal 1996, quando è stata allestita, fino ad oggi.

Nella ricerca postata la settimana scorsa, ha riportato che nel 2014, la tendenza lineare di tutte e tre è stata più alta di più di tre pollici del 1996.

Ancor più preoccupante, però, è il fatto che i dati suggeriscono che la tendenza sta accelerando. Mettendo su grafico solo la marea più alta ogni giorno e suddividendo quell’informazione in periodi di 5 anni, McNoldy ha scoperto che il livello massimo dell’alta marea è salito di una media di 0,3 pollici all’anno complessivamente – ma un molto più alto 1,27 pollici all’anno negli ultimi 5 anni.

Per gentile concessione di Brian McNoldy
Suddiviso in periodi di 5 anni, il punto di marea più alto a Virginia Key sta salendo ad un tasso nettamente in accelerazione.

“E’ stato sorprendente”, dice  McNoldy. “Non mi ero reso conto che in un tempo così breve, risalendo solo al 1996, si sarebbe vista una tendenza del genere”.

Una sfida del convincere le persone a prendere sul serio la minaccia dei mari in aumento è che il cambiamento è incrementale, non è un’eruzione pompeiana improvvisa ma un disastro alla moviola.

Ma McNoldy dice che spera che i suoi dati aggiungono più combustibile alla discussione crescente su cosa fare a Miami, dove i rischi comprendono non solo miliardi di dollari in proprietà lungo la costa, ma anche una falda acquifera – la fonte di acqua potabile per milioni di persone – che potrebbe presto venire infiltrata dalle acque marine in salita.

McNoldy non ha risposte su come affrontare questi problemi, ma è felice che ne parliamo. “E’ una cosa buona per Miami”, dice. “Qui le persone riconoscono quello che sta succedendo e stanno cercando di fare delle cose, mentre in altre parti del nostro paese girano le spalle”.

more

Come fanno gli imperi a cacciare gli orsi? Il controllo delle risorse naturali dall’antica Roma ai giorni nostri

DaResource Crisis”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi


Cacciare l’orso russo si sta rivelando un’impresa molto difficile per l’impero globale. (Immagine da homesweethome). 

Probabilmente conoscete la barzelletta che comincia con questa domanda: “come fanno gli economisti a cacciare gli orsi?” La risposta è: “non lo fanno, ma sono convinti che se gli orsi vengono pagati bene si cacceranno da soli”. E’ una buona illustrazione dello straordinario potere dei soldi. Non funziona tanto bene con gli orsi ma, se ben pagate, le persone si impegneranno in ogni sorta di attività disdicevoli e spiacevoli, compreso cacciare ed uccidere altri esseri umani.

La domanda sugli orsi può essere trasposta ad un’altra situazione. Sapete che gli imperi sono grandi strutture dedite alla raccolta di risorse dalla periferia per accumularle al centro. Ciò è, ovviamente, svantaggioso per la periferia. Così, come fanno le élite imperiali a convincere le persone che vivono nelle periferie a cedere loro le proprie risorse? La risposta è simile a quella della barzelletta sugli economisti e gli orsi: pagandole bene.

Questo punto ha bisogno di alcune spiegazioni e, come spesso accade, il passato ci da una guida per il presente. Consideriamo quindi il caso dell’Impero Romano, il cui ciclo conosciamo molto bene. I Romani avevano un metodo ben sviluppato e verificato per costruire l’impero. Per prima cosa, attaccavano e sconfiggevano un regno confinante. Poi procedevano a sterminare o rendere schiavi le élite locali. A quel punto, le sostituivano con una nuova élite parzialmente o completamente romanizzata per governare il territorio, da quel momento in poi chiamato “provincia”.

La caratteristica critica del sistema era che non poteva essere gestito solo dalla forza bruta, sarebbe stato troppo costoso. Così i Romani dovevano convincere le élite locali a fungere da esattori delle tasse per loro conto. Un’impresa non facile, in linea di principio, visto che le élite locali avrebbero potuto pensare che sarebbe stato più conveniente per loro tenere per sé tutte le tasse. Di tanto in tanto, infatti, le province si ribellavano per recuperare l’indipendenza. Per esempio, la sollevazione ebraica iniziata nel 66 D.C. in Palestina ha quasi avuto successo ed ha scosso l’impero dalle fondamenta. Ma, nel complesso, le provincie sono rimaste notevolmente silenziose fino alla fine dell’Impero Romano. Gli orsi erano stati accuratamente domati.

Come hanno fatto i Romani a tenere insieme il loro Impero così bene e per così lungo tempo? E’ stata, ovviamente, una questione di controllo. Le entità che chiamiamo ‘stati’ (e le loro versioni più aggressive chiamate ‘imperi’) esistono perché il centro può controllare la periferia. Questo controllo assume varie forme ma, fondamentalmente, è il risultato del sistema finanziario: i soldi. Ai tempi dei Romani, le élite delle province venivano pagate con moneta romana per fungere da esattori delle tasse e potevano guadagnare valuta romana in altri modi, per esempio arruolandosi nell’esercito romana. Con la valuta Romana, avevano accesso ad ogni sorta di lussi disponibili nell’Impero e, in particolare, al gigantesco emporio di beni e servizi che era la stessa Roma. Era più sicuro per loro accettare la situazione piuttosto che imbarcarsi nell’idea difficile e rischiosa di cominciare una guerra contro il grande Impero Romano. In un certo senso, l’orso veniva pagato per cacciare sé stesso.

Il sistema ha funzionato bene per diversi secoli, finché l’impero poteva coniare soldi. Come ho sostenuto in un mio post precedente, la caduta dell’Impero Romano non è stata tanto una questione di perdita di risorse, ma di perdita di controllo. Quando i Romani hanno esaurito l’oro e l’argento delle loro miniere spagnole, hanno perso la capacità di creare valuta e non hanno potuto mantenere in funzione il sistema finanziario. Senza sistema finanziario non avevano modo di controllare il flusso di risorse dalla periferia al centro. I granai dell’Africa e dell’Asia che avevano fornito il cibo per i Romani collassarono per mancanza di manutenzione e, senza cibo sufficiente per la sua popolazione, l’Impero non è potuto sopravvivere. Se non paghi bene l’orso, quello ti mangia.

Ed eccoci tornati al nostro tempo: l’orso è vivo e vegeto, ruggisce ai confini Orientali dell’impero globale. In passato, per un po’ è sembrato che l’orso potesse essere convinto a cacciare sé stesso. L’élite russa sembrava essere felice di essere pagata per avere accesso ai lussi che l’impero globale poteva fornire ed ha accettato di diventare parte del sistema finanziario globalizzato. Ma, ad un certo punto, l’orso ha mostrato i denti ed ha ringhiato, rifiutando di essere domato.

Cosa non ha funzionato? Un problema che possiamo identificare è che se i Romani si assicuravano che le forze militari di un regno sconfitto venissero schiacciate ed eliminate prima di trasformarlo in una provincia; l’orso veniva accuratamente reso innocuo prima di essere domato. Nel caso moderno, tuttavia, non è così facile sconfiggere un orso nucleare che conserva un considerevole potenziale di combattimento.

Ma il fattore principale che ha mantenuto l’orso russo vivo e arrabbiato potrebbe essere uno molto più fondamentale. L’impero globale – proprio come l’Impero Romano molto tempo fa – ha bisogno di un sistema finanziario pienamente funzionante se vuole continuare ad espandersi. Quando il sistema finanziario Romano è collassato, l’impero è collassato a sua volta. Ora, il sistema finanziario globale non sembra in buona salute, a dir poco, ed un nuovo collasso finanziario, dopo quello del 2008, potrebbe essere dietro l’angolo. In queste condizioni, è difficile pensare che l’orso possa essere pagato per cacciare sé stesso. Questo dev’essere stato colto anche nelle capitali dell’impero globale. Quindi assistiamo ad un tentativo tardivo di uccidere l’orso strangolandolo – distruggendolo usando le sanzioni economiche. Tuttavia, considerando che la Russia controlla risorse minerali che sono vitali per l’impero, strangolare l’orso (anche ipotizzando che sia possibile) potrebbe non essere la strategia migliore, per la verità.

________________________________________

Una versione della barzelletta dell’orso, ma con gli elefanti (h/t Marie Odile) 





I MATEMATICI cacciano gli elefanti andando in Africa, sbattendo fuori qualsiasi cosa che non sia un elefante e cacciando un esemplare di quello che rimane.

I MATEMATICI SCAFATI tenteranno di provare l’esistenza di almeno un unico elefante prima di procedere al punto 1 come esercizio subordinato.

I PROFESSORI DI MATEMATICA proveranno l’esistenza di almeno un unico esemplare di elefante per poi lasciare il rilevamento e la cattura di un elefante vero come esercizio ai propri studenti.  

GLI SCIENZIATI DEL COMPUTER cacciano elefanti esercitando l’Algoritmo A: 1. Va in Africa. 2. Comincia dal Capo di Buona Speranza. 3. Vai verso nord in modo ordinato, attraversando il continente alternativamente verso est e verso ovest. 4. Durante ogni attraversamento, a. Cattura ogni animale che vedi, b. Confronta ogni animale preso ad un elefante conosciuto. c. Fermati quando trovi una corrispondenza. 

GLI SCIENZIATI DEL COMPUTER SCAFATI modificano l’Algoritmo A mettendo un elefante conosciuto al Cairo per assicurarsi che l’algoritmo venga concluso. 

I PROGRAMMATORI DEL LINGUAGGIO ASSEMBLY preferiscono eseguire l’Algoritmo A trascinandosi per terra.

GLI INGEGNERI DI HARDWARE cacciano gli elefanti andando in Africa, catturando animali grigi in modo aleatorio e fermandosi quando qualcuno di questi pesi il 15% in più o in meno di qualsiasi elefante osservato in precedenza. 

GLI ECONOMISTI non cacciano gli elefanti, ma credono che se gli elefanti vengono pagati bene, si cacceranno da soli. 

GLI STATISTICI cacciano il primo animale che vedono N volte e lo chiamano elefante. 

I CONSULENTI non cacciano elefanti e potrebbero non aver mai cacciato niente in assoluto, ma possono essere assunti a cottimo per consigliare chi lo fa. 

I CONSULENTI DELLE OPERAZIONI DI RICERCA possono anche misurare la correlazione del cappello e il colore della pallottola all’efficienza delle strategie di caccia all’elefante, se qualcun altro identificasse gli elefanti. 

I POLITICI non cacciano elefanti, ma divideranno gli elefanti che cacciate voi con le persone che hanno votato per loro.

GLI AVVOCATI non cacciano elefanti, ma seguono le mandrie discutendo su chi possiede lo sterco che lasciano per terra.

GLI AVVOCATI DEI SOFTWARE affermeranno che possiedono una mandria intera dall’aspetto di uno dei loro escrementi.

I VICE PRESIDENTI DI INGEGNERIA, RICERCA E SVILUPPO cercano strenuamente di cacciare gli elefanti, ma il loro personale è impostato per impedirglielo. Quando il vice presidente riesce a cacciare gli elefanti, il personale cercherà di assicurarsi che tutti i possibili elefanti vengano completamente cacciati anticipatamente prima che il vice presidente li veda. Se succede che un vice presidente vede un elefante, il personale: (1) si complimenterà con la vista acuta del vice presidente e (2) si ingrandirà per impedire che si ripeta. 

I MANAGER SENIOR impostano politiche a lungo termine di caccia all’elefante sulla base dell’assunto che gli elefanti sono proprio come topi di campagna, ma con voci più profonde.

GLI ISPETTORI DELLE ASSICURAZIONI DI QUALITA’ ignorano gli elefanti e cercano gli errori che hanno fatto gli altri cacciatori mentre caricavano la jeep. 

I VENDITORI non cacciano gli elefanti, ma passano il loro tempo a vendere gli elefanti che non hanno preso loro, per la consegna due giorni prima dell’apertura della stagione.

I VENDITORI DI SOFTWARE spediscono la prima cosa che prendono e compilano una fattura per un elefante.   

I VENDITORI DI SOFTWARE acchiappano i conigli, li dipingono di grigio e li vendono come elefanti desktop. 

more