Author: Stefano Ceccarelli

Cosa resterà di questi 40 gradi?

Qui sopra, temperatura a Sesto Fiorentino, Firenze, misurata i primi di Agosto. Sembra che ormai il peggio sia passato, ma quest’anno è stata molto dura, come commenta qui di seguito Stefano Ceccarelli. 

di Stefano Ceccarelli
da Stop fonti fossili!

Quando la stagione che hai aspettato un anno intero diventa un inferno di fuoco, la vita non è più la stessa, come un ingranaggio ben oliato che di punto in bianco si ingrippa per sempre.

Quando si somma al bruciore di un caldo insopportabile, la luce intensa dell’estate non è più naturale portatrice di buonumore e voglia di vivere, e dunque cessa di essere quel rilassante liquido amniotico in cui immergersi una volta l’anno per rigenerare lo spirito, diventando piuttosto qualcosa di maligno da cui difendersi per sopravvivere, barricandosi in casa con le tapparelle rigorosamente abbassate. Le folte schiere dei depressi, dei fragili, dei poveri di spirito e di tasche, ne subiranno le ripercussioni negative nei mesi a venire, quando saranno nuovamente afflitti dai consueti fardelli.

Un’intera settimana a quaranta gradi come quella appena trascorsa viene subìta come una violenza dai corpi e dalla psiche di individui di una progenie evoluta in un clima temperato, geneticamente non programmata per vivere mesi interi immersi in una bolla melmosa d’aria tropicale. Dove è finita l’estate mediterranea, il caldo gradevole (di rado eccessivo), le serate in cui godere del fresco e spalancare le finestre? Che fine hanno fatto i generosi temporali rinfrescanti, quasi mai violenti, che dissetavano i terreni restituendoci i colori, l’abbondanza e i sapori autentici degli ortaggi di stagione? Perché l’Anticiclone delle Azzorre, quella tanto agognata “A” che fra giugno e luglio dall’Atlantico vedevamo avvicinarsi all’Italia nelle mappe meteorologiche illustrate in TV dal Colonnello Bernacca, ha lasciato il posto ad opprimenti, inamovibili alte pressioni africane che sembrano voler accompagnare i migranti che si spostano a nord?

Come sappiamo, la risposta che la scienza fornisce a queste domande, incardinata in un inappellabile j’accuse nei confronti dell’economia globalizzata alimentata dai combustibili fossili, è ancora testardamente negata dai molti che a sprezzo del ridicolo continuano a recitare la vecchia litania secondo cui “in estate ha sempre fatto caldo”.

Eh, no!  Come abbiamo imparato sulla nostra pelle, o meglio, come ci insegna la nostra pelle perennemente sudata, c’è caldo e caldo. Nelle città a quaranta gradi, la vivibilità è devastata: basta guardarsi intorno per scorgere facce allucinate, impregnate di una impalpabile infelicità; basta parlare con il primo che passa per intuire dalle banali frasi di circostanza una quotidianità fatta di nervi a fior di pelle, malesseri diffusi, lucidità mentale compromessa, ritmi biologici sconvolti dall’insonnia. Come se non bastasse, l’onnipresente asfalto e la scarsa copertura arborea amplificano il disagio già estremo, rendendo palese quanto il modello di sviluppo urbano realizzato negli anni del boom economico sia inconciliabile con gli scenari di cambiamento climatico. E per difendersi alla meno peggio dal caldo, chi può aggiunge benzina sul fuoco dei malcapitati pedoni delle strade arroventate: dalle auto in sosta con il motore acceso e il ronzio delle ventole di raffreddamento perennemente in funzione, al vento caldo sputato violentemente fuori dai condizionatori accesi negli edifici, tutto sembra congiurare contro chi, non potendo o volendo, si ostina a non aggiungere altro inquinamento e altre emissioni climalteranti all’inferno cittadino.

Ma in mezzo a tutto ciò, volenti o nolenti ci siamo noi, c’è la carne viva di donne e uomini che lavorano, in condizioni spesso intollerabili. Se la dignità del vivere fosse seriamente tenuta in considerazione e se l’articolo 1 della Costituzione italiana non fosse carta straccia, si dovrebbero ripensare per legge i tempi e le modalità di lavoro nelle città bruciate dall’arsura. Perché faticare per le strade o nei cantieri nelle ore più assolate mentre si viene rosolati in un forno non è più un’attività assimilabile al lavoro, quanto alla schiavitù. Naturalmente una siffatta proposta è politicamente impraticabile, perché the show must go on, ma del resto, di che ci meravigliamo, non è in fondo schiavitù ciò che ci fa muovere come burattini impazziti in un mondo che si trascina e ci trascina dritti verso l’Armageddon? Non è schiavitù ciò che ci impedisce di fermarci a riflettere, a guardarci l’un l’altro negli occhi e a chiederci qual è il senso di questa perenne agitazione?

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Oltre a ciò che sono stati, c’è da chiedersi cosa resterà dei quaranta gradi di questi giorni. Del nostro benessere fisico e mentale messo a dura prova si è già detto. Quanto a ciò che ci circonda, anche se i media non vedono l’ora di farci dimenticare questa ennesima “emergenza” lasciando il posto ad altre più o meno azzeccate priorità, si può scommettere che la spaventosa successione in crescendo rossiniano delle ondate di calore di questi due mesi lascerà il segno. Lo lascerà negli ecosistemi stressati, nei boschi senza vita devastati dalle fiamme, nelle zolle di terra indurite e inaridite su cui la prossima pioggia torrenziale scivolerà via, nei tanti fiumi e laghi ridotti a rivoli o pozze maleodoranti, nell’agricoltura in ginocchio, nelle falde freatiche sovrasfruttate oltre ogni limite per sopperire alla penuria d’acqua indotta da una siccità inedita per durata e intensità, nei cunei salini che si infiltreranno inesorabilmente nelle acque dolci sotterranee delle zone costiere, nei sempre più striminziti ghiacciai alpini.

In una parola, lascerà un segno, speriamo non indelebile, nella Natura agonizzante torturata dalla più evoluta ed ingrata delle sue creature.

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Rapa Nui chiama Roma, rispondete!



Guest Post di di Stefano Ceccarelli

da Stop fonti fossili!

C’è una scena drammatica del celebre film Rapa Nui che è rimasta impressa nella mia memoria: è il momento in cui, nonostante la strenua resistenza dell’unico isolano che aveva intuito le conseguenze di quel gesto, viene abbattuto l’ultimo albero presente sull’isola. Mi sono sempre chiesto come fu possibile per le élites dei diversi clan che regnavano sull’Isola di Pasqua non rendersi conto che il disboscamento totale e definitivo dell’isola avrebbe segnato il collasso ecologico e lo stesso destino di una popolazione priva di vie di fuga. Al tempo stesso, pensando all’insegnamento recato da quella vicenda, ho sempre sperato che la civiltà occidentale, apparentemente più evoluta di quella che eresse i Moai, possa evitare lo stesso triste epilogo affidandosi alla scienza e alle ben più robuste capacità previsionali da questa fornite anziché a primitivi riti tribali.

Ma ora una serie di fatti di cronaca di queste settimane mi inducono a dubitare seriamente che quella speranza sia fondata. Prendiamo la vicenda della crisi idrica romana: confesso che quando il Governatore del Lazio Zingaretti ha disposto il blocco dei prelievi dal Lago di Bracciano e l’Acea di rimando ha programmato la turnazione dell’erogazione dell’acqua, ho fantasticato che una tale grave, inedita situazione avesse potuto far ridestare l’intelligenza sopita di tanti romani portati a credere che nessuna forza della natura possa mai impedire che l’acqua potabile sgorghi dai rubinetti delle loro case. Credo che gli inevitabili disagi apportati agli abitanti della Capitale da un razionamento dell’acqua avrebbero potuto far nascere una consapevolezza nuova sugli sconquassi che, qui ed ora e non in un imprecisato futuro, sono portati in dote dal riscaldamento globale. E forse si sarebbe poco alla volta fatto strada quel senso del limite e quella propensione alla sobrietà che l’ossessione della crescita a tutti i costi ha resettato dalla coscienza della gente.

Naturalmente mi sbagliavo. Ciò che è seguito a quegli annunci sono state le consuete squallide scaramucce fra enti locali di diverso colore politico dirette a scaricare la responsabilità del paventato razionamento dell’acqua sull’altra parte. Abbiamo inoltre assistito ad una sfacciata levata di scudi del gestore del servizio idrico: opponendosi a brutto muso ai provvedimenti restrittivi della Regione, Acea ha disvelato l’arroganza propria di una S.p.A. che, senza vergognarsene, ricorda a tutti di essere guidata non dal raziocinio di chi è chiamato a gestire un bene comune prezioso come l’acqua ma esclusivamente dall’obiettivo della massimizzazione dei dividendi che deve garantire ai suoi azionisti pubblici e privati. Con buona pace dell’esito del referendum sull’acqua pubblica del 2011.

A loro modo, gli scontri politici scaturiti dai bassi istinti elettorali possono essere paragonati, mutatis mutandis, alle cruente battaglie fra le tribù rivali che, sfociando fino al cannibalismo, accelerarono la fine di Rapa Nui. Ma la decisione dei giorni scorsi di soprassedere al razionamento e di proseguire le captazioni dal Lago di Bracciano fa pensare che c’è dell’altro che accomuna la tragica situazione che dovettero vivere gli abitanti di quell’isola confinata nella remota immensità dell’Oceano Pacifico e l’attuale crisi romana dove si sommano in modo sinergico gli effetti di siccità, persistenti temperature sahariane, incendi e degrado diffuso. L’unico sconfitto delle moderne guerre fra i moderni clan è infatti stato, almeno per ora, il Lago di Bracciano, il cui ecosistema è stato di fatto sacrificato sull’altare del Progresso, che è indisponibile a negoziare gli stili di vita dei cittadini e non può dunque accettare che la penuria di acqua faccia serpeggiare l’idea che i cambiamenti climatici in atto richiedano un radicale cambio di mentalità ed un’inversione di rotta della politica. Così come l’impensabile è stato possibile per l’Isola di Pasqua, i cui abitanti decretarono il loro suicidio collettivo abbattendo quell’ultimo albero, allo stesso modo e secondo la stessa assurda logica i romani in stragrande maggioranza hanno dimostrato di essere pronti a prelevare fino all’ultima goccia d’acqua da un lago vulcanico senza immissari che ha già perso 2 kmq di superficie, fregandosene platealmente degli insostituibili servizi ecologici da esso forniti.

In definitiva, ciò a cui stiamo assistendo è il triste spettacolo di una classe politica che anziché attuare misure di lungo respiro in grado di fronteggiare una penuria cronica e non transitoria, risponde alla devastante crisi climatica in atto con provvedimenti ispirati al motto “adda passà ‘a nuttata” i quali non fanno altro che aggravare il degrado degli ecosistemi, che a sua volta non è nient’altro che un’altra delle crisi globali causata dalla dissennata corsa all’oro innescata dai combustibili fossili.

Raschiare il fondo del cratere del lago anziché preservarne il suo prezioso contenuto non sembra una strategia molto lungimirante per una civiltà avanzata che dopo aver messo piede sulla Luna ha in programma la colonizzazione di Marte. Ma tant’è, evidentemente il delirio di onnipotenza di molti di noi porta a confidare sul miraggio che il Pianeta Rosso possa rivelarsi per il genere umano quella via di fuga che gli abitanti di Rapa Nui non hanno avuto.

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Se le emissioni di CO2 non aumentano, vuol dire che siamo salvi?


E’ curioso quanta gente rimanga confusa dal fatto che mentre le emissioni di CO2 sono leggermente diminuite, la quantità di CO2 nell’atmosfera continua ad aumentare. Ma questo è ovvio se pensate all’atmosfera come una vasca da bagno e al CO2 come l’acqua che la riempie. Anche se riducete il flusso che viene dal rubinetto, il livello dell’acqua continua ad aumentare, come è ovvio che faccia. Per salvarsi dal riscaldamento globale non basta ridurre le emissioni. Bisogna azzerarle e sperare di non aver già passato il punto di non ritorno. Nel post che segue, Stefano Ceccarelli spiega queste cose in dettaglio

Quando l’Aumento Aumenta

di Stefano Ceccarelli

da Stop fonti fossili!

Immaginate di trovarvi sul fondo di una piscina vuota molto profonda. A un certo punto qualcuno comincia a versare dentro acqua con un secchiello, prima poco alla volta, poi ad intervalli più ravvicinati. Per un po’ la piscina rimane pressoché vuota, perché una mattonella del rivestimento sul fondo è saltata, e l’acqua viene in gran parte trattenuta dal terreno sottostante. Ma il suolo è argilloso e non riesce ad assorbire l’umidità oltre un certo limite. Dunque il livello dell’acqua nella piscina poco alla volta aumenta, ma la cosa non vi dispiace affatto, perché così potete sollazzarvi giocando con l’acqua e schizzandovela addosso l’un l’altro. Anzi il divertimento aumenta ancora quando l’acqua dalle caviglie pian piano sale fino ad arrivare all’altezza del bacino. Siete così presi dallo svago che quando viene rimossa la scaletta nessuno ci fa caso.

A quel punto però qualcuno vi ricorda che non sapete nuotare, e osserva sommessamente che se il livello dovesse continuare a salire le cose non si metterebbero troppo bene. Ma voi non date peso alle cassandre di turno e continuate a spassarvela, anche perché l’acqua sale lentamente, e ci vuole tempo per riempire una piscina con un secchiello. Passano le ore, l’acqua vi arriva all’ombelico, ma voi vi siete ambientati e state da dio. Qualche apprensione comincia però a serpeggiare qua e là, e mentre la maggioranza continua a divertirsi alcuni di voi guardano sempre più insistentemente in alto cercando di scorgere se le dimensioni del secchiello sono rimaste le stesse. A forza di scrutare il secchiello dimenticano però che l’acqua sale ancora, ed ora vi arriva al collo… Ebbene, in una siffatta situazione, come vi sentireste se all’improvviso doveste accorgervi che il secchiello è stato sostituito da un secchio più grande?

Accantoniamo ora l’improbabile metafora e parliamo di CO2, l’anidride carbonica, il re dei gas serra. Come è noto, negli ultimi 150 anni lo sviluppo della popolazione mondiale in rapida crescita ha fatto aumentare esponenzialmente le emissioni di CO2. La frazione più importante della CO2 rilasciata in atmosfera è quella dovuta alla combustione di carbone, petrolio e gas per la produzione di energia, che si stima essere dell’ordine di 32 gigatonnellate l’anno. Una quantità stratosferica. Ma la buona novella, annunciata solennemente dall’IEA, è che per la prima volta queste emissioni negli ultimi due anni non sono aumentate, pur in presenza di una crescita economica globale. La grancassa mediatica non ha esitato a sottolineare questo risultato, che dimostrerebbe che è possibile disaccoppiare l’aumento del PIL con la crescita delle emissioni. Se ciò è vero, il mantra del mitico sviluppo sostenibile può continuare ad essere sbandierato ai quattro venti dai potentati politici ed economici, alla faccia dei profeti di sventura. Ma insomma, di cosa ci preoccupiamo? Abbiamo invertito la tendenza, dopo un secolo di aumento le emissioni si sono stabilizzate semplicemente assecondando i trend economici correnti, dunque questa è la dimostrazione che siamo sulla buona strada, e la diffusione graduale delle energie rinnovabili farà sì che le emissioni presto inizieranno a calare.
Peccato che questo ragionamento tralasci di ricordare che stabilizzare le emissioni non vuol dire affatto stabilizzare la quantità di CO2 presente in atmosfera, perché malauguratamente questo gas ha la brutta abitudine di accumularsi nell’involucro aeriforme che circonda il nostro pianeta, ed è proprio il valore delle emissioni cumulate di CO2 che determina l’aumento della temperatura media del pianeta. Perciò, anche se il secchiello che getta acqua è sempre lo stesso, il livello nella piscina sale senza sosta. Non è difficile da comprendere, vero?

Ma poi, siamo proprio sicuri che le emissioni si sono stabilizzate? Perché limitarsi ad elucubrare sulla base della stima tutt’altro che certa di quanto abbiamo sputato in atmosfera bruciando combustibili fossili, quando la scienza ci fornisce un modo molto più semplice e significativo per capire come siamo messi, ovvero, banalmente, la misurazione delle concentrazioni di CO2 atmosferica? Ora, i livelli di questo gas in atmosfera sono cresciuti fino agli attuali 405 ppm dai 280 ppm dell’era preindustriale, e come è noto questo è un grosso guaio perché più anidride carbonica c’è in atmosfera più si intensifica il riscaldamento globale a causa dell’effetto serra. Ma le cattive notizie, ahimè, non vengono mai da sole: negli ultimi due anni (cioè, guarda un po’, proprio nello stesso periodo nel quale secondo l’IEA le emissioni sarebbero rimaste costanti!) la CO2 è cresciuta di 3 ppm l’anno, ovvero a un ritmo senza precedenti, come sottolineato dal NOAA.

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Non solo: leggendo i dati relativi ai valori di crescita annuale di CO2 atmosferica emerge come il 2016 sia stato, per la prima volta, il quinto anno consecutivo in cui la CO2 è cresciuta di almeno 2 ppm l’anno. L’aumento dell’aumento del principale dei gas serra risulta ancora più evidente se si confrontano le medie decennali degli aumenti annuali dal 1966 ad oggi: come si vede nel grafico (fonte), si è passati in soli cinquant’anni da un incremento di 1 ppm l’anno a 1,5, poi a 2, fino ai 2,3 ppm del decennio 2006-2016. Limitandoci all’ultimo quinquennio, l’aumento è stato superiore ai 2,5 ppm.

annual increase co2

E’ bene ripetere, a costo di apparire pedante, che queste, a differenza dei dati dell’IEA, non sono semplici stime delle emissioni prodotte sulla base delle autocertificazioni non verificate rilasciate dalle singole nazioni, ma dati scientifici ottenuti da misurazioni analitiche validate e mediate con l’ausilio di metodi statistici universalmente accreditati. Dunque, prima di esultare per un successo (la stabilizzazione delle emissioni) che tale non è, è doveroso interrogarsi sul perché il secchiello ha lasciato il posto ad un secchio più grande, ovvero sulle ragioni per le quali a fronte di un supposto non-incremento delle emissioni la CO2 atmosferica aumenta più di quanto non abbia fatto quando le emissioni crescevano. Ebbene, mentre i governi e gli ottimisti per partito preso preferiscono baloccarsi con la storiella del plateau delle emissioni, la scienza, mai tanto bistrattata come in questi tempi bui, ha delle risposte per chi vuole ascoltarle, che possono riassumersi come segue.
  • Non esistono solo i combustibili fossili. Circa un quarto dei rilasci di CO2 deriva da altre fonti, in particolare dalla deforestazione e dal degrado dei suoli. In un pianeta sempre più affollato e affamato, non sarebbe certo una sorpresa se questi fattori assumessero sempre maggior peso nel computo totale delle emissioni.
  • Il cambiamento climatico è già in atto. L’aumento delle temperature, unito al fenomeno dell’amplificazione artica, accresce lo stress della biosfera portando a rilasci di carbonio da incendi, siccità, e scioglimento del permafrost.
  • Proprio come l’acqua assorbita inizialmente dal fondo della piscina male impermeabilizzata, una buona parte della CO2 emessa finora è stata disciolta negli oceani, acidificandoli. Finora, appunto. Perché i modelli climatici indicano che la capacità degli oceani di fungere da serbatoio di CO2 è destinata ad indebolirsi man mano che la temperatura aumenta.
Insomma, tutto lascia pensare che, al punto in cui siamo, non è più possibile tenere a bada la totalità dei fattori che spingono in alto le concentrazioni di anidride carbonica, a meno che qualcuno non pensi di persuadere con le buone il suolo ghiacciato artico a starsene tranquillo come ha fatto finora, o gli oceani a ingozzarsi di CO2 all’infinito. Se dunque i margini di manovra si restringono pericolosamente, possiamo e dobbiamo, questo sì, limitare il più in fretta possibile le emissioni antropogeniche e azzerare senza indugio la deforestazione. Ciò vuol dire mettere in campo una mobilitazione e una coesione internazionale senza precedenti con il fine di ridurre drasticamente i consumi superflui, contenere l’aumento della popolazione, combattere le disuguaglianze incoraggiando dinamiche locali di cooperazione e condivisione, dare un taglio alla globalizzazione e mettere il turbo alla transizione energetica dicendo addio per sempre all’era dei fossili.
Se non lo faremo, e ci accontenteremo di lasciar fare al mercato senza disturbare i manovratori, continueremo a viaggiare spediti verso il terrificante traguardo dei 450 ppm di CO2, che di questo passo verranno raggiunti nel vicino 2032: a quel punto l’umanità potrà dire ciao ciao! alle speranze di mantenere l’aumento della temperatura media al di sotto dei fatidici 2°C disattendendo al giuramento solenne fatto da tutti i governi un anno e mezzo fa, con tanti auguri a chi erediterà la Terra (sperando che impari in fretta a nuotare).

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Trump: l’America abbandonerà l’accordo di Parigi

Sembra che Donald Trump sia intenzionato a mantenere le sue promesse pre-elettorali e fare tutto il possibile per sabotare gli accordi di Parigi; in parallelo con ripartire con il supporto a tutto campo per l’industria dei combustibili fossili. Non è una buona notizia, considerando che l’accordo di Parigi era comunque insufficiente a risolvere il problema, come ci racconta qui sotto James Hansen

4 ragioni per cui l’Accordo di Parigi non risolverà il cambiamento climatico

di James Hansen

(da ecowatch.com)

Traduzione di Stefano Ceccarelli



Il Dr. James Hansen con sua nipote Sophie Kivlehan

In molti hanno salutato l’accordo di Parigi – che è pronto a raggiungere questa settimana la soglia per entrare in vigore – come una panacea per il cambiamento climatico globale. Tuttavia, tragicamente, una tale prospettiva trascura di prendere in considerazione la realtà scientifica del nostro sistema climatico, che ci racconta una storia molto diversa.

La nostra ultima ricerca, Young People’s Burden: Requirement of Negative CO2 Emissions (Il fardello delle giovani generazioni: la necessità di emissioni negative di CO2), pubblicata lunedì come discussion paper su Earth System Dynamics Discussion, sottolinea come, se i governi nazionali trascurano di mettere in atto politiche aggressive in materia di clima, i giovani di oggi erediteranno un sistema climatico così alterato da richiedere processi di estrazione della CO2 dall’atmosfera proibitivamente costosi, e forse non fattibili.

Le temperature globali hanno già raggiunto il livello del periodo Eemiano (da 130.000 a 115.000 anni fa), quando il livello dei mari era 6-9 metri più alto di oggi. Considerando l’ulteriore riscaldamento “in cantiere” dovuto alla risposta ritardata del sistema climatico e l’impossibilità di una sostituzione istantanea dei combustibili fossili, un aumento ulteriore della temperatura è inevitabile.

Le continue elevate emissioni dei combustibili fossili costituiscono un peso sulle giovani generazioni, costrette a realizzare emissioni negative di CO2, che richiederebbero una massiccia estrazione tecnologica di CO2 con costi minimi stimati di 104-570 trilioni di dollari durante questo secolo, con grandi rischi e dubbia fattibilità.

Il perdurare di elevate emissioni da fonti fossili indiscutibilmente condanna i giovani ad una massiccia, forse non plausibile, “ripulitura” dell’atmosfera, oppure a impatti climatici deleteri crescenti, o ad entrambi, scenari che dovrebbero rappresentare un incentivo e un obbligo per i governi a modificare le politiche energetiche senza ulteriore indugio.

Il lavoro fornisce il necessario supporto scientifico per l’azione legale Our Children’s Trust (Coalizione dei nostri figli) contro il governo statunitense, sostenendo che i cambiamenti climatici mettono a repentaglio i diritti inalienabili alla vita, alla libertà e all’aspirazione alla felicità delle prossime generazioni riconosciuti dalla Costituzione degli USA. Il lavoro offre l’opportunità di esaminare l’attuale stato del pianeta rispetto al cambiamento climatico. I quattro messaggi comprendono:

1. Il trattato di Parigi sul clima è un accordo che si limita ad esprimere un intento, un pio desiderio, riaffermando sostanzialmente, 23 anni dopo, la Convenzione Quadro di Rio del 1992 sul cambiamento climatico. L’esigenza del mondo in via di sviluppo di disporre di energia affidabile e a costi accessibili è largamente ignorata, nonostante costituisca il requisito fondamentale per eliminare la povertà globale e la guerra. Piuttosto, il mondo sviluppato pretende di offrire una riparazione, sotto forma dell’eterea somma di 100 miliardi di dollari l’anno, permettendo nel contempo agli impatti climatici di crescere.

2. Fintanto che ai combustibili fossili verrà permesso di essere sussidiati così da costituire l’energia più economica, essi continueranno ad essere la più abbondante fonte di energia mondiale, facendo crescere le probabilità di conseguenze disastrose per i giovani fino quasi alla certezza.

3. Tecnicamente, è ancora possibile risolvere il problema climatico, ma a due condizioni essenziali: (1) una semplice tassa globale crescente sul carbonio, riscossa alla fonte dai produttori di combustibili fossili, e (2) il supporto dei governi per la RS&D (ricerca, sviluppo e dimostrazione) delle tecnologie energetiche pulite, compresa l’energia nucleare sicura di ultima generazione.

4. I tribunali sono cruciali per la soluzione del problema climatico. Il “problema” climatico è stato ed è un’opportunità per la trasformazione verso un futuro di energia pulita. Tuttavia, la mano pesante dell’industria delle fonti fossili opera in massima parte con mezzi legali, come con la campagna I’m an Energy Voter negli USA. L’incapacità di affrontare il cambiamento climatico da parte del potere esecutivo e di quello legislativo fa sì che sia essenziale che i tribunali, meno soggetti a pressioni e corruzione ad opera di interessi finanziari particolari, entrino nella partita per proteggere i giovani, come fecero con le minoranze nel caso dei diritti civili.

Per un approfondimento, si veda qui.

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Il viaggio della speranza di Matteo Salvini



di Stefano Ceccarelli

da: Stop fonti fossili!

Narsarsuaq, Groenlandia, novembre 2120. In un austero ufficio del locale Centro accoglienza profughi alcuni uomini con l’aspetto emaciato, stravolti dal lungo viaggio e dalle privazioni subite, sostavano in attesa dell’identificazione e degli adempimenti di rito. In un’altra stanza, donne e bambini ammassati come sardine venivano rifocillati alla meglio dagli agenti della polizia groenlandese. Il responsabile della struttura, il capitano Ulf Olsvig, sbuffando e borbottando entrò nell’ufficio, si sedette alla scrivania e urlò:

“Allora, italiani pizza-e-mandolino, chi è il capo della truppa?”

Un uomo sulla quarantina alzò la mano e nervosamente rispose: “Sono io, capitano! Alla buonora! Finalmente qualcuno si degna di parlare con noi!”

“Stia calmo, per favore! Pensate forse di essere i primi a venire qui in villeggiatura a visitare la terra dei Vichinghi liberata dai ghiacci? Piuttosto, venga, si sieda qui, signor…”

“Salvini. Matteo Salvini, capitano.”

“Salvini? Questo nome non mi è nuovo… “

“Beh, le ricordo io dove ha sentito il mio nome: il mio bisnonno, buonanima, da cui ho ereditato il nome di battesimo, è stato capo del governo italiano giusto cento anni fa.”

“Uhm… Sì, ora ricordo, me ne parlò mio nonno! – esclamò il capitano Olsvig destandosi improvvisamente dal torpore – Dunque il suo illustre antenato era quel demagogo criminale che schierò l’esercito a protezione delle vostre coste silurando i barconi con a bordo i poveracci che fuggivano dall’Africa e dal Medio Oriente dopo la Grande Siccità del 2018?”

“Come poteva fare altrimenti? – tentò di scusarsi Salvini cercando pateticamente di salvare l’onorabilità del suo avo – Il mio paese stava subendo un’invasione, dovevamo difenderci…”

“Sì, come no… Li conosco i tipi come lei, buoni solo ad alzare la voce e a prendersela con i più deboli. Ad ogni modo, come vede noi non ci siamo comportati come il suo bisnonno, altrimenti lei avrebbe già un bel buco in mezzo alla fronte! Ma poi… non fu proprio in quegli anni che l’Italia sprofondò in una terribile crisi finanziaria proprio a causa delle ingenti spese militari, fino a dover dichiarare bancarotta?”

“Sì, ma non fu colpa del mio bisnonno, ma del debito pubblico lasciato in eredità dai precedenti governi… E poi, come sa, arrivò la Grande Recessione Mondiale che costrinse le nazioni più indebitate al default.”

“Senta, Salvini, lasciamo perdere la Storia e veniamo al sodo: lei lo sa, vero, che io sarò costretto ad espellervi? La nostra nazione è stata finora sin troppo tollerante con i profughi, ma ora siamo saturi e le nostre limitate risorse non ci permettono di accogliere altri migranti. La Groenlandia conta oggi 250 milioni di abitanti, e l’aumento del livello del mare, che non accenna a fermarsi, ci costringerà presto ad abbandonare le vecchie città costiere e a rifugiarci nell’interno. Come faremo a reggere la pressione di tutta questa gente e a tenere a bada quelli come voi originari delle latitudini più basse che durante la lunga notte artica spesso e volentieri danno di matto?”

“La prego, capitano, sia ragionevole! Non può rimandarci indietro proprio ora che abbiamo raggiunto la meta dei nostri sogni! Ma lo sa quanto è durato il nostro viaggio dall’Italia? Otto mesi! Otto lunghissimi mesi di stenti ad attraversare l’Europa da sud a nord su un autobus elettrico scalcinato, con le file interminabili alle stazioni di ricarica, costretti a difenderci di continuo dagli assalti di orde di disperati! Fortuna che prima di partire siamo riusciti a barattare le vecchie batterie al litio delle case che abbiamo abbandonato con armi e munizioni. E non le sto a raccontare quello che abbiamo patito durante la traversata in mare da Rotterdam a Reykjavík e poi fin qui!”

“A proposito, dove avete trovato il gasolio per far navigare il barcone? Non mi dica che vi è avanzato ancora il petrolio proveniente da quei giacimenti nel Mare Adriatico che avete iniziato a sfruttare un secolo fa! Da quel che mi è stato raccontato, il poco petrolio ancora disponibile dopo la Grande Penuria Post-Picco del 2030 fu rapidamente accaparrato da USA, Cina, Germania e pochi altri stati.”

“Macché, capitano, il petrolio dell’Adriatico ci bastò si o no un paio d’anni… Col senno del poi, quella scelta fu un grave errore, se a quel tempo avessimo investito massicciamente sulle energie rinnovabili invece di succhiare quel po’ di greggio dai mari, forse le cose sarebbero andate in maniera diversa e magari ora non saremmo qui…”

“E allora come avete avuto il gasolio? Al mercato nero, immagino, come tutti quelli che arrivano da noi. Vi sarà costato una fortuna!”

“Non solo il gasolio, purtroppo! L’intero viaggio ci è costato una fortuna, capitano, per arrivare fin qui abbiamo investito tutte le risorse accumulate con fatica da noi e dai nostri padri, e ora non ci è rimasto più nulla, possiamo solo ricominciare da zero, e vogliamo farlo in questa terra ancora fertile e ospitale! Non come in Italia, dove ormai chi è rimasto fa la fame, i terreni che una volta facevano crescere ogni bendiddio sono ora inariditi dal caldo torrido e dall’erosione, mentre le aree più vicine alla costa sono diventate sterili a causa del sale del mare che si spinge sempre più all’interno. La supplico, capitano, ci faccia restare! Siamo dei lavoratori onesti, abituati al sudore della fronte, vogliamo integrarci con la vostra gente, rispettare le vostre leggi, e…”

“Basta così, Salvini! – lo interruppe bruscamente Olsvig – Per favore, evitiamo scene strazianti, le ripeto che non posso farvi restare. Ora procederemo all’identificazione, poi passerete la notte nella camerata del Centro profughi, e domattina provvederemo a farvi tornare indietro. Buona fortuna.“

Così dicendo, lasciò il suo posto all’agente incaricato degli adempimenti burocratici, si accomiatò e si ritirò nel suo angusto monolocale attiguo al Centro profughi.

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Quella notte Ulf Olsvig non riuscì a prendere sonno. In quella interminabile notte artica di luna nuova il capitano mise da parte i gradi e le stellette e continuava a rigirarsi nel letto in preda a una indistinta inquietudine. Finché ad un tratto udì dei rumori felpati provenienti dall’esterno. In un lampo capì, si affacciò alla finestra e vide gli italiani che, facendosi luce con delle torce, tranciavano le reti di protezione del Centro, apprestandosi a scappare. Si precipitò al telefono, alzò la cornetta, ma un attimo prima di comporre il numero per chiamare i rinforzi, si fermò e chiuse gli occhi.

Una miriade di pensieri affollarono la sua mente in quegli istanti, rivide come in un caleidoscopio i volti delle migliaia di esseri umani che aveva accolto in quegli anni, i bambini denutriti, gli occhi lucidi delle madri, lo sguardo spento di quella gente disperata. Ripensò a tutti quelli che non ce l’avevano fatta, riascoltò in un attimo i mille racconti dei sopravvissuti e le urla di gioia strozzate di chi fu accolto in quel Nuovo Mondo. Si sentì avviluppato dall’abbraccio colmo di gratitudine di milioni di cuori pulsanti che grazie a lui e a quelli come lui continuavano a battere, e scoppiò in un lungo pianto liberatorio.

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Il capitano Olsvig non seppe più nulla dei fuggiaschi. Per la verità, le ricerche dei giorni seguenti furono condotte più che altro per salvare la forma, nessuno degli agenti aveva realmente voglia di dover rispedire indietro gli italiani. Quanto a Matteo Salvini, più volte Olsvig ripensò alla sua storia e alle gesta miserabili compiute un secolo prima dal suo bisnonno quando divenne capo del governo, e ripeteva a sé stesso che i figli non devono scontare le colpe dei padri, salvo poi dover ammettere che in effetti i patimenti della sua generazione e delle due che l’avevano preceduta non erano altro che l’ingiusto prezzo pagato per l’avidità e l’egoismo delle generazioni precedenti.

Dopo alcune settimane, al termine di un’altra interminabile notte del lungo inverno artico, Ulf Olsvig fece un sogno. Stava volando, guardava dall’alto uno dei barconi stracolmi di profughi in arrivo sulle coste della Groenlandia, librandosi poi velocemente in alto, sempre più in alto, fino a confondere alla sua vista il barcone dei migranti con la sfera azzurra del pianeta Terra in eterna navigazione in questo angolo dell’Universo. Dopo che fu desto, si alzò e uscì fuori, e si chiese che senso avesse tutto ciò, senza trovare risposta. Sentiva però che doveva esserci Qualcosa che fa navigare i barconi così come i pianeti. Decise che prima o poi gli avrebbe dato un nome.

Per il momento, si accontentò di ammirare lo spettacolo della splendida aurora boreale che magicamente si schiuse davanti ai suoi occhi.



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Emergenza Clima: un articolo di Hansen e Sato

Sembra proprio che siamo arrivati a una seria emergenza climatica, con le temperature di Febbraio che hanno schiantato tutti i record precedenti. Non sappiamo cosa potrebbe succedere nel prossimo futuro, ma sicuramente niente di buono. Nell’articolo che segue, Hansen e Sato fanno il punto sulla situazione. (Immagine: temperature di Febbraio da think progress)

Cambiamenti climatici regionali e responsabilità nazionali

di James Hansen e Makiko Sato [a]
(Earth Institute | Columbia University)

Traduzione di Stefano Ceccarelli

da: Climate Science, Awareness and Solutions

Il riscaldamento globale di circa 0,6°C rispetto ai decenni passati ora “blocca i dadi del clima”. La Fig. 1 aggiorna l’analisi delle curve a campana del nostro studio del 2012 [1] per le terre dell’emisfero settentrionale, che mostravano come estati estremamente calde ora si verificano significativamente più spesso di quanto avvenisse 50 anni fa. Il nostro nuovo studio [2] mostra che ci sono forti variazioni regionali nello scostamento di queste curve a campana, e che gli effetti più marcati avvengono nelle nazioni meno responsabili del cambiamento climatico.

Negli USA lo scostamento della curva a campana è di solo una deviazione standard (una misura della tipica fluttuazione annuale delle temperature medie stagionali) in estate e meno di metà deviazione standard in inverno (Fig. 2). Misurato in unità di °C, il riscaldamento è simile in estate e in inverno negli USA ma l’implicazione pratica della Fig. 2 è che le persone negli USA dovrebbero avvertire che le estati stanno diventando più calde, ma è meno probabile che notino la variazione in inverno. Estati più fresche della media delle estati del periodo 1951-1980 ancora si verificano, ma solo il 19% circa delle volte. Il calore estremo estivo, definito come almeno 3 deviazioni standard più caldo della media 1951-1980, che non avveniva quasi mai 50 anni fa, oggi si verifica con frequenza di circa il 7%.

Il riscaldamento in Europa (si veda l’articolo) è poco più accentuato che negli USA. In Cina (Fig. 2) il riscaldamento è ora quasi 1½ deviazioni standard in estate e una deviazione standard in inverno, vale a dire un cambiamento climatico che dovrebbe essere evidente per persone abbastanza anziane da ricordare il clima di 50 anni fa. In India, gli scostamenti della curva a campana (vedi articolo) sono leggermente più ampi che in Cina.

Nell’area mediterranea e in Medio Oriente lo scostamento della curva a campana in estate è di quasi 2½ deviazioni standard (Fig. 2). Ogni estate è oggi più calda della media climatica del periodo 1951-1980, e il periodo con clima estivo è oggi considerevolmente più lungo. Poiché le estati sono già molto calde in queste regioni, il cambiamento ha influenza sulla vivibilità e sulla produttività, come diremo più avanti. Gli scostamenti della curva a campana nei tropici, compresa l’Africa centrale (vedi articolo) e il Sudest asiatico (Fig. 2), aree anch’esse già molto calde, sono di circa 2 deviazioni standard ed avvengono tutto l’anno.


Fig. 1. Frequenza delle anomalie della temperatura locale (relative alla media 1951-80) in funzione della deviazione standard locale (asse orizzontale) per le terre dell’emisfero boreale. La fila in alto si riferisce all’estate (da giugno ad agosto) e la fila in basso all’inverno (da dicembre a febbraio). Maggiori dettagli nei nostri lavori del 2012 e 2016.


Fig. 2. Frequenza delle anomalie della temperatura locale (relative alla media 1951-80) in funzione della deviazione standard locale (asse orizzontale) per le terre delle aree mostrate sulla mappa. L’area sottesa da ciascuna curva è unitaria. I numeri sulle mappe rappresentano la percentuale del globo coperta dalla regione considerata. Gli scostamenti (shift) si riferiscono alla linea tratteggiata adattata ai dati 2005-2015 e sono relativi al periodo base.

I tropici e il Medio Oriente in estate sono a rischio di diventare praticamente inabitabili per la fine del secolo se le emissioni di combustibili fossili continueranno secondo lo scenario business as usual (BAU), poiché la temperatura di bulbo umido potrà avvicinarsi al livello nel quale il corpo umano non è più in grado di raffreddarsi all’aria aperta neanche in presenza di adeguata ventilazione [3]. Anche un riscaldamento più contenuto rende la vita più difficile in queste regioni e riduce la produttività, in quanto le temperature si avvicinano al limite della tolleranza umana e il lavoro agricolo e in edilizia sono principalmente attività che si svolgono all’esterno. I paesi delle latitudini intermedie hanno una temperatura media quasi ottimale per la produttività del lavoro, mentre i paesi più caldi quali l’Indonesia, l’India e la Nigeria si collocano su un pendio ripido con una produttività che declina rapidamente all’aumentare della temperatura (vedi fig. 2 di Burke et al. [4], 2015).

Il riscaldamento e gli effetti climatici non sono uniformi all’interno delle regioni prese in considerazione. Negli USA, p.es., il riscaldamento è maggiore nel sudovest, consistente con l’atteso riscaldamento amplificato delle regioni subtropicali secche [5]. Similmente, il riscaldamento estivo è amplificato nelle regioni mediterranee e in Medio Oriente, dove come minimo esso intensifica le condizioni siccitose come quelle occorse in Siria in anni recenti, quando non ne è la principale causa [6].

L’aumento delle temperature sembra avere un effetto significativo sulla violenza interpersonale e sui conflitti umani, come indicato da un insieme di evidenze empiriche in un’area di studio scientifico in rapida espansione. Da una rassegna di 60 studi quantitativi [7] che coprono tutte le maggiori regioni del mondo, è emerso che la violenza interpersonale aumenta del 4% e i conflitti fra gruppi del 14% per ogni deviazione standard di aumento della temperatura. Tali risultati non costituiscono leggi naturali, ma forniscono un’utile stima empirica degli impatti del cambiamento di temperatura.

La salute umana è colpita dall’aumento delle temperature attraverso l’impatto di ondate di calore, siccità, incendi, alluvioni e tempeste, e indirettamente dalla rottura degli equilibri ecologici indotta dal cambiamento climatico, comprese le alterazioni del quadro epidemico (vedi il Capitolo 11 di IPCC, 2014, e riferimenti ivi citati). Le malattie trasmissibili, che implicano solitamente infezioni trasmesse da zanzare o zecche, possono diffondersi alle latitudini più alte e a maggiori altitudini man mano che il riscaldamento globale aumenta.

E’ possibile attribuire responsabilità nazionali del riscaldamento globale poiché la CO2 prodotta dai combustibili fossili è la principale causa del riscaldamento a lungo termine. La deforestazione e le attività agricole contribuiscono all’aumento di CO2, ma il ripristino del carbonio nei suoli e nella biosfera è possibile mediante pratiche agricole e forestali migliorate, che sono infatti richieste se si vuole stabilizzare il clima. Al contrario, il carbonio dei combustibili fossili non sarà rimosso dal sistema climatico per millenni [8]. Altri gas in tracce contribuiscono al cambiamento climatico, ma la CO2 è la causa dell’80% dell’aumento della forzante climatica dei gas a effetto serra degli ultimi due decenni [9] e molto del rimanente 20% è correlato all’estrazione e all’uso di combustibili fossili.

Il cambiamento climatico è accuratamente proporzionale alle emissioni cumulate di CO2 (Fig. 3a). Gli USA e l’Europa sono ciascuna responsabili per più di un quarto delle emissioni cumulate, la Cina per il 10% e l’India per il 3%. La disparità fra le emissioni dei paesi sviluppati e in via di sviluppo è anche maggiore se vengono contabilizzate le emissioni basate sui consumi [10]. Anche senza voler considerare le emissioni basate sui consumi, le emissioni pro capite di USA ed Europa sono almeno un ordine di grandezza più elevate di quelle della maggior parte dei paesi in via di sviluppo.

Emerge così una impressionante incongruità fra la localizzazione dei più forti cambiamenti climatici e le responsabilità dovute alle emissioni da fonti fossili. Gli scostamenti maggiori della curva a campana si riscontrano nelle foreste tropicali, nel Sudest asiatico, Sahara e Sahel, dove le emissioni da combustibili fossili sono molto ridotte. Il cambiamento climatico è anche più marcato nel Medio Oriente, dove le emissioni sono alte e in rapida crescita, con diverse nazioni che hanno raggiunto emissioni pro capite più alte degli Stati Uniti (vedi articolo).

Fig. 3. Emissioni cumulate di CO2 da combustibili fossili per fonte nazionale (a) e pro capite (b). I risultati per altre singole nazioni sono disponibili in: www.columbia.edu/~mhs119/CO2Emissions/.



Discussione. Noi concludiamo che proseguire con le emissioni da combustibili fossili secondo lo scenario BAU comincerà a rendere le basse latitudini inabitabili. Se accompagnate da un aumento di alcuni metri del livello del mare, le risultanti migrazioni forzate e la crisi economica potranno essere devastanti.

Anche un riscaldamento globale contenuto come 2°C, talvolta ritenuto un limite sicuro, può avere grandi effetti. Gli scostamenti della curva a campana mostrati per il periodo 2005-2015 sono la conseguenza di un riscaldamento di circa 0,6°C rispetto al periodo 1951-1980. Così, un riscaldamento di 2°C rispetto al periodo preindustriale (pari a 1,7°C rispetto al 1951-1980) darà luogo a scostamenti della curva a campana e impatti sul clima circa tre volte più grandi di quelli già verificatisi. Ci si attende che un riscaldamento globale di 2°C causerà un aumento del livello del mare di alcuni metri [12], portando a concludere che il potenziale aumento del livello del mare durante questo secolo è pericoloso.

Il messaggio complessivo che la scienza del clima consegna alla società, ai decisori politici e all’opinione pubblica è questo: abbiamo un’emergenza globale. Le emissioni di CO2 da fonti fossili devono essere ridotte il più rapidamente possibile. Noi riteniamo che i contributi volontari delle singole nazioni, che costituiscono l’approccio della 21ma Conferenza delle Parti [13], non possono condurre a una rapida riduzione delle emissioni da combustibili fossili fintanto che alle fonti fossili sarà permesso di essere l’energia più a buon mercato. Sarà necessario includere una componente tariffaria sul carbonio che consenta di incorporare nel suo prezzo le esternalità negative dei combustibili fossili. L’introduzione di dazi doganali su prodotti provenienti da paesi privi di una tassa sul carbonio condurrebbe la maggior parte delle nazioni ad adottare una simile tassa.

Alla luce della disparità fra le emissioni dei paesi sviluppati e quelle dei paesi in via di sviluppo, c’è un obbligo riconosciuto di assistenza da parte dei paesi sviluppati. I paesi in via di sviluppo hanno dalla loro una forte leva per ottenere una tale assistenza, perché la loro cooperazione per migliorate pratiche agricole e forestali è necessaria per trattenere più carbonio nei suoli e nella biosfera e per limitare le emissioni dei gas serra in tracce. E’ inoltre necessaria la cooperazione internazionale per generare più energia decarbonizzata a costi accessibili, perché altrimenti lo sviluppo economico in molte nazioni continuerà ad essere basato sulle fonti fossili a dispetto dell’inquinamento e degli impatti sul clima.

Riferimenti:
[a] Questa Comunicazione riassume un articolo con questo titolo (Hansen e Sato, 2016); è anche disponibile un Video abstract.
[1] Hansen, J., Sato, M. and Ruedy, R.: Perception of climate change, Proc. Natl. Acad. Sci. 109, 14726-14734, 2012.
[2] Hansen J. and Sato M.: Regional climate change and national responsibilities, Environ. Res. Lett. (in press).
[3] Sherwood, S.C. and Huber, M.: An adaptability limit to climate change due to heat stress, Proc. Natl. Acad. Sci. 107, 9552-9555, 2010.
[4] Burke, M, Hsiang, S.M. and Miguel, E.: Global non-linear effect of temperature on economic production, Nature 527, 235-239, 2015.
[5] Cook, K.H. and Vizy, E.K.: Detection and analysis of an amplified warming of the Sahara, J. Clim. 28, 6560-6580, 2015.
[6] Kelley, C.P., Mohtadi, S., Cane, M.A., Seager, R. and Kushnir, Y.: Climate change in the Fertile Crescent and implications of the recent Syrian drought, Proc. Natl. Acad. Sci. USA 112, 3241-3246, 2015.
[7] Hsiang, S.M., Burke, M. and Miguel, E.: Quantifying the influence of climate on human conflict, Science 341, doi:10.1126/science.1235367
[8] Archer, D.: Fate of fossil fuel CO2 in geologic time, J. Geophys. Res. 110, C09S05, 2005.
[9] Hansen, J., Kharecha, P. and Sato, M.: Climate forcing growth rates: doubling down on our Faustian bargain, Environ. Res. Lett. 8, 011006, 2013.
[10] Peters, G.P.: From production-based to consumption-based national emissions inventories, Ecolog. Econ. 65, 13-23, 2008.
[11] Hansen, J., et al.: Ice melt, sea level rise and superstorms: Evidence form paleoclimate data, climate modeling and modern observations that 2°C global warming is dangerous, arXiv:1602.01393
[12] Dutton, A., Carlson, A.E., Long, A.J., Milne, G.A., Clark, P.U., DeConto, R., Horton, B.P., Rahmstorf, S., and Raymo, M.E.: Sea-level rise due to polar ice-sheet mass loss during past warm periods, Science, 349, doi:10.1126/science.aaa4019, 2015
[13] Davenport, C.: Nations Approve Landmark Climate Accord in Paris, New York Times, 12 December, 2015.

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2050: Odissea sulla Terra

di Stefano Ceccarelli

Da Stop Fonti Fossili

Il tempo degli umani è scandito dal susseguirsi delle generazioni. L’arco temporale fra una generazione e la successiva, convenzionalmente fissato in 35 anni, dà la misura di come è cambiato il mondo da quando i nostri genitori avevano la nostra età ad oggi. Allo stesso modo siamo portati a guardare al futuro immaginando le vite dei nostri figli quando essi avranno l’età che noi abbiamo oggi. Mi è sembrato allora interessante provare a rivolgere uno sguardo all’anno 2050, cioè ad una generazione da oggi, tentando di estrapolare alcuni dei trend che oggi osserviamo a livello globale in materia di economia, energia ed emissioni di gas serra, con l’obiettivo di prefigurare l’entità delle trasformazioni necessarie a scongiurare gli impatti più gravi dei cambiamenti climatici.

Partiamo dall’economia. E’ notizia recente che la Banca Mondiale ha rivisto al ribasso le stime per la crescita economica globale del 2016, portandola al 2,9% rispetto al 3,4% previsto in precedenza. Le ragioni di una revisione al negativo delle previsioni sono note e non mi soffermerò su questo. Faccio solo notare che una crescita di questa entità del PIL mondiale è la media fra gli aumenti dei paesi emergenti – che seppure in forte difficoltà crescono del 5-7% – e quelli non lontani dallo zero dei paesi sviluppati. Supponendo che questo tasso di crescita annuale si mantenga invariato per i prossimi 34 anni (la qual cosa suona tutt’altro che entusiasmante per il mainstream economico-finanziario e per i leader politici, che si ostinano a sognare crescite ben più sostenute), nel 2050 la ricchezza complessiva delle economie mondiali sarà aumentata di 2,6 volte rispetto ad oggi. Se consideriamo che la popolazione mondiale sarà di circa 9 miliardi di persone rispetto agli attuali 7,3, questo dato si traduce in un aumento medio pro-capite di 2,1 volte. E’ ovviamente del tutto verosimile che, per quanto lo scandaloso divario fra una esigua minoranza di superricchi e una maggioranza di poveri possa ancora aumentare, gran parte della nuova ricchezza generata sarà destinata ai paesi in via di sviluppo.

Passiamo ora all’energia. Può un simile aumento di ricchezza avvenire senza una crescita parallela dei consumi di energia? Ovviamente no, e neanche su questo mi dilungo. Osservo solo che, visti i miglioramenti da attendersi in tema di efficienza energetica, i tassi di crescita dell’energia primaria globale saranno con ogni probabilità sensibilmente inferiori all’aumento del PIL immaginato prima. Nell’ultimo decennio l’energia consumata nel mondo è cresciuta in media del 2,1% l’anno, nonostante la profonda recessione che ha colpito l’economia mondiale. Ipotizzando dunque una leggera ripresa dei consumi combinata ad ulteriori progressi nell’uso efficiente dell’energia, ho voluto tentativamente immaginare una crescita dell’energia primaria mondiale del 2% l’anno fino al 2050, anche in questo caso a quasi esclusivo beneficio dei popoli in via di sviluppo la cui popolazione aumenterà rapidamente. Ne risulta al 2050 un raddoppio del fabbisogno di energia rispetto ad oggi.

Con mia sorpresa, ho scoperto che questa grossolana previsione è perfettamente in linea con lo scenario dipinto da Nicola Armaroli e Vincenzo Balzani in una loro pregevole rassegna appena pubblicata, nella quale viene considerato ottimale un consumo medio pro-capite annuo al 2050 pari a 2,8 tonnellate equivalenti di petrolio (tep) contro il valore di 1,8 registrato nel 2014. I due studiosi argomentano che il valore di 2,8 tep pro-capite deve ritenersi adeguato sulla base di indicatori che correlano il livello di sviluppo umano di una data popolazione con il suo consumo di energia. Si è visto, ad esempio, che paesi come la Nigeria o il Ciad, che presentano elevati tassi di mortalità infantile, hanno un consumo pro-capite di soli 0,1 tep, e che la mortalità diminuisce con l’aumentare della disponibilità di energia fino ad un livello approssimativamente pari a 3 tep, oltre il quale non vi sono ulteriori apprezzabili miglioramenti. Si deve rimarcare come il valore di 2,8 tep considerato desiderabile è comunque largamente inferiore agli attuali consumi pro-capite di paesi come gli USA o il Canada, pari rispettivamente a 7,2 e 9,4 tep.

Dunque, a meno di incrementi strepitosi nell’efficienza energetica (su cui comunque si deve continuare ad investire) o di un collasso dell’economia globale, si può ipotizzare un consumo mondiale di energia al 2050 pari a 25.200 Mtep (2,8 tep x 9 miliardi), che è appunto circa il doppio di quello, pari a 12.928 Mtep, calcolato al 2014 dalla BP Statistical Review of World Energy 2015. Quale potrà essere il mix delle fonti energetiche a quella data? Non certo quello attuale che vede le fonti fossili giocare un ruolo del tutto predominante. Come sottolineato fino alla noia in questo blog, se vogliamo avere delle chances di contenere a livelli ancora accettabili il riscaldamento globale dobbiamo accelerare la transizione già in atto dalle fonti fossili alle rinnovabili. Pertanto mi sono chiesto quale dovrà essere l’entità dell’incremento annuo da qui al 2050 della quota di energia primaria proveniente dalle rinnovabili non idroelettriche, ed ho provato a fase dei semplici conti.

Ipotizzando che l’apporto percentuale di energia idroelettrica e nucleare, attualmente pari rispettivamente al 7% e al 4%, rimanga invariato (il che vuol dire prevedere comunque un raddoppio del loro contributo in valore assoluto, cosa per nulla scontata considerando per un verso i programmi di smantellamento di molte centrali nucleari nei prossimi vent’anni e per l’altro i limiti alla crescita dell’idroelettrico dovuti alla crescente penuria di acqua in vaste aree del pianeta causata proprio dai cambiamenti climatici), otteniamo gli scenari illustrati nella Tabella 1.




Come si vede, per ribaltare l’attuale egemonia delle fonti fossili non è sufficiente neanche un incremento annuo delle rinnovabili del 10%, che lascerebbe ancora una quota maggioritaria a petrolio, gas e carbone. La situazione invece si ribalterebbe con un aumento annuo del 12%, che farebbe lievitare le rinnovabili ai 2/3 del totale. La conferma che, nelle ipotesi date, il tasso di aumento del 10% è insufficiente a contenere il riscaldamento globale viene dall’elaborazione riassunta nella Tabella 2, nella quale sono riportate le presumibili variazioni delle emissioni di CO2 in funzione dei diversi tassi di crescita delle rinnovabili.

Secondo questo calcolo approssimativo, solo un incremento ininterrotto non inferiore al 12% annuo fino al 2050 può garantire una consistente riduzione delle emissioni in linea con quanto stimato nello scenario RCP2.6 dell’IPCC (quello che dà buone probabilità di contenere l’aumento delle temperature al 2100 sotto i 2°C), che infatti stima al 60% la quota necessaria di energia “low-carbon” al 2050.
Dobbiamo a questo punto interrogarci sulla reale fattibilità di un aumento, anno dopo anno per 35 anni, del 12% della quota rinnovabili non idroelettriche. Per la verità, il 12% è proprio l’aumento complessivo registrato nel 2014 rispetto al 2013 secondo le statistiche BP. E’ possibile mantenere per tanto tempo un incremento così sostenuto? E’ facile comprendere che si tratta di un’impresa immane, che in assenza di innovazioni tecnologiche dirompenti richiederebbe la produzione e l’installazione forsennata di moduli fotovoltaici, pale eoliche e centrali solari termodinamiche per molti anni e in ogni angolo del globo (compatibilmente con l’insolazione e la ventosità). Anche con il massimo supporto politico possibile, che peraltro oggi non c’è, una crescita impetuosa di un singolo comparto industriale per un tempo così lungo presenta enormi ostacoli. Secondo l’ultimo rapporto della International Energy Agency (IEA), in assenza di forti stimoli politici ed economici è da attendersi un rallentamento dell’attuale trend di crescita delle rinnovabili sia nei paesi sviluppati che in quelli emergenti, a causa di persistenti barriere di accesso ai mercati, difficoltà di integrazione nelle reti elettriche, mancanza di incentivi adeguati e persistenza di sussidi alle fonti fossili. Va poi ricordato che quasi tutta l’espansione delle rinnovabili registrata finora si riferisce alla produzione di elettricità: i settori dei trasporti e del riscaldamento continuano ad essere dominati dalle fonti fossili, e tutto lascia pensare che lo saranno ancora per parecchi anni.
Oltre ad una certa stabilità economica (tutt’altro che garantita in tempi nei quali la volatilità dei mercati la fa da padrona e il rischio di un nuovo shock globale è dietro l’angolo), all’assenza di conflitti su vasta scala e ad una sufficiente tenuta degli equilibri ecologici fondamentali, il prerequisito fondamentale perché una scommessa così azzardata possa essere vinta è la disponibilità ancora per parecchi anni di energia a basso costo (per uscire dalle fonti fossili abbiamo bisogno delle fonti fossili, come è stato già spiegato in un precedente post), necessaria per la produzione di una mole imponente di dispositivi e impianti di energia rinnovabile e relative infrastrutture di supporto. L’attuale congiuntura che vede le quotazioni del greggio ai minimi da molti anni è una preziosa opportunità e deve costituire uno stimolo a potenziare gli sforzi produttivi. Lo scenario potrebbe mutare in peggio nel giro di pochi anni man mano che la disponibilità di giacimenti ad alto ERoEI andrà a scemare, e a quel punto tutto sarà più difficile e imprevedibile.

Lo sforzo collettivo della nuova generazione di giovani può cambiare il mondo. E’ già accaduto in passato e può accadere ancora. La missione assomiglia ad una nuova odissea, non nello spazio ma sulla Terra, dove però non ci sarà nessun misterioso monolite nero a guidarci. Se fallirà, sarà soprattutto a causa delle scelte sbagliate della nostra generazione, che non potrà mai perdonarsi di aver lasciato un pianeta così malridotto ai nostri figli.



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Alcuni fatterelli sulla CO2

di Bodhi Paul Chefurka
traduzione di Stefano Ceccarelli



Alcuni interessanti fatterelli (e qualche opinione) sulla CO2:

  • Per ogni 16 gigatonnellate (GT) di CO2 che emettiamo, la sua concentrazione atmosferica sale di 1 parte per milione (ppm).
  • L’umanità oggi emette circa 40 GT di CO2 l’anno, risultante dalla combinazione di combustibili fossili, produzione di cemento e modifiche dell’uso dei suoli (deforestazione).
  • Come conseguenza, le concentrazioni di CO2 stanno aumentando di circa 2,5 ppm l’anno.
  • Il lungo tempo di permanenza della CO2 in atmosfera fa sì che fintanto che emettiamo CO2, la sua concentrazione atmosferica continuerà a crescere.
  • Ogni dollaro di PIL mondiale prodotto negli ultimi 15 anni ha richiesto l’emissione di una media di 0,6 kg di CO2, anche con l’aumento nella produzione di energie rinnovabili.
  • Se vogliamo che la concentrazione atmosferica di CO2 smetta di crescere, dobbiamo fermare tutte le attività economiche.
  • Anche se cessassimo oggi tutte le emissioni di CO2 fermando tutte le attività economiche, avremmo ancora una quantità pericolosa di CO2 nell’atmosfera.
  • Nessuno ha sviluppato un metodo per portar via quantità industriali di CO2 dall’aria, eccetto (forse) con la riforestazione di vaste distese di quello che sono oggi le aree coltivate.
  • Il mondo non cesserà le sue attività economiche dalla sera alla mattina. Non riusciremo neanche a ridurle significativamente nei prossimi uno o due decenni, a meno che non si verifichi un collasso economico globale – nel qual caso cercheremmo disperatamente di ripristinarle.
  • I prossimi due decenni di emissioni generate dall’economia faranno salire la CO2 atmosferica a oltre 450 ppm.
  • Secondo Wasdell et al., l’aumento di temperatura all’equilibrio a lungo termine prodotto da 450 ppm di CO2 è di circa 5°C.
  • Non sappiamo quanto tempo ci vorrà per stabilizzarci a quell’aumento di temperatura, ma è lì che alla fine arriveremo.
  • Un tale aumento di temperatura non è favorevole alla sopravvivenza di molte specie di piante ed animali, compreso l’uomo. E’ del tutto incompatibile con la nostra attuale civilizzazione.
Ecco perché io credo che noi siamo oggi irreversibilmente fottuti.

Nota di UB: questo pezzo di Chefurka è indubbiamente interessante e l’abbiamo pubblicato come stimolo alla discussione. Però è semplicemente falso dire che “Se vogliamo che la concentrazione atmosferica di CO2 smetta di crescere, dobbiamo fermare tutte le attività economiche.” Può esistere un agricoltura sostenibile, e può anche esistere un’attività industriale sostenibile. Non sono magari facili da ottenere, ma sono tutte e due “attività economiche”. Tutti abbiamo i nostri limiti, qui Chefurka si  fatto prendere un po’ la mano dal pessimismo e non gli possiamo dare tutti i torti, visto quello che sta succedendo in giro.


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