CONFINI 4 – Confini politici

Ultimo di quattro post.   Per le puntate precedenti, si veda qui, qui e qui.

Le comunità umane possono essere considerate, fra i tanti altri modi,  come dei sistemi ed hanno infatti dei confini, sia pure di tipo molto diverso (spesso immateriali) a seconda del tipo e del livello di complessità della società.   In ogni caso, occorre ricordare che l’esistenza e la funzionalità dei confini comporta dissipazione di energia.  In termini economici, allocazione di risorse.

Confini più ampi sono anche più costosi in termini assoluti, ma magari meno in rapporto alla loro estensione.   Inoltre, contengono sistemi più capaci di estrarre risorse e scaricare entropia  “fuori” da se stessi.

Confini meno permeabili, sono parimenti più onerosi, ma più efficaci nel controllare i flussi.  Ecco quindi che, al di la dei nostri desideri, la posizione e la natura dei confini deve essere necessariamente articolata e dinamica, riflettendo la costante evoluzione del sistema che contengono e dei rapporti di questo con ciò che interagisce con esso.

Confini politici

Oggi, il tipo di organizzazione sociale principale è quello statale ed i confini sono perlopiù quelli ereditati dal XIX secolo, con qualche aggiustamento conseguente le guerre successive.  Questo livello di integrazione è solo uno dei molti possibili e, comunque, al suo interno comprende altri livelli (regioni, provincie, comuni, ecc.).   Livelli superiori agli stati sono invece alleanze, accordi commerciali, ecc.    Sono inoltre attive numerose organizzazioni sovra-statali, come EU o addirittura globali come ONU, FMI, OMS, OUA, WB, WTO ed altre ancora.

Ad ogni livello organizzativo, corrisponde una diversa funzione ed un diverso set di sistemi di controllo.  Uno dei compiti principali di una classe dirigente è quindi quello di decidere dove e come dovrebbero essere i vari tipi di confine che disegnano le nostre società.   Una scelta difficile che dovrebbe tener conto, a mio avviso dei seguenti punti:

  • I confini cambiano necessariamente nel tempo. Pensare di fissarli una volta per sempre serve solo a farsi molto male.
  • Anche il grado ed il tipo di permeabilità dei confini variano necessariamente nel tempo.
  • Minacce diverse possono essere controllate a livelli diversi di organizzazione. Ad esempio, il contrabbando di sigarette può essere controllato dalla polizia di un singolo stato.  Il controllo dei flussi migratori richiede la collaborazione di molti stati.   La garanzia contro un’aggressione nucleare richiede, perlomeno, la copertura di un’altra potenza nucleare.

Elevare il livello organizzativo presenta dei vantaggi, ma comporta un costo di cui la comunità si deve fare carico.  Se non lo fa, semplicemente il sistema si disgrega in sotto-sistemi sempre più piccoli finché si raggiunge un livello a cui si vogliono e si possono controllare le condizioni interne in rapporto a quelle esterne.   Ma non è un processo indolore.  Ad ogni riduzione nel livello di complessità organizzativa, corrisponde necessariamente una riduzione nella capacità di quella società nel procurarsi ciò che le serve e di difendersi dalle minacce esterne.

In pratica, più piccolo è meno costoso e più gestibile.  Ma anche più povero e più vulnerabile.  Ecco perché è necessario trovare un equilibrio dinamico fra la tendenza ad aggregarsi e quella a disgregarsi.

Muri

La forma più solida ed evidente di confine è il “muro”.   Fra quelli contemporanei, il più famoso e spettacolare è quello eretto da Israele, ma ce ne sono moltissimi, in tutto il mondo ed in ogni epoca storica.   Una forma di confine che, non a caso sta venendo di moda in questi anni in cui, da una parte, alcuni paesi usciti sconfitti dalla globalizzazione (ad esempio l’Europa e gli USA) stanno cercando di proteggere quel che resta dei loro vantaggi storici.  Dall’altra, i sistemi-paese, in gran parte proprio grazie al mercato globale, dispongono ancora dei mezzi necessari per simili, costose imprese.
A che serve un muro?   Nell’immaginario collettivo, serve a sigillare un confine, ma non è così.   In realtà serve a facilitarne il controllo con forze ridotte, ma ricordiamoci i due punti fondamentali visti nel primo post di questa serie: nessun sistema esiste se non controlla i propri confini; nessun sistema può esistere all’interno di confini impermeabili.  

Il muro è quindi solamente una forma di difesa estrema di chi sta subendo l’iniziativa altrui e non è in grado di trovare soluzioni meno costose.   Se poi sia efficace o meno e per quanto tempo, dipende da caso a caso.

Disintegrazione

Dunque, abbiamo visto che l’impatto contro i Limiti della Crescita comporta, fra le molte altre cose, anche una crescente tendenza verso la frantumazione delle organizzazioni sovrastatali e statali.   Le cronache non lesinano gli esempi, ma finora, l’unica grande potenza ad essere andata parzialmente in frantumi è stata l’Unione Sovietica.   Gli altri stati importanti hanno finora resistito, in parte anche grazie alla fine dell’URSS che ha dato fiato ai vincitori.   Ma 25 anni dopo, la Russia mostra segni di un possibile nuovo cedimento, mentre l’Europa e l’India sembrano sul punto di fare la stessa fine. Gli USA seguono e perfino la Cina scricchiola.

E’ perlomeno molto probabile che, prima o poi, tutti i principali stati ed organizzazioni sovra-statali si disintegreranno, ma il punto importante è che non lo faranno né tutti insieme, né tutti allo stesso modo.

Il caso dell’URSS è un esempio da manuale del fatto che chi riesce a mantenere più a lungo un livello organizzativo superiore acquista un vantaggio competitivo notevole.   Altrimenti detto, chi muore prima, aiuta gli altri a tirare avanti ancora un po’.   Ognuno ha perciò interesse a mantenere alto il proprio livello, magari cercando di “picconare” quello degli altri.

Non è infatti facile controllare le retroazioni positive, specialmente in fase di decrescita.   Per fare un esempio, una disgregazione dell’edificio europeo consentirebbe ai singoli stati di eliminare i costi dell’eurocrazia, ma li esporrebbe all’attacco delle grandi potenze.  Probabilmente non un attacco militare: ci sono molte altre opzioni.   Per esempio, l’imposizione di scambi commerciali sfavorevoli, cosa che ci indebolirebbe ulteriormente, esponendoci ad ulteriori rischi.   Ad esempio, i singoli paesi europei potrebbero non essere più in grado di controllare le proprie frontiere (neanche volendo), con conseguenti movimenti incontrollati di persone e merci che minerebbero ulteriormente l’economia e la società. Insomma accadrebbe esattamente il contrario di quel che sognano molti nazionalisti odierni.

Semplificando al massimo con una metafora, la casa che abbiamo costruito grazie all’energia fossile sta franando, sia per i maggiori costi e la minore qualità delle risorse rimaste (rinnovabili e non), sia per l’accumulo di sostanze e materiali tossici che comincia a minare i fondamenti della nostra società (clima, pesca, foreste, barriere coralline, eccetera).   Finirà in un cumulo di macerie, ma chi abita nelle stanze che crollano per prime, farà da materasso (qualcuno lo ha già fatto) a quelli che cadranno dopo.   Quello che riuscirà a cadere per ultimo in cima al mucchio, sarà quello che si fa meno male di tutti.

Una strategia possibile?

Ovviamente, passando dalle metafore alla realtà le cose si fanno parecchio più complicate.  A cominciare dal fatto che la globalizzazione ha alzato i livelli di interdipendenza a livelli tali da rendere difficile un conflitto.  Uno dei vantaggi che la de-globalizzazione si porterà via.   Per fare un esempio, se davvero l’Europa, o gli USA andassero in frantumi, l’economia Cinese subirebbe un contraccolpo probabilmente mortale.  Questa è una delle ragioni per cui, per ora, non ci saranno conflitti diretti fra “pesci grossi”, mentre i pesci piccoli saranno progressivamente spendibili, secondo il bisogno di questo o quello dei grossi.

Al di la di questo, rimane il fatto che ogni paese dovrà trovare la sua strada fra le due opposte esigenze. Da un lato, occorre ridurre la complessità per contenere i consumi e gli impatti (oltre che la popolazione, ma questo non si dice perché è brutto).  Dall’altro bisogna mantenere, se possibile accrescere la dimensione e la complessità per evitare di essere schiacciati dai vicini, parimenti in difficoltà.

Una partita quindi che andrebbe giocata su due tavoli contemporaneamente.  Da un lato, favorire e sostenere la diffusione di tecniche e modelli sociali il meno impattanti possibile.  Dunque favorire una controllata discesa verso modelli organizzativi di dimensione decrescente (le famose economie locali, ecc.).   Dall’altra, sviluppare livelli maggiori di integrazione sovranazionale (federazioni, alleanze, ecc.) in grado di opporsi almeno per un certo periodo alle brame altrui su quel che resta della nostra eredità storica.   Un gioco che, comunque, non potrebbe durare per molto, ma che potrebbe permetterci un impatto molto meno violento contro il nostro fato.  Guarda caso entrambe queste strategie tendono a svuotare il livello statale che, non a caso, si sta opponendo con tutte le proprie, notevoli forze ad entrambe.  Resta da vedere se davvero dei livelli organizzativi di tipo ottocentesco siano indicati a fronteggiare il presente ed il futuro prossimo.

Un altro pezzo importante di una strategia di rallentamento del declino, è quello di danneggiare i soggetti esteri potenzialmente ostili per renderli inoffensivi e, se possibile, abbastanza fragili da poter essere poi sfruttati.   Contemporaneamente, accrescere invece la collaborazione con i soggetti con cui abbiamo interessi comuni da difendere.  Insomma niente di concettualmente diverso da quello che gli stati hanno sempre fatto e che oggi altri fanno molto meglio di noi.   USA, Russia e Cina stanno tutti facendo questo gioco, sia pure con metodi e scopi diversi.

Gli americani picconano la stabilità della nostra moneta e giocano di sponda fra le tradizionali inimicizie  europee.   I russi finanziano i vovimenti neo-fascisti e nazionalisti.   I cinesi stanno saccheggiando quel che è rimasto dell’Africa, scaricando a noi la massa di gente in esubero. Comunque, man mano che ci indeboliamo, diventa più facile soffiarci altre fette del bottino che abbiamo accumulato nei due secoli in cui diversi paesi europei si sono alternati nel condurre questo gioco.

La dinamica è infinitamente più complessa, ma in fondo concettualmente simile dal sistema delle razzie che tanta parte ha nell’economia e nell’ecologia dei popoli primitivi.

Conclusioni

Per quanto riguarda l’UE, il panorama politico europeo è oggi dominato sostanzialmente da due tipi di formazioni.

In primis, le forze che tuttora controllano i governi nazionali e che sono autenticamente “euroscettiche”.   Nel senso che vogliono mantenere in piedi le strutture attuali, ma svuotate di sostanza in modo da limitare al minimo indispensabile  la perdita di potere che investirebbe gran parte delle classi dirigenti nazionali se si formassero classi dirigenti federali.   In altre parole, vogliono la scatola, ma il più vuota possibile.

L’altro gruppo, che annovera la maggior parte dei partiti di opposizione principali, comprende coloro che vogliono fare a pezzi la scatola, sognando scenari di benessere e libertà in linea con la robusta tradizione utopistica della nostra cultura.

Indipendentemente dai casi particolari, anche molto diversi, il mio giudizio personale è che i primi (l’attuale classe dirigente) non ha giustificazione alcuna.  Non sono stati loro a svuotare l’EU di qualunque contenuto ideale, ma sono stati parimenti loro a spingere il processo di globalizzazione che tanto ha fatto per minare le fondamenta materiali d’Europa.

Oggi molti confondono questi due processi, mentre, come ho cercato di spiegare nei precedenti post, erano e restano antitetici.  L’europeizzazione consiste infatti in un processo di progressiva eliminazione degli antichi confini statali, sostituendoli con un più consistente confine collettivo.

Cioè un processo che avrebbe dovuto portare alla creazione di un sistema capace di trattare con USA e Russia da pari a pari.  In un simile contesto, probabilmente, la Cina sarebbe rimasta marginale.
La globalizzazione, come abbiamo visto, tende invece all’eliminazione di ogni confine economico a livello mondiale. Dal nostro punto di vista, ciò ha significato soprattutto la massiccia esportazione di capitali e tecnologie verso paesi almeno potenzialmente ostili.  Difficile immaginare un suicidio più sicuro per una società industriale, già alle prese con le prime avvisaglie dello scontro finale contro i Limiti dello Sviluppo.

La seconda categoria, quella che definirei degli eurofobi, è molto più eterogenea e comprende anche persone colte ed intelligenti che poco hanno a che fare con il becero neo-populismo maschilista di molti gruppi attivi in questo campo.   Conoscendo e stimando alcuni di loro, credo che come movente di fondo abbiano un profondo senso di tradimento.   Un sentimento peraltro giustificato da quanto detto qui sopra.

Tuttavia, se la dinamica dei sistemi ci può insegnare qualcosa a questo proposito, ridurre il proprio grado di complessità consente sì di ridurre i costi di  mantenimento delle sovrastrutture, ma al prezzo di ridurre anche la propria capacità di assorbire bassa entropia ed espellerne di alta.   E si tratta di una retroazione positiva in uno scenario globale senza precedenti storici.   In pratica, i due scopi dichiarati: rilancio delle economie nazionali e recupero della sovranità  sarebbero i risultati più improbabili di una simile operazione.   Pensare che un “oggetto” come l’Italia o la Germania possa rivendicare un effettiva sovranità nei confronti di soggetti della taglia geopolitica di USA, Russia e Cina, è un po’ come pensare che S. Marino potrebbe fare qualcosa contro la volontà del governo italiano.

D’altronde, non dobbiamo dimenticare che chi dobbiamo assolutamente salvare non è la nostra civiltà o le nostre persone, bensì la Biosfera.   Altrimenti non ci saranno in futuro né civiltà, né umani, né niente del tutto.   E dal punto di vista della Biosfera, qualunque cosa è meglio del prolungarsi della presente agonia.

In parole povere, ciò che ci potrebbe favorire nell’immediato, necessariamente ci nuoce in prospettiva e viceversa.

Forse, accelerare i tempi del proprio collasso è la cosa più altruista che una società possa fare.   Resta da vedere se ne è cosciente.

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Il consumo di carburanti per autotrazione, benzina, gasolio, gpl ad Aprile 2017

L’altro giorno abbiamo visto un aumento del consumo di petrolio è sceso delll’ 8,2 % rispetto allo stesso mese dell’anno passato e nel comunicato stampa dell’Unione Petrolifera si è posta l’attenzione ai due giorni lavorativi in meno. Forse è giusto per il consumo del petrolio lo è forse meno per i carburanti in particolare per la benzina. Vediamo adesso il responso sul consumo dei carburanti.
La domanda totale di carburanti (benzina + gasolio) nel mese di aprile è risultata pari a circa 2,4 milioni di tonnellate, di cui 0,6 milioni di benzina e 1,8 milioni di gasolio, con un decremento dell’8% (-203.000 tonnellate) rispetto allo stesso mese del 2016.

I prodotti autotrazione, condizionati come accennato da due giorni lavorativi in meno, hanno rilevato le seguenti dinamiche: la benzina nel complesso ha mostrato un decremento del 7,7% (-49.000 tonnellate) rispetto ad aprile 2016, e il gasolio autotrazione dell’8% (-154.000 tonnellate).

I consumi nel primo quadrimestre 2017 

La benzina nel periodo considerato, ha mostrato una flessione del 4,9% (-118.000 tonnellate) e il gasolio dell’1,9% (-142.000 tonnellate).
Nei primi quattro mesi del 2017 la somma dei soli carburanti (benzina + gasolio), pari a circa 10 milioni di tonnellate, evidenzia un calo del 2,6% (-260.000 tonnellate).

Passiamo ai grafici

Il consumo dei carburanti per autotrazione

Vediamo i grafici da noi realizzati suddivisi per anno solare a partire dal 2007.

Il consumo della benzina ad Aprile si è posizionato irrimediabilmente al livello più basso degli ultimi 11 anni presi in considerazione.

… così come il consumo di gasolio .

Qui sotto vediamo l’andamento del gasolio più la benzina. Al livello più basso.

Adesso vediamo i grafici che prendono in considerazione i consumi sommando gli ultimi 12 mesi includendo il mese di riferimento. Non fanno altro che confermare quanto detto sopra.

Per la benzina conferma la caduta…

…  il gasolio ingobbisce ha preso la strada del declino…
… confermato dal grafico della benzina + gasolio che disegna una curva in direzione verso il basso.

GPL
Diamo un’occhiata anche al consumo del gpl da trazione, essendo anch’esso un derivato del petrolio. Un decremento mensile del 4,3% passando da 140 a 134 mila tonnellate. La curva è discendente.

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Marea nera a Trinidad – parte 2

“Almost every month there have been oil spills reported, especially in the south-west peninsula of Trinidad. Why is this? Why is that our very own State-owned oil company operates with such carelessness and disregard for our fishery communities and our nation’s health?”

Trinidad: dalla raffineria della citta’ di Pointe a Pierre viene riversato petrolio in mare il giorno 23 Aprile 2017. Non si sa di quanto petrolio si tratti. Inizalmente si parlava di 20 barili, poi 300, poi   500 barili di petrolio, circa 70 tonnellate.

Queste sono le cifre mandate dal gestore della raffineria e dal Ministro dell’ambiente Franklin Khan. In realta’ i video, i residenti, e le associazioni di ambientalisti dicono che sono tutte cifre sottostimate. C’erano scie lunghe almeno cinque miglia e large un miglo intero nel golfo di Paria, il mare al largo della raffinera.

E infatti, il petrolio e’ arrivato in Venezuela, e nelle isole di Curacao, Aruba e di Bonaire, indice che cosi limitata la perdita non poteva essere.  

La raffineria e’ di proprieta’ della ditta petrolifera nazionale di Trinidad, Petrotrin, e non e’ chiaro esattamente cosa abbiamo fatto (o stiano facendo) per sistemare la faccenda. Si parla dell’uso del Corexit, antidispersante usato per camuffare il petrolio — spezzettarlo e farlo sommergere cosi non si vede — e che e’ in principio vietato.

Era vietato anche nel golfo del Messico ma l’hanno usato a fiumi e fiumi ancora. 

Il petrolio arriva nelle isole vicino a Pointe a Pierre, la capitale, e in particolare all’isola di Margarita dove hanno dovuto chiudere le spiagge, e subito dopo fino alle coste del Venezuela.

Sono stati i pescatori del Venezuela ad accorgersene per primi.  Il Venezuela, preso com’e’ con tutti i suoi guai interni, chiede una indagine sull’acccaduto, e ben 61 gruppi NGO hanno chiesto compensazione dal governo di Trinidad e Tobago!

Sessantuno!

Fra queste la Conbive Civil Association che si occupa di conservare la biodiversita’ del paese che ha rilasciato dei video a testimoniare l’inquinamento presso la spiaggia di Nordiqui, generalmente spiaggia turisitica.

Non e’ la prima volta che accade tutto questo, e anzi a Trinidad la raffineria in questione spesso ha problemi di perdite e riversamenti — quanto spesso?

Una volta al mese, secondo Fishermen and Friends of the Sea, una organizzazione non-profit che si occupa della salvezza del mare.

Ogni volta che succedono queste cose, ovviamente, la pesca ne soffre. 

Da Petronin il silenzio generale, nessun avviso ne per i pescatori, ne per i turisti, ne per il Venezuela.

La gente e’ arrabbiata, per le stime non rilasciate, per la pesca, perche’ non si sa chi stia pulendo e se stiano pulendo. Osservano giustamente che nel 2013 un altra perdita di petrolio fu stimata in 7000 barili di petrolio, e che in questo caso non arrivo’ niente in Venezuela. Adesso dicono che i barili sono 300 o 500, ma dal Venezuela arrivano notizie di petrolio sulle spiagge.

Come puo’ essere?

Come sempre, i danni del petrolio perdurano nel tempo.

Le raffinerie invecchiano, ci vuole manutenzione, e diventano sempre piu’ pericolose.

Prima o poi arriva il conto. 

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