Author: Sergej U. Barile

Shock ambientale e sua gestione politica II

Guest post di “Sergio Barile”.

Come la finanza internazionale ci sterminerà tutti prima della catastrofe ecologica; ma con grande giubilo di autorazzisti e antiumani.


« Il capitalismo non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non mantiene le promesse. In breve, non ci piace e stiamo cominciando a disprezzarlo. Ma quando ci chiediamo cosa mettere al suo posto, restiamo estremamente perplessi. » J.M. Keynes, 1933 
3 – La politica come gestione della complessità sociale (astenersi demagoghi)

C’è chi sostiene che la cultura occidentale non sia altro che un commento a Platone, e un motivo di ingombrante evidenza c’è: la particolare traiettoria culturale dell’Occidente potrebbe essere riassunta dalla dialettica tra Socrate e Trasimaco. Oggetto, la giustizia.

Per chi è poco avvezzo alla speculazione filosofica, sottolineo che l’etica getta le fondamenta dell’ordine sociale, la Costituzione che è, appunto, fonte di diritto e giustizia.

L’etica non è condivisa: c’è quella dello schiavo e quella del padrone, quella di Socrate, che poi verrà trasfigurata in quella comunemente ritenuta giudaico-cristiana, e quella che si evince dalla considerazione di Trasimaco: «la giustizia è l’utile del più forte». (Etica che troverà una sua esplicitazione e una sua “formalizzazione in via allegorica” solo nella modernità, con il più famoso dei filosofi morali gentili: Nietzsche).

L’economia, prima della sua matematizzazione ad opera dei marginalisti (1870 – 1890), è stata storicamente un ramo della filosofia morale; ovvero, nonostante ci sia un terreno epistemico comune, le diverse teorie che sviluppano i diversi modelli affondano le proprie radici nella filosofia morale.

La scienza economica, come espressione di epistème, è strumentale alla materializzazione dell’etica su cui si fonda l’ordine sociale: l’economia politica è la scienza [1che studia e regola, di fatto, i rapporti tra classi e gruppi sociali. La politica è, in primis, politica economica, e i diritti sociali sono il vero contendere che precede il conflitto per le rivendicazioni di tutte le altre specie di diritti. (Politica come sovrastruttura del potere economico)

Riassumendo: la storia della cultura occidentale trova la sua più alta espressione nelle riflessioni sulla giustizia sociale e sul conflitto distributivo. 

Ovvero nelle riflessioni politiche.

La comprensione della Politica è studio della complessità, in cui il conflitto di interessi ne limita la corretta comprensione, come il principio di indeterminazione di Heisenberg limita le possibilità sperimentali del fisico teorico. La dialettica politica si riflette nelle sue irredimibili contraddizioni a livello cognitivo.

Le risorse culturali, con buona pace degli amanti delle discussioni da bar, sono tutto.

3 – Il progresso culturale ha portato le civiltà e la politica, il progresso economico ha portato l’economia politica e la follia. 

Guarda un po’, anche le moderne teorie che descrivono il conflitto distributivo possono essere dialetticamente divise in due paradigmi contrapposti: (neo)classiche, promotrici di una politica economica (neo)liberale, e keynesiane, promotrici di politiche più o meno socialiste.

Se la produzione Y è funzione del lavoro e del capitale  – ovvero Y = f(L , K) – allora, stante la logica stringente delle precedenti considerazioni, il lavoro sta a sinistra, e il capitale sta a destra (in politica economica: non necessariamente nelle parentesi o nell’Emiciclo).

Va da sé, che:

b) l’economista classico e liberale (con i vari “nei” o meno) difende gli interessi del capitale;

c) l’economista keynesiano (in particolare con il prefisso “post”, di post-keynesiano), difende quelli del lavoro.

Insomma, “gli economisti” non esistono.

(Anche un “aziendalista”, o un esperto in “finanza” dovrebbe astenersi dal parlare di economia politica a titolo personale vantando il titolo di “economista” e, magari, i professionisti di macroeconomia e di economia internazionale dovrebbero prima esplicitare il loro “conflitto di interessi”)

4 – La sintesi della dialettica politica dopo le tragedie del XX secolo

Il valore che si dà al fattore lavoro è ciò che genera la dialettica nella sovrastruttura politica: le classi subalterne, che cercano emancipazione tramite il lavoro, sono rappresentate da chi promuove politiche economiche di matrice keynesiana, le classi dominanti sono rappresentate dalle forze politiche liberali che propongono la flessibilizzazione del fattore lavoro, la sua disciplina tramite agganci valutari, il liberoscambio internazionale, e il liberismo anti-interventista.

Nel ’48, il popolo italiano, tramite l’Assemblea Costituente eletta a suffragio universale, ha fatto un scelta precisa: «L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro».

Lavoro come diritto e dovere: unico mezzo che contemporaneamente promuove la dignità individuale e sociale, e sostanzializza la partecipazione politica, contribuendo allo sviluppo materiale e spirituale della società. La Repubblica si impegna inderogabilmente a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono l’uguaglianza sostanziale dei cittadini e limitano il pieno sviluppo della persona umana. 

L’individuo dello stato liberale lascia il passo alla persona umana individuata, non più come edonista soggetto isolato, ma come protagonista di una rete relazionale. L’identità individuale diventa inseparabile dalla comunità sociale di 
riferimento.
Il mercato non può più essere “libero”: deve essere indirizzato a fini sociali e solo l’equità distributiva può garantire la stabilità politica, sociale ed ecologica.

Keynes e Beveridge: le costituzioni moderne rigettano lo stato liberale in favore dello stato sociale.

La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, sull’esempio dei nostri Padri costituenti, ha adottato gli stessi fondamenti valoriali: l’inviolabilità della dignità umana da perseguire con politiche di piena occupazione.

Ottanta milioni di morti è qualcosa di inconcepibile per una persona sana di mente: «affinché non si ripeta mai più».   

Troppo a cuor leggero si straparla della “inevitabilità” di quel lager a cielo aperto chiamato Africa: e le élite pare abbiano fatto la medesima scelta per le classi subalterne occidentali. Ma il manicomio della (ex)middle-class pullola di autorazzismo antiumano… 

5 – Il mondo prima e dopo Hitler

Prima della Crisi del ’29, il libero mercato e i vincoli valutari erano un dogma. 

L’austerità anche dopo.

Fig.1 Carmen Reinhart: immagine plastica della dinamica del conflitto Capitale Vs Lavoro nel mondo. 

A Keynes non diedero retta.


Le maggiori crisi debitorie della storia moderna, quella del 1929 e quella del 2008 (v. fig.1),  sono state precedute da un periodo più o meno lungo nel quale il potere d’acquisto dei lavoratori è stato stagnante, mentre la produttività media del lavoro (la quantità di prodotto per addetto) aumentava[2]: come si è risolta lo squilibrio dato dalla disuguaglianza sociale esplosa nella crisi del ’29 è noto. E quella del 2008, come finirà?

D’altronde, il debito inestinguibile si può onorare solo in due modi: col fallimento e l’insolvenza, o col suicidio. Il secondo, a livello aggregato, si chiama genocidio.

I debiti con il sistema finanziario o con l’ecosistema si possono risolvere nei medesimi due modi: con l’equità sociale e una ridistribuzione del reddito, che renda sostenibile l’assetto sociale umano, ovvero i salari devono equamente aumentare con la produttività; oppure con la soppressione dei debitori. (Inutili locuste da sterminare…. porcelli che vogliono vivere al di sopra delle proprie possibilità… del pianeta)


Fig.2 Rick Wolff: immagine plastica della dinamica del conflitto Capitale Vs. Lavoro in USA.
Fig.3: Alberto Bagnai: immagine plastica della dinamica del conflitto Capitale Vs. Lavoro in Italia. 

Il neoclassico crede che l’equilibrio sia raggiunto tramite la giustizia commutativa, con al limite un sussidio minimo garantito, il keynesiano crede che la stabilità sia possibile solo tramite la giustizia sociale[3].

Il neoclassico è un offertista, il keynesiano è “mezzo” malthusiano, ovvero i modelli sono fondati sul concetto di domanda aggregata: è la domanda a generare l’offerta, non viceversa.

Questa distinzione ha fondamentali implicazioni ad iniziare, nel paradigma keynesiano, dal fatto che a livello di polis, di società, di Stato nazione, di sistema economico globale, il modello usato per descriverne le dinamiche non può essere il medesimo di quello “micro”, usato per le imprese (lo Stato NON è come una “famiglia”!), ma deve essere aggregato,  “macro”, dove la struttura delle “preferenze” non è individuale, ma politica: nasce la macroeconomia moderna.

Uno degli aspetti più controintuitivi è che, poiché il lavoratore, a differenza dello schiavo, è anche consumatore, più il capitalista a livello aggregato aumenta il salario dei suoi dipendenti, più aumenterà i suoi profitti.

(Apriti cielo. 

Una massa di locuste sgraziate e grassocce che si avventa sulle ristrette risorse del nostro amato pianeta…)

Le cose però, ahimè, non stanno proprio così: esiste un vincolo esterno alla crescita – di natura politica! – che considera anche la quantità di risorse presenti su un territorio: questo vincolo è ben espresso dalla legge di Thirlwall.

Se questo equilibrio fosse possibile farlo rispettare a tutte le comunità sociali, la gestione delle risorse scarse sarebbe banalmente ottimizzata e, come faceva notare Keynes a Bretton Woods in cui, come membro della delegazione britannica, proponeva un sistema monetario concentrato proprio sull’equilibrio delle bilance dei pagamenti[4], si materializzerebbe la kantiana pace perpetua. Sì, al contrario di ciò che storicamente propagandano i “federalisti” sulle orme di Kant, il libero scambio implicito nel concetto di federalismo interstatale, è la storica politica economica foriera di instabilità politica e conflitti bellici. Bretton Woods era proprio concentrata su questo noto e condiviso problema: purtroppo pare che la “casa dei Morgan” abbia influenzato in modo decisivo per il sistema monetario vigente…

Ma siamo sicuri che, come vuole la vulgata, le imprese cerchino la massimizzazione del profitto?

Non sempre: se fosse stato così il New Deal non avrebbe incontrato le resistenze che ha incontrato in tutto il mondo, magari risparmiandoci la tragedia del ’39 -’45. Infatti, proprio in quegli anni svolgeva queste riflessioni Michal Kalecki, ragionando sulle resistenze dei grandi capitani dell’industria e della finanza: le classi dominanti preferiscono perdere profitti ma aumentare in proporzione la propria influenza sulle istituzioni politiche.

(Oltre che disciplinare i lavoratori nelle fabbriche)
Le politiche deflattive, chiamate di “austerità”, sono proprio quelle bramate dalla grande finanza, per due ovvi motivi:

1 – il grande capitale finanziario fa credito: l’inflazione svaluta i debiti e comprime i profitti da interesse. (Va da sé che l’inflazione è di converso “amica” del lavoratore – magari con il salario indicizzato – che è generalmente anche mutuatario)

2 – l’alta disoccupazione e la privatizzazione dello stato sociale aumentano a dismisura l’influenza politica delle oligarchie economiche a discapito delle classi subalterne. Ovvero, a discapito della democrazia.

Il trentennio d’oro keynesiano muore con il primo shock petrolifero e l’austerità deflattiva propagandata bipartisan, giusto un anno dopo il rapporto del Club di Roma: si infiamma la controrivoluzione neoliberista; sono tout court le dinamiche dell’ EROEI a generare la sofferenza sociale delle crisi economiche, o come i suoi effetti vengono politicamente gestiti?



A.Bagnai – Fig.28 de “Il tramonto dell’euro”, 2012  






Post Scriptum:

(James Mead[5] aveva previsto nel ’57 cosa sarebbe successo in Grecia, Nicholas Kaldor nel ’71… a proposito di cambi fissi, free trade e politiche deflattive)














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1 – «Una transazione economica è un problema politico risolto. L’economia ha conquistato il titolo di regina delle scienze sociali scegliendo come suo dominio quello dei problemi politici risolti», Abba P. Lerner, 1972, The Economics and Politics of Consumer Sovereignty

2 – A. Bagnai, 2014 

3 – Si noti che lo stesso problema demografico è generalmente legato alla povertà: la soluzione è, come ormai dovrebbe essere stato chiarito, sempre doppia. È politica: o si sterminano gli indigenti, che siano dei ghetti o dei paesi non industrializzati, oppure gli si istruisce e gli si arricchisce. 

4 – Equilibrio BdP: equilibrio dei flussi dei fattori della produzione di un Paese con il resto del mondo, approssimabile nell’equilibrio tra import ed export. 

5 – «In a classic paper written in the mid 1950’s Nobel laureate James Meade (1957) posed the fundamental question of the balance of payments problems that would likely arise in a free trade area such as that envisaged in 1992», A.R. Nobay, pag.10 e, aggiungiamo ora, non contenti del risultato dello SME, gli sbilanci della zona euro che hanno permesso gli attacchi speculativi del 2011. 

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Shock ambientale e sua gestione politica

Pubblico qui un post che parte da ipotesi e idee abbastanza diverse da quelle che si trovano normalmente su “Effetto Risorse,” dove tendiamo a vedere l’esaurimento delle risorse come il motore principale di tutto quello che succede. Mi è parso il caso, tuttavia, di presentare questo post, sia per il suo interesse intrinseco, sia per non continuare a parlarci soltanto fra di noi come facciamo spesso. Questa è la prima parte di un’analisi abbastanza complessa, la seconda seguirà fra breve – UB

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Guest post di “Sergio Barile”.

Parafrasi biologica della legge di Thirlwall



(Furthermore there is clear evidence that, although economic growth usually leads to environmental degradation in the early stages of the process, in the end the best — and probably the only — way to attain a decent environment in most countries is to become rich) Beckerman, 1992

1 – Introduzione

Iniziamo dalla tesi: qualsiasi politica verde necessita di risorse economiche, poiché per incidere sulle dinamiche in atto questi investimenti sarebbero enormi, e il beneficio sarebbe collettivo e non monetizzabile immediatamente come profitto, l’intervento pubblico tramite spesa a deficit (G) si configura come lo strumento di politica economica più efficace per raggiungere gli obiettivi richiesti dalla comunità scientifica. Per poter aumentare i budget di spesa è necessario che il PIL cresca, quindi è assolutamente necessario evitare le “riforme strutturali” e favorire stato sociale e piena occupazione. Questi aumentano la domanda aggregata (AD) che, in caso di politiche industriale volte a fini sociali di profilo “ambientale” e la conseguente produzione di beni e servizi a carattere “ecologico”, sarà rivolta al consumo di questi beni e servizi verdi. Dato il “moltiplicatore keynesiano” avremo del nuovo valore aggiunto (incremento del PIL) e la contestuale marginale “decrescita felice” delle esternalità negative. 

Senza “crescita” non ci può essere “decrescita”.

Il limite alla crescita, ovvero il vincolo esterno per il decisore politico di una nazione sovrana, pena instabilità e gravi squilibri, è dato dalla legge di Thirlwall.

Quindi, tranchant, l’ammonimento politico: il movimentismo volto alla sensibilizzazione sulle esternalità negative dell’attività economica è storicamente funzionale alla cosmetizzazione del conflitto tra classi. Ovvero, l’imputare ad un vincolo esterno di natura “tecnica” – in generale esogeno al dibattito democratico – politiche di repressione delle rivendicazioni sociali, è parte di una nota strategia politica per imporre in modo dispotico un ordine sociale al riparo dal processo elettorale.

Tolto il dente, tolto il dolore. (E chi non è disposto a prendere in considerazione questa tesi, può risparmiare il tempo della seguente lettura).

2 – Etica e sistemi complessi

Avendo uno sguardo post-keynesiano sul mondo, Malthus deflette fisiologicamente l’orizzonte economico-sociale che si osserva: insomma, Malthus è parte della propria cultura.

Non si può far la medesima affermazione relativamente a quella che viene definita “teoria neo-malthusiana”, a dispetto del nome. 

Se Keynes supportava la necessità di una stabile o positiva crescita demografica, perché individuava nella domanda aggregata il fattore di crescita economica, l’approccio neo-malthusiano, come da tradizione neo-liberale, sulla falsa riga della “trickle-down theory“, sostiene che è l’accumulazione del capitale il motore della crescita economica, e che il declino demografico porta ad una crescita del reddito procapite. 

Quindi, perdonando la brutale banalizzazione, se le risorse sono finite, e il paradosso di Jevons scoraggia dalle aspettative progressive dell’evoluzione tecnologica, i lavoratori delle prossime generazioni – con le buone, ovviamente – devono gentilmente smettere di prolificare e consumare. Per il bene delle generazioni future, si intende.

Come Keynes, assumiamo in questa riflessione che l’ipotesi del limite delle risorse sia corretto, e che l’obiettivo sia convergere ad uno stato stazionario, dove demografia e consumo di energia siano in equilibrio, e il “benessere” procapite sia ottimizzato.

Secondo una prospettiva neo-malthusiana, poiché è chi più accumula capitale che contribuisce allo sviluppo economico e spirituale della società, e questo “benessere” ricade – trickle-down – sui nipotini poveri dei sopravvissuti “alla purga demografica”, il benessere del povero sta nella sua povertà (chiaramente relativa al ricco, sicuramente una dignitosissima povertà). 
   
(Nota: poiché esiste una forte correlazione tra oil and finance, vi posso assicurare che questa soluzione è stata già presa; sembra che solo ai BRICS non piaccia particolarmente)

Quindi, chi teme la catastrofe non disperi, sarà accontentato: poiché, se la politica democratica è corrotta, allora i corruttori governano. E chi può corrompere ha il capitale per farlo.

Si chiama “globalizzazione”: privatizzazione di tutte le risorse e del patrimonio pubblico tramite la libera circolazione dei fattori della produzione. Insomma, quel “neoliberismo” che propugna la  trickle-down economy.

D’altronde, come proclamava la Thatcher, “there is no alternative”. Viene fatto per il bene dell’umanità: per sopravvivere può essere necessario amputarsi un braccio…

Io, però, sono egoista, al mio braccio ci tengo e vorrei pensare ai miei nipotini felici che corrono felici in un verdissimo futuro….

Apro un libro di sociologia e, guarda un po’, scopro che non esiste solo il “funzionalismo”, la teoria sociologica per cui il codice Manu indiano può essere desiderabile, ma esiste una sterminata letteratura che tratta la prospettiva del conflitto: la solidarietà tende a svilupparsi maggiormente in gruppi sociali omogenei, in base al potere e al prestigio dei suoi membri, questi gruppi formano della classi in perpetuo conflitto: il conflitto per la distribuzione del reddito prodotto.

Potrebbe essere che il limite della crescita sia strumentalizzabile dalla più forte di queste classi? Può esistere una soluzione che porti al risultato che faccia anche gli interessi delle altre classi? Qui edora?

Vediamo.

Innanzitutto alcune definizioni e alcuni chiarimenti: il reddito è un “flusso”, ed è funzione dei fattori della produzione, le risorse naturali sono uno “stock”, fanno parte del patrimonio messo a disposizione da nostro Signore all’ingrato genere umano.

La più grande comunità sociale omogenea che permette “solidarietà economica” – ovvero fiscale e ridistributiva –  si chiama Stato nazionale: il reddito di uno stato nazionale si chiama PIL.  

Primo shock: il PIL è una misura che non c’entra nulla con la crescita “materiale” collegata al consumo delle risorse naturali, o meglio, ad esempio, non esiste una correlazione significativa tra PIL e ed energia consumata che sia valida per tutti gli Stati nazionali. A seconda delle metodologie e dei campioni ci può essere effettivamente una causalità bidirezionale, una causalità tra crescita del PIL e del consumo di energia, oppure viceversa.

Italia e Corea, ad esempio (Soytas-Siri, 2003), due modelli di produzione particolarmente simili e virtuosi nel panorama mondiale dalla seconda metà del Novecento, appartengono al terzo gruppo: drastiche politiche di risparmio energetico non impatterebbero particolarmente sulla crescita.

E comunque, in generale, nei Paesi più ricchi è possibile sostenere il PIL con un impatto minimo o nullo sul consumo energetico.

Chi propone la decrescita del PIL, ovvero recessioni, prolungate deflazioni e depressioni, lo fa da un particolare punto di vista di un particolare gruppo di interessi (classe): oil and finance.

I conflitti bellici scoppiano generalmente per due motivi complementari: il dominio delle risorse, e la risoluzione delle crisi di debito. Generalmente due facce della stessa medaglia.

Le “crisi di debito” e la debt-deflation auspicata – non si sa bene quanto consapevolmente – di alcuni “decrescisti”, fornisce al problema malthusiano una risposta immediata: guerre e carestie. Dasempre.

Il paradosso di Jevons e, più in generale, il limite alla crescita, obbliga, a livello di aggregato mondiale, a coordinare le politiche di approvvigionamento delle risorse energetiche… beh, la soluzione delle nostre élite l’abbiamo già intravista, se si vogliono altri chiarimenti basta fare un giro in Iraq, Siria, Libia, Niger, Ucraina, ecc.

Se si evitasse di frammentare le entità politiche straniere, e la si piantasse di cedere sovranità nazionale alla finanza internazionale in patente violazione degli “gli art.11” delle costituzioni democratiche – finanza secolarmente desiderosa di sorpassare l’assetto vestfalico che ha portato alle democrazie e allo stato sociale – si potrebbe pensare di tornare ad avere una  politica industriale che non sia… il suo semplice smantellamento.  
  
In tal caso, il decisore politico, con pieno controllo di una banca centrale controllata dal Tesoro, ministero espressione della sovranità democratica, ogni decisore politico, per affrontare  gli eventuali shock  a causa dell’ LtG, dovrebbe guidare nella tempesta la propria comunità sociale di riferimento: i suoi elettori.

Ora, una premessa: il sistema sociale integrato nella “biosfera”, non è semplicemente un sistema complesso. È un sistema umano.

Quindi, che uno scienziato possa considerarlo semplicemente come qualsiasi sistema biologico, da integrare nella complessità del nostro pianeta, beh, è comprensibile ma non assolutamente da dare per scontato.

Quindi, da un punto di vista politico, ovvero di gestione delle risorse, propongo una precisa etica che faccia da vincolo interno al decisore (più o meno…) istituzionale: ovvero, tra “i vari rubinetti del sistema complesso”, le infinite soluzioni per regolare questo sistema sono ordinate rispetto ad una specifica scala di valori, di cui la dignità dell’Uomo è valore incomprimibile. Astrattiideali? Falsa propaganda daingegneriasociale? Vediamo.

Innanzitutto abbiamo già tracciato una scala operativa per cui, tra gli infiniti punti di vista, e, tra tutte le “leve e i rubinetti” su cui si può agire, tende a diminuire “l’ordine di grandezza” della azioni possibili. Secondo, una riflessione: un sistema umano è condizionato da un inaspettato fattore: l’Uomo. Quest’etica non è condivisa, e la politica è, in primis, gestione del conflitto (possibilmente in un’aula parlamentare).

Hayek, “padre nobile” della terza globalizzazione (questa), taglia la testa al toro: i sistemi sociali sono troppo complessi per essere gestiti, quindi, apparentemente rifiutando il tipico approccio positivista, propone di non stare a impazzire su questi “sistemi complessi” cercando di governarli tipo URSS, ma di far sì che la selezione darwiniana del mercato potesse, liberata, gestire efficacemente la complessità. Insomma, leggasi Iraq, Siria, Libia, Niger, Ucraina, ecc. Vedisopra.

In effetti, quella di vedere il sistema sociale come un sistema complesso, rappresentabile da un numero indefinito di “equazioni differenziali”, è un approccio di tipo squisitamente positivista.

Proviamo invece, secondo queste premesse, a dividere il sistema globale che risponde all’LtG come se fosse un organismo costituito da cellule separate da membrane.

Innanzitutto faccio notare che quel sistema complesso a bassissima entropia chiamato Uomo si fa (generalmente…) coordinare dal suo “capo” senza troppe equazioni: un insieme etnicamente omogeneo di uomini si chiama ethnos, un insieme di ethnos che – per omogeneità – può condividere un patto sociale si chiama demos. Ogni demos è un’identità politica che esercita un arbitrio similmente al processo decisionale dell’individuo. Lo Stato nazionale è, in generale, la sua espressione giuridica.

Le “cellule” formano così “tessuti” e “organi” che compongono la macchina vivente  e cognitiva del nostro pianeta, tutti sistemi complessi di differente ordine.

La vita è conservata dall’eterogeneità e dai ruoli: le membrane, regolando flussi e scambi, garantiscono questa eterogeneità, e, in definitiva, la vita.

Membrane troppo “impermeabili” generano la “necrosi dei tessuti”, membrane troppo “aperte” gerano lo “sfaldamento” dell’organismo.

Bene: nei sistemi umani, queste “membrane” sono le “frontiere/dogane” delle comunità sociali che si autodeterminano: in genere, gli Stati nazionali. 

I “flussi” sono i fattori della produzione, e, di questi, il lavoro è l’attività anti-entropica per eccellenza.

Per governare questi “flussi” e raggiungere a livello globale l’obiettivo di sostenibilità come prefissato inizialmente, il decisore politico non dovrebbe “spaccarsi la testa” con enormi sistemi complessi; dovrebbe affidarsi alla scienza che questo genere di complessità, così ridotta, può gestire: l’economia. Ad esempio, il decisore dovrebbe osservare una legge su tutte: quella di Thirlwall. E la comunità internazionale, di converso, dovrebbe far in modo di attuare quel meccanismo per cui ogni nazione raggiunga questo equilibrio che vede nel “vincolo esterno” enunciato da Thirlwall, il limite alla crescita di ogni singola “cellula” che compone il sistema umano, parte dell’ecosistema. Ad esempio, per ottenere questo equilibrio, J.M. Keynes proposeilbancor a Bretton Woods (rifiutatodalleélite USA).

Bene, ma cosa è questa “legge” che ogni governo dovrebbe rispettare?

Esiste, oltre al vincolo interno dichiarato in precedenza – ovvero la dignità dell’Uomo che in politica economica si traduce in piena occupazione – un vincolo esterno per cui la crescita di una “cellula” non può essere illimitata (pena il cancro attuale…), ma deve seguire un ritmo di crescita che mantiene “gli scambi” con le altre cellule in equilibrio, e, poiché mediamente quando in percentuale una cellula cresce di “uno”, tende a “succhiare” da tutte le altre  “due”, le membrane vanno regolate in modo da controllare la crescita della cellula.

La politica economica di un Paese consiste, in primis, nel regolare gli scambi per rispettare il vincolo esterno alla crescita: la parafrasi biologica della legge di Thirlwall

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